domenica 30 settembre 2012

L'Italia dei Beni Culturali. Formazione senza lavoro, lavoro senza formazione.

Lo scorso 27 settembre l'associazione Bianchi Bandinelli ha organizzato un importante incontro. Questo il comunicato stampa seguito da un interessante articolo che mostra tutta la precarietà del lavoro nel settore dei beni culturali palesando l'idea che ormai si è arrivati al limite della sopportazione.



"L’Associazione “Ranuccio Bianchi Bandinelli” organizza il 27 settembre 2012 nella sede della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, in viale Castro Pretorio 105, una giornata di riflessione, confronto, protesta e proposta sulla situazione del lavoro nel mondo dei beni culturali. In Italia per le professioni del patrimonio culturale è vera emergenza: mentre l’Università da decenni rilascia a flusso continuo titoli di studio di primo, secondo e terzo livello, non di rado programmando percorsi formativi privi di sbocchi nel mercato del lavoro, la situazione occupazionale è caratterizzata da una drastica riduzione di personale tecnico-scientifico qualificato all’interno delle istituzioni per la conoscenza, la conservazione e la valorizzazione, a fronte di una proliferazione incontrollata di collaborazioni esterne difformi per durata, tipologia contrattuale, retribuzione. E i reiterati tagli di risorse disposti negli ultimi anni per fronteggiare la congiuntura economica tendono a spingere molti di questi lavoratori precari, senza diritti né tutele, verso la disoccupazione. Eppure formazione, qualificazione e reclutamento degli addetti costituiscono uno dei nodi cruciali del sistema della tutela, nelle strutture statali come in quelle degli enti pubblici territoriali o gestite da privati, in particolare di quanti operano per il patrimonio pubblico. Solo affrontando responsabilmente la complessità e l’insieme di questi problemi diventa possibile dare piena attuazione all’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Come è consuetudine dell’Associazione, il convegno si propone di coniugare tre aspetti: primo, fornire un quadro generale e documentato delle questioni; secondo, ascoltare, anche con il contributo delle Associazioni professionali, le testimonianze dirette di quegli archeologi, storici dell’arte, antropologi, restauratori, architetti conservatori, archivisti, bibliotecari che lavorano in condizioni di precariato intellettuale; terzo, invitare al confronto in due tavole rotonde – sulla formazione e sull’occupazione – esperti, responsabili politici e sindacali, soggetti pubblici e privati che dovrebbero fornire risposte organizzative e legislative, ma soprattutto regole certe per un lavoro qualificato a salvaguardia del patrimonio culturale".

Beni culturali: tra l’inferno del precariato e l’arroganza della politica

Autore: Guermandi, Maria Pia

Tre giorni fa il letargico e preagonico torpore in cui versa il mondo dei beni culturali, dal Mibac agli enti locali, alle Università, ha ricevuto, finalmente, uno schiaffone: il 27 settembre si è svolta a Roma una giornata di mobilitazione, riflessione, protesta organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli sul precariato giovanile nell’ambito dei beni culturali. 

L'Italia dei Beni Culturali: formazione senza lavoro e lavoro senza formazione, il titolo dell’iniziativa di grande impatto sociale, culturale, emotivo, cui anche eddyburg ha aderito e che ha finalmente acceso i riflettori su quelle migliaia di giovani laureati nell’ambito dei beni culturali, in percentuali altissime specializzati e plurispecializzati costretti a condizioni lavorative troppo spesso sotto il limite della dignità, senza diritti, nè tutele. E’ l’inferno del precariato che sta condannando una o forse due generazioni ad una qualità di vita con pochi confronti in Europa. 

Le crisi speculari di Università e Mibac (quest’ultima probabilmente irreversibile), hanno aggravato e accellerato il fenomeno: da un lato l’Università ormai persa in un loop autoreferenziale ha continuato a proporre, nel corso degli ultimi vent’anni, percorsi formativi privi di sbocchi professionali e per di più inadeguati anche sotto il profilo delle competenze richieste in ambito lavorativo: valgano per tutti i famigerati corsi o facoltà in Conservazione in beni culturali, moltiplicatisi soprattutto negli anni ’90. Dall’altro lato, un Ministero sempre più esangue, ormai incapace di mantenere i seppur minimi livelli di gestione del patrimonio culturale, sta procedendo da almeno un lustro alla dismissione delle proprie funzioni in una climax di tentativi maldestri e pasticciati: dai commissariamenti alle fondazioni, ai fantozziani esperimenti di marketing elaborati dalla Direzione alla Valorizzazione. 

Eppure, in tale convergenza di disastri, queste migliaia di ragazzi che hanno resistito nel loro impegno, nonostante retribuzioni orarie fra i 5 e i 10 euro lordi, e un reddito annuo che, nella grande maggioranza dei casi non supera i 10.000 euro lordi l’anno (la soglia di povertà secondo l’ISTAT), hanno sostanzialmente garantito, cifre alla mano, il mantenimento di un livello dignitoso alla gestione dei nostri musei, archivi, biblioteche, delle centinaia di interventi di archeologia preventiva o di emergenza. 

Il quadro articolato di questa complessa galassia è stato fornito nella giornata della Bianchi Bandinelli dagli stessi giovani precari, di gran lunga i più efficaci, da Federico De Martino a Claudio Gamba a Tsao Cevoli e Salvo Barrano, che con le loro documentatissime relazioni hanno dimostrato, geometrico more, quanto la situazione in questo settore sia da allarme rosso: siamo di fronte ad una vera e propria bomba sociale costituita da ormai decine di migliaia di giovani (e non più tanto giovani, nel frattempo). 

A completare, sotto il profilo emotivo, la crudezza dei dati numerici, un gruppo di giovani attori (a loro volta precari) ha recitato i racconti di vita dei precari dei beni culturali. 

Purtroppo, la lettura delle storie e testimonianze di lavoro precario ha subito uno spostamento rispetto al programma e per lo stesso motivo un’interessante relazione sulle forme contrattuali è stata brutalmente interrotta per lasciar spazio al sottosegretario dei beni culturali Roberto Cecchi appalesatosi nel frattempo. 

Costui, dopo un intervento più consono a chi avesse trascorso la sua vita in tutt’altre faccende affaccendato rispetto al mondo dei beni culturali e dopo aver persino pronunciato il famigerato enunciato “beni culturali come volano dello sviluppo”, con un gesto di arroganza che riuniva in sè il peggio del malcostume politico della prima e seconda repubblica assieme, al termine di un discorsetto in cui – lui, funzionario statale per oltre trent’anni e rappresentante del governo in carica - ha livorosamente ribadito il suo sdegno per tutti coloro che “demonizzano il privato”, se ne è sgattaiolato via, senza attendere un solo minuto, verso il successivo inderogabile impegno. 

Ci dica, sottosegretario Cecchi, quali appuntamenti c’erano nella sua agenda, più importanti di ascoltare le ragioni, spietate nella neutrale freddezza delle cifre, struggenti nella rivisitazione teatrale, aggiornatissime e inedite nella loro sistematicità, di coloro che in condizioni, non solo precarie economicamente, ma spesso lesive della dignità professionale e umana contribuiscono in maniera ormai determinante a reggere il sempre più pericolante sistema della tutela del nostro patrimonio culturale? 

Forse una svendita pronta cassa all’Abramovich di turno del brand pompeiano (essendo quello del Colosseo ormai indisponibile per i prossimi 15-20 anni)? 

Nessuno si aspettava da lei risposte – non le ha sapute dare in trent’anni di carriera ai vertici del Mibac che la collocano di diritto nell’olimpo dei correi dell’attuale disastrosa situazione del ministero - ma il semplice doveroso ascolto, imprescindibile in chi riveste un ruolo che dovrebbe essere di servizio all’intera comunità dei cittadini e in primo luogo di coloro che per quel ministero da lei rappresentato lavorano con una passione persino un po’ incosciente. 

Negli astanti, l’educazione ha prevalso sull’indignazione: e questo è stato forse l’unico neo di un’iniziativa che, seppur in altre forme, dovrà continuare. 

Perchè se una speranza si è affacciata, in mezzo ai racconti sconsolati, alle riflessioni desolate, ai dati drammatici, mi sembra possa essere letta soprattutto in una nuova consapevolezza di questi giovani, ormai indisponibili a farsi illudere dalle chimere del posto fisso nel Ministero o nell’Università, istituzioni ormai sature e soprattutto bisognose, urgentemente, di una radicale riforma che dovrà essere gestita “dal basso”. Non tanto per pulsioni radicaliste, ma perchè, come è stato ampiamente dimostrato anche l’altro ieri, è in questa fetta della società, ormai sempre più importante dal punto di vista anche numerico, che si trovano le idee più innovative e le energie più (forse le sole) vitali.
 

giovedì 27 settembre 2012

Vermeer. Il secolo d'oro dell'arte olandese da oggi a Roma


Si è inaugurata oggi la mostra Vermeer. Il secolo d'oro dell'arte olandese presso le Scuderie del Quirinale a Roma (27 settembre – 20 gennaio 2013)Rara e preziosa occasione di vedere insieme capolavori assoluti dell'artista e un’accurata selezione di opere della pittura olandese del XVII secolo. Sono esposti otto capolavori del Maestro, ma il numero esiguo non deve trarre in inganno: Vermeer infatti dipinse non più di 50 quadri nella sua vita, e oggi se ne conoscono solo 37. Nessuna di queste appartiene ad una collezione italianae solo 26 possono essere movimentate. Negli ultimi cento anni solo 3 mostre su Vermeer hanno ottenuto in prestito più di 4 capolavori dell’artista: qui ce ne sono otto, numero superato solo dal Museo del Prado nel 2003, che riuscì a riunirne 9. Tra i tanti articoli di encomio allego quello realizzato da Simone Verde, puntuale, preciso, molto competente e con alcune interessanti osservazioni fuori dal coro poichè ciò che manca nelle analisi critiche sui giornali delle mostre che si svolgono in Italia è un giudizio sereno e non celebrativo a tutti i costi. Se volete questo basterà sfogliare la rassegna stampa fornita giornalmente dal Mibac.



Lo strapotere delle immagini
Vermeer e il Secolo d'oro alle Scuderie del Quirinale


Di Johannes, Jan o Johan Vermeer si sa molto poco. Anzi, oltre qualche aneddoto familiare, della sua storia di pittore, degli anni della formazione non si sa quasi niente. Per questa ragione, e come avvenuto per pochi altri come lui avvolti in un una certa oscurità storiografica – Giorgione, Caravaggio o La Tour–, è diventato la celebrità che è. Il motivo sembra dar ragione a Benedetto Croce. Difficile da sottoporre ai riduzionismi della critica che non può appoggiarsi a fatti certi, le sue opere sono diventate uno specchio del tempo, parlano per sé e accusano uno scarto con le giustificazioni che si vogliono addurre a loro riguardo. In questo senso, cioè, e come si torna a constatare con Vermeer e Il secolo d’oro olandese da oggi e fino al 20 gennaio 2013 alle Scuderie del Quirinale, le immagini si esprimono con un linguaggio dall’autonomia irriducibile, sovrastano la babele delle interpretazioni e la letteratura secondaria che si accumula negli anni alla fine sembra parlare più di se stessa che del suo oggetto.

La mitica riscoperta è dovuta al giornalista e critico Jean Theophile Thoré (anche se si firmava William Bürger) ed è rivelatrice degli orientamenti “realisti” della pittura di metà Ottocento. Non è un caso che l’intellettuale francese era amico di Courbert e di Millet, si batté per la repubblica democratica contro il dispotismo di Charles Louis-Napoléon Bonaparte e condusse le sue ricerche sul pittore olandese durante l’esilio politico nei Paesi Bassi. Sfuggiva, o forse non interessava al gusto impegnato per il “realismo” in voga in quel momento la vicenda spirituale del pittore, la conversione alla Chiesa di Roma nell’aprile del 1653 per sposare la moglie, Catherine Bolnes, la casa familiare nel piccolo quartiere cattolico della città e vicino alla chiesa “nascosta” dei gesuiti. Avrebbe incuriosito il Novecento, invece, la storia spirituale del pittore, le sue vicissitudini tormentate nell’ambito delle tensioni politiche e civili dell’Europa barocca.

Quanto alla mostra delle Scuderie, vuole ora inserire l’opera nel suo contesto artistico. Lo fa come al solito in maniera esageratamente light, con grande trionfalismo autocelebrativo abituato al consenso acritico della stampa italiana e con troppe opere da collezioni private, per ciò che in termini di mercato ne consegue, e quasi tutte da musei e case americane, pochi in realtà i capolavori (due dei tre curatori sono a capo delle collezioni europee e olandesi del MET di New York e della NGA di Washington). Nella costruzione del percorso viene persegue la giusta scelta di suddividere quelle di Vermeer portate a Roma – 6 su 36 in tutto – a seconda dei generi e dei sottogeneri che la pittura olandese andava codificando, accompagnandola, sezione per sezione, con esempi analoghi di artisti coevi tra cui gli immancabili Gabriel Metsu, Pieter de Hooch, Jan Van Der Weyden, Gerrit Dou. Scelta curatoriale che scegliendo Vermeer come punto di partenza per ricostruire il contesto artistico di quegli anni, tuttavia, tralascia tutto ciò che è a lui più distante e restituisce un panorama parziale che non viene giustificato.

Tra le date da ricordare c’è il 1566 e la rivolta iconoclasta fomentata dal clero protestante con enorme distruzione di immagini sacre; il 1618, quando gli Orange iniziarono la loro signoria sui Paesi Bassi; e il 1650, che portò la morte prematura e tragica del giovane Guglielmo II, da pochi anni succeduto a Federico Enrico. Progressivamente, cioè, dalla fine della grande committenza cattolica e con la scomparsa dei due sovrani più dediti di tutti al mecenatismo, gli artisti si trovarono senza padroni, drammaticamente liberi di cercare nuovi referenti e di inventarsi un mercato. Una serie di accidenti provvidenziali che segna la storia dell’arte e scandisce le svolte professionali ed estetiche di Vermeer.

Il passaggio quasi meccanico, nel giro di appena un ventennio da un barocco allegorico imposto dalla gerarchia accademica dei generi pittorici, alla metafisica della luce piena del simbolismo delle ultime opere. Una parabola che la mostra fa partire dalla Santa Prassede della collezione privata Barbara Piasecka Johnson, opera di discutissima attribuzione datata 1655, copia di una tela dell’italiano Felice Ficherelli, e conclude con le due Giovane donna seduta e/o in piedi al virginale del 1670-72, registrando nel mezzo tutta la rivoluzione culturale, scientifica, politica del secolo d’oro. Immensa, in effetti, è la differenza tra la pompa classicista o caravaggesca di un cattolicesimo per il quale la vita è fatta di materia corruttibile poiché intrisa di peccato che pone Dio in alto, al di fuori dal mondo, e il pacato ordine razionalista dove ogni cosa è al suo posto, dove il creatore è energia visibile, sta nella luce immanente che proviene dalle cose.

Il Novecento, intellettualistico per natura, avrebbe visto in questa svolta l’influenza di Spinoza, al punto da congetturare una serie di incontri tra il filosofo e il pittore. Oggi, come racconta in catalogo la terza curatrice, Sandrina Bandera, si propende più per circoli scientifici come quello di Constantijn Huygens, che a Vermeer avrebbe fatto scoprire la famosa camera oscura (scoperta favoleggiata anche da un famoso libro dell’artista contemporaneo David Hockney e di cui, ovviamente, non c’è nessuna prova). Proprio dalla camera oscura deriverebbe la sapienza ottica delle composizioni, la precisione maniacale e microscopica con cui, grazie alla tecnica del pointillé, far apparire le cose alla luce, gli angoli periferici sfocati, le prospettive soggettive, decentrate, per illudere lo spettatore di una sua reale presenza nello spazio.

Molta scienza e meno umanesimo, secondo la critica di questi anni tecnocratici che ama in Vermeer la descrizione della realtà nella sua esattezza matematica perché gli sembra un avvicinamento alla modernità tecnologica. Lo scriveranno tutti i giornali e lo suggerisce la mostra, che si concentra sul contesto formale, sulle qualità ottiche delle opere esposte, e mette da parte quello religioso e spirituale. Solo qualche anno fa si sarebbe insistito su una precisione pittorica che nei Paesi Bassi del tempo aveva un profondo significato religioso, indicava la capacità di un popolo operoso di avvicinarsi alle regole assolute ed essenziali che rivelavano la presenza di Dio nelle cose. La solita babele delle interpretazioni, cioè, che in mancanza di elementi certi, viene fortunatamente sovrastata dallo strapotere silenzioso delle immagini.





venerdì 21 settembre 2012

La crocifissione di San Giovanni della Croce e Dalì

San Giovanni della Croce non è stato solo uno dei più grandi mistici cristiani ma anche un sommo artista sia come poeta che come disegnatore. Un giorno, siamo nel 1575, nella chiesa dell'Incarnazione Giovanni ha una visione. Mentre è appartato in preghiera, in un'angolo che da sul transetto, Cristo gli appare sulla Croce. Ha la testa reclinata sul petto, le braccia sostenute da pesanti chiodi, le gambe piegate sotto il peso del corpo, con un'espressione di assenso totale al sacrificio. Cessata la visione prende carta e penna e riproduce quanto ha visto. E' l'unico disegno di Giovanni che si conserva (ma non è improbabile che dovette farne altri) e unica è l'impressione che si ha guardandolo poiché il mistico prevale sul tragico. E' violento ma percorso da una grande dolcezza, la densità dei tratti, l'anatomia del corpo in contorsione, la nervosità delle linee hanno fatto credere ad un disegno miracoloso ma è normale che Giovanni abbia studiato disegno e pertanto la carica mistica aumenta la forza evocativa. Cristo è contemplato di lato e dall'alto, con uno scorcio di incredibile realismo, ed emana il senso supremo del sacrificio e della costrizione. Non è un caso che secoli dopo Dalì nel 1951, durante la sua fase di recupero della pittura rinascimentale e dell'iconografia cristiana, eseguirà un crocifisso ispirandosi proprio allo schizzo del santo accentuando la prospettiva e lo scorcio impossibile.

S. Giovanni della Croce - crocifissione

Dalì - Il Cristo di San Giovanni della Croce
L’opera fa parte della copiosa produzione pittorica di Salvador Dalì dopo il suo drammatico distacco dal movimento surrealista, voluto nel 1934 da André Breton. La grande tela è oggi conservata all’Art Gallery di Glasgow in Scozia. Ai margini della composizione un desolato paesaggio lacustre disegnato con grande precisione è popolato solo da tre figure, rese sommariamente, occupate nella poro attività di pescatori. I netti profili delle basse montagne che si stagliano contro l’orizzonte sono segnati da una luce vitrea emessa dal sole ormai al tramonto. Come una visione il cielo si apre e appare una crocifissione, colta dall’alto, che occupa la parte più ampia dello spazio, forse a ricordare che l’umanità deve necessariamente rispondere del sacrificio di Nostro Signore. La luce divina colpisce con violenza la parte superiore della grande croce e sfiora il corpo senza vita di Cristo mettendone in risalto la muscolatura; il gioco chiaroscurale è determinante sia per rendere più palpabile il miracolo che per aumentare la drammaticità consona alla scena. Salvador Dalì lo dipinse in un momento di rimeditazione del mondo cattolico, contemporaneamente alla pubblicazione del “Manifesto Mistico”, a cui l’artista affida le sue riflessioni sul delicato tema e a una serie di opere a soggetto sacro fra le quali voglio qui ricordare la crocifissione del Metropolitan di New York, datata 1954, che però propone un modulo ammanierato che rende opaca la composizione. Nonostante l’attualizzazione del tema sacro, in questo quadro Salvador Dalì mantenne rapporti con la pittura del passato: la figura vicina alla barca è desunta da “Le Nain”, mentre quella a sinistra è tratta da un disegno preparatorio di Velàzquez per la Resa di Brera.

E' questa l'opera di un artista geniale che, dopo aver vagato errante in cerca d'assoluto, alla fine confida: "Il Cielo non si trova nè in alto nè in basso, nè a destra nè a sinistra, il Cielo si trova esattamente al centro dell'uomo che ha Fede...Ora io non ho ancora la Fede e temo di morire senza Cielo".

mercoledì 19 settembre 2012

Invader invade lo spazio

Il famosissimo Street Artist Invader, attivo da più di un decennio nelle città del pianeta con le sue iconiche piastrelle colorate a mosaico con sopra i famosi alieni del videogame “Space Invaders”, apparso recentemente anche nel film di Banksy Exit through the gift shop, probabilmente è tra gli artisti più conosciuti al mondo. Lo Street Artist un mese fa  ha realizzato un dispositivo per spedire le sue piastrelle nello spazio simulando una vero e proprio viaggio interplanetario. Il pallone, partito da Miami e dotato di fotocamera ha prontamente scattato queste splendide foto prima di tornare a terra. C’è da rimane a bocca aperta ammirando il pezzo in orbita nella stratosfera terrestre, inoltre sembrerebbe che ulteriormente alle immagini ci sia in uscita anche un film-documentario sul pezzo.





martedì 18 settembre 2012

Il ciclo sull'eucarestia di Rodolfo Papa

L'artista davanti al ciclo
Monumento alla santa memoria di tutte le vittime del Karlag, luogo di preghiera espiatoria e di riparazione ma anche segno visibile della fede e della dottrina cattolica, e valido strumento di evangelizzazione per mezzo della pietra, della bellezza e della cultura: questo, nelle parole della lettera pastorale dei vescovi di Kazakistan, i compiti e la missione della nuova chiesa di Karaganda. Domenica 9 settembre, infatti, è stata consacrata la Cattedrale della Diocesi di Karaganda, in Kazakistan, in una solenne celebrazione presieduta dal cardinale Angelo Sodano. La chiesa, voluta fortemente dall’allora arcivescovo della città, mons. Jan Pawel Lenga, e dal vescovo ausiliare mons. Athanasius Schneider, è sorta sulle ceneri di uno dei più grandi campi di concentramento sovietici, un Gulag (o meglio Karlag; Karaganda Lager) immenso, grande quasi come l’intera Francia, nel quale hanno lavorato, sofferto e sono morti milioni di persone di più di centro diverse etnie in nome di un’ideologia, quella comunista, fallace e antiumana. Poiché non esiste storia che non rubi alla realtà circostante ciò di cui si compone, quest’edificio, dedicato alla Beata Vergine Maria di Fatima, Madre di tutte le Nazioni, sorto dal nulla e in un territorio tanto segnato dal sacrificio e dal martirio, vuole essere un segno forte di espiazione e un segnale di speranza e di fede per tutta la regione soprattutto attraverso la missione dell’arte sacra autentica. Il progetto della struttura, elaborato dall’architetto tedesco Carl-Maria Ruf e adattato dall’architetto locale Vladimir Georgievitsch Sergeyev, prende a modello il Duomo di Colonia, in Germania, considerato tra le massime espressioni dello stile gotico, e si sviluppa pertanto in severe e slanciate forme neo-gotiche.
L’interno, a tre navate, è arricchito da vetrate, una teoria di statue di santi e da un elaborato altare ligneo policromo. In analogia con le 14 stazioni della via Crucis nella cripta è ospitato un ciclo di 14 tele sul tema dell’Eucaristia realizzate dall’artista romano Rodolfo Papa. E’ lo stesso mons. Schneider che ci chiarisce, sinteticamente, il programma iconografico: «Volevo esprimere nella Cattedrale nel modo più profondo il mistero della Santissima Eucaristia, poiché l’Eucaristia costruisce spiritualmente la Chiesa, l’Eucaristia fa vivere la Chiesa continuamente fino alla fine dei tempi. Il vero fondamento della Chiesa è l’Eucaristia. Perciò ho posto nella cripta, quasi nelle fondamenta della Cattedrale, un ciclo di 14 immagini sull’Eucaristia, in analogia con le 14 stazioni della via Crucis nella navata principale. Tutta la Sacra Scrittura ci annuncia Cristo fatto carne, fatto uomo. Ma Cristo si è fatto Eucaristia, ci ha lasciato Sua carne realmente, veramente e sostanzialmente presente nel mistero eucaristico. In un certo senso possiamo dire: tutta la Sacra Scrittura ci annuncia Cristo nel mistero dell’Eucaristia»1.

Il ciclo è complesso e si presta a diversi gradi di analisi che possono andare dalla semplice lettura didattica delle immagini a ragionamenti più complessi di ordine teologico, con tanto di rimandi e richiami tra le diverse storie raffigurate. Le immagini scelte sono tratte tutte dalla Sacra Scrittura, 7 dall’Antico e 7 dal Nuovo Testamento, e hanno per tema la simbologia eucaristica, chi esplicitamente chi come prefigurazione; ecco quindi in ordine temporale il sacrificio di Abele, il sacrificio di Melchisedec, il sacrificio di Abramo, l’agnello pasquale, la manna nel deserto, il cibo del profeta Elia nel cammino verso il monte di Dio, il tempio di Gerusalemme, Betlemme come “casa del pane”, il miracolo delle nozze di Cana, la moltiplicazione dei pani, il discorso eucaristico nel vangelo di Giovanni, l’Ultima Cena, Emmaus, l’Agnello nella Gerusalemme Celeste. Un discorso complesso e completo, quindi, che comincia col sacrificio di Abele per terminare con l’adorazione dell’Agnello mistico, dalle origini del racconto biblico fino alla gloriosa conclusione escatologica, per soffermarsi su episodi fondamentali dove attraverso figure, simboli, gesti e parole ci è stata rivelata la grandezza del mistero dell’eucaristia.
Papa, in questo senso, si è dimostrato un sapiente narratore capace di creare un ciclo unitario e solenne, comprensibile e limpido nella chiarezza delle storie e delle figure, con i singoli racconti che si focalizzano sull’evento evitando dispersioni descrittive. Ad una ripresa puntuale dei passi scritturistici si unisce una raffigurazione quanto più possibile attenta agli elementi storici (usanze e costumi) e alla più ampia tradizione figurativa dell’arte occidentale, anche con puntuali citazioni funzionali all’episodio come possono essere l’Agnello desunto dal polittico di Gand, alcune finte architetture riprese dall’arte fiamminga rinascimentale e poi naturalmente riferimenti a Caravaggio e alla grande arte rinascimentale italiana.

Natività 
Tra le diverse tele ci si voleva soffermare su alcune in particolare. La scena col sacrificio di Isacco, impostata sulle quattro figure principali del racconto (Abramo, Isacco, l’Angelo, l’ariete) disposte quasi a chiasmo, riprende e rielabora la stessa raffigurazione che l’artista ha dipinto per la Cattedrale di Bojano, in Molise, dove ha realizzato un intero ciclo pittorico. Il pittore, in questo modo, vuole sottolineare una sorta di continuità della composizione, e se vogliamo immutabilità, in opere tanto distanti tra loro spiegandoci come l’arte sia capace di parlare attraverso il registro del figurativo a fedeli differenti per usi e costumi ma accumunati dalla stessa fede. E’, se vogliamo, il compito principale dell’arte sacra al servizio della liturgia quello di insegnare ovunque la Parola di Dio con le immagini intese quali una sorta di Biblia pauperum. Fondamentale, nell’economia del ciclo, è la tela che raffigura la Natività a Betlemme (nome che significa appunto “casa del pane”); in questa scena, ambientata in una grotta come nella migliore tradizione leonardesca, Gesù bambino indica contemporaneamente se stesso e un cesto di pane comprovando appunto come Lui sia il vero pane di vita eterna. Il tutto è incorniciato da un finto portale gotico dove sono raffigurati, ai lati, due statue di profeti, Melchisedec ed Elia, che hanno prefigurato l’istituzione dell’eucaristia e che l’artista ha già raffigurato in altre due tele, mentre in alto l’alfa e l’omega, e la sigla IHS, sottolineano la natura divina e umana di Gesù Cristo. La tela quindi sottolinea il passaggio dalla Legge antica alla nuova in un rimando di simboli e personaggi che permette diversi livelli di lettura.
Interessanti sono le novità iconografiche con la rappresentazione ex novo di episodi mai trattati nella storia dell’arte come il rito dell’incenso nel Tempio di Salomone o la scena di Cristo come pane di vita, mentre in altre tele l’artista è andato oltre la classica immagine insistendo maggiormente sul mistero dell’eucaristia tanto che Mosè, nel miracolo della manna, distribuisce delle ostie come anche Gesù nella moltiplicazione dei pani e dei pesci. Dettagli affascinanti che svelano un intero sistema teologico e rendono attuale la storia della salvezza, tele che sostanziano il mistero attraverso la raffigurazione del corpo e aprono alla contemplazione in virtù dello splendore delle forme e dei colori.
Come lo stesso artista ha avuto a scrivere, infatti, «il sistema dell’arte cristiano appare dotato di almeno quattro caratteri fondamentali, universalità, bellezza, figuratività e narratività»2 e questo ciclo non fa che confermare l’impegno a superare quel «neotribalismo postcontemporaneo» per proporre un’arte capace di comunicare a tutti. In una terra tanto segnata dall’orrore e dai crimini dell’uomo sull’uomo un artista “contemporaneo” avrebbe risposto con la propria arte negando qualsiasi prospettiva di salvezza e redenzione e, nell’impossibilità di riscatto, avrebbe confidato nell’annichilimento delle forme come tentativo di liberazione; l’artista cristiano, invece, non abbandona la bellezza convinto della possibilità di salvezza. [Pubblicato venerdì, 14 settembre 2012 su ZENIT.org]

*
NOTE
1 “Un silenzioso ma anche potente segno e mezzo di evangelizzazione”. Intervista con monsignore Athanasius Schneider, su Zenit (http://www.zenit.org/article-32292?l=italian).
2 R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Siena 2012, p. 235.

E' possibile vedere l'intero ciclo su questo link da Picasa

Tommaso Evangelista

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