domenica 31 maggio 2009

Insula dell’Arco degli Acetari

L' Arco degli Acetari, così detto forse dai venditori di acqua acetosa (nel senso di acqua delle sorgenti ai Parioli oppure nel senso di bevanda a base di acqua, zucchero e aceto), immette in una piccola corte chiusa su tutti i lati da case, che seppure profondamente alterate, conservano un carattere fortemente medioevale denunciato sia dalla presenza di scale esterne sia dall'uso di elementi di spoglio.

Da Via del Pellegrino, passando sotto l’arco a sesto acuto stretto e buio, si va a finire qui, in uno slargo medievale risparmiato dal rinnovamento edilizio seicentesco. Sembra davvero di entrare in un'altra dimensione. Per me uno dei luoghi più affascinanti ed intimi di Roma dove il tempo sembra fermarsi.

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Hopper e il cinema

Gli ambienti americani ritratti da Hopper sono stati da sempre associati alle scene di importanti film hollywoodiani. L’ufficio, il bar, la camera di un motel e il teatro, sono resi da Hopper attraverso lo sguardo della cinepresa in un realismo crudo e metafisico che sa molto di sospensione e di suspense.

E’ l’America la protagonista della pittura di Hopper, col suo messaggio iniziatico, quasi fideistico di promozione individuale, di felicità possibile per tutti; l’America ordinaria del XX secolo, sintetizzata in chiave anti-drammatica di pacatezza atemporale, coi suoi silenzi monumentali, con le americanissime location, dove il quotidiano si sublima in esperienza real-pop, dove l’aspettativa, semplice frammento di un racconto di cui non è dato conoscere la trama, non prevede necessariamente un esito. Una realtà ottimistica che facilmente esclude. (Stefano Roffi)

Lui fu molto affascinato dal cinema, ma anche diversi registi hanno preso spunto proprio dai suoi quadri per poter realizzare le scene dei film più rappresentativi dell’America di quel periodo. Basta citare i nomi di Alfred Hitchcock, Chantal Akerman e Wim Wenders. Il quadro di Hopper House by the Railroad del 1925 ha ispirato la casa sulla collina sopra il Bates Motel di Hitchcock in Psycho, girato nel 1960; poichè vi era una vecchia ferrovia di paese poco distante, nel film si nota a malapena.

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Ci sono comunque altri esempi lampanti: la donna seduta sulla poltrona che scruta la finestra in una stanza è Marnie (1964) altra nota pellicola di Hitchcock; la grande vetrata del bar che dà sulla strada la si trova nel film Delitto Perfetto e Uccelli, rispettivamente del '54 e del '64; La Finestra sul cortile, invece, si rispecchia nell’opera Night Windows del ‘28.

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E come non vedere inquadrature cinematografiche in quest’altre opere del pittore?

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sabato 30 maggio 2009

Morandi Room – Anne Harild

Anne Harild (1980) è un artista danese, da poco laureatasi presso il Royal College of Art. Il suo lavoro è stato incluso nel gruppo di spettacoli e performance presso il Bath Arts Festival, Dazed and Confused Gallery (Londra) e Celje Castle(Slovenia). Le è stato assegnato il Primo Premio nel 2007 per il Oberon Books Illustration Award per l’illustrazione dei Sonetti per Orfeo di Rilke. “Assemblage” è stata la sua prima mostra personale nel 2009 presso Exhibition Road, South Kensington, Londra.

“Morandi Room” è un cortometraggio in stop-motion che gioca con le idee di contenimento della piccola stanza (quasi il famoso tavolo di lavoro del pittore), utilizzando materiali, cadute e i giochi di luce sulle acque con un senso pittorico tutto particolare. In linea con la scelta degli oggetti, tutti i suoni, rimodellati, provengono da campionature metalliche. Il film è stato commissionato dal Royal College of Art per l'evento 'MAP / Making - Guardando al futuro della Musica, Arte e Spettacolo'.

Come nelle opere del grande artista italiano anche qui vi è una poetica degli oggetti ed un’attenzione al particolare; la luce e l’acqua concorrono a creare sfumature ed alterazioni minimali rendendo questo limitato spazio visivo una vitale e pulsante stanza delle meraviglie.

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venerdì 29 maggio 2009

La cripta dei Cappuccini e la Dolce Morte a Via Veneto

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Tra i luoghi più singolari e “affascinanti” di Roma di sicuro è compresa la cripta dei Cappuccini a Via Veneto. Sotto la chiesa dell’Immacolata Concezione, edificata intorno al 1620 a cura del Cardinale Antonio Barberini, cappuccino, fratello di Papa Urbano VIII° Barberini, si apre un lungo corridoio dove, fino al 1870, furono sepolti i confratelli dell’attiguo convento, molto simile alla cripta di Palermo.

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Il termine cripta proviene dal latino crypta, sotterraneo, che è a sua volta derivato dal verbo greco che significa nascondere e anche seppellire; indica uno o più ambienti sotterranei che, in un edificio di culto, sono generalmente situati al di sotto dell'area presbiteriale; in questo caso l’accesso, situato a lato del portale di ingresso, conduce in un angusto ambiente, un breve corridoio dalle volte a botte completamente decorato di ossa. Data la ristrettezza del luogo e l'elevato numero dei frati seppelliti nel sepolcreto, intorno al 1770 un architetto locale ebbe il compito, per creare più spazio, di trasformare il luogo in una singolare opera d’arte usando come stucchi le stesse ossa dei frati (secondo la leggenda invece fu opera di religiosi fuggiti dalla Francia del terrore e quivi rinchiusi come “fuggitivi”). Anche se siamo in piena epoca rococò, viene ripresa quella concezione della morte cara, oltre che alla stessa confraternita dei cappuccini i quali spesso usavano tali luoghi per meditare sull’esistenza e sulla vanità del mondo, a tutto il periodo barocco.

Il culto delle reliquie è caratteristico del mondo cristiano; se nei sepolcri del primo ‘500 la tomba è ancora un sipario gelido e distaccato tra la vita e la morte, è con il Barocco (e Bernini) che la Morte, quale personificazione, recita una parte solidamente fisica, diventando elemento vitale dei catafalchi effimeri e delle decorazioni, presenza attiva e prepotente; qui così, oltre a quel sottile gusto per il macabro (sempre presente nell’arte, in particolare del sud Italia) assistiamo ad una glorificazione della Morte intesa quale chiave di meditazione sulla vita ed in una forma che, pur nei capricci dell’artista e nel suo senso di horror vacui, conserva una struttura di fondo ed una forte senso dell’ordine nel quale tutti i defunti appaiono sullo stesso piano poiché le loro ossa, sganciate dalla singola persona, si offrono alla decorazione complessiva formando quasi, per traslato, un unico grande scheletro. Ed in effetti il breve corridoio decorato di scheletri ricorda proprio la sagoma scarnificata di un’unica grande persona. Gli unici scheletri interi che compaiono quasi mummificati appartengono invece a confratelli particolarmente importanti per la congregazione.

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Il lungo corridoio è formato da cripte più piccole infilate le une dopo le altre; il programma iconografico è abbastanza semplice: si tratta di una riflessione sulla morte attraverso riferimenti alla Passione di Cristo ed a simboli temporali, quali la clessidra e l’orologio; la fede cristiana nella resurrezione infatti è il messaggio che ha voluto trasmettere chi ha strutturato quest'opera d'arte ornamentale con questo materiale veramente povero.

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La prima cripta, detta della Resurrezione, vede nella parete di fondo le varie componenti dello scheletro umano formano la cornice entro cui è incastonata la tela che rappresenta Gesù che risuscita l'amico Lazzaro. All’ingresso una targa recita, in riferimento al racconto medievale dei tre Principi che, tornando da una battuta di caccia, incontrano tre scheletri che li ammoniscono, “Noi eravamo quello che voi siete, e quello che noi siamo voi sarete”, ripreso anche nell’epitaffio lasciato da Antonio Barberini sulla sua lapide nella chiesa superiore “Hic iacet pulvis cinis et nihil” (qui giace polvere, cenere e niente).

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Nella seconda cripta, l’unica senza ossa, vi è una cappella per la messa ed una pala d’altare con Maria in trono e santi francescani che liberano le anime dalle fiamme del Purgatorio, altro compito dei cappuccini.

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Nella terza cripta, detta dei Teschi, nel timpano della nicchia centrale campeggia una clessidra alata con scapole ad indicare il tempo che vola via. Nella parete di fondo tre cappuccini in piedi, quasi in cammino. Le pareti laterali contengono due cappuccini sdraiati in atteggiamento di riposo dentro nicchie curvilinee. Nel mezzo della volta tre elementi decorativi vistosi, in cui prevale la sfera ornata di fiori. Dalla volta del corridoio un lampadario, sempre di ossa, scende da una stella ad otto punte. La volta di passaggio arricchisce la chiave di lettura di un elemento nuovo: il cranio con le scapole che gli fanno da ali.

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Nella quarta cripta, detta dei Bacini, nelle pareti laterali due cappuccini riposano adagiati sotto un arcosolio. La parete di fondo accenna a tre nicchie con dei cappuccini chini in avanti: i due ai lati sotto un arco rovesciato; quello al centro sotto un grande baldacchino di bacini, dai quali pende un fregio di vertebre. Il rosone centrale nella volta è formato da sette scapole con pendagli di vertebre. L'ornato termina ai lati con croci appese che portano la lancia e la spugna in cima ad un'asta: sono gli strumenti della Passione di Cristo: questa è una devozione cara ai francescani, che sentono Gesù come fratello, anche perché ha voluto subire la morte come noi.

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Nella quinto loculo, detto delle Tibie e dei Femori, le pareti laterali presentano quattro nicchie per parte con dei cappuccini in piedi e vestiti con il saio. Nella parete di fondo, il blocco centrale è una composizione ricca ed estrosa: sulla parete in alto una croce racchiusa in un tondo; sotto, lo stemma francescano (il braccio nudo di Cristo e quello vestito di san Francesco d'Assisi), sormontato da una corona. Sul pavimento sono disseminate 18 croci ad indicare altrettante sepolture; la terra proviene da Gerusalemme. La cornice ovale centrale della volta, racchiude un tondo di mandibole ornato di vertebre e due grandi fiori laterali formati da scapole con pendagli di vertebre. La volta del corridoio ha tre stelle ad otto punte, segno che sopra c'è una chiesa dedicata alla Madonna, stella del mattino: infatti c'è la prima chiesa dedicata all'Immacolata.

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L’ultima cripta, definita dei Tre Scheletri, presenta due piccoli scheletri (della famiglia Barberini) sulla parete di fondo mentre sorreggono con una mano un cranio alato. Al centro della volta si impone uno scheletro sottile (la "principessa Barberini") compreso in una mandorla, simbolo della vita nascente. Con la destra sorregge una falce, simbolo della morte, e con la sinistra sostiene una bilancia, simbolo delle opere buone e cattive valutate da Dio nel giudicare l'anima. La volta del corridoio è molto ricca e varia: quattro piccole stelle a cinque punte contornano la grande stella ad otto punte dalla quale scende il lampadario. Nella vela sopra la porta è ornata con i motivi floreali ricorrenti composti con una costola e una vertebra. Nella parte opposta spicca un orologio, ad una sola sfera, per indicare che la vita continua nell'eternità, mentre in un sacello è custodito, avvolto in piombo, il cuore di Maria Felicetti Peretti morta nel 1656, colei che si considerava "madre" dei cappuccini, la pronipote di Papa Sisto V.

Se la scelta di decorare la cripta con le ossa ci può apparire lugubre e macabra, è in realtà un modo di esorcizzare la morte e di sottolineare come il corpo non sia che un contenitore dell’anima, e in quanto tale, una volta che essa l’ha abbandonato, si può riutilizzare in altro modo (vedi l’iconografia della Danza Macabra e del Trionfo della Morte); del resto lo stesso san Francesco, fondatore dell’ordine, scriveva nel suo Cantico:

"Laudato sii, mi' Signore, per sorella nostra morte corporale, dalla quale nessun uomo vivente può scappare. Guai a quelli che morranno nei peccati mortali. Beati quelli che morranno nella tua santissima volontà, perché da te, Altissimo, saranno incoronati."

In particolare proprio i cappuccini, che ebbero le loro origini da un gruppo di francescani che nelle Marche e nelle Calabrie si separarono dagli altri per osservare la Regola di san Francesco in modo più conforme alle origini, sono stati sempre legati alla meditazione sulla Morte e, in quanto "i frati del popolo", specie durante le varie epidemie che hanno colpito Roma, sono stati spesso anche materialmente in contatto con questa realtà.

Tra le varie curiosità le ossa, trasportate dai frati con 300 viaggi di carrette tra il 1627 e il 1631 dal precedente cimitero posto nel convento della chiesa di san Niccolò de Portis, furono "chimicamente trattate" per essere applicate come stucchi, mentre la mummificazione dei corpi, stando a Domenico da Isnello, fu ottenuta grazie al potere disseccante della rena usata per il pavimento. Igino da Alatri aggiunge che la terra che ricopre il sacro suolo fu portata direttamente da Gerusalemme per volere di Urbano VIII. Non è da escludere, anche se lo vedo molto improbabile, come i disegni ed arabeschi formati dalle ossa possano far riferimento alla cultura cabalistico-ermetica in voga nel ‘700 a Roma. Nel 1775 il Marchese de Sade visitò la cripta e ne lasciò una suggestiva descrizione, affascinato notevolmente dall’architettura, come fecero, poi, altri scrittori stranieri.

Bataille, in uno dei suoi articoli per la rivista Document, “Lo spirito moderno e il gioco delle trasposizioni”, inseriva un’immagine della Cripta nella sua dissertazione circa l’odierno status dell’informe e dell’immondo-morte verso il quale l’uomo moderno è incapace di porre un’azione organizzatrice, celando nel suo inconscio ciò che non riesce a manipolare.

Per concludere questo lungo excursus mi ha sempre colpito il fatto di come questo luogo singolare legato alla Morte, ma intesa dai monaci come dolce e sorella, si apra poi su via Veneto, quella strada che negli anni ‘50-‘60 divenne celeberrima in tutto il mondo come centro mondano di Roma e simbolo della "dolce vita”. Morte e Vita l’una davanti all’altra.

Fonte per le cripte (Rinaldo Cordovani)

Immagini grandi

Sito della chiesa

giovedì 28 maggio 2009

Elogio del Nulla

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L’immagine che vedete sopra non è la foto di una cornice d’epoca o qualche installazione contemporanea che indaga sulla semiologia dei limiti fisici dell’opera d’arte; se “Las Meninas” di Velazquez ci ha fatto riflettere sull’ambiguità dello sguardo e sul doppio gioco dell’opera d’arte in quanto autenticazione e negazione di se, l’artista di quest’opera ha portato al limite semantico il genere della natura morta.

Cornelius Norbertus Gijsbrechts (1630-1675), fiammingo attivo alla corte di Danimarca, si specializzò in complessi ed ermetici “trompe l’oeil”, utilizzando anche figure sagomate e associando al carattere intellettualistico dei suoi inganni pittorici quello moraleggiante della “Vanitas”.

Cornelis_Norbertus_Gysbrechts_005Trompe l'oeil Cornelis_Norbertus_Gysbrechts_004Autoportrait à la nature morte

Le sue opere, volutamente ambigue, sono immagini del dipingere in quanto non mostrano l’inganno della pittura con una semplice ricostruzione mimetica, ma presentano il processo, gli oggetti, la falsità delle opere e della tela nelle pieghe cadute; nel farlo però usa il trompe l’oeil contraddicendo il suo svelare.

Dipingere un quadro girato o una natura morta in quanto tale (tela compresa), o una semplice parete con dei fermacarte è un paradosso pittorico ma anche una meditazione metapittorica sull’immagine e sulla sua autenticità.

Anche le Vanitas non sono da meno; in questo senso il tema della caducità della vita si lega alla falsità dell’immagine e ai rischi dell’inganno ottico.

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Per tornare sull’immagine della cornice il primo paradosso è dato dal fatto che il pittore sul diritto del quadro raffigura il suo rovescio, realizzando così una tela con due rovesci (uno originale ed uno dipinto); in realtà lo spettatore, tratto in inganno, era portato a girare il dipinto ed a trovarvi la tela, vera, tesa sul telaio; avrebbe compreso allora che quello che aveva visto era la rappresentazione di quello che stava vedendo: una tela appunto, o meglio, il nulla. Il soggetto del quadro è il quadro in quanto cosa materiale e in quanto illusione dei sensi. Si vedono i telai, la loro ombra, la trama della tela, il numero 36 (che indica come quella tela sia la trentaseiesima di una raccolta) ma non si vede, ne si potrà mai vedere, ciò che la tela raffigura in realtà, un’idea conservata solo nella mente del pittore. Cornelius, come osservato anche nelle altre opere, usa molto il tema del paradosso ricollegandosi al genere retorico dell’elogio sul nulla; la sua poetica della dissociazione suggerisce il tema della rappresentazione in toto come Vanitas, in quanto ogni opera d’arte, in quanto paradosso del vedere (supporto, immagine, realtà), non è che illusione e nulla.

L’opera non rappresenta altro che la negazione di se stessa, e sul suo negativo si ripiega.

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Del resto, anche storicamente, il tema dell’elogio sul nulla, comparso nel ‘500, ha il suo culmine proprio nel periodo del pittore; risale infatti al 1661 la pubblicazione del Tractatus philosophicus de nihilo, di Martinus Schoockius, che in appendice riprende due delle più importanti opere precedentemente scritte sullo stesso argomento: il Carmen de nihilo di Jean Passerat (Passeratius) e il Tractatus de nihilo di Charles Boville (Carolus Bovillus). Schoockius sostiene che discorrere del nulla è un paradosso: se si dice che nulla è qualcosa (nihil est aliquid) la copula introduce la nozione dell’essere nel campo del non essere. Il discorso de nihilo trasforma il nulla in qualcosa (hoc nihilum factum est aliquid).

Discorrere di nulla, però, è accettare che il nulla sia pur sempre qualcosa. È così che nasce il super paradosso, quasi un’ossessione per tutto il 600: l’elogio del nulla, che rappresenta il culmine della meditazione sulla vanità delle cose, è in se stesso nulla, poiché ogni paradosso, in quanto figura dell’arte, è una vanitas.

Ma questo Duchamp lo aveva capito fin troppo bene; La boîte-en-valise (o semplicemente Valise) è una serie di opere d’arte dell’artista le quali riproducono le sue maggiori realizzazioni; delle valigie di proprie opere che sono al tempo stesso proprie opere diverse; una sorta di cabinet de curiositè portabili e paradossali. In particolare La boite-en-valise è composta di una valigia contenente 69 riproduzioni dei suoi principali lavori, più numerose fotografie e piccole repliche dei suoi principali ready-made.

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Ma di paradossi, in particolare nell’arte contemporanea, ce ne sarebbero molti altri a cominciare dalla “Merda d’artista” di Manzoni per finire al Teschio di Hirst “For the love of God”, se vogliamo una sorta di Vanitas moderna la quale pone il problema del valore dell’opera d’arte visto che, data la preziosità dell’oggetto, non si comprende se il prezzo esorbitante sia dato dal suo valore intrinseco o dal valore derivato in quanto oggetto artistico (il che sarebbe come pagare 15 euro una banconota da 10).

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mercoledì 27 maggio 2009

Marilyn Manson’s art

Marilyn Manson si cimenta anche con la pittura, dichiarandosi influenzato in particolare dagli Espressionisti tedeschi; le sue opere, la maggior parte degli acquerelli, anche se ne ricordano la cromia acida ed accesa, sono ben altra cosa.

Comincia a dipingere dal 1999, realizzando anche degli show molto apprezzati dalla critica e allestendo personali tra le quali, la più importante e completa, aperta a Colonia nel 2002. Nel 2006 denomina il suo movimento artistico, un po' pretenziosamente, Celebritarian Corporation, dando anche il nome a una galleria d'arte di sua proprietà a Melrose a Los Angeles, il Celebritarian Corporation Gallery of Fine Art.

Tra le sue opere, comunque, si segnalano brani ben riusciti, come questo paesaggio antropomorfizzato, o questo ritratto di Edgard Allan Poe.

La prima opera, dal titolo “La morte dell’arte”, riproduce la cattedrale di Berlino; come scrive l’artista infatti "The only painting that comes close to a landscape is The Death of Art, which was based on an image of the cathedral burning in Berlin that kind of ended Weimar. I thought that was symbolic of and inspirational to the record and to my art show. The strange thing is, it ended up looking almost like a face."

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Il resto della sua produzione, però, nell’insistere su tematiche volutamente autocelebrative della sua presunta morale nichilista e satanica, scadono nella ripetitività e nello shock fine a se stesso.

Interessante però sarebbe leggerle in chiave psicoanalitica.

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Qui l’opera completa.

I Sogni di Kurosawa-Van Gogh

Entrambi si sono dedicati alla bellezza, (quella della natura è la più somma ed utopica), e nel senso tragico dell’esistenza l’hanno cercata attraverso visioni e mancanze; l’uno con pennelli densi come la pece, l’altro con una macchina da presa priva di retorica; sono Vincent van Gogh e Akira Kurosawa, accumunati, oltre che dall’amore per il dato naturale fine a se stesso, in quanto bellezza, da questo episodio, girato dal grande regista giapponese ed inserito nel film “Sogni” del 1990.




L’episodio in questione si intitola “Corvi”; il protagonista (alter-ego del regista), osservando le opere dell’artista si ritrova nel suo mondo e nei suoi dipinti e lo cerca (il “Ponte levatoio” è ricostruito infatti com’è nel quadro, e non com’è nella realtà); lo troverà intendo a dipingere sotto un sole a picco: “Questo luogo trascende la realtà – dirà Van Gogh (interpretato da Martin Scorsese) – il paesaggio pittoresco non fa mai un dipinto; se ti concentri ed osservi tutto nella natura ha una sua Bellezza…e in quella bellezza naturale io mi perdo dentro…e poi, come in un sogno, il paesaggio si dipinge da solo, per me…io mi nutro di questo scenario naturale, lo divoro tutto, totalmente…e quando ho finito il quadro è davanti a me, completo…dopodiché ho dentro di me il vuoto assoluto” (del resto l’artista fu molto attratto dall’arte giapponese così attenta alla Natura e capace di raffigurarla con una poetica unica e intimistica). Dopo una corsa materiale nelle sue opere, lo ritrova mentre si incammina per un campo di grano (quello del suo ultimo dipinto completo). Un folle volo di corvi annuncia visivamente il suo suicidio. Il protagonista, ritornato nella realtà, non può che togliersi il cappello con rispetto, ammirazione e venerazione per un uomo arrivato così vicino al Sole da bruciarsi e cadere. (qui il doppiaggio in Italiano).

La Natura, immensa e insondabile, indagata con gli occhi del regista-pittore, non può che essere rivelazione dell’assoluto ma, in quanto negazione di senso e di scopo, meccanicisticamente annichilire chi si avvicina alla sua essenza. L’unica strada, per il regista, sarà rivelata nell’ultimo episodio “Villaggio dei mulini” dove un vecchio centenario (quasi un invecchiato Van Gogh) spiega in modo assai semplice come amare la Natura significa rispettarla, vivere in semplicità e in umiltà godendo l’attimo del qui e ora, senza sovrastrutture e senza egoismi. Accettare e considerare la “morte” come il naturale passaggio che conduce al mondo degli dei e soprattutto usare l’acqua per far girare le ruote dei mulini e far scorrere la vita.

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Resta alla fine, oltre che la magia della splendida regia (visivamente molto poetica), in episodi costruiti come sogni notturni di ricordi, desideri, rimorsi, timori, regole introiettate, materiale quotidiano, pensieri, ma anche incubi ed angosce, un senso di singolare Bellezza: come dice anche Kurosawa, infatti, “Ho un culto spiccato per la bellezza. Penso che un bel film deve avere questa qualità misteriosa che è la bellezza cinematografica, un misto di perfezione e di emozione profonda che spinge la gente ad andare al cinema e la tiene inchiodata alla sedia”.

Episodio di grande fascino, anche solo prettamente estetico, riprende un desiderio inconscio che non so a quanti di voi sia mai venuto: essere in un quadro di Van Gogh, o meglio, vedere il mondo col filtro della sua mente capace di trasfigurarlo in un’onda di linee e colori. A me, che spesso ho immaginato questo motivo, ha molto colpito. Aspetto con curiosità i vostri commenti e giudizi. Nel farlo, vi lascio con quest’altro spezzone dal film “Al di la dei sogni” (segue dalla parte 3; min. 8) che chiarisce perfettamente e visivamente cosa significherebbe abitare nel mondo della mente di Vincent.



lunedì 25 maggio 2009

Tutto Picasso

Finalmente online tutta l’opera di Picasso; il lavoro, frutto di anni di acquisizioni, è confluito nel sito on-line Picasso Project, una vero gioiello per tutti gli estimatori del più grande artista del ‘900, per gli studiosi e per chi, finalmente, potrà riuscire a quantificare, anche visivamente, tutta la sua sterminata opera che comprende, tra tele, disegni, incisioni, sculture, circa 17.300 opere. Enormità del suo genio.

Io, girando, ho finalmente trovato la sua ultima opera: un medaglione in oro 23 carati, in 20 esemplari, realizzato nei primi mesi del 1973, dal titolo Trèfle (trifoglio); opera ancor più profetica della sua imminente morte se la si vede come una singolare maschera funebre, come quelle all’uso degli antichi.

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venerdì 22 maggio 2009

Il Cigoli e la Luna scura di Galileo

A Roma, nella splendida chiesa giubilare di Santa Maria Maggiore, vi è una cappella di rara bellezza sia architettonica che artistica: la cappella Paolina, detta anche Borghese, contrapposta alla Sistina, edificata per custodire l'Immagine della Madonna "Salus Populi Romani", per ordine di Paolo V Borghese, su disegno dell'architetto Flaminio Ponzio, tra gli anni 1606 e 1612. Oltre agli affreschi del Cavalier d’Arpino e di Guido Reni e lo sfavillante altare del Mariani , la cappella costudisce uno dei capolavori di Ludovico Cardi, detto il Cigoli, il quale nella cupola raffigurò l’assunzione della Vergine.

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Il Cigoli, artista di scuola toscana a cavallo tra manierismo e classicismo barocco, allievo dell’Allori e del Buontalenti, autore di un trattato di “Prospettiva pratica”, fu grande amico di Galileo; entrambi allievi del matematico Ostilio Ricci, coltivarono l'uno il mestiere dell'altro. Galileo si dilettava nel disegno e Cigoli nelle osservazioni astronomiche. Nella corrispondenza fra i due si legge spesso delle macchie solari, che il pittore toscano osservò personalmente, confermando le tesi dell'amico scienziato. Inoltre Cigoli tenne costantemente informato Galileo sugli umori romani, particolarmente negli anni successivi alle scoperte celesti del 1610; i commenti degli scienziati che a Roma non accettavano le teorie galileiane sulle superfici scure della luna sono contenuti infatti in tre sue lettere del 1612.

Ebbene il Cigoli, nel suo affresco della cupola, nel raffigurare la Vergine Assunta, la cui iconografia chiaramente si richiamava anche a quella dell’Immacolata Concezione, non La dipinse mentre si ergeva sulla classica luna crescente, ma su un qualcosa di totalmente differente: rappresentò infatti la luna, per la prima volta nella storia dell’arte, esattamente come quella osservata dall’amico Galileo, molto più naturalistica, con i crateri e le ombre come quelli che si vedono nelle stampe del Sidereus Nuncius: «In primo luogo diremo dell’emisfero della Luna che è volto verso di noi. Per maggior chiarezza divido l’emisfero in due parti, più chiara l’una, più scura l’altra: la più chiara sembra circondare e riempire tutto l’emisfero, la più scura invece offusca come nube la faccia stessa e la fa apparire cosparsa di macchie». L’astro non segue la classica forma a falce, indicata solo dal gioco di luce, ma è raffigurato sferico, sospeso su un cuscino di nuvole.

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Proprio come le parole e i disegni di Galileo descrivono, Cigoli rappresenta la luna ai piedi della Vergine con le macchie e una specie di nuvola sottostante che simula i vapori. La scoperta scientifica, quasi contemporaneamente alla sua diffusione, viene quindi adattata al campo della figurazione sacra in una delle più importanti cappelle della Roma del ‘600. Siamo tra l’ottobre 1610 e il novembre del 1612, a un anno dall’invenzione del cannocchiale, poco dopo la scomparsa dei due pittori che avevano rivoluzionato il modo di rappresentare la realtà, Annibale Carracci e il Caravaggio.

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È indubbio quindi che a poca distanza dall’enunciazione della teoria, le alte gerarchie della Chiesa non avversarono le novità galileiane ma piuttosto ne delimitarono il campo all’ambito prettamente scientifico, visto che l’affresco in Santa Maria Maggiore fu realizzato per e con il consenso del papa Paolo V Borghese, nella cappella che doveva diventare il suo mausoleo, il quale non si dimostrò per nulla intransigente. È significativo ricordare il giudizio che diede dell’affresco uno degli uomini più colti di Roma, Federico Cesi, scienziato e fondatore dell’Accademia dei Lincei, in una lettera inviata a Galileo nel 1612. È un elogio all’affresco del Cigoli, il quale «come amico e leale» di Galileo, «sotto l’immagine della beata Vergine ha dipinto la Luna nel modo che da Vossignoria è stata scoperta, colla divisione merlata e le sue isolette».

Il processo che si aprirà solo nel 1633 sotto papà Urbano VIII verterà, più che altro, sulla messa in dubbio delle Scritture, la cui verità era fondante per la fede e per la Chiesa che su di esse basava il proprio potere; mettere il Sole al centro significava screditare il Verbo e la sua attendibilità, e quindi porre in discussione le basi spirituali della Chiesa come istituzione.

Questa luna opaca e materica, come dipinta dal Cigoli, entrerà poi lentamente nell’iconografia dell’Immacolata, come dimostrano queste due splendide tele di Murillo.

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