mercoledì 26 gennaio 2011

Il Gruppo Solare. Appunti per una storia delle arti visive in Molise.


Trovo che il Molise sia una realtà, dal punto di vista artistico, interessantissima anche perché poco analizzata e storicizzata a livello nazionale sebbene abbia prodotto eventi e movimenti di indubbio valore che, pur ricevendo poca eco sulle pagine delle grandi riviste d’arte, hanno avuto il merito di smuovere un ambiente da un certo punto di vista ancora chiuso e arretrato. Mi riferisco alle annuali mostre Fuoriluogo nella galleria Limiti Inchiusi a Campobasso, all’esperienza di Kalenarte a Casacalenda (CB), alla rassegna d’arte contemporanea di Macchia d’Isernia (IS) o al recente progetto portato avanti da Lorenzo Canova  con l’Aratro, archivio delle arti elettroniche e laboratorio per l’arte contemporanea dell’Università degli studi del Molise. Interessanti le attività del MACI, Museo d’Arte contemporanea di Isernia, sotto la guida di Luca Beatrice, con eventi dal respiro internazionale che però si rivelano inutili in assenza di una politica culturale rivolta in primo luogo al territorio, da intendere quale indispensabile base di partenza. Significativo, infine, il Premio Termoli, l’unica esperienza artistica di valenza internazionale operante in regione, giunto alla sua 55° edizione e quest’anno curato da Miriam Mirolla con il progetto IMAGO. Proprio Termoli si segnala quale il centro che più di altri ha prodotto in Molise esperienze rilevanti circa l’arte contemporanea. Nel 1985 viene fondato da Nino Barone, Ernesto Saquella, Michele Peri ed Elio Cavone, il Gruppo di Orientamento mentre nel 1998 vi nasce il movimento d’arte internazionale Archetyp’art. Ideatore, insieme all’artista Nino Barone, è Antonio Picariello, critico d’arte militante e tra i più significativi studiosi del contemporaneo in Molise[1]. Da sottolineare, infine, sempre a Termoli la manifestazione Tracker Art, ovvero il convegno della nuova critica d’arte italiana giunto alla sua 6° edizione e che ha accolto, negli anni, interventi di importanti critici quali Omar Calabrese, Giuseppe Siano, Silvia Bordini, Antonio Gasbarrini, Paola Ferraris. Alle origini di tutto ciò si colloca l’attività artistica del Gruppo Solare, il primo laboratorio di arti visive del Molise e primo movimento in regione con un preciso programma culturale e teorico. Dopo aver ritrovato forse l’unico libro pubblicato sull’argomento[2], superati ormai i vent’anni dallo scioglimento del gruppo, ritengo opportuno tracciare le linee di una storia affascinante e nascosta che, spero, venga maggiormente studiata.
La prima manifestazione che vede attivo il gruppo risale al 1976 a Termoli; l’intenzione è quella di denunciare la poca attenzione del comune per la valorizzazione e il turismo. Parteciparono Nicola di Pardo, Mimmo di Domenico, Nino Barone, Salvatore Martinucci, Nicola di Pietrantonio e Rocco Ragni. Le motivazioni che spinsero a questa azione sono da ricercare nel confronto dialettico di due culture diverse e quasi antitetiche che si sono trovate ad agire sul territorio: da una parte quella settentrionale giunta in relazione all’insediamento industriale della FIAT nel Molise, dall’altra la cultura locale. Già da questo primo evento si nota lo stretto legame del gruppo col territorio e il tentativo, tramite forme d’arte estemporanea, di scuotere l’opinione pubblica.


Nel mese di agosto del 1977, sempre a Termoli, il Gruppo da vita ad un evento che prevede la realizzazione, in piazza, di grandi pannelli raffiguranti l’uomo nella società in relazione all’ambiente, alla religione, allo stato. Lo stile adottato è un realismo di stampo espressionista, con l’uso di colori contrastanti e segni induriti, forti linee di contorno e una struttura della scena intesa quale palinsesto di memorie e impressioni; i riferimenti possono andare da espressionisti ante-litteram quali Goya (con le pitture dalla Quinta del Sordo) e Daumier a Ensor e Rouault fino a giungere ai muralisti messicani, Orozco su tutti. C’è però ben altro in queste pitture e lo sottolinea bene Jolanda Covre nella nota introduttiva al testo: “Ecco allora che la vostra gioia di dipingere, la dimensione narrativa che non abbandonate mai, l’improvvisazione del lavorare in pubblico con un’aria tra la festa e la protesta, sono, a modo loro, gesto e comportamento. Ma non per programma, che significherebbe essere nuovi, bensì per istinto”[3].


Da queste prime manifestazioni si nota come il Gruppo mira a ridefinire il ruolo dell’artista nella società in cui opera, ponendosi quale elemento di rottura e di presa di coscienza. La sua è un’azione “politica” nel senso che è indirizzata alla polis. Gli artisti cercano il contatto e il dialogo con le masse, coinvolgendo il popolo nell’azione e nella struttura delle tele; fanno dell’arte una vera e propria esperienza comunicabile e trasmettibile, non abbandonando mai la “tradizione” e non cadendo mai nell’originalità a tutti i costi. “Noi non crediamo nell’artista inteso nella maniera tradizionale, cioè un uomo al di fuori della realtà umana, estroso, esaltato, traviato, ma in un uomo con i limiti, i difetti e i pregi di tutti, che trasmette attraverso le proprie opere la sua esperienza e cerca il confronto con gli altri per ritrovare la sua vera dimensione”[4]. Il discorso portato avanti dal Gruppo è antico: come moderni saltimbanchi gli artisti scelgono la piazza come luogo deputato alle loro azioni e rifiutano il fruitore “tipo” poiché il pubblico è dato dalle persone comuni coinvolte nella scena, persone alienate da simili esperienze culturali. La formula è a metà strada tra la performance e l’estemporanea, i murales realizzati sono invece anti-prodotti artistici in quanto frutto di azione spontanea e non di logiche di mercato. La loro arte, allora, è veramente arte pubblica intrisa di una forte componente etica.
Dopo la realizzazione dei pannelli sul tema “L’Uomo” nel 1978 il Gruppo torna a riunirsi per la manifestazione antinucleare in Piazza Principe di Piemonte a Termoli. Realizzano allora la loro “azione” più incisiva dipingendo carcasse metalliche di oggetti di consumo (automobili, frigoriferi, lavatrici, televisori). Chiamano le loro decorazioni “Tributi in natura” e le considerano un’affermazione della creatività e della vita sul progresso più becero volto al consumo.


Sempre nel 1978 il Gruppo, volendo dimostrarsi ancor più legato al territorio, comincia ad interessarsi alle tradizioni delle diverse civiltà presenti nel Molise e alla “storia vissuta” delle civiltà contadine. Cominciano allora una serie di eventi che hanno come idea di fondo la riscoperta, attraverso i segni e la pittura (e quindi ancora una volta il linguaggio del passato), delle più importanti sagre regionali, contro la civiltà contemporanea sorda verso il locale. L’idea è quella di un intervento diretto nel territorio molisano durante le più importanti manifestazioni religiose. La formula adottata è quella della realizzazione in estemporanea di grandi pannelli che sintetizzino i temi (antropologici, religiosi, sociali, storici) dell’evento. Il linguaggio, ancora una volta, non abbandona la forma e, pur cercando la sintesi e la bidimensionalità, evita la dispersione delle idee nell’informale. Si ha quindi una sovrapposizione di prospettive, di scorci autonomi, di volti ma mai la perdita della figurazione. Nel 1978 il Gruppo agisce e opera nella festa di San Pardo a Larino, nella festa di Sant’Antonio a Montecilfone, a Santa Cristina a Campomarino e durante la Carrese a Portocannone. Sempre nel 1978 gli artisti, legati all’idea di arte per tutti, fondano una scuola di pittura aperta a bambini e ragazzi: la Scuola Solare.
Nel 1980, infine, il Gruppo si scioglie per divergenze culturali e stilistiche tra i componenti in quanto gli artisti più giovani spingevano verso un’interpretazione astratto-concreta della realtà, mentre i membri più anziani insistevano sul linguaggio della tradizione e sulle tematiche a sfondo sociale.
Rimane però il segno di un’esperienza artistica unica, in Molise e forse in Italia, che ha lasciato i suoi frutti anche solo per aver smosso le acque di un ambiente culturale ancora poco aggiornato[5].

Tommaso EVANGELISTA




[1] Cfr. A. Picariello, Molise Mon Amour. Diario di un critico d’arte, Ferrazzano 2000.
[2] N. Barone, Gruppo Solare, Termoli 1999.
[3] N. Barone, op. cit., p. 8
[4] N. Barone, op. cit., p. 25
[5] Le immagini fotografiche sono state realizzate da Antonio Landolfi, Gino Giancristoforo e Salvatore Marinucci.

lunedì 24 gennaio 2011

Vip art fair - la fiera d'arte online

Prima dell'attesissima artefiera di Bologna, da non perdere la prima fiera virtuale d'arte contemporanea http://vipartfair.com/, progetto interessante e forse rivoluzionario, con tanto di vernissage e stand. per visitarla occorre registrarsi e poi si può girare per le gallerie e fruire e acquistare le opere.

"Il nuovo decennio del secolo si apre con una sfida: una fiera d'arte completamente online, la VIP Art Fair, che si svolgerà dal 22 al 30 gennaio sul sito www.vipartfair.com. Hanno aderito all'iniziativa, promossa dai galleristi James e Jane Cohan e dagli imprenditori (e collezionisti) della Silicon Valley Jonas e Alessandra Almgren, 139 gallerie da 30 paesi, tra cui molti big come Gagosian e White Cube. Dal l'Italia hanno aderito quattro galleristi: Massimo De Carlo, Lia Rumma Continua e Tucci. L'evento vanta partner di prestigio come Axa Art e «The Art Newspaper». Gli organizzatori esaltano i vantaggi per le gallerie: la possibilità di raggiungere collezionisti in ogni punto del globo, soprattutto Asia e Medio Oriente, la flessibilità nella scelta delle opere da presentare, il risparmio sui costi di trasporto e assicurazione, ma anche l'assenza di un timore reverenziale che frena molti potenziali acquirenti. Ma si può davvero comprare arte senza apprezzarla di persona?
Per alcuni è già un'abitudine: Emmanuel Perrotin ha venduto con successo molte opere di Murakami sulla base di fotografie. Anche Ales Ortuzar, direttore da David Zwirner, che presenterà opere da 4mila a 1,5 milioni di dollari, riferisce che molti clienti acquistano dopo aver visto le opere solo "jpeg"(formato elettronico delle immagini). Ma non è così per tutti: da Johann König non c'è cliente che non abbia visto l'opera dal vivo prima di comprarla. E il rapporto con il gallerista? Non si mette in pericolo il suo ruolo d'intermediario, se tutto avviene online?
«Se i collezionisti hanno l'abitudine di comprare da catalogo presso le aste – risponde Lisa Tucci Russo –, crediamo si rendano conto di quante garanzie in più possono avere acquistando, seppure in una fiera online, direttamente dalle gallerie che danno una garanzia di professionalità e hanno il contatto diretto con gli artisti». E anche per Gregor Hose, manager da Johann König, è convinto: «È la personalità del gallerista a garantire il successo. Nessun acquisto avviene senza che il cliente conosca il gallerista. La fiera online è un di più che non sostituisce il mercato tradizionale».
Certo il binomio arte-internet è sempre più forte, già le case d'asta ne fanno uso, così come i siti quali Artnet e Artprice. Alla fine del 2010 anche Gagosian è entrato nel mondo virtuale col sito Art.sy, promosso insieme all'ereditiera Dasha Zhukova, a Wendi Murdoch (moglie di Rupert), al ceo di Google Eric Schmidt e al creatore di Twitter Jack Dorsey.
Su Independent Collectors, il social network per collezionisti, la notizia della VIP Art Fair è stata discussa con curiosità ma anche scetticismo. Christian Schwarm, fondatore del sito, ha già comprato opere su internet, ma parla di coesistenza più che di sostituzione dei due mercati, quello virtuale e quello reale.
Come si svolgerà la fiera?
L'accesso è gratuito. Sarà possibile visitare gli stand partendo dalla mappa, o seguendo tour creati da curatori e collezionisti. Grazie ad una tecnologia innovativa sarà possibile zoomare le opere e rapportarne le dimensioni alla figura umana. Il contatto col gallerista sarà garantito da chat, skype e telefono, ma solo per i possessori di pass VIP (chi non l'ha ricevuto dalla sua galleria può acquistarlo per 100 $ nel weekend d'apertura e a 20 $ nei giorni successivi). Il gallerista potrà invitare il potenziale acquirente nella sua private room per mostrargli opere non esposte, mentre i collezionisti avranno modo di incontrarsi nella VIP lounge virtuale dove saranno comunicate le nuove opere in vendita e le news dal mercato. La quota di partecipazione per le gallerie va da 5mila a 20mila $, mentre le opere in vendita vanno da 5mila $ fino a superare il milione". (Fonte Sole24ore)


giovedì 20 gennaio 2011

Fluxus - Performance e Films


Fluxus è il geniale gruppo neo dadaista nato nel 1961 e che ha rivoluzionato il linguaggio dell'arte con le sue performance in bilico tra azionismo e contestazione. Come auspicava John Cage, tra i padri putativi di Fluxus: “L’arte è in procinto di diventare se stessa: vita”.
Da questo link un elenco delle loro innumerevoli performance. Da quest'altro sito, invece, 37 Short Fluxus Films (1962-1970).


Far soldi coi musei? Un'utopia

Interessante articolo di Angela Vettese sulla situazione odierna dei musei d'arte contemporanea, sempre più scatoloni vuoti da riempire con mostre non sempre all'altezza e che non richiamano pubblico sufficiente. Le spese allora, in particolare in Italia, ricadono sullo Stato che non ne vuole sapere di investire in cultura e informazione.



Far soldi coi musei? Un'utopia

di Angela Vettese


Un museo d'arte contemporanea può reggersi sulle sue gambe e non vivere di denaro a fondo perso, pubblico o privato che sia? Secondo il direttore generale per la Valorizzazione del patrimonio culturale, Mario Resca, si può e si deve. Lo ha ribadito anche al Maga di Gallarate, nel discorso inaugurale della mostra «Cosa fa la mia anima mentre sto lavorando». Ma i dati dicono di no.

Se ne è discusso mercoledì pomeriggio presso la Fondazione Antonio Ratti di Como, dove Stefano Baia Curioni ha presentato un abbozzo delle ricerche fatte dal centro Ask dell'Università Bocconi, nel corso degli ultimi cinque anni, con Paola Dubini, Laura Forti e Luca Martinazzoli. Il documento unitario che le raccoglierà sarà prezioso.

Inutile pensare che il patrimonio culturale sia il petrolio italiano, con una litania che innervosisce chiunque debba mantenere anche solo la casa di campagna dei nonni. Nell'arte contemporanea le cose poi vanno assai peggio, soprattutto dall'esplosione del numero di musei: oltre duecento new entry in Europa a partire dal 2005. Molti hanno preso la forma di costruzioni concepite negli anni Novanta secondo scuole architettoniche anni Ottanta, insomma quando denaro abbondava. E ora?

I numeri sono secchi, ma molto più complicati da interpretare di una qualsiasi partita doppia. Un visitatore non rende, per quanto alto sia il biglietto d'ingresso. Alla Tate Modern, il posto al mondo dove probabilmente costa meno – e infatti il museo londinese può permettersi di mantenere vaste zone gratuite – non si superano i 16 euro (di conti in rosso) a persona e ciò consente di coprire quasi interamente gli oneri di gestione del museo, che nel 2007 ha avuto 5.236.702 ingressi. Ma non certo di guadagnarci. Alla Triennale di Milano saliamo a 41 euro a visitatore, nonostante il fuoco d'artificio di mostre della gestione Rampello, che ha condotto nello stesso anno a 472.026 presenze.

Questo semplice paragone la dice lunga sul fatto che non si possono confrontare le vicende economiche di musei che si rivolgono a metropoli in cui abitano venti milioni di abitanti con quelle che toccano le nostre piccole città, dove soltanto Roma supera i due milioni di anime. Dati che riguardano i vasti flussi che occupano il Maxxi e il Macro della capitale, uno di recente apertura, l'altro di recente ristrutturazione, non si conoscono ancora (mentre quelli della Galleria Nazionale restano sconfortanti) ma risulta difficile pensare che possano giungere ai numeri della Tate: Londra è bella ma Roma lo è di più, e le cose dai cui un turista è attratto nella Città Eterna sono maggiori di quelle sotto il Big Ben.

Le realtà piccole e spesso propositive risultano poi le vittime della situazione: la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino ha raggiunto gli 89.892 visitatori nell'anno 2005, con un costo più che ragionevole di 21 euro a persona. Con tutto questo, però, si pone ai vertici più bassi tra i musei presi in esame per il rapporto con i costi di gestione, assorbiti in parte davvero minima dall'introito dei biglietti. Immaginiamo cosa possa accadere nelle molte gallerie civiche, sorte o risorte nel nostro territorio in tempi recenti. Quella di Bologna, il MamBo, ha registrato 93.942 visitatori per un costo a persona di circa 41 euro.

Il discorso è ancora più complesso se ci si chiede cosa significhino i numeri. La GaMec di Bergamo si attesta sui circa 90.000 visitatori l'anno da molto tempo, un orgoglio se si pensa che la città lombarda è lungamente stata refrattaria al contemporaneo: la cifra è comparabile ai 108.000 visitatori registrati da Rivoli nel 2009 (meno della metà di quelli del Mart di Rovereto nel 2007). Ma, fatto salvo l'attivismo bergamasco e trentino, è sufficiente un risultato non eccellente per crocifiggere il glorioso Castello piemontese, di cui un "si dice" insistente parla di 100 euro di costo a persona? No, perché tutti sappiamo quanto sia mal collegato e difficile da inserire in una passeggiata del sabato pomeriggio. Resta l'unico museo italiano che ha davvero investito nella propria collezione, un parametro che si dimentica troppo facilmente ma che è essenziale perché riguarda gli anni a venire.

Va ricordato, inoltre, che un patrimonio non si dovrebbe conteggiare solo a partire da ciò che si ha e si può dare, ma anche da ciò che consente di ricevere. Ora, la maggior parte dei musei italiani non ha la fiducia degli operatori stranieri, che non prestano volentieri né mostre né opere singole (a meno che non gli si prometta un Mantegna in cambio, diciamo, di un Francis Bacon). Non si tratta solo di uscite di sicurezza e di macchine che controllano l'umidità: per fortuna ora la maggior parte dei nostri centri espositivi segue le norme internazionali. Ma riflettiamo sul perché a Vercelli si siano potute avere più mostre dalla collezione Guggenheim di New York, la quale invece non ha voluto prestare quasi nulla a Villa Panza di Biumo neppure opere che erano state proprietà del grande collezionista Giuseppe. Il fatto è che non si fidano di noi, the italians. E che a Vercelli il Guggenheim ha una costola che controlla direttamente.

E ancora: la Biennale di Venezia, nostra signora delle mostre, non raggiunge mai il mezzo milione di visitatori. Ma nessuno specialista se la perde. Per un artista, vale di più essere in mezzo al calderone della Tate o in Laguna? Anche questo è un parametro significativo benché impossibile da quantificare. Fare fruttare un posto significa anche far sì che abbia vantaggi competitivi specifici: per esempio che rappresenti un gradino saliente nella visibilità dell'artista presso gli specialisti; che dia origine all'occasione per nuove mostre; che entri nelle recensioni delle riviste di prestigio. Chi sa come costruire un brand di successo non conta quanti prodotti vende, ma a chi. Chi fa scarpe le vuole (anzi le deve) vendere dapprima a Notting Hill e non nella grande Mosca.

Le amministrazioni che si sono contese mostre famigerate tipo Gli impressionisti e la neve (Torino 2004) hanno raggiunto dei bei numeri, ma al posto che le ha ospitate (nella fattispecie la Promotrice di Belle Arti) quanto a reputazione non resta niente. Infatti, è raro che una delle mostre più visitate in Italia, cioè di quelle che mandano in sollucchero gli assessori perché fanno loro esibire dati da capogiro, mandino in visibilio anche i direttori delle sedi espositive d'Oltralpe: se è vero che non importiamo abbastanza, nell'ambito del contemporaneo e anche dell'Otto-Novecento, non esportiamo nemmeno. Sostanzialmente siamo fuori rete, se non per quelle due o tre realtà che si sono citate sopra.

E allora ha forse ragione Pierluigi Sacco (anche lui presente alla Ratti) preside allo Iulm di Milano e da anni impegnato nella disamina di questi processi: il «distretto culturale evoluto», ciò su cui noi italiani dovremmo investire, non è fatto per conti di breve termine e nemmeno perché i nostri beni imparino a mantenersi da sé. Una politica del «patrimonio come petrolio» regge solo se si dimenticano i conti della spesa (e della mera conservazione) per fare quelli con la storia. Futura, of course, guardando avanti.

mercoledì 19 gennaio 2011

Iconografie strane - Cristo sale sulla Croce

Posto l'immagine dalla chiesa di S.ANTONIO IN POLESINE a Ferrara con Gesù che sale alla croce (Scuola giottesca emiliana sec.XIV). Vi è la rarissima scena (è la prima che trovo) di Gesù che sale spontaneamente sulla scala della Croce. L'immagine è forse legata a qualche movimento eretico e la scala potrebbe essere simbolica, a marcare il fatto che il Cristo, stanco dei mali del mondo, va a morire.


Come segnalato da un commento segnalo questo link che forse spiega l'argomento e fornisce un minimo di bibliografia; si fa riferimento in particolare alla Meditazione sulla Passione dello Pseudo-Beda e ad alcuni scritti di pacino Di Bonaguida. Dalla pagina ho prelevato l'altra immagine con la medesima iconografia.


martedì 11 gennaio 2011

Iconografia sacra - I santi e gli episodi del Vangelo


Fa sempre bene un ripasso di iconografia sacra, specie se attraverso video fatti come si deve e approfonditi dal punto di vista artistico e dogmatico. Segnalo pertanto questi video dal blog religione 2.0. Si tratta dell'analisi dell'iconografia di alcuni santi e di episodi del Vangelo. In basso l'elenco con i link.







venerdì 7 gennaio 2011

Van Gogh e Gauguin a Arles. Lo studio del Sud


E ritornando sulla mostra di Van Gogh a Roma, approfondendo la notizia della messa in asta di una delle tele con girasoli che Gaugain dedicò all'amico-nemico Vincent (la tela col famoso occhio di Dio incastonato nel girasole), trovo notizia di una mostra datata ma, a mio avviso, tra le più significative realizzate sull'olandese. la mostra, realizzata a Chicago e Amsterdam nel 2002, si intitola Van Gogh e Gauguin, Lo studio del Sud, e indaga quel complesso rapporto di odio/amore che nacque tra i due artisti nei fatidici 63 giorni di permanenza di Gauguin ad Arles, rapporto fatto sopratutto di differenze di concezione sull'arte. van Gogh convinto della necessità di confrontarsi sempre con la natura, Gauguin fautore di un'arte simbolica e immaginifica, lontana dalla realtà. Una delle pagine più belle e drammatiche dell'impressionismo e dell'intera storia dell'arte che si conclude, la sera della partenza di Gauguin, col famoso episodio dell'orecchio. Così scriveva il giornale di Arles in giorno seguente "Domenica, alle undici e mezzo di sera, tale Vincent van Gogh, pittore nativo olandese, si è presentato alla casa di tolleranza N.1, ha chiesto di tale Rachel e le ha dato il suo orecchio dicendo: "Conservalo come un oggetto prezioso". Poi è scomparso. Informata di questo fatto, che non poteva essere che opera di un povero alienato, la polizia si è recata l'indomani matina presso questo individuo e lo ha trovato coricato nel suo letto senza quasi dare più segno di vita".


Riporto, riguardo alla mostra, questo esauriente articolo

"Il nostro dovere è pensare, non sognare". Firmato Vincent Van Gogh. Destinatario Paul Gauguin. Basterebbe questa sentenza, con cui di fatto si chiuse una breve e intensissima amicizia, per descrivere i caratteri di due esperienze opposte e incomunicabili. Se c’erano dei dubbi sulla radicale differenza che oppose l’uno all’altro i due mitici maestri dell’arte moderna, la mostra aperta prima a Chicago e poi ad Amsterdam li ha davvero fugati tutti. Una mostra straordinaria proprio per la chiarezza con cui si sono lasciate parlare, quasi gridare, le differenze. Una mostra d’impatto tale da non aver quasi bisogno di didascalie o di contestualizzazioni: il semplice accostare le opere che i due avevano dipinto nelle stesse ore e negli stessi luoghi in quei 63 giorni di vita comune ad Arles, imponeva evidenze elementari. Sarà stato anche questo fattore ad aver determinato il successo dell’esposizione, visitata da quasi un milione e mezzo di persone nelle due sedi? C’è, sinceramente, da pensarlo. 
     "Il nostro dovere è pensare, non sognare". Eppure era stato proprio Van Gogh a sognare a lungo quel sodalizio, primo nucleo di una comunità di pittori da radunare sotto il sole della Provenza. Era stato lui a tallonare l’amico Paul Gauguin, a farlo mettere sotto pressione dal fratello Theo, che di Gauguin era anche il mercante, e quindi teneva i cordoni della sua borsa. Decine di lettere scritte nell’estate del 1888 testimoniano l’ansia, l’impazienza, ma anche le enormi aspettative che Van Gogh riponeva su quella venuta. Gauguin, in quei mesi, stava in Bretagna, a Pont-Aven, un po’ malaticcio, e tergiversava con scuse anche un po’ patetiche, come la fatica del viaggio in treno per un artista debilitato come lui. Era di poco più anziano, già con un carattere da leader, tant’è che aveva un entourage di ammiratori e imitatori. 
Van Gogh era l’opposto, pieno di insicurezze, ingenuo nella vita, incapace di nascondere qualcosa di sé o di quello che faceva, come dimostrano le migliaia di lettere che ha lasciato, nell’arco, pur breve, della sua vita.
     Gauguin, al contrario, si muoveva sempre negli spazi dell’ambiguità, sia che si trattasse di decidere i propri comportamenti sia che si trovasse davanti al cavalletto. Se Van Gogh era monacale nel suo bisogno di cercare regole o presenze alle quali appoggiare la propria vita, Gauguin era insofferente di quelle giornate ritmate solo dal lavoro. Se Van Gogh ostinatamente s’attaccava ad ogni appiglio che la realtà gli offriva, Gauguin aveva come orizzonte finale la propria interiorità: lì il mondo iniziava e finiva.
     Per questo c’è davvero da credere che quando, dopo tanto esitare, si decise a prendere il treno che lo avrebbe portato ad Arles, aveva in realtà in testa solo il modo e i tempi in cui mandare a monte quel sodalizio. La fisicità della pittura di Van Gogh lo infastidiva, non sopportava quella materia grumosa e quasi fangosa, che, non si sa per quale forza, sulla tela s’accendeva di una luce a volte abbagliante. Addirittura non sopportava la cucina di Vincent, troppo grassa, troppo contadina, così poco ascetica come tutto nella vita di quello strano olandese che si ostinava a fare il pittore senza essere mai riuscito a vendere un quadro in vita sua.
     A partire da quel 23 ottobre 1888, martedì, ore 5 del mattino, quando Gauguin scese dal treno alla stazione di Arles, iniziò così uno strano duello, in cui uno dei due contendenti incassava, senza per nulla soffrire, e l’altro imponeva la sua volontà, senza assolutamente riuscire ad essere felice. Gauguin arrivò, come detto, alle 5 del mattino e subito sperimentò lo stile di Van Gogh. L’olandese, felice per l’arrivo dell’amico, aveva infatti parlato di lui a tutti nella cittadina, mostrando l’autoritratto che Gauguin stesso gli aveva inviato qualche settimana prima. Così la barista del caffè alla stazione lo riconobbe immediatamente: più che lo stupore c’è da immaginare il fastidio che quel primo impatto gli provocò. Lui, abituato a muoversi nell’indistinto, doveva convivere con uno che metteva tutto in piazza. Quanto poteva durare?


"Il nostro dovere è pensare, non sognare". Van Gogh, pur nella sua arrendevolezza e semplicità, era caparbiamente attaccato ad alcune evidenze elementari. Prima tra tutte, quella che non si può dipingere senza vedere, senza aver di fronte l’oggetto. Gauguin, al contrario, appena arrivato, aveva cercato di convincerlo alla pittura di immaginazione. Si mettevano con il cavalletto sullo stesso punto, dipingevano i ritratti alla stessa persona, come due allievi in accademia, ma i risultati erano sempre così lontani. Gauguin trasferiva le immagini in uno spazio mentale, le decontestualizzava dalla realtà, come creature fluttuanti in un nirvana. Sagome ritagliabili, ricollocabili in altri mondi, alleggerite di ogni concretezza e per questo ridotte a due dimensioni, cioè private volutamente di profondità. Ancor prima che arrivasse, Van Gogh aveva colto qualcosa di insano nel suo futuro compagno. "Mi fa l’effetto di un prigioniero", scrive al fratello. "Non c’è un’ombra di allegrezza. Non c’entra nulla con il mondo della carne, ma si può mettere sul conto della sua volontà melanconica. La carne nell’ombra è lugubramente rabbuiata". E poi ancora: "Gauguin ha l’aria malata nel suo ritratto torturato".
     Ma come, non era Van Gogh il depresso, lo schizofrenico, il perseguitato dal complesso di fallimento? Tra le sale della mostra di Amsterdam le parti si rovesciano con nitidezza. Gauguin, il grande Gauguin, si svela saturo di accidia, quasi ostaggio della sua ambiguità. Illude se stesso e gli altri d’aver trovato la via di fuga dai problemi formali e intellettuali che la fine dell’Impressionismo (l’ultima rassegna impressionista si era tenuta proprio un anno prima, nel 1887), aveva spalancato. In realtà passo dopo passo si cala in un orizzonte occulto e magico dentro il quale smarrisce anche la sua innata grazia di pittore, come dimostra l’ultima, quasi disperante, sala della mostra. Sulla parete finale c’è infatti quella natura morta con girasoli e manghi, dipinta nel 1901, in cui, nonostante il soggetto, si era persa ogni traccia dello splendore di Van Gogh. Al centro del mazzo compare l’inquietante occhio di Dio, dentro un girasole. Inquietante deriva mistico-magica di uno che aveva sempre diffidato della realtà.
     Dall’altra parte Van Gogh tiene botta. È felice di quel sodalizio, baldanzoso come un bambino. Organizza la vita sin nei minimi dettagli, con una cura ogni tanto sopra le righe. Assegna, senza batter ciglio, il ruolo di superiore a Gauguin, cui assegna, di sua sponte, la camera più bella. "Le nostre giornate passano a lavorare, lavorare sempre. La sera poi siamo sfiniti e andiamo al caffè, per andare a dormire presto! Ecco la vita!", scrive sempre al fratello in novembre. Gli piacciono anche le infinite discussioni in cui si infilano, e che qualche volta sfociano in litigate più o meno furiose. Da allievo accondiscendente accetta di dipingere su quella tela di juta, e non di lino come era sua consuetudine, che Gauguin, appena arrivato, aveva comperato. La juta, a trama larga, si beve il colore, e lascia sui quadri delle apparenze più che delle realtà. Trasforma le figure in fantasmi, toglie ogni appoggio alle cose. Scarnifica, spiritualizza la pittura. Anche la scelta della tela diventa così uno strumento per forzare la natura di Van Gogh. Gauguin aveva annunciato questa intenzione prima di arrivare ad Arles, con una lettera: "Un consiglio, non copi troppo la natura. L’arte è un’astrazione; la tiri fuori dalla natura sognando davanti a quella, e pensi più all’atto creativo che al risultato; è l’unico modo di ascendere a Dio...".
 Per Gauguin quindi la juta è un supporto ideale, per Van Gogh invece è una sfida: ma chi guarda i quadri dell’olandese dipinti sulla tela tagliata da quel rotolo di 20 metri (tra gli altri i due celebri Sedie e L’Arlesiana), non se ne accorge. Con la caparbietà contadina ha caricato a tal punto di materia quelle tele da averne vinto l’inerzia. 



L’aneddoto della tela alla fine dimostra solo come il pensiero sulla realtà, alla fine, sia comunque più attraente di ogni sogno. Una dinamica che a Gauguin sucita solo rancore. Come accadde in quel giorno di dicembre, in cui, per il cattivo tempo i due erano rimasti a lavorare in studio. Quel giorno avevano deciso di farsi il ritratto a vicenda. Gauguin raffigurò Van Gogh davanti alla tela, ma alle prese con un mazzo di girasoli. Pittura di fantasia, evidentemente, perché Van Gogh in realtà stava dipingendo in contemporanea il ritratto di Gauguin; e poi perché i girasoli in dicembre si poteva solo immaginarli. Per l’olandese fu un vero oltraggio. Guardò con terrore quel quadro, scrivendo al fratello: "Sono io, ma io diventato pazzo". 


Seguirono giorni di liti. E il giorno che Gauguin decise di andare a dormire alla locanda e di ripartire per il nord, Van Gogh, vedendo svanire il suo sogno, si tagliò un lobo dell’orecchio e lo consegnò incartato a Rachel, una prostituta della vicina casa di tolleranza. Paul Gauguin partì immediatamente, scrivendo a Theo che rompeva il sodalizio e che toccava a lui prendersi cura di quel fratello incontrollabile. Quanto a Van Gogh rimase qualche giorno in ospedale. Intanto la sua casa era stata messa sotto sigilli dalla gendarmeria, incaricata delle indagini dopo quel fatto di sangue nella tranquilla Arles. Solo un visitatore curioso si fece vivo, il 28 marzo 1889, chiedendo che gli venisse aperta la casa. Era Paul Signac, pittore già noto, uno dei maggiori rappresentanti del postimpressionismo. Quando gli aprirono la porta, restò abbagliato. Lasciò anche una testimonianza di quella visita: "Non dimenticherò mai quella stanza coperta di paesaggi sfolgoranti di luce". (Fonte).

 Il sodalizio di Arles     Cronologia di quei 63 giorni in cui i due artisti lavorarono assieme. Per amicizia, ma anche per darsi battaglia
     1888     20 febbraio: Van Gogh arriva ad Arles, da Parigi. Soggiorna per il primo periodo in una locanda, l’Hotel Carrel.
      Giugno: Van Gogh dipinge la serie del Seminatore.
     Primi contatti con Gauguin, per convincerlo a trasferirsi con lui a sud.
     Luglio: Gauguin è ancora in Bretagna, a Pont-Aven. Qui dipinge due quadri tra i più famosi, La visione del sermone eCristo nell’Orto degli ulivi. Van Gogh vuole imitarlo ma non ce la fa. Scrive al fratello: "Ho grattato un grande studio dipinto con degli ulivi, con una figura di Cristo blu e arancione e un angelo giallo... l’ho grattato perché mi sono detto che non bisogna fare delle figure di questo impegno senza modello".
     21/26 agosto: Van Gogh dipinge la celebre serie dei Girasoli, per arredare la stanza in cui starà Gauguin.
     16 settembre: Scambio di autoritratti tra i due. Quello che Gauguin invia a Van Gogh da Pont-Aven si intitola I miserabili. A Van Gogh il titolo non piace: "Non approvo queste atrocità dell’opera. La nostra missione è quella di non farle sopportare a noi stessi né di farle sopportare ad altri".
     7 settembre: Van Gogh entra nella casa di Place Lamartine, la celebre casa gialla, affittata in previsione dell’arrivo di Gauguin. È alle porte di Arles, "proprio all’ingresso del "paradiso del Sud""(Van Gogh).
     29 settembre: Van Gogh annuncia al fratello di aver dipinto la Notte stellata sul Rodano, forse il suo capolavoro.
     23 ottobre: Paul Gauguin arriva ad Arles.
     5 novembre: dipingono in studio il ritratto di Madame Ginoux, che Van Gogh intitolerà L’Arlesiana.     20 novembre: Van Gogh dipinge le due celebri seggiole (La sedia di Vincent e la sua pipa La sedia di Paul Gauguin).
     25 novembre: è la volta del Seminatore, un altro dei quadri più celebri di Van Gogh.
     Inizi dicembre: Ritratti reciproci. Quello di Gauguin a Van Gogh scatena una furiosa litigata tra i due.
     22 dicembre: dopo un nuovo contrasto, Gauguin annuncia a Van Gogh l’intenzione di partire. Nella notte l’olandese si taglia un lobo dell’orecchio destro. Viene ricoverato all’ospedale di Arles. Verrà dimesso il 7 gennaio.
     23 dicembre: Paul Gauguin riparte alla volta di Parigi.
     -------
     Vincent Van Gogh morirà il 29 luglio del 1890 a Auvers-sur-Oise, nel nord della Francia, dove il fratello l’aveva portato per farlo curare dal dottore degli impressionisti, Paul Gachet.
    
     Paul Gauguin nel 1891 partì per Tahiti. Si stabilì alle isole Marchesi, dove morì nel 1903.


Pietà e Deposizione

Due articoli, diversi tra loro, offrono interessanti novità e riflessioni su due assoluti capolavori: la Pietà di Michelangelo e la Deposizione di Caravaggio. Il primo articolo illustra il ritrovamento del presunto bozzetto della Pietà (che all'inizio era chiamata Madonna della Febbre); scoperta che, se dimostrata, sarebbe sensazionale. Il secondo articolo, di impostazione teologica, è un'interessante analisi della Deposizione in relazione al significato sacrificale della messa. Profonde le parole del papa alla fine. Scriveva il cardinale Ratzinger: "Nella passione di Cristo (...) l'esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire il volto, sputare addosso, incoronare di spine (...) Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l'autentica, estrema bellezza: la bellezza dell'amore che arriva "sino alla fine" e che, proprio per questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l'ultima istanza del mondo. Non la menzogna è vera, bensì proprio la verità. È un nuovo trucco della menzogna presentarsi come verità e dirci: al di là di me non c'è in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla, così facendo siete sulla strada sbagliata. L'immagine di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme con lui e crediamo nell'Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza".





lunedì 3 gennaio 2011

Impressioni su Van Gogh a Roma

L'impressione all'uscita dalla mostra Vincent Van Gogh. Campagna senza tempo – Città moderna, presso il Complesso del Vittoriano a Roma, è di una soddisfazione a metà. Sono sempre stato diffidente delle mostre offerte dal Complesso poichè non sempre sono conformi alle aspettative; le considero le classiche mostre Blockbuster molto pubblicizzate che di importante hanno solo il nome ma poi si limitano a presentare opere non sempre all'altezza. Diciamo che non mi piace per nulla anche lo spazio espositivo, troppo angusto e articolato male per le troppe persone in fila. La mostra di Van Gogh è stata di livello basso, anche se il tema, il raffronto tra l'immagine della campagna e della città nelle sue opere, è interessante in quanto cerca di indagare quel complesso legame tra l'artista e la Natura nella sua evoluzione dalla scura pittura olandese di genere all'esplosione di colore impressionista. Fatto sta che alcune opere valgono totalmente il prezzo del biglietto e, anche se poche, giustificano le ore di fila. La speranza è che anche il pubblico meno addetto le ritrovi nella calca generale e nell'allestimento, altrimenti corre il rischio di trovarsi con un'immagine confusa e marginale dell'artista. Per le opere mi riferisco in particolare a Orti a Montmartre del 1887. 


In quest'opera, di formato relativamente grande, si notano le prime conquiste del colore; l'artista, giunto da poco a Parigi, risente dell'ambiente impressionista e del puntinismo di Seraut e Signac che cerca di riproporre. Ne risulta un quadro dai toni delicati, dove i principi del punto sono applicati marginalmente a vantaggio di linee e tocchi di colore già diversi da quelli di Monet. In particolare risultano commoventi proprio questi tocchi, queste barbe di colore incise meticolosamente dall'artista che aveva piazzato il cavalletto su un'altura dalla quale ritrarre la parte meno urbana del quartiere Montmartre. Commovente è la determinazione di Van Gogh nel cercare a tutti i costi la forma del paesaggio, nel tentare di rendere sulla tela il particolare e la disorganicità della natura. Trovo in quelle pennellate che cercano di liberare il colore la forza che tra poco esploderà nel sud della Francia mentre immagino il pittore da solo, perso sulla tela, con gli occhi ora sul paesaggio ora sui pennelli nel cercare disperatamente e con ostinazione di dar senso al dipinto.


Del tutto diversa è la tela Cipressi con due figure femminili del 1889. Direi quasi sconvolgente per me che non avevo ancora visto dal vivo un'opera del periodo più tardo. La tela è un tocco al cuore nell'assoluta predominanza della materia pittorica plasmata come fosse materia viva con la quale creare non un quadro bensì un bassorilievo. Il nero e verde scuro dei cipressi emerge, lo si sente quasi al tatto, con linee ondulate che cercano di seguire le fronde battute dal vento del sud. L'aria è calda ma sotto i rami l'ombra si fa buia e fresca eppure inquietante se agli occhi del pittore appare così tormentata, resa come un groviglio di tracce e rovi. Il cielo, invece, sembra seguire un moto proprio. Vi si scorge l'andare delle nuvole, stiracciate e tese come serpi, anche loro raffigurate con solchi di materia, con tubetti versati direttamente sulla tela dove il pennello apre linee, sollevando barbe, come l'aratro sui campi. Pittura materica e viva, si scorge quasi il Balzac del Capolavoro incompiuto, eppure i riferimenti ci sono se pensiamo alla pittura disfatta di Monticelli o al colore-oggetto di Rembrandt, sempre amato da Van Gogh. Verranno altri cipressi, raffigurati perché figure misteriose del paesaggio, obelischi di un verde così scuro da apparire alieno al resto del paesaggio, eppur questa tela mi sembra la più sentita e tormentata. Assoluto capolavoro che parla al cuore con la forza del colore.



Segnalo la tela con delle donne su un campo di neve del 1890 per la resa di un cielo irreale da tramonto, con linee azzurro cobalto e un sole spento, mentre rinvengo già quel tocco di colore vivo sulla linea dell'orizzonte in una primissima tela del 1883, così fiamminga, a rendere un rosso tramonto. In ambedue il lavoro degli umili.
Interessante la parte introduttiva con una serie di stampe collezionate da van Gogh e altre opere grafiche alle quali si ispirò; personali e intime alcune lettere alla fine del percorso. La calligrafia minuta e nervosa, intervallata da schizzi e disegni.

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