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venerdì 26 agosto 2011

Entr'acte, un film dadaista

Entr'acte (1924) è un cortometraggio diretto da René Clair, scritto per un siparietto per il Relache Ballets al Théâtre desChamps-Élysées a Parigi. Relache si basa su un palinsesto di Francis Picabia, prodotto da Rolf de Maré con le coreografie di Jean Borlin.La musica sia per il balletto che per il film è stata composta da Erik Satie.
Per questa produzione, i dadaisti collaborando al progetto inventato un nuovo modo di produzione: instantanéisme. Il film completo dura circa 20 minuti e usa tecniche e soluzioni innovative come il rallentatore, il montaggio all'indietro, le inquadrature da sotto (per la ballerina), dei primitivi stopmotion per far scomparire la gente o far trasformare un uovo in un uccello. Nel cast apparizioni cameo di Francis Picabia, Erik Satie, Man Ray e Marcel Duchamp. Il direttore d'orchestra alla prima era Roger Désormière. In questa (definitiva) edizione la colonna sonora è stata eseguita nel 1967 da Henri Sauguet.

venerdì 13 agosto 2010

Lady Gaga e l'orinatoio di Duchamp

Poichè il Dada è tornato molto di moda e imitare Duchamp fa molto cool, la pop-artista Lady Gaga, non nuova a intrusioni nel mondo dell'arte, ha esposto una propria scultura in stile Duchamp: un orinatoio proveniente dal set del servizio fotografico per Vogue Hommes Japan con tanto di dedica. Lady Gaga avrebbe donato proprio un orinatoio alla mostra Inside/Out organizata da SHOWstudio.com che si è tenuta a Londra il mese scorso. L’opera in questione è stata posta accanto ad un pezzo di Terence Koh, l’artista canadese amico di Lady Gaga che in più di un’occasione ha collaborato con lei realizzando addirittura un pianoforte per la star di Alejandro, e reca la scritta “I’m not fucking Duchamp, but I love pissing with you“, che si traduce con “Non sono quel cazzo di Duchamp, ma mi piace pisciare con te”. Rimando a quest'altro mio post per la questione degli orinatoi duschampiani: Duchamp, Schwarz e gli orinatoi.
Su Showstudio altre foto del sanitario.





giovedì 25 marzo 2010

Duchamp, Schwarz e gli orinatoi


I critici tendono a considerare l’orinatoio di Marcel Duchamp, dal titolo "Fontana", come l'opera più importante del 20 ° secolo. Eppure, la sua posizione nel mondo del collezionismo non sempre ha rispecchiato il valore dell’idea. L’opera ha messo in discussione le nozioni di autenticità di opera d’arte, quando Duchamp nel 1917 ha prima acquistato un prodotto di massa, un dispositivo idraulico, e poi lo ha firmato "R. Mutt" (Fontana?). Ora, oltre 40 anni dopo la morte dell'artista, il problema della legittimità dell'opera rimane rilevante e orinatoi non autorizzati sono stati scoperti in circolazione in Italia. Il mondo dell'arte ama gesti concettuali paradossali, ma sembra che qualcuno potrebbe essere preso per il culo.
"Fontana" è stato il primo ready-made di Duchamp progettato per fare scandalo. L'artista, che era membro del consiglio della Society of Independent Artists, la cui mostra non aveva nessuna giuria, cercò da subito di imporsi in America. Sapeva comunque che la maggior parte delle persone avrebbe percepito il lavoro come uno scherzo, soprattutto se presentato da uno sconosciuto Richard Mutt di Philadelphia. Quando il consiglio di amministrazione votò contro, Duchamp e il suo principale mecenate, Walter Arensberg, si dimisero in segno di protesta –la storia fu rapidamente fatta girare sui giornali di New York.
Il ready-made ebbe il suo debutto in pubblico poche settimane più tardi in una rivista d'arte chiamata BLIND MAN. Una foto dell’orinatoio di Alfred Stieglitz fu pubblicata insieme al Manifesto fondante dell’arte concettuale, e comprendeva le celebri frasi: "Now Mr. Mutt's fountain is not immoral, that is absurd, no more than a bathtub is immoral. It is a fixture that you see every day in plumbers' show windows. Whether Mr. Mutt with his own hands made the fountain or not has no importance. He CHOSE it. He took an ordinary article of life, placed it so that its useful significance disappeared under the new title and point of view — created a new thought for that object." «Non è importante se Mr. Mutt abbia fatto Fontana con le sue mani o no. Egli l’ha SCELTA. Egli ha preso un articolo ordinario della vita di ogni giorno, lo ha collocato in modo tale che il suo significato d’uso è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista – ha creato un nuovo modo di pensare quell’oggetto».
L'orinatoio poi, come molti dei primi ready-made, fu criticato ecestinato. Così insignificante fu, al momento, il Pissoir porcellana che nessuno riesce a ricordare esattamente cosa successe all'opera in quegli anni, tanto che se ne persero le tracce.

"Fontana" non fu considerato un oggetto d'arte almeno fino a dopo la seconda guerra mondiale, quando Duchamp diventò una figura di culto tra gli artisti Pop. In risposta al desiderio del mondo dell'arte di vedere il suo leggendario sanitario, Duchamp autorizzò curatori ad acquistare orinatoi a suo nome nel 1950, 1953 e 1963. (Il primo è nel Philadelphia Museum of Art, il secondo è perso e il terzo si trova nel Moderna Museet di Stoccolma.) Poi, nel 1964, in collaborazione con Arturo Schwarz, un mercante d'arte di Milano, storico e collezionista, l'artista prese l’epocale decisione di rilasciare 12 repliche (una edizione di otto, con quattro prove) dei suoi più importanti ready-made, compreso l'orinatoio. Schwarz, che ora 86, ha continuato a scrivere il catalogo ragionato dell’artista-un libro scientifico con lo scopo di documentare l’opera completa di Duchamp.
Come anche pittore di baffi sulle cartoline della Monna Lisa, Duchamp aveva compreso il potere della riproduzione che rendere iconica (icona) una propria opera e consolida la reputazione internazionale di un artista. In effetti nove delle 12 "Fontane" ufficiali di Schwarz sono state inserite nelle collezioni dei musei ditutto il mondo (compresa la nostra GNAM). Delle tre in mano ai privati, una è a Bel Air, in California, un'altra è a Manhattan presso la famiglia Mugrabi, e l'ultima, di proprietà di Dimitris Daskalopoulos ad Atene, sarà esposta presso la Whitechapel Gallery di Londra questa estate.
Tra i numerosi paradossi degli orinatoi di Schwarz vi è il fatto che questi sono delle elaborate sculture di terracotta modellate sulla foto di Stieglitz del "originale". Ogni copia ha una storia, ma nessuna batte quella della numero 13. Soprannominata "il prototipo" e recante la firma di Duchamp, è passata tranquillamente per il mercato nel 1973 presso l’allora neonata galleria di Ronald Feldman a New York. Andy Warhol, che aveva visitato la galleria più volte, premette affinchè il sig Feldman scambiasse l'orinatoio con alcuni dei suoi ritratti. "Duchamp non fu venduto bene in quei giorni", disse il signor Feldman, "ma Andy comprese cosa volesse dire fare multipli perché in seguito ne fece lui stesso". Quando Warhol morì nel 1987, il suo orinatoio fu consegnato a Sotheby's come parte del suo gigante patrimonio di cinque volumi di opere. "Fontana" fu surclassata dalle stampe e ricevette una stima di $ 2.000-2.500. Fu venduta per $ 65,750 a Dakis Joannou, un magnate greco-cipriota, ed è ora esposta nella sala della sua abitazione principale di Atene. "Non riuscivo a credere che si potesse davvero", dice l'onorevole Joannou. "La gente non ha compreso la sua importanza storica, per cui abbiamo fatto un buon affare." Nel decennio successivo, la fama di Duchamp è aumentata ancora come la stima delle sue opere. Nel 1999 Sotheby's ha inserito un orinatoio Schwarz sulla copertina del suo catalogo di vendita Contemporary Art con un prezzo di $ 1,8 milioni.

I collezionisti d'arte contemporanea sono propensi all'acquisizione di singole opere, anche se in serie, ma non di edizioni limitate e non autografe. Alcuni possono essere costernati dall’apprendere che ci sono almeno altri tre "orinatoi Duchamp". Gio di Maggio, un collezionista la cui la Fondazione Mudima è a Milano, e Luisella Zignone, una collezionista di Duchamp con sede a Biella, hanno entrambi "Fontane" ricevute come regalo dal signor Schwarz. Sergio Casoli, un commerciante di Milano, parimenti dice di possedere una. (Egli ha rifiutato di mostrarla.)
Schwarz afferma che queste altre opere sono state fatte nel 1964 sotto la supervisione di Duchamp, ma non sono state incluse nella serie originale a causa di "imperfezioni". (E 'improbabile che ci possano essere più di 17 orinatoi di questa edizione, ma solo Schwarz lo può sapere con certezza.) Nessuno dei recenti orinatoi presentano la firma "Marcel Duchamp" che attesti il ready-mades. Tuttavia le Fontane possedute dal Sig. Di Maggio e dalla signora Zignone sono state esposte in istituzioni pubbliche a Basilea e Buenos Aires. In un'intervista, l’autorevole Schwarz a malincuore ha confermato che sta cercando di vendere una quarta "Fontana" per una somma che, una fonte ha riferito, è di $ 2,5 milioni. (Incalzato il signor Schwarz, ha detto che il prezzo richiesto dipende dal fatto che l'acquirente sia un museo, una collezionista dalla buona reputazione o uno speculatore.)
La fondazione dell’artista non è soddisfatta. Jacqueline Matisse Monnier, il presidente dell'Association for the Protection and Conservation of works by Marcel Duchamp, dice che "né mia madre né io ho mai sanzionato la vendita non di un ready-made non autorizzato." Vede attività di Schwarz come un fatto curioso, dato che "Arturo è stato un grande amico di Marcel". La madre della signora Monnier, la "Teeny", è stata sposata con Pierre Matisse, mercante, figlio di Henri, prima di sposarsi Duchamp, diventando erede sia delle opere di Henri Matisse che di quelle di Duchamp.
Alcuni studiosi di Duchamp sono indignati. Francis M. Naumann, uno studioso e commerciante che ha pubblicato molto su Duchamp, sostiene che questi orinatoi non possono essere considerati Duchamps a tutti gli effetti. "Per Duchamp, la firma era tutto", egli sostiene. "È l'elemento più importante nel processo di trasformazione di un oggetto comune di tutti i giorni in un opera d'arte".

Altri sembrano più ambivalenti. Daniella Luxembourg, co-proprietario del Luxembourg & Dayan, una galleria di New York che recentemente ha tenuto una mini-retrospettiva di Duchamp, dice circa il mercato sull’artista che "l'atmosfera è come quella delle reliquie in una religione", aggiungendo che "con la globalizzazione, le differenze tra ciò che è stato firmato da Duchamp e ciò che era nelle sue vicinanze diventeranno sempre più piccoli. "

Il rapporto di Duchamp col commercio non è stato mai ingenuo. Anche se ha preferito regalare il suo lavoro, piuttosto che venderlo, l’artista ha fatto una vita da mercante d'arte per molti anni. Duchamp è stato anche un grande giocatore di scacchi pertanto si potrebbe pensare che si sia portato avanti di molte mosse. Ci si chiede se l’ideatore del Dada, che metteva in discussione il concetto di opera d'arte autentica, non potrebbe essersi divertito nel confondere le acque del mercato attuale con questi discutibili "Fountains". "La mia produzione", ha detto una volta, "non ha alcun diritto di subire speculazioni".



giovedì 28 maggio 2009

Elogio del Nulla

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L’immagine che vedete sopra non è la foto di una cornice d’epoca o qualche installazione contemporanea che indaga sulla semiologia dei limiti fisici dell’opera d’arte; se “Las Meninas” di Velazquez ci ha fatto riflettere sull’ambiguità dello sguardo e sul doppio gioco dell’opera d’arte in quanto autenticazione e negazione di se, l’artista di quest’opera ha portato al limite semantico il genere della natura morta.

Cornelius Norbertus Gijsbrechts (1630-1675), fiammingo attivo alla corte di Danimarca, si specializzò in complessi ed ermetici “trompe l’oeil”, utilizzando anche figure sagomate e associando al carattere intellettualistico dei suoi inganni pittorici quello moraleggiante della “Vanitas”.

Cornelis_Norbertus_Gysbrechts_005Trompe l'oeil Cornelis_Norbertus_Gysbrechts_004Autoportrait à la nature morte

Le sue opere, volutamente ambigue, sono immagini del dipingere in quanto non mostrano l’inganno della pittura con una semplice ricostruzione mimetica, ma presentano il processo, gli oggetti, la falsità delle opere e della tela nelle pieghe cadute; nel farlo però usa il trompe l’oeil contraddicendo il suo svelare.

Dipingere un quadro girato o una natura morta in quanto tale (tela compresa), o una semplice parete con dei fermacarte è un paradosso pittorico ma anche una meditazione metapittorica sull’immagine e sulla sua autenticità.

Anche le Vanitas non sono da meno; in questo senso il tema della caducità della vita si lega alla falsità dell’immagine e ai rischi dell’inganno ottico.

Cornelis Norbertus Gijsbrechts, Flemish

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Per tornare sull’immagine della cornice il primo paradosso è dato dal fatto che il pittore sul diritto del quadro raffigura il suo rovescio, realizzando così una tela con due rovesci (uno originale ed uno dipinto); in realtà lo spettatore, tratto in inganno, era portato a girare il dipinto ed a trovarvi la tela, vera, tesa sul telaio; avrebbe compreso allora che quello che aveva visto era la rappresentazione di quello che stava vedendo: una tela appunto, o meglio, il nulla. Il soggetto del quadro è il quadro in quanto cosa materiale e in quanto illusione dei sensi. Si vedono i telai, la loro ombra, la trama della tela, il numero 36 (che indica come quella tela sia la trentaseiesima di una raccolta) ma non si vede, ne si potrà mai vedere, ciò che la tela raffigura in realtà, un’idea conservata solo nella mente del pittore. Cornelius, come osservato anche nelle altre opere, usa molto il tema del paradosso ricollegandosi al genere retorico dell’elogio sul nulla; la sua poetica della dissociazione suggerisce il tema della rappresentazione in toto come Vanitas, in quanto ogni opera d’arte, in quanto paradosso del vedere (supporto, immagine, realtà), non è che illusione e nulla.

L’opera non rappresenta altro che la negazione di se stessa, e sul suo negativo si ripiega.

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Del resto, anche storicamente, il tema dell’elogio sul nulla, comparso nel ‘500, ha il suo culmine proprio nel periodo del pittore; risale infatti al 1661 la pubblicazione del Tractatus philosophicus de nihilo, di Martinus Schoockius, che in appendice riprende due delle più importanti opere precedentemente scritte sullo stesso argomento: il Carmen de nihilo di Jean Passerat (Passeratius) e il Tractatus de nihilo di Charles Boville (Carolus Bovillus). Schoockius sostiene che discorrere del nulla è un paradosso: se si dice che nulla è qualcosa (nihil est aliquid) la copula introduce la nozione dell’essere nel campo del non essere. Il discorso de nihilo trasforma il nulla in qualcosa (hoc nihilum factum est aliquid).

Discorrere di nulla, però, è accettare che il nulla sia pur sempre qualcosa. È così che nasce il super paradosso, quasi un’ossessione per tutto il 600: l’elogio del nulla, che rappresenta il culmine della meditazione sulla vanità delle cose, è in se stesso nulla, poiché ogni paradosso, in quanto figura dell’arte, è una vanitas.

Ma questo Duchamp lo aveva capito fin troppo bene; La boîte-en-valise (o semplicemente Valise) è una serie di opere d’arte dell’artista le quali riproducono le sue maggiori realizzazioni; delle valigie di proprie opere che sono al tempo stesso proprie opere diverse; una sorta di cabinet de curiositè portabili e paradossali. In particolare La boite-en-valise è composta di una valigia contenente 69 riproduzioni dei suoi principali lavori, più numerose fotografie e piccole repliche dei suoi principali ready-made.

MDboite 20060909boite-en-valise

Ma di paradossi, in particolare nell’arte contemporanea, ce ne sarebbero molti altri a cominciare dalla “Merda d’artista” di Manzoni per finire al Teschio di Hirst “For the love of God”, se vogliamo una sorta di Vanitas moderna la quale pone il problema del valore dell’opera d’arte visto che, data la preziosità dell’oggetto, non si comprende se il prezzo esorbitante sia dato dal suo valore intrinseco o dal valore derivato in quanto oggetto artistico (il che sarebbe come pagare 15 euro una banconota da 10).

hirst-for the love

mercoledì 29 aprile 2009

Identità e dissoluzione

Anche se gli scienziati italiani nel 1924 (ignorando il lavoro di Duchamp) avevano scoperto questa particolare forma di illusione, definendola come "effetto stereo-cinetico", Duchamp era giunto da solo a questo fenomeno percettivo già nei primi anni del 1920, realizzando il suo primo set di dischi ottici nel 1923. Questi aveva capito che dalla filatura dei disegni composti come una serie di cerchi concentrici, con una rotazione sempre più veloce si riusciva a creare un modello tridimensionale della forma, anche attraverso il principio dell'occhio solo. Come poi in Ane'mic Cine'ma, 1926, l'osservazione dei dischi in rotazione mette in moto le nostre pulsionoi più remote nell'ambiguità dell'immagine-tempo dove lo sguardo cade frantumandosi in mille prospettive sempre uguali; partendo dal grado 0 della forma si arriva, nell'aumentare della velocità, a forme alternative formatesi dalla somma di tutti gli attimi dell'immagine di partenza; una piccola alchimia dello sguardo nell'ossessione del movimento. Da questo link il progetto interattivo di Vittorio Marchi e Robert Slawinski permette di rivivere l'esperienza percettiva di questi cerchi.

http://toutfait.com/rotoreliefs/roto.htm

mercoledì 22 aprile 2009

Grande Vetro - Grande Opera



Breton, nel manifesto del Surrealismo del 1924, dichiarò di voler assumere la sapienza Alchemica a modello di un “occultamento” per evitare assolutamente al pubblico di entrare nell’opera, ovvero tenerlo alla porta della provocazione, confuso e sfidato, così le avanguardie, spesso, cercarono dietro astruse e insensate provocazioni, di nascondere un sapere ermetico. Ne fu un anticipatore lo stesso Duchamp, massimo interprete del Dadaismo, il quale, nella sua opera "La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli", opera nota più brevemente come "Il Grande Vetro", cui lavorerà dal '15 al '23 senza portarla mai decisamente a termine, (nel '27 fu danneggiata durante un trasporto - ma Duchamp lasciò intatta la frattura del vetro considerandola un'aggiunta "casuale") nascose, dietro il precetto alchemico del “silenzio” un significato ben più profondo della stessa provocazione visiva. Come dice calvesi lo “spiritoso” nel suo lavoro, oltre a rimandare all’ironia e l’assurdo, che rimangono sempre principi fondanti, rimanda anche all’utopia spiritualista.

Il criptico sottotitolo dell’opera “La Mariée mise à nu par ses célibataires, meme”, "La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli", può essere sottoposto ad una seconda lettura, secondo il principio delle doppie letture omofone largamente usato da Raymond Russell, e suona così “La Marie est mise à nue pas ses céli-batteurs”, ovvero “Maria è messa nella nuvola dai propri trebbiatori celesti o celi-trebbiatori”. Dietro l’apparente gratuità della realizzazione, allora, si cela un complesso sistema di simbologie; qualcuno l’ha definita “macchina autopoietica” la quale, esclusivamente in relazione alla propria autoreferenzialità e sistemi concettuali interni, mantiene una sorta di “autocomportamento”.
Maria “portata nella nuvola” è la Vergine Assunta e, in effetti, come nelle tradizionali iconografie dell’Assunzione, il Grande Vetro (notare il gioco di parole fra Grande vetro e Grande Opera) è diviso in due parti, terrestre e celeste; nella prima vediamo una nuvola con tre quadrati, nella seconda un parallelepipedo in prospettiva, simboleggiante un feretro vuoto; i “trebbiatori celesti”, invece, richiamano la definizione duschampiana dell’opera come “macchina agricola” e come “macchina a vapore” con “base in muratura” (ovvero il fondamento massonico-ermetico-filosofale che la spiega).

Nel linguaggio dell’alchimia la trebbiatura (“celeste”), l’assunzione della Vergine incoronata dalla Trinità e il denudamento della sposa sono tutte metafore, codificate nei trattati (come nell’immagine tratta dal Rosarium Philosophorum), che significano la purificazione della materia e la sua trasformazione in “pietra filosofale”. I dettagli sono molti:

La “macinatrice di cioccolato”, come l’artista chiama il congegno con tre rulli (la macina della Malinconia di Durer) che serve a triturare la materia “al nero” (indicata come cioccolato).

I sette “setacci” o “crivelli” che la sovrastano corrispondono alle sette chiavi delle operazioni e sono strumenti di progressiva raffinazione.

Il “mulino ad acqua” incorporato nel carro-sarcofago e con sopra le “forbici” a croce (secondo i termini di Duchamp) alludono al progressivo dissolvimento della materia la quale, una volta “dissolta”, sale al cielo come vapore.

Nel cielo la nuvola con tre finestre (allusive alla Trinità) ricondenseranno la materia per farla tornare sulla terra in forma di gocce fertilizzanti (rugiada filosofica) e dare nuovo avvio al processo alchemico.
L’opera così in sé è una continua polarizzazione di principi positivi e negativi e credo che la sua essenza risieda proprio in questa sua ineffabilità, in questa mancanza; il Vetro, ovvero l’assenza dell’ elemento che pone una distanza fra l’opera e l’osservatore, inoltre, contribuisce ad aumentare questa partecipazione passiva al processo, questa sorta di ermeneutica infinita che non finirà mai di colpire.
cfr. M. Calvesi, Arte e alchimia; M. Eliade, Il mito dell'alchimia.

Duchamp, Grande Vetro

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