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sabato 21 dicembre 2013

Raffaello e le Vie Lauretane - Un autoritratto inedito del pittore

Sono grato ad un bellissimo e pressoché ignorato affresco che vidi per la prima volta nel lontano 1984 in una antica chiesa di proprietà privata, non più officiata da secoli, lungo un percorso lauretano nelle Crete senesi. Un’opera fino ad allora considerata minore nel complesso panorama della pittura senese fra fine ‘400 ed inizi ‘500. Il dipinto, dovuto alla mano di almeno quattro artisti della scuola umbra, mi apparve subito di grande qualità, come hanno confermato poi gli studi che ho fatto, che mi hanno portato a collocarne l’esecuzione nell’anno del Grande Giubileo di Mezzo Millennio, il 1500. Il fatto poi che vi fossero raffigurati, ai lati della Madonna col Bambino, i santi Pietro e Paolo, mi fece pensare ad una committenza partita da Roma, da dove si gestiva il decoro delle Vie Lauretane, da inserire nel quadro delle varie iniziative di abbellimento e arricchimento dei luoghi sacri intraprese per il Giubileo. Inoltre notai che nella figura che rappresentava uno degli altri sei santi dell’affresco si celava l’autoritratto, inconfondibile, del pittore stesso che l’aveva eseguito, che mi fece pensare subito ad un giovanissimo Raffaello. L’impressione venne poi confermata, ad una visione ravvicinata della superficie pittorica, dalla firma “RAPH.V.” che si legge, anche se ormai lievissima, sul colletto del giovane santo guerriero.
Naturalmente anche questo poteva non bastare a fugare i dubbi che si trattasse davvero di opera dello straordinario magister, allora diciassettenne. Le conferme, abbondanti, dovevano arrivare dallo studio che intrapresi su argomenti di cui allora sapevo poco o niente, come le Vie Lauretane, le relazioni dei pellegrinaggi, l’iconografia della Madonna di Loreto e da una attenta e inedita rilettura in chiave “lauretana” della produzione artistica del grande pittore urbinate. In anni di lavoro su questi temi, che sono a questo punto ben lieto di aver dovuto fare, ho potuto andare anche oltre a quanto potesse servire a confermare la mia attribuzione, arrivando a scoprire un Raffaello intimamente devoto della Madonna di Loreto, come ci dicono vari intimi e nascosti accenni iconografici visibili in numerosi suoi dipinti, come il boschetto di allori con la chiesetta in cima e il Monte Conero sullo sfondo, le ricorrenti immagini della Sacra Famiglia, interi tratti di percorsi lauretani e varie toccanti raffigurazioni della Fuga in Egitto, tutti segni di cui la rivista Il Messaggio della Santa Casa-Loreto gentilmente più volte ha dato notizia. Rimane da dire della firma, infine, l’unica che il pittore abbia apposto sui suoi autoritratti. Vedo allora, dalle relazioni di pellegrinaggio del tempo, che fra i vari impegni del buon pellegrino lauretano c’era quello di dedicarsi, alla vigilia della partenza per un gioioso ma anche faticoso e pericoloso percorso penitenziale, a Dio. Cosa c’era di meglio, allora, per un grande giovane artista, la cui forte, pressante personalità creativa stava per esplodere, che debuttare ufficialmente in un percorso lauretano sotto la protezione della Madonna, esprimendo oltre che interiormente anche visivamente questa sua dedica con tanto di immagine e firma, una volta per sempre, quale entusiasta artefice e devoto pellegrino, nell’anno del fastoso Giubileo di Mezzo Millennio? La conoscenza inattesa di un “patrono” artistico così grande può contribuire a dare slancio alla riscoperta delle Vie Lauretane in Toscana e non solo, a lungo localmente dimenticate e sulle quali si registra ora una ricca, crescente fioritura di studi.

sabato 23 febbraio 2013

Se il giornalismo storico-artistico non esiste più

Tomaso Montanari con questo articolo che prende spunto da presunte "novità" leonardesche mette il dito nella piaga segnalando come oggi il giornalismo culturale relativo all'arte tocchi il suo punto più basso. Tanta ed eccessiva attenzione per mostre (blockbuster) o per psude-attribuzioni (Caravaggio e Leonardo su tutti) ma poca voglia di andare a fondo ai problemi artistici, di criticare con competenza collettive ed esposizioni, di svolgere quell'azione di mediazione ormai fondamentale in una società che sta sempre più smarrendo il senso della propria storia artistica veicolata da manager ed esperti di comunicazione. Di giornalisti "artistici" ospitati sulle testate nazionali ce ne sono sempre di meno, anche se qualcuno ancora si salva: tra tutti mi sento di segnalare naturalmente Fabio Isman dalle pagine del Messaggero e di Art Dossier  e Simone Verde.

«Se dichiaro di aver visto a occhio nudo il Bosone di Higgs nel mio salotto, mi portano alla neuro: ma se il primo che passa sostiene di aver scoperto un Michelangelo, un Leonardo o un Caravaggio, il circo mediatico lo porta, immediatamente, in trionfo. Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile: in Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. […] La prossima volta che qualcuno si presenterà all’Ansa con cento terrecotte di Leonardo o cinquanta marmi di Michelangelo verrà dunque sottoposto a una qualche verifica? Tutto lascia credere di no: per la prossima bufala storico-artistica è solo questione di giorni».

Così scrivevo, ad agosto, nella premessa a La madre dei Caravaggio è sempre incinta. Non era una profezia difficile, ma si è realizzata al punto che potrei già aggiungere una nutrita appendice al libretto.

A fine settembre è spuntata una seconda Gioconda. La notizia è stata data da Silvano Vinceti, l’ormai celebre cercatore dei resti di Caravaggio, e di quelli di Monna Lisa (in carne e, appunto, ossa) nel complesso fiorentino di Sant’Orsola (un’operazione finanziata con i nostri soldi dalla Provincia di Firenze): «Si trova a San Pietroburgo ed appartiene ad un collezionista privato - ha spiegato Vinceti - sono già in corso tutte le perizie e le ricerche del caso per certificare che l’opera è stata realizzata da Leonardo». Dove trovo bellissima questa idea da Asl: ‘Per certificare i Leonardo prendete il bigliettino e mettetevi in fila allo sportello 4. Per il Santo Graal, invece, sportello 3. Precedenza a templari e donne incinte’. Inoppugnabili, d’altra parte, gli argomenti di Vinceti: «ha le mani più scure del viso, tratto tipico dello stile del maestro, che condividerebbe con l’originale custodito al Louvre». Ma potevate dirlo subito: e che dubbio rimane?!

Di qualche giorno, fa invece, è il rilancio di un’altra Monna Lisa: se ne sentiva la mancanza, no?

La terza Monna Lisa è stata affidata dai proprietari nientemeno che ad una Fondazione (The Mona Lisa Foundation, con sede a Zurigo), senza scopo di lucro (lei). Nel board e nei consulenti non si conta nemmeno un vero storico dell’arte, ma questo non impedisce alla Fondazione di avere le idee molto chiare sull’opera. Il sito del Guardian informa (senza un filo di ironia) che la Fondazione ha fatto esaminare l’opera da un esperto di «sacred geometry» (qualunque cosa sia!), e poi ha fatto condurre un analisi al carbonio 14 per datare l’opera. In un eccesso di zelo, l’analisi ha dimostrato «that it was almost certainly manufactured between 1410 and 1455». Cosa davvero stupefacente, visto che Leonardo è nato nel 1452. Certo, se uno crede alla ‘sacra geometria’ può anche credere al fatto che Leonardo abbia dipinto il quadro svizzero a tre anni: anzi, mi pare una scoperta destinata a rifondare la storia dell’arte.

La risposta più seria a tutto questo è la meravigliosa serie satirica sui Misteri di Leonardo che andava in onda in «Non perdiamoci di vista». Ma, dopo aver seppellito tutto ciò sotto la meritata coltre di ridicolo, non si può non pensare che se il patrimonio storico e artistico italiano è nello stato in cui è, lo si deve anche alla trasformazione della storia dell’arte in un gigantesco, grottesco, circo equestre.




E per gli amanti della Monna Lisa ho trovato su Wikipedia questa interessante pagina redatta con grande competenza e con molte citazioni di fonti:

venerdì 8 febbraio 2013

L'Origine del mondo di Courbet ha un volto

L’origine del mondo, celebre quadro di Gustave Courbet dipinto nel 1865 e rappresentante un corpo nudo femminile, senza volto, senza testa, che mostra in primo piano il sesso della donna avrebbe finalmente ritrovato una delle sue parti mancanti? Secondo quanto rivelato giovedì sul settimanale Paris Match il busto avrebbe ritrovato la sua testa mancante su un altro quadro, testa che sarebbe stata tagliata dallo stesso Courbet per evitare lo scandalo. L’Origine del Mondo, che dal 1995 troneggia in una sala del Museo d’Orsay, non sarebbe dunque che una parte di un quadro di ben più grandi dimensioni, forse 1m x 1,20m. La notizia è tra le più incredibili e inaspettate anche se sa tanto di bufala.



Parigi. È su uno dei misteri più intriganti della storia dell’arte che si sta facendo luce in Francia: la donna che prestò la propria intimità a Gustave Courbet per «L’origine del mondo», posando languidamente stesa e offrendo il sesso allo sguardo di tutti, ha ormai un volto e un nome. Il massimo specialista francese del pittore realista, Jean-Jacques Fernier, è convinto infatti di aver messo le mani sulla «parte mancante» del dipinto, una tela che riproduce il viso della modella e che completa, come in un puzzle, l’audace nudo conservato al Musée d’Orsay di Parigi.
Sembra, spiega lo specialista, che Courbet abbia concepito il quadro-scandalo nel 1866 non come un’opera incentrata sul sesso della donna, ma come un ritratto completo. L’artista avrebbe tuttavia deciso di ritagliarlo e di vendere la parte inferiore a un diplomatico turco (Khalil Bey. L'ultimo proprietario dell'opera. prima del suo ingresso nelle collezioni del d'Orsay nel 1995, fu invece lo psicanalista Jacques Lacan, Ndr). La parte superiore sarebbe invece rimasta sconosciuta per oltre un secolo.
Lo scoop che già fa discutere il mondo dell’arte si deve al settimanale «Paris-Match», che ha pubblicato il volto della ragazza, chino all’indietro, con la bocca dischiusa e i ricci ribelli sparsi sul cuscino. È un’irlandese, Joanna Hifferman, amante del pittore. La storia del ritrovamento è degna di un’inchiesta alla Conan Doyle. Nel gennaio 2010 un collezionista d’arte inglese, che si fa chiamare John, acquista un quadro da un antiquario parigino per 1.400 euro, un olio su tela senza firma di 33 x 41 cm. Non sospetta che si possa trattare di un Courbet, ma intende saperne di più. Nota che la tela è piegata, trova il sigillo di un mercante d’arte, risale al nome della protagonista, mette a confronto il quadro con altri Courbet. Ha un'incredibile intuizione. Scava allora negli archivi del Louvre, consulta esperti e chiede perizie. I due quadri sembrano combaciare perfettamente. Manca ora il parere decisivo dell’Orsay. Ma se il volto di donna è autentico, come sostiene Fernier, il suo valore si aggira intorno ai 40 milioni di euro. (Il Giornale dell'Arte)

lunedì 12 novembre 2012

La madre dei Caravaggio è sempre incinta

Sensazionalismo, il male dell'arte
Da Michelangelo a Caravaggio: la filologia è ridotta a burla 

E le ossa di Monna Lisa? Dove saranno, le ossa di Monna Lisa? Quando salteranno fuori, in un tripudio di titoloni, le ossa di Monna Lisa? Sono queste le domande provocatorie poste dal libro che lo storico dell'arte Tomaso Montanari ha dedicato alle «scoperte sensazionali» che periodicamente irrompono sulle prime pagine guadagnandosi uno spazio enorme. E relegando nella pressoché totale disattenzione le opere che stanno andando a ramengo, dal crocifisso di Vasari nella chiesa napoletana di San Giovanni a Carbonara agli affreschi quattrocenteschi della novarese Santa Maria Nova di Sillavengo fino all'agonia della reggia di Carditello.

Tomaso Montanari, «La madre dei Caravaggio è sempre incinta» (Skira, pp. 75, € 9) Il pamphlet ha un titolo sbarazzino, La madre dei Caravaggio è sempre incinta  ma è un'invettiva micidiale contro il modo in cui è trattato il tema delle ricorrenti «scoperte» di un nuovo capolavoro ritrovato negli scantinati, tra le macerie di una chiesa, nella soffitta di una vecchia zia defunta o, caso più probabile, nel magazzino di un mercante d'arte che un bel giorno scova dietro una crosta un «pezzo meraviglioso» da milioni di euro.

L'idea di confermare se Montanari abbia o meno ragione, nello svergognare l'attribuzione a Michelangelo del Cristo ligneo comprato a caro prezzo dal governo italiano ai tempi di Sandro Bondi o a Caravaggio dei «cento disegni mai visti» dal valore folle di «circa 700 milioni di euro» scovati là dove erano sempre stati da «due perfetti ignoti agli studi caravaggeschi», non ci passa per la testa. Cadremmo nello stesso tranello: è bene che della valutazione dei Caravaggio si occupino quelli che per una vita hanno studiato Caravaggio.

Ma è difficile non essere d'accordo con Montanari quando scrive: «Se vogliamo un brivido anticonformista e un potente antidoto contro la superficialità e la cialtronaggine abbiamo bisogno di coltivare i dubbi». Altrimenti, il rischio è di cadere nel pasticcio misterioso della seconda Medusa attribuita (lo storico non è d'accordo: «Basta guardarla per capire che è una copia...») a Caravaggio e lanciata dalla società «Once - Extraordinay Events»: «In una puntata di Chi vuol esser milionario, Gerry Scotti ha chiesto quale soggetto fosse stato dipinto da Caravaggio una sola volta: la concorrente ha indicato la Medusa degli Uffizi. E aveva perfettamente ragione: ma il pubblico da casa è insorto, perché la campagna promozionale era stata tanto pervasiva che tutti sapevano che esisteva un'altra Medusa. Il finale comico è stato che, nella puntata successiva, Scotti si è dovuto scusare».

Così come è difficile dar torto a Montanari quando se la prende con un eccesso di sensazionalismo e una caccia all'«evento» che rimuove il degrado del patrimonio artistico italiano (nessuno fa manutenzione sul mosaico del «cave canem» di Pompei in attesa chissà della sua «riscoperta») e assorbe tutto nell'ottica del marketing, fino a produrre una corsa allo scambio di opere d'arte (di per sé, ovvio, legittima e spesso giusta) così ossessiva da far pensare a certi annunci peccaminosi dei club di «scambisti»: «Tiziano giovane, amante natura, cerca Giotto maturo per caldo scambio volumi-colore»; «Leonardo sacro, ma ambiguo, cerca Mantegna litico per scambio morbido-duro; valuta anche Caravaggio, max 1605...».

C'è chi contesterà lo studioso fiorentino accusandolo di essere lui pure pieno di certezze che manifesta con ironia tranchant, come quando liquida un secondo Cristo ligneo «di Michelangelo» trovato secondo monsignor Rino Fisichella nel Patriarcato melchita del Libano: «Qui non si tratta di opinioni scientifiche, ma di un problema di minima alfabetizzazione: se attribuire a Michelangelo il Cristo comprato da Bondi è come confondere un leone con un gatto, attribuirgli il Cristo di San Marino è come scambiare un leone e un merluzzo».

Ma è difficile dissentire quando, sorridendo del sindaco dell'Argentario che vuole costruire un mausoleo per ospitare le presunte ossa di Caravaggio oggi custodite in banca (sic...) perché «inaugurare la tomba "di Caravaggio" è più semplice che tenere pulite le meravigliose spiagge», contesta che «mentre l'esercizio abusivo della professione medica è un reato, chiunque può provare a proporsi come storico dell'arte». Assurdo: «La capacità di riconoscere gli autori delle opere d'arte non è una dote innata, una rabdomanzia, un fiuto. È invece il frutto di un lungo e faticoso esercizio, una tecnica che si impara e che si insegna...». Certo, spiega, «le attribuzioni sbagliate sono sempre esistite» ma «le bufale sono un'altra cosa: non sono errori scientifici (legittimi, e inevitabili), ma creature extrascientifiche nate al di fuori di ogni serio protocollo di ricerca, a uso e consumo dei media».

Cosa fare? Vale la pena di dare vita, per Montanari, a un Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulla storia dell'arte che «potrebbe facilmente verificare i singoli casi, contattare i migliori esperti dei singoli campi e fornire in tempi rapidi una risposta» prima che «il Caravaggio di turno fosse sbattuto in prima pagina». Il tutto nella scia del Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, presieduto da Piero Angela e composto da Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Silvio Garattini, Margherita Hack, Tullio Regge, Giuliano Toraldo di Francia, Aldo Visalberghi e Umberto Eco. Il quale arrivò a inventarsi, contro i ciarlatani, il premio «Bufala d'oro».


Compare invece nella discussa mostra Caravaggio e sues seguidores, realizzata in Brasile, a Belo Horizonte (Casa Fiat de Cultura, 22 maggio/15 luglio 2012) e San Paolo (Pinacoteca, 25 luglio/ 30 settembre 2012), e poi in Argentina, a Buenos Aires (Museo Nacional, 22 ottobre/15 dicembre 2012), nell'ambito dell'evento 'Caravaggio e i suoi seguaci: conferme e problemi' curato dalla soprintendente per il Polo museale della città di Roma Rossella Vodret, l'ennesimo Battista attribuito al Maestro, un San Giovanni Battista che nutre l'agnello di collezione privata . La mostra, tra l'altro, presenta come autografo anche l'improbabile San Gennaro decollato.


Il catalogo completo della mostra è scaricabile da questo link: http://www.casafiatdecultura.com.br/admin/catalogos/carava.pdf

giovedì 1 novembre 2012

Il san Giovanni Battista di Tiziano al Prado

Lunedì prossimo sarà presentato al Prado il San Giovanni Battista attribuito a Tiziano e appena restaurato. Da sempre ritenuta copia in realtà si è rivelato un inedito in cattivo stato conservativo ed ora, ripulito, è esposto al pubblico. Così qualche mese fa:


"Tre mesi dopo la scoperta della "gemella" della Gioconda, il museo del Prado ha portato alla luce un nuovo Tiziano, una versione simile al 'San Giovanni Battista' conservato nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia, datato intorno al 1542, e che era stata fino a oggi considerata una copia. Ne danno notizia fonti della pinacoteca madrileña citate oggi da El Pais.

L'opera, in cattivo stato di conservazione, e' in corso di restauro da parte della sezione scientifica del Prado, costituita da una quindicina di conservatori e una ventina di restauratori che, grazie a radiografie, riflessografie a infrarossi e analisi dei pigmenti, sono riusciti a far luce sul metodo di lavoro di Tiziano e le varie tappe della sua creazione artistica. Una terza vesione del San Giovanni Battista realizzata dal genio italiano della pittura si conserva nelle sale capitolari del Monastero di San Lorenzo dell'Escorial, al quale fu donata da Felipe II nel 1577. La tela attribuita al pittore veneziano - custodita in una chiesa dell'Almeria, al sud della Spagna e, inventariata nel Bollettino del museo madrileno - rientra nel patrimonio del cosiddetto Prado disperso, un insieme di 3.100 opere cedute in prestito a enti e istituzioni in varie parti della Spagna nel 1872, quando la collezione della pinacoteca aumento' sensibilmente con l'annessione dei fondi del Museo de la Trinidad.

L'artefice della scoperta e' stato Miguel Falomir, capo del dipartimento di pittura italiana e francese del Prado, che sta realizzando un catalogo ragionato su Tiziano che si prevede sia pubblicato per la fine dell'anno. Falomir è stato fra l'altro il curatore di un'esposizione dedicata dal Prado a Tiziano nel 2002. ''Nessuno sapeva della sua esistenza'', ha riconosciuto il direttore delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, Matteo Ceriana, in dichiarazioni al quotidiano. Ceriana, che ha potuto vedere la versione - di cui non sono state diffuse immagini, perchè in fase di restauro - non ha dubbi che si tratti di un originale. "Non è esattamente come la nostra e nemmeno come quella dell'Escorial, di modo che le tre versioni sono interconnesse", ha spiegato. ''San Giovanni Battista non è un tema molto complesso e un artista come Tiziano, tanto grande e vissuto tanto tempo, dovette affrontare varie volte gli stessi temi. Tentava di non ripetersi e di reinventarsi", ha aggiunto. I dettagli del ritrovamento saranno diffusi dal Prado in autunno quando sarà presentato il restauro con gli studi sull'attribuzione in un'esposizione, accompagnata da un catalogo ragionato sul genio italiano della pittura". (Fonte Ansa)

sabato 14 luglio 2012

Giovanni Previtali: cos'è l'attribuzione

Un testo sul quale riflettere dati i tanti (voluti o meno) abbagli che si stanno prendendo ultimamente

GIOVANNI PREVITALI. VOCE ATTRIBUZIONE

G. Previtali, Voce Attribuzione, Enciclopedia Feltrinelli Fischer, Arte 2/1, Milano, 1971, pp. 56-60

ATTRIBUZIONE. È l'atto critico mediante il quale un prodotto artistico viene riconosciuto come appartenente ad un medesimo gruppo di altri prodotti analoghi, supposti opera di uno stesso autore (sia che il suo nome sia noto sia che non lo sia [...]). L'attribuzione giunge quindi anch'essa come atto conclusivo dell'analisi stilistica, cioè di quello che è lo strumento analitico specifico della storia dell'arte e ciò che la distingue dalle altri discipline storiche.

In effetti per la storia dell'arte valgono in massima parte i principi metodologici della filologia classica e della linguistica storica; loci communes e loro trasmissione, lectio facilior e lectio difficilior, ritardo delle aree periferiche ecc; come valgono i principi della critica storica per quanto riguarda l'analisi, la selezione e l'utilizzazione delle fonti e dei documenti.

Il principio su cui si basa l'attribuzione è molto semplice: e cioè da un lato sulla capacità della mente umana di riconoscere ciò che già conosce, dall'altro sull'altra caratteristica dell'uomo di lasciar sempre una impronta personale su ciò che fa, sia che lo voglia, sia che (come nella storia avviene assai spesso) cerchi di ottenere proprio l'opposto [...].

Come in ogni indagine storica l'errore, nell'attribuzione, ha origine infatti il più delle volte non tanto nella fase della osservazione (analisi) quanto in quella successiva dell'induzione sulla base degli elementi raccolti.

Una somiglianza, o una serie di somiglianze, tra le opere A e B può avere infatti, storicamente parlando, più significati: derivazione da uno stesso modello C; derivazione di A da B; derivazione di B da A analogia di risultati tra A e B perché ambedue basate su di una stessa condizione ambientale X o perché ambedue rispondenti alla medesima richiesta di un committente Y. Tanto per fare un celebre esempio di quest'ultimo caso, è ovvio che la maggior parte delle somiglianze tra le varie formelle presentate nel 1401 al concorso per le porte del Battistero di Firenze è dovuta alle clausole del concorso, a loro volta basate sul precedente storico della porta di Andrea Pisano.

Quanto detto basta cioè a render chiaro che l'atto della attribuzione, apparentemente così semplice e, a volte, rapido, giunge in realtà, come abbiamo detto, alla fine di un processo di analisi dell'opera d'arte (e dei suoi rapporti reali con la società: altri artisti, convenzione sociali, morali, di culto o semplicemente di etichetta; committenti a loro volta impregnati di idee politiche, religiose, ecc.); processo di analisi estremamente complesso ed i cui modi e risultati si sono trasmessi ed arricchiti di generazione in generazione, di storico in storico.

Ben altra cosa è, naturalmente, la corrente pratica attribuzionistica ad uso commerciale che si potrebbe definire l'arte di rinvenire rapidamente un "nome" (compatibile, però, con lo stato delle conoscenze) per qualsiasi prodotto si presenti sul mercato. Tale degenerazione meccanica dell'analisi attribuzionistica è, a ben vedere, la conseguenza proprio dell'astrarre (per ragioni di pratica efficienza) dai legami con tutto il complesso di fatti che l'analisi formale dell'opera d'arte rivela e che tutti confluiscono a darle il suo pieno significato storico. Ricordarsi «che l'opera d'arte» ha scritto proprio il massimo conoscitore italiano, «è sempre un capolavoro squisitamente "relativo". L'opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto» (R. Longhi).

venerdì 6 luglio 2012

I disegni del Caravaggio scoperti - rassegna stampa - cosa dicono i giornali?

Come leggo giustamente sul blog Robe da Chiodi riguardo ai presunti disegni del Caravaggio ritrovati c'è una disparità di trattamento tra ciò che si legge su internet e ciò che riportano i giornali

Se cercate notizie sul web rispetto al caso dei 100 disegni del Fondo Peterzano in cui due studiosi hanno riconosciuto la mano di Caravaggio, vi troverete davanti ad un elenco infinito di link in cui tutto viene dato per certo e per acquisito. Per una valutazione sul bizzarro ritrovamento vi rimando a questa intervista di Cristina Terzaghi, che a Caravaggio ha dedicato un libro di grande importanza e con tantes coperte documentarie. Oggi tutti i giornali si occupano ovviamente della cosa, dedicando anche grande spazio. Pierluigi Panza sul Corriere ha sentito Francesca Rossi, responsabile del Gabinetto dei Disegni del Castello (dove è custodito il Fondo Peterzano, di cui fanno parte i 100 disegni) che rivela di non aver mai conosciuto i due studiosi e di non averli mai visti in sala studio. La Stampa esagera con ben due pagine senza nessun accenno dubitativo nel titolo, ma almeno con la salutare doccia fredda di un commento di Marco Vallora. Repubblica che ieri aveva seguito a ruota l’Ansa nel lancio sul sito, oggi in prima pagina almeno prende un minimo di distanza mettendo le virgolette al titolo (nel senso che attribuisce l’affermazione del ritrovamento alla voce dei due studiosi). L’articolo di Armando Besio e Carlo Alberto Bucci mette mille dubbi (rivelando che i disgeni erano stati studiati persino da Costantino Baroni e da Maurizio Calvesi). Claudio Strinati, con un commento un po’ imbarazzato salva il profilo dei due ricercatori (“egregi studiosi”) e finisce con il dire che se anche fossero di Caravaggio non dicono nulla che non sapessimo già…
Se invece andate su internet non troverete né punti interrogativi, né virgolette per i titoli, né pareri minimamente dubitanti.
Questo per dire che la carta (dei giornali) è preziosa, con tutti i limiti e la fatica che si porta dietro. Speriamo che non ci abbandoni 

Mi sono andato a spulciare allora la rassegna stampa che il MiBac pubblica giornalmente selezionando gli articoli sulla scoperta che inserisco, scaricabili, in pdf. I giudizi di storici dell'arte e non solo, come vedrete, non sono naturalmente dei più positivi e gettano pesanti ombre sulle attribuzioni. E c'è già chi parla di bufala o di falsi.


Rassegna Stampa - Disegni giovanili Caravaggio

Giovane Caravaggio - Le cento opere ritrovate - I volumi su Amazon

Segnalo il link delle due pubblicazioni, appena uscite su Amazon, che spiegheranno le motivazioni dell'attribuzione dei disegni del fondo Peterzano al giovane Caravaggio, attribuzione che ha portato subbuglio nel mondo dell'arte dato che del Merisi, sino ad oggi, non c'è pervenuto neanche uno schizzo e i suoi unici disegni si possono leggere guardando le radiografie delle opere. Il comune di Milano, tramite l'assessore alla cultura Stefano Boeri, ha invitato comunque alla prudenza (link). Gli autori sono Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli. 

Sinossi

Più di quattrocento anni di oscurità impenetrabile nascondevano uno dei maggiori tesori della cultura mondiale: le opere realizzate da Michelangelo Merisi detto il Caravaggio nel periodo giovanile, prima dell’arrivo a Roma. Nel 2012, i due studiosi italiani, dopo una lunga ricerca, hanno individuato e aperto, a Milano, la porta concettuale nascosta che ha permesso il recupero di cento disegni del giovane Caravaggio - dei quali ottanta saranno ripresi nelle opere della maturità - una decina di ritratti a olio, un biglietto di protesta steso da Merisi. E’ così possibile conoscere il motore segreto di uno dei più grandi pittori di tutti i tempi, smentendo, tra l’altro l’ipotesi diffusa, in base alla quale Caravaggio non avrebbe mai disegnato. La scoperta è illustrata - anche per un pubblico ampio, attraverso un linguaggio accessibile e numerose immagini - in due e-book con più di mille fotografie, in grandissima parte inedite. Nel primo volume (438 immagini): la vita dell’artista alla luce della nuova scoperta, i ritratti ritrovati, il biglietto di Caravaggio, il presunto primo autoritratto di Merisi. E, ancora, in prima assoluta mondiale, il volto di Costanza Colonna, la marchesa protettrice di Caravaggio. "Nulla di tutto quello che Merisi poté dipingere in questa primissima fase è stato mai individuato."Claudio Strinati, Caravaggio, la luce nella pittura lombarda. (Link Vol I su Amazon)



In questo volume, secondo tomo dedicato alla scoperta delle opere perdute del giovane Caravaggio, i cento disegni del pittore trovati a Milano, letti nel confronto con i dipinti noti che rivelano gli straordinari, continui, fitti rinvii tra le prove svolte nel suo periodo di formazione, fino ad oggi sconosciute, e gli oli che Merisi realizzerà, a partire dal primo soggiorno romano. Volti, personaggi, posture che egli combinerà in molti modi, come in un puzzle, per ottenere tutti i capolavori che noi conosciamo. Una convergenza sconvolgente, in grado di dimostrare che Caravaggio partì da Milano, alla volta di Roma, con un bagaglio ricchissimo. Lo studio, oltre ai disegni, recupera dipinti inediti e ricostruisce anche il percorso stilistico compiuto dal pittore, in previsione del trasferimento nella città dei Papi. L’ebook – 658 immagini commentate - presenta, sempre per la prima volta al mondo, anche il volto di Caravaggio fissato dal suo maestro in quattro disegni, in una sequenza cha va dalla fanciullezza alla giovinezza, e quello che parrebbe il ritratto della madre dell’artista, Lucia Aratori. Un viso, legato al concetto di maternità, che egli disegna a Milano e che ripeterà nei più commoventi, dolci, drammatici dipinti in cui è rappresentata la Madonna. (Link vol. II su Amazon)


In concomitanza è uscito anche un sito http://www.giovanecaravaggio.it/ attraverso il quale prendere contatti con gli autori.


giovedì 5 luglio 2012

Caravaggio, scoperti 100 disegni giovanili

E' di quelle scoperte che tutti aspettano ma che proprio per questo motivo è da prendere letteralmente con le molle. Da circa un'ora una breve nota dell'Ansa sta portando subbuglio tra tutti gli esperti del Caravaggio del quale sembrano essere finalmente tornati alla luce dei disegni giovanili, circa un centinaio, dal fondo Peterzano. Suggestivi i confronti proposti con opere, però, ben più tarde. E se di ascendenze vogliamo parlare quella leonardesca è quella che spicca di più. Da domani, su due ebook che usciranno su Amazon, le novità e le scoperte che seguiremo da questo blog.

"Per la storia dell'arte potrebbe essere una svolta storica. Si tratta di un centinaio di opere assolutamente inedite - disegni e alcuni dipinti - attribuite da un'equipe di studiosi ai 'primi passi' di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio quando, appena adolescente, era allievo nella bottega del pittore manierista Simone Peterzano, dal 1584 al 1588.

Le opere, il cui valore stimato e' di circa 700 milioni di euro, sono venute alla luce grazie ad una lunga ed accurata ricerca svolta da un gruppo di esperti, guidato da Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli, da domani pubblicata da Amazon in due e-book di 600 pagine dal titolo 'Giovane Caravaggio. Le cento opere ritrovate'.

Attraverso un migliaio di immagini e puntuali confronti con i capolavori romani e napoletani del Merisi, le due pubblicazioni illustrano e ricostruiscono, in quattro lingue, la prima produzione artistica del genio lombardo, fino a oggi rimasta sconosciuta. Per due anni, gli studiosi hanno compiuto frequenti sopralluoghi nell'area di Caravaggio e nelle chiese milanesi ed hanno letteralmente setacciato il Fondo Peterzano, custodito nel Castello Sforzesco (di proprieta' del comune di Milano) e contenente 1.378 disegni del maestro e degli allievi che lavoravano con lui.

''Era impossibile che Caravaggio non avesse lasciato nessuna testimonianza della sua attivita' durata dal 1584 al 1588 presso la bottega di un pittore all'epoca famoso e ricercato'' sostiene Bernardelli Curuz, direttore artistico della Fondazione Brescia Musei. E infatti ha messo a punto una rigorosa metodologia di indagine che ha permesso in primo luogo di individuare il canone geometrico che sottende le raffigurazioni del primo periodo romano, i volti di efebo fino al 'Ragazzo morso dal ramarro'.

''Ogni pittore ne ha uno, come fosse una matrice stilistica'', sottolineano i due studiosi che quindi hanno proceduto a rintracciare quelle stesse proporzioni nei disegni di studio che ogni allievo aveva il compito di realizzare fino a impararli a memoria, declinandoli nelle piu' diverse fisionomie e posture. Dei circa cento disegni rinvenuti nel Fondo della Bottega di Peterzano, ben 83 ''saranno ripresi piu' volte nelle opere della maturita' - sottolineano - a dimostrazione che il giovane pittore parti' da Milano con canoni, modelli, teste di carattere e alcune possibili varianti stilistiche, pronti per essere utilizzati nei dipinti romani''. I due ricercatori hanno individuato il ''canone geometrico'' dei volti anche in un dipinto di Simone Peterzano, il ''quadrone'' nella chiesa milanese dei Santi Paolo e Barnaba in cui viene raffigurato 'Il Miracolo dei santi Paolo e Barnaba a Listri'', eseguito dal maestro manierista nel 1573, ma considerato da Roberto Longhi ''fortemente precaravaggesco''. Qui un sospetto gruppo di ritratti giustificherebbe l'intuizione di Longhi, in quanto quei personaggi sarebbero stati, come lo stesso Caravaggio, ancora troppo giovani per apparire in tali ruoli e fogge.

Le evidenti incongruenze temporali, e le diversita' di stile, hanno portato gli studiosi a indagare quello che ritengono un rifacimento eseguito nel 1590 dal Merisi, probabilmente proposto dalla sua storica protettrice Costanza Sforza Colonna, benefattrice dei Barnabiti. In quello che potrebbe essere stato il suo primo lavoro in autonomia, emerge ''una cifra di assoluta originalita''', senza contare, sottolinea Bernardelli Curuz, che almeno nove di quei ritratti tornano nella sua successiva produzione. ''Come la raffigurazione di Carlo Bascape', superiore generale dei Barnabiti e direttore spirituale di Costanza, che ha lo stesso volto di un personaggio dell''Ecce Homo' o quello di Alessandro Sauli che riappare nell''Incredulita' di San Tommaso'''.

Quella ''rapida e violenta modalita' di stesura del segno'' potrebbe infine essere la stessa che il giovane allievo infonde nelle brevi righe di un biglietto di protesta, anch'esso rinvenuto nel Fondo Peterzano, che ''mette in luce attriti e incomprensioni tra due temperamenti agli antipodi''. Il breve scritto e' stato sottoposto (ma solo in foto) a perizia grafologica in un confronto con ricevute vergate da Caravaggio nel 1605-1606. Per l'esperta grafologa Anna Grasso Rossetti, perita del tribunale di Brescia, i diversi biglietti sarebbero della stessa mano, quindi tutti autografi di Michelangelo Merisi detto il Caravaggio".


Nei disegni una mano forte e sporca

''Forte, veloce, ma sporca'', questa la mano del giovane Caravaggio secondo gli studiosi Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli che a Milano, nel Fondo del pittore manierista Simone Peterzano, hanno individuato un centinaio di disegni da loro attribuiti al Merisi.

Le 1.378 opere trovate nella bottega di quello che fu il maestro di Caravaggio dal 1584 al 1588 (dai 13 ai 18 anni di eta') sono state esaminate dai due storici dell'arte e dai loro collaboratori e quindi suddivise in tre blocchi, sulla base dell'unita' stilistica.

Oltre ai fogli di Peterzano, definito dalla Conconi ''disegnatore eccelso, capace pero' di appiattire con il colore ogni sua creazione'', gli studiosi hanno rinvenuto un nucleo in cui hanno iniziato ''a vedere i volti, i corpi, le scene che il giovane Merisi avrebbe applicato durante la maturita'''. Famoso proprio per aver sostituito nei suoi capolavori il disegno con ''incisioni sommarie'', Caravaggio avrebbe dunque impiegato gli anni del suo apprendistato proprio in questa attivita', che all'epoca era indispensabile per intraprendere il mestiere di pittore.

Ecco dunque volti, studi di mani, di piedi, toraci possenti o di fanciullo, musi di animali (cani, cavalli, asini, mucche), in un crescendo di padronanza tecnica che contrapporrebbe questo giovane allievo proprio a Peterzano. ''Le due mani non possono essere confuse - spiega la Conconi - quella del maestro e' estremamente pignola, precisa, mentre quella del Merisi adolescente e', come nei dipinti della maturita', potente, di grande resa realistica, ma qui ancora pasticciata''.

E infatti, nella fase di apprendimento, sottolinea, ''sbaglia e anche spesso, con alcuni errori che si radicano al punto di riapparire dopo anni nei dipinti piu' celebrati, come i musi delle mucche o i calcagni, di cui non diventera' mai padrone''. Dunque a fronte delle ''linee secche e geometriche, di grande perizia del maestro'', si evidenzia ''un tratto irruento, attento a rendere il dinamismo della figura grazie a linee a serpentina affiancate alle membra''. Una sorta di vibrazione del corpo, conclude la Conconi, che il Caravaggio maturo usera' spesso nei suoi capolavori.


La scoperta riscrive anche la biografia

Riscrive anche la biografia di Caravaggio la complessa indagine compiuta da Maurizio Bernardelli Curuz e Adriana Conconi Fedrigolli, che presenta per la prima volta un centinaio di disegni attribuiti dai due studiosi al giovane Michelangelo Merisi, quando era allievo del maestro manierista Simone Peterzano. Non solo i risultati della ricerca incrinerebbero la figura romantica del pittore maledetto, tutto genio e istinto, a favore di una visione piu' aderente al lavoro di bottega, con l'artista che costruisce in modo meticoloso i personaggi, le teste di carattere, in disegni e fogli che portera' con se' a Roma, un viaggio a lungo preparato (forse persino con un precedente soggiorno).

Si rivoluzionerebbero secondo l'indagine anche le note biografiche relative ai primi anni di vita e alla giovinezza, in particolare per l'appartenenza della madre Lucia Aratori al patriziato (con tanto di stemma) di Caravaggio, feudo degli Sforza. Proprio la vicinanza alla famiglia Sforza Colonna darebbe nuova luce all'infanzia e adolescenza del Merisi. Il nonno materno, Gian Giacomo, era agrimensore del paese e fiduciario dei marchesi. Uomo di cultura, a lui fu affidato Michelangelo mentre i genitori erano a Milano e forse, dice la Conconi, in quel periodo imparo' i rudimenti del disegno e conobbe la produzione caravaggina di Fermo Stella o del Moietta, e conobbe ''le sconvolgenti scene dei Sacri Monti'', piu' tardi entrate nel suo bagaglio figurativo. Di fondamentale importanza, la vicinanza con Costanza Sforza Colonna, il cui palazzo ospitava anche la residenza di Gian Giacomo Aratori.

La donna, spiega la Conconi, seguira' il Merisi per tutta la vita. Nella sua pinacoteca Michelangelo scoprira' i ritratti del Pulzone, che gli ispireranno, secondo la ricerca, il canone geometrico dei volti, mentre a Milano, dove si sposta anche Costanza quando Caravaggio inizia l'apprendistato da Peterzano, tramite la nobildonna si avvicina al potente ordine dei Barnabiti, presso i quali, dice la Conconi, avra' nel 1590 la prima commessa per un rifacimento dei un dipinto del maestro. Con Costanza, Caravaggio prepara lungamente la sua discesa a Roma.

''Con tutta probabilita' - racconta la studiosa - nella citta' dei papi il Merisi viveva nel palazzo della sua benefattrice e usava la dimora documentata dalle recenti scoperte archivistiche soltanto come studio''. La presenza della donna lo protegge sempre. Dopo la condanna a morte per l'uccisione di Ranuccio Tomassoni, trovera' riparo dai Colonna nei feudi laziali e a Napoli. Con l'intercessione del casato a Malta entra quindi in contatto con il gran maestro dell'ordine dei cavalieri di san Giovanni, Alof de Wignacourt, per riuscire a ottenere l'immunita'. Sempre da Costanza si rifugera' nell'ultimo soggiorno napoletano, prima delle vicende che porteranno alla sua morte, ancora oggi avvolta nel mistero. Fatto sta, conclude la Conconi, che fu sempre Costanza che ando' a riprendersi i suoi beni e a lei fu spedito il condono papale ormai inutile.


Gli studiosi: ecco la chiave della scoperta

''La madre di Caravaggio, Lucia Aratori, aveva speso una fortuna per pagargli la salata retta di allievo per quattro anni nella bottega di Simone Peterzano. Impossibile che non avesse voluto vedere i risultati, che non ci fossero i disegni''. Con questa certezza gli storici dell'arte Maurizio Bernardelli Curuz Guerrieri e Adriana Conconi Fedrigolli, autori di due e-book 'Giovane Caravaggio. Le cento opere ritrovate' in uscita domani, hanno avviato due anni fa una complessa e ponderosa indagine sfociata nel ritrovamento di un centinaio di opere da loro attribuite al giovane Merisi.

I primi decenni della vita del grande pittore lombardo, tra Caravaggio (Bergamo) e Milano, sono rimasti per secoli avvolti nella nebbia, con indizi sommari e confusi, poco indagati a confronto degli anni romani e successivi. ''Armati di follia, gusto per la sfida e passione - aggiunge la Conconi - abbiamo deciso di partire, anche se non sapevamo dove saremmo arrivati. Pero' una quindicina di disegni eravamo certi di trovarli''.

Il passo successivo, sottolinea Bernardelli Curuz, ''e' stato mettere a punto uno strumento metodologico. Abbiamo cominciato ad analizzare le prime opere che il Merisi ha realizzato a Roma, i volti di efebi che culminano con il 'Ragazzo morso dal ramarro' e da li' sono partito per individuare il 'canone geometrico' ideato dal pittore quando era allievo di Peterzano e che non ha mai abbandonato nella vita''.

Tutti gli artisti seguono questo percorso stilistico, ''una sorta di Dna strutturale''. Caravaggio avrebbe ricavato il suo dai ritratti del Pulzone, le cui opere poteva aver ammirato dalla sua protettrice Costanza Sforza Colonna: sei quadrati giustapposti, con cui l'artista avrebbe poi costruito i volti, facendoli ruotare per seguire le piu' svariate posture ed espressioni. Una volta trovato il 'canone geometrico', i due ricercatori hanno scelto di azzerare tutte le ipotesi su Peterzano pittore e sul suo rapporto con Caravaggio (1584-1588).

''Sedicente allievo di Tiziano, era un gran disegnatore e a Milano, all'epoca, rappresentava il nuovo - dice la Conconi -: per questo Lucia Aratori gli affida il figlio promettente''. Nel 'quadrone' dipinto nel 1573 per la chiesa milanese dei Santi Paolo e Barnaba e che raffigura 'Il Miracolo dei santi Paolo e Barnaba a Listri'', definito gia' da Roberto Longhi ''fortemente precaravaggesco'', hanno ritrovato, in un gruppo di ritratti eseguiti con un sorprendente realismo, in mezzo a una composizione tardo-manieristica, il 'canone geometrico' che contraddistinguerebbe Caravaggio.

E' stato risolto anche il problema della data, poiche' quegli stessi personaggi nel 1573 erano troppo giovani per ricoprire quei ruoli. Bernardelli Curuz e la Conconi hanno cosi' ipotizzato che nel 1590, forse con l'appoggio di Costanza Colonna, benefattrice dell'ordine, Caravaggio fu chiamato a integrare il dipinto del maestro. ''Forse e' stato il suo primo lavoro in autonomia'', dice Bernardelli Curuz. A ritroso, analizzata la pittura del Peterzano, i due studiosi hanno affrontato il Fondo con i disegni di maestro e allievi del Castello Sforzesco.

''Li abbiamo divisi in tre blocchi, in base dell'unita' stilistica - spiega Bernardelli Curuz - e nel secondo abbiamo iniziato a vedere i volti, i corpi, le scene che Caravaggio avrebbe applicato durante la maturita'''. Sono cosi' iniziati i confronti sul computer. ''Ottantatre' disegni dei cento da noi scoperti furono applicati dal Merisi nelle prove romane e post-romane. Cio' dimostra che Caravaggio era partito dalla Lombardia con un bagaglio figurativo molto ricco''.

L'ultimo atto e' stato il ritrovamento, sempre nel Fondo, di un biglietto con parole di protesta che, secondo gli studiosi, ''presentava nella grafia elementi di continuita' con il fare disegnativo di Caravaggio''. Il materiale e' stato esaminato da Anna Grasso Rossetti, perita grafologa del tribunale di Brescia che, dopo un confronto fotografico con due scritti del Merisi del 1605-1606, ha confermato l'ipotesi che anche il biglietto sia autografo di Caravaggio.



Qualche confronto



giovedì 21 giugno 2012

Michelangelo - Venere e Amore

Come sempre ci si va cauti ma l'ipotesi della (ri)scoperta di un Michelangelo è sempre affascinante, ancor più perchè la posa di Venere nella formella analizzata ricorda tanto l'Adamo della Sistina.

Una formella di marmo presente dal XVIII secolo nel Cortile di Michelozzo di Palazzo Medici Riccardi a Firenze sarebbe stata scolpita da Michelangelo Buonarroti, lo geniale scultore fiorentino del Rinascimento. A identificare la scultura, intitolata 'Venere e Amore' e rappresentante una donna con in braccio un bambino, sono stati i due storici dell'arte Gabriele Morolli e Alessandro Vezzosi.

Ulteriori studi e indagini saranno intrapresi; tuttavia, lo stile, i riferimenti iconografici e culturali, le misure della forma (originariamente l'opera doveva avere una larghezza di 67-68 cm, con un rapporto tra dimensioni di 2:3, tipico di Michelangelo) e, naturalmente, l'elevata qualità dell'opera fanno pensare che questa formella sia proprio una formella di Michelangelo.


Michelangelo (att.) Venere e Amore 

e naturalmente c'è il cartone michelangiolesco con questo soggetto dal quale Pontormo ha tratto la sua opera.


Un articolo più completo da Fiorentini nel Mondo

Attribuita al Buonarroti una formella di marmo nel Cortile di Michelozzo: raffigura l’abbraccio di una donna nuda con un bambino. “Talvolta, capolavori sconosciuti si nascondono, ovvero si mimetizzano, dinanzi a innumerevoli sguardi”, così un rilievo di marmo inserito nel Cortile di Michelozzo di Palazzo Medici Riccardi nei primi anni del XVIII secolo è oggi presentato come opera attribuibile a Michelangelo Buonarroti. La composizione, l’iconografia, i riferimenti letterari, l’altissima qualità, la tecnica e lo stile della scultura, i confronti e le coincidenze con le opere di Michelangelo, rendono l’attribuzione di questa formella al grande Maestro fiorentino molto più che un’ipotesi.
Quasi al centro di uno dei grandi “cartelloni” collocato sulla parete meridionale del cortile, esattamente quella verso l’angolo occidentale, il piccolo rilievo marmoreo, raffigurante una donna sdraiata teneramente abbracciata a un bambino, rivela la sua natura rinascimentale, benché sia stata inserita fra reperti in marmo greci e romani. La ricostruzione storica della collocazione di quest’opera risale a dopo che i Riccardi avevano acquistato, nel 1659, il Palazzo Medici di Cosimo il Vecchio in via Larga, capolavoro del XV secolo: nel primo Cinquecento lo studiò Leonardo, vi lavorò Michelangelo. Nel mirabile Antiquarium creato da Francesco Riccardi, alcuni pezzi furono oggetto di critiche da parte di studiosi che mettevano in dubbio l’antichità di alcuni frammenti. Il rilievo rinascimentale ora individuato potrebbe persino essere stato eseguito come un “falso-antico”, pratica nella quale si distinse lo stesso Buonarroti.

L’opera, rotta in più frammenti in epoca imprecisata, fu ricomposta e incastonata nell’attuale cornice prima del 1715, sicuramente prima del 1719, anno dell'ultimo pagamento dei lavori eseguiti da Foggini e dai suoi allievi per i Riccardi. Lo studio sulla “lastrina” e l’ipotesi di attribuzione del rilievo a Buonarroti è stata avanzata per la prima volta da Gabriele Morolli e Alessandro Vezzosi nel recentissimo volume “Michelangelo Assoluto”, edito da Scripta Maneant (Reggio Emilia, 2012), a cura dello stesso Vezzosi, con introduzioni di Carlo Pedretti e Claudio Strinati, contributi (oltre che di Morolli) di Lucilla Bardeschi Ciulich, Rab Hatfield, Marina Mattei, e arricchito dalle interpretazioni fotografiche di Aurelio Amendola.

“La Provincia di Firenze accoglie con molto entusiasmo questa ricerca, portata avanti con serietà e competenza – ha commentato il Presidente dell’amministrazione provinciale Andrea Barducci - . L’attribuzione del rilievo a Michelangelo è anche un’occasione per riscoprire le bellezze, spesso poco note, di Palazzo Medici Riccardi. Proprio per questo motivo, è stata messa in programma un’operazione di accurata ripulitura delle sculture conservate nel Cortile di Michelozzo”.

La lastrina di marmo misura attualmente cm 43,5x58, mentre - come ricostruisce Gabriele Morolli - le misure presumibilmente originarie dell’opera, di cui oggi non si vede il termine a destra, potevano raggiungere una larghezza di 67-68 cm, mentre l’altezza doveva essere di poco superiore a quella attuale. Una misura ‘non fiorentina’ – chiarisce Morolli – usata da Michelangelo in quanto diviso nella sua biografia artistica tra Firenze e Roma, e tendente alle proporzioni del rapporto 2:3 di quinta musicale. Il rilievo rinascimentale è stato denominato “Venere e Amore” nell’ambito di una ricerca che ha permesso di individuare chiari parallelismi e convergenze con i caratteri di molte opere di Michelangelo, a partire dal contrasto tra il levigato, il ruvido e il ‘non finito’.

La formella Riccardi potrebbe anche essere una traduzione scultorea della Venere e Cupido “disegnata da Michelangelo e colorata da Pontormo”, ideata dal Buonarroti tra il 1532 e il 1533 per la camera di Bartolomeo Bettini e rielaborata negli anni in almeno sedici dipinti identificati e in altri sedici documentati, oltre a disegni e cartoni, da artisti come Agnolo Tori detto il Bronzino e Giorgio Vasari (cfr. la mostra “Venere e Amore” del 2002 nella Galleria dell’Accademia). Ma per Morolli e Vezzosi è più probabile che sia invece un antecedente databile verso il 1504 e in relazione con il Tondo Pitti (Firenze, Bargello) e il Tondo Taddei (Londra, Royal Academy). Senza escludere tuttavia l’ipotesi suggestiva del periodo mediceo nel Giardino di San Marco, o “degli esperimenti antiquari” per Pierfrancesco de’ Medici (nell’ultimo decennio del ‘400). Interessante per l’analisi di questa Venere Medici-Riccardi, il confronto con disegni come la figura distesa nella Studio per un Baccanale di Bayonne (attribuito a Michelangelo da Tolnay e Buck) e il frammento che si conserva a Colonia nel Wallraf-Richartz-Museum. Entrambi potrebbero essere in relazione con una precedente idea compositiva di Michelangelo, o con varianti di cui si ha un’eco nel disegno dello stesso Pontormo che trasforma il bacio incestuoso nell’abbraccio di una Madonna che allatta.

Questa Venere Medici-Riccardi presenta sì la potenza dell’Amore, ma un nudo femminile meno eroico e più aggraziato, meno virile di quello di Michelangelo-Pontormo che l’Aretino lodava per aver fatto Michelangelo “nel corpo di femmina i muscoli di maschio”. La posizione di questa Venere presenta affinità compositive persino con l’Adamo nella volta della Cappella Sistina, con l’Aurora e la Notte nelle Cappelle Medicee, con il dipinto perduto (e il cartone) di Leda e il cigno, con Venere e Amore di Pontormo-Michelangelo (Firenze, Galleria dell’Accademia), e continuano con il Sogno della vita umana (Londra, Courtauld Institute) e con il disegno di Sansone e Dalila (Oxford, Ashmolean Museum), fino al San Paolo dell’affresco vaticano.

Risalta nel rilievo un senso astraente e dinamico nei volumi, sensibile in luce e in ombra, nell’invenzione e reinvenzione della posizione resa celebre verso il 1517-1520 dall’incisione di Marcantonio Raimondi da Raffaello; ma certo Michelangelo – afferma Vezzosi – non aveva bisogno di Raimondi per una simile soluzione iconografica di così “elegante vivacità d’artifizio”. Un nuovo riconoscimento di autografia riferita a Michelangelo è di estrema complessità. Ulteriori indagini e studi proseguiranno, insieme a nuovi confronti critici, per approfondire l’attribuzione del rilievo Medici-Riccardi al Buonarroti, ma già quanto evidenziato ha di per sé grande fascino e credibilità. “Anche se non fosse opera di Michelangelo ma di un suo seguace – commentano Morolli e Vezzosi – crediamo che l’individuazione di questo rilievo Medici-Riccardi raffigurante Venere e Amore rappresenti la sorprendente riscoperta di un raffinato, piccolo capolavoro”.

La lastrina in marmo - alta 43,5 cm e larga 58 circa - risulta ricomposta con 9 frammenti di differenti dimensioni: ha un bordo rilevato (un liscio nastrino a listello) sia sul lato verticale sinistro che su quello orizzontale superiore, che attualmente in basso e a destra. I personaggi scolpiti sono due. Una donna nuda è adagiata in una morbida posa, posta com’è sul fianco destro, sostenuta dal braccio elasticamente flesso e “puntellata” sul polso ripiegato e sulla mano rivolta verso l’esterno; mentre il braccio sinistro si protende nella porzione superiore del marmo. Il volto si presenta in un tagliente profilo, mentre le due gambe sono scolpite in ardito contrapposto: la destra completamente allungata e la sinistra fortemente ripiegata sin sotto la coscia.

Il fanciullo si avvita teneramente in grembo alla ‘madre’, ponendosi disinvoltamente a cavalcioni della coscia sinistra, stringendola con le gambette piegate e salendo con il piccolo busto lungo il petto della figura femminile, della quale il braccino sinistro cinge dolcemente il capo, in modo che la riccioluta testa del bambino possa giungere all'altezza del volto materno quasi a unire le labbra in un bacio. “Una composizione sapiente - nota Gabriele Morolli - dove ogni gesto è inserito in un contesto generale di accorti bilanciamenti e contrappunti. La superficie marmorea è lavorata in modo variegato: dalla finitura quasi perfetta di alcune parti alla sbozzatura meno definita di altre, fino a porzioni arditamente ‘non finite’, come i volti dei personaggi. Come in una seducente, generale impressione di work in progress, di ‘prova d’artista’”.

lunedì 17 ottobre 2011

Il San Girolamo in terracotta attribuito a Leonardo


In un passo delle Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori Giorgio Vasari parla della tecnica esperimentata da Leonardo da Vinci quando era ancora nella bottega fiorentina del Verrocchio suo maestro. Leonardo era solito «fare modelli di figure in terra e addosso a quelle metteva cenci molli interrati e poi con pazienza si metteva a ritrargli sopra a certe tele mollissime, e li lavorava di nero e bianco con la punta del pennello ch'era cosa meravigliosa». Il Verrocchio dovette impartire al geniale discepolo i primi rudimenti della pittura ma anche della scultura. Benché Leonardo ritenesse la pittura superiore alla scultura, racconta di essersi «adoperato» tanto nell'una che nell'altra arte «in un medesimo grado», cioè con pari diligenza e risultato. Poco dopo il 1480, in procinto di partire per Milano dove avrebbe prestato servizio alla corte del Moro, l'idea di realizzare il monumento equestre di Francesco Sforza cominciava a prendere consistenza e forma. Poi Leonardo giunse sino al penultimo stadio, portando a termine il modello in argilla o stucco, ma non concluse il lavoro che avrebbe dovuto prevedere la fusione in bronzo. Il colosso equino doveva essere di oltre sette metri di altezza e il peso della terra di fusione avvicinarsi alle cinquanta tonnellate. Di questa superba impresa rimangono alcuni disegni, sparsi in vari codici leonardeschi, dai quali si desume che il primo pensiero prevedeva un cavallo impennato; in seguito Leonardo aveva ripiegato, forse dietro suggerimento del Moro, su un cavallone al passo, solenne, tornito, e monumentale per vocazione. La scultura, celebrata in antico da molti eruditi, secondo Sabba da Castiglione impegnò l'autore per «sedeci anni continui», ma il modello di stucco già nel 1499 era stato fatto bersaglio dei balestrieri guasconi entrati a Milano con le truppe di Luigi XII, quando ancora il grandioso quadrupede si stagliava in un cortile del castello di Porta Giovia. Tuttavia nel 1501 il duca di Ferrara Ercole I d'Este lo aveva richiesto al cardinale di Rohan per farlo copiare. Più tardi andò distrutto. Di tutte le opere di scultura leonardesche, più o meno dettagliatamente citate dalle fonti antiche, non se n'è identificata una, ma visto che la pratica espletata da Leonardo nello scolpire e plasmare la terracotta, che doveva risultargli più congeniale del marmo per i suoi effetti pittorici, fu assidua, è impensabile che nemmeno un esempio di mano del grande maestro non sia sopravvissuto alle soppressioni.
La caccia a una scultura di Leonardo dura da tempo e ha visto impegnati studiosi di inossidabile serietà e pervicacia: tra gli scomparsi Sir John Pope-Hennessy, illuminato pioniere delle ricerche sul rinascimento italiano, nonché direttore del Victoria and Albert Museum di Londra, Kenneth Clark, W.R. Valentiner.
Le fonti antiche su Leonardo scultore ricordano «teste di femmine che ridono», «teste di putti», un Bambino Gesù in creta che fu di proprietà del cardinale Federigo Borromeo, probabile modelletto della testa di Gesù del quadro con Sant'Anna e forse da identificarsi con «la testicciola di terra di un Cristo mentre che era fanciullo» la quale, nel Cinquecento, era presso il pittore e trattatista milanese Giovan Paolo Lomazzo; «teste di vecchi» e cavallini in bronzo, come è quello del Museo di Budapest, che molti ritengono autografo e possibile prototipo del monumento a Gian Giacomo Trivulzio, che però non fu mai compiuto. Anche l'insieme delle sculture che oggi gli esperti attribuiscono a Leonardo è ben assortito, ma non ne esiste una sulla quale i massimi calibri dell'esegesi leonardesca siano concordi; ciò però non deve suscitare né meraviglia, né tantomeno scandalo, perché in materia d'arte, i dispareri fan parte integrante del mestiere. In un momento arroventato come l'attuale da altisonanti attribuzioni respinte, avanzarne una nuova a Leonardo scultore è un atto a dir poco di coraggio. Patrocinatore della proposta è un bravo studioso italiano, Edoardo Villata, che martedì prossimo, nel corso dell'importante convegno sulla terracotta del Quattrocento diretto da Maria Grazia Albertini Ottolenghi dell'Università Cattolica di Milano, farà il nome di Leonardo da Vinci per attribuire una paternità a un bellissimo e un po' negletto San Girolamo in meditazione, conservato nei depositi del Victoria and Albert Museum. La statua a tutto tondo misura circa cinquanta centimetri di altezza, ma il suo impianto grandioso la direbbe maggiore, elemento che di per sé depone a favore di una eccellente fattura, peraltro conclamata da ogni particolare. La storia di questa terracotta segue quella di molte opere d'arte che appartenevano alla sterminata raccolta di Giovan Petro Campana marchese di Calvelli, direttore, verso la metà dell'Ottocento, del Monte di Pietà di Roma, archeologo e collezionista tanto sfrenato negli acquisti e nel tenore di vita personale, da finire in miseria e in carcere con l'accusa di peculato e abuso d'ufficio. Nel 1854 la sua collezione era stimata quasi un milione di scudi. Per pagare i debiti fu dispersa in vari tronconi, perché non si era trovato nessuno disposto a rilevarla in blocco. Una parte fu acquistata dallo zar, un'altra da Napoleone III, che, per uno strano caso della sorte, alcuni anni prima era riuscito a fuggire di prigione con l'aiuto di tale signora Crowford, futura suocera del Campana. Il lotto dove si conservava anche il San Girolamo venne comperato dal South Kensigton Museum di Londra, odierno Victoria and Albert. Ma prima di passare al Campana, la magnifica terracotta era appartenuta a Ottavio Gigli, pedagogo, patriota e collezionista fiorentino fondatore di asili e del periodico cattolico «L'Artigianello». Il San Girolamo, attribuito per lungo tempo al Verrocchio, nel 1964 fu declassato da Sir John Pope-Hennessy a opera di un seguace del Verrocchio degli inizi del Cinquecento e poi ritenuta di uno scultore fiorentino, Giovan Francesco Rustici, che molto aveva attinto da Leonardo. Rustici è l'autore dello spettacolare gruppo bronzeo con la Predica del Battista, all'esterno del Battistero di San Giovanni a Firenze. Attribuendo la terracotta a Leonardo in persona, Villata si scontra con l'autorità di Pope-Hennessy e di alcuni insigni studiosi, quale Olga Raggio, per non dire dei viventi. Ma quali sono le ragioni che legittimano l'ipotesi attributiva di Edoardo Villata? Innanzitutto la qualità del San Girolamo, che è elevatissima, come vediamo nell'energia di sintesi plastica racchiusa nella «organicità della posa» del vecchio dottore della Chiesa che nella destra regge il libro e con la sinistra si accarezza la barba. Si coglie sul volto del santo filosofo un sorriso appena accennato che denota il compiaciuto raggiungimento della conoscenza delle verità eterne e che affiora nell'intensità della concentrazione e dell'espressione. Ma per vibrare il nome di Leonardo quel che più conta sono i molteplici riferimenti al suo stile. Forse il più sorprendente è la mano destra di San Girolamo, affusolata e un po' irrigidita, che richiama subito quella della Dama dell'ermellino, la cui mano, secondo una recente ipotesi, non venne ritratta dal vivo bensì da un modello plastico. Poi entrano in gioco, more solito, i panneggi leonardeschi, molto vicini a quelli del mantello indossato da San Girolamo. Da ultimo Villata rimarca giustamente che nella terracotta di Londra non vi è il benché minimo cenno di influenze michelangiolesche, che in un qualunque scultore attivo a Firenze dopo il 1.500 sarebbero immancabili.


Questa attribuzione, audace ma non peregrina, scatenerà discussioni e dissensi ma anche consensi, e il fatto che venga pubblicata in grande evidenza sul prossimo numero della «Raccolta Vinciana» (XXXIV fascicolo, 2011, in corso di stampa), prestigioso periodico biennale dedicato ai più approfonditi studi leonardeschi, è un fatto di indubbio conforto.


Tra le altre terrecotte attribuite vorrei mettere in evidenza questa bellissima testa dolente, forse di un san Girolamo, considerata all'inizio del Verrocchio...

 e il Christo Fanciullo dalla collezione Eredi Gallandt



domenica 16 ottobre 2011

Un (auto?)ritratto sconosciuto di Michelangelo

Rimarrà esposto al Castello nella città di nascita di Michelangelo Buonarroti, Caprese Michelangelo, sino al 30 ottobre un tondo di marmo, mai mostrato, se si esclude una giornata del 2005 al Museo Ideale di Vinci, perché conservato nella collezione privata di una nobile famiglia toscana, assegnato al maestro da James Beck (4 anni fa) e da Claudio Strinati (oggi). La piccola scultura ad altorilievo di 36 centimetri di diametro secondo questi studiosi sarebbe un autoritratto di Michelangelo: la tecnica e gli strumenti utilizzati per realizzare l'opera, secondo Strinati, non lascerebbero dubbi. Il marmo raffigura un uomo barbuto e anziano e secondo gli studiosi potrebbe essere assegnato al 1545 circa e provenire dal complesso funerario della tomba di papa Giulio II realizzata da Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli di Roma. Spiega Strinati, già soprintendente di Roma e oggi dirigente del Mibac: «La prima testimonianza documentata su questa scultura compare in una guida turistica del '700 relativa a Pisa, dove si parla di un possibile autoritratto di Michelangelo in una collezione della città. Ma ci sono altri indizi: la composizione chimica del marmo è la stessa del materiale delle cave di Polvaccio, sulle Apuane, dove si riforniva abitualmente Buonarroti. Infine il ritratto potrebbe esser stato fatto con scalpelli a lame larghe e con un trapano, lavorazione compatibile con le metodologie di Michelangelo». (Il Giornale dell'Arte)

Tondo con ritratto di Michelangelo
ames Beck, professore di storia dell'arte alla Columbia University di New York, sembra esserne certo: ''Quel tondo di circa 35 centimetri raffigurante un uomo con la barba, sarebbe un autoritratto scolpito su marmo di Carrara dalla mano di Michelangelo''. E se così fosse, l'autoritratto scolpito dal Maestro fiorentino quando aveva circa 70 anni, avrebbe un valore intorno ai 100 milioni di dollari. 
La convinzione dello studioso americano non è recente, già 1999 James Beck pubblicò un saggio sul Buonarroti dal titolo ''Tre parole su Michelangelo'' in cui per la prima volta il professore attribuì il tondo al genio della Cappella Sistina. 

''È un'opera eccezionale, di grandissimo pregio, a mio parere di Michelangelo'', dice il professor Beck che basa la sua tesi su caratteristiche del tondo sia artistiche sia in parte scientifiche. Innanzi tutto l'espressione. La mano che ha scolpito il tondo è riuscita a rendere al contempo lo sguardo verso l'infinito e l'ideale e un occhio di disprezzo per la mortalità della vita terrena. Pensiero, questo, tipico della visione neo platonica michelangiolesca. Un'espressione molto simile a quella del Nicodemo della Pietà, conservata al museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze a cui Michelangelo lavorò dal 1547 al 1555. James Beck data il tondo nel periodo che va dal 1545 al 1555, il che però non è confermato né nella celeberrima biografia di Michelangelo di Giorgio Vasari, né in quella dell'assistente e biografo del genio fiorentino Ascanio Condivi. 

A dare forza alla tesi del professore della Columbia e a distinguere quest'opera da tutte la altre che con superficialità nella storia sono state attribuite a Michelangelo sarebbero la qualità e la raffinatezza della scultura. Le caratteristiche del viso, rese così bene nel marmo, ricordano in modo impressionante quelle del ritratto del maestro fiorentino dipinto da Jacopo del Conte, quando Michelangelo era ancora vivo. Da un punto di vista scientifico è praticamente impossibile datare il momento della scultura. I test che si possono applicare ci parlano solo dell'età geologica di quel marmo, un'età che non ha nulla a che vedere con la sua lavorazione. 
Ma il professor Corrado Graziu dell'Università di Pisa ha scoperto il luogo di origine del marmo utilizzato per il tondo. Non solo si tratta di Carrara, ma proprio della cava del Polvaccio, il sito noto anche come la 'Cava di Michelangelo', perché Michelangelo lavorava principalmente il marmo estratto da li'. 
Infine un ultimo dato interessante scoperto dal professore Graziu e considerato fondamentale dal professore della Columbia: il tondo è stato esposto per 150 anni ad agenti atmosferici e poi ripulito con degli acidi le cui tracce sono ancora presenti sul tondo. Questo spiegherebbe come mai la superficie dell'opera sia così liscia. ''La questione della superficie della scultura mi aveva sempre preoccupato - ha raccontato il professor Beck al quotidiano newyorkese 'New York Sun' - perché Michelangelo nel periodo in cui ho datato il tondo, aveva elaborato lo stile del 'non finito''' quello, per esempio, della Pietà Rondanini. (Guidasicilia)

Pietà Bandini - part. Nicodemo

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