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lunedì 20 gennaio 2014

Sergio Lombardo - Anni 70 - Conferenza del 16 gennaio 2014 al Palazzo Delle Esposizioni


Sergio Lombardo. Autore di Progetto di morte per avvelenamento del 1970, un'opera che si concretizza nell'offerta allo spettatore di una emblematica scelta tra la vita e la morte, Sergio Lombardo ha dedicato gran parte della sua ricerca all'influenza che la psicologia e l'arbitrio hanno sulla definizione della realtà e della sua rappresentazione attraverso il linguaggio. Il testo si riferisce alla conferenza tenuta da Lombardo presso il Palazzo delle Esposizioni lo scorso 16 gennaio. Il titolo della conferenza è 

ANNI '70
DOPO IL GRANDE SUCCESSO INTERNAZIONALE DEGLI ANNI '60
L'ITALIA RINUNCIA ALL'AVANGUARDIA
IN NOME DELL'ANACRONISMO

Il file in questione riporta, per punti, il discorso affrontato dal maestro mostrando, attraverso la documentazione bibliografica e la cronologia degli eventi come sia stata tradita e affossata l'avanguardia italiana, in particolare l'avanguardia romana degli anni Sessanta. Il testo riporta solamente delle impressioni in forma schematica e non è da intendere come un saggio completo ma solo come uno schema ricco di spunti critici da approfondire.

- See more at: http://www.palazzoesposizioni.it/categorie/anni-settanta-roma-in-mostra

Sergio Lombardo - Progetto di morte per avvelenamento
Per maggiori testi consultare il seguente link: http://www.sergiolombardo.it/pubblicazioni.html


 

mercoledì 29 maggio 2013

Biennale Venezia 2013: "Palazzo Enciclopedico" e il nuovo ruolo dell'arte

Il sonno dell'arte in tempo di crisi è capace di rispolverare i mostri del passato, o meglio di quell'inconscio sopito che tante volte, dalla fine dell'Ottocento, si è tentato di liberare per destabilizzare il mondo. Arte elitaria e visione di un paleo-futuro decadente per una certa borghesia già introdotta nelle pieghe di un sapere ermetico e anti-democratico. Inutile dire che tra spiritismo, medium e satanismo di cattolicesimo, col suo ruolo di guida delle arti, non c'è rimasto nulla; neanche nel padiglione del Vaticano.



"In un occidente ossessionato dall'incapacità di trasformare il mondo, colpito processi storici che si abbattono con la violenza e l’irrimediabilità delle catastrofi naturali, il curatore di questa 55ma biennale di Venezia, l’italiano Massimiliano Gioni, propone il ripiegamento nell’antropologico. Lo fa con raffinatezza, stratificando letture decennali di Hans Belting, Paolo Rossi, Maurice Merleau-Ponty, Gilles Deleuze, Walter Benjamin e tanti altri per costruire il ritratto della ricerca artistica contemporanea in un immenso gabinetto delle curiosità, come quelli in voga nell’Europa principesca del Cinquecento.

Il suo Palazzo Enciclopedico – è il titolo della mostra -, sembra un vero e proprio labirinto tassonomico, dove nella crisi della capacità creativa, il ruolo dell’arte diventa quello di raccogliere i relitti lasciati e consumati dalla vita per organizzarli un’inchiesta estetica sulla natura umana. Lo dichiarano da subito le due sale con cui si apre il duplice percorso della Biennale, suddiviso come sempre tra le Corderie dell’Arsenale e il padiglione principale dei Giardini.

Nel primo, c’è il grande plastico dell’artista autodidatta Marino Auriti del 1955, progetto di un immenso grattacielo di 136 piani destinato a Washington e che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto racchiudere «tutto il sapere del genere umano». Appese attorno nella stessa sala, sono le fotografie di J.D. ‘Okhai Ojeikere che, volendo documentare aspetti della cultura nigeriana, negli anni Sessanta finì per creare intere mappature antropologiche come quelle esposte in mostra, dove sono ritratte le principali tipologie di acconciature tradizionali del paese. Varietà e tentativo di mettere ordine, unità e molteplicità rizomatiche che aprono anche la sezione ai Giardini con le tavole illustrate del Libro Rosso di Jung, prodotto di un lunghissimo lavoro di ricerca psicanalitica alla ricerca degli archetipi che si nascondono dietro la varietà naturale dei comportamenti mentali.

L’approccio di Gioni, il suo rifiuto di un’arte poietica e il rifugio nell’universo psichico, nell’ossessione descrittiva, nella nevrosi non creativa non sono cose nuove nel mondo dell’arte. E compaiono regolarmente a ogni passaggio di crisi. Fu così negli anni Ottanta, quando la riscoperta della pittura, di un certo espressionismo e del mondo degli spesso distruttivi nascosto dietro l’apparente perfezione della modernità, sembrò mettere in cantina per sempre movimenti come l’arte concettuale e il minimalismo che avevano puntato all’industria e alle sue capacità produttive per trasformare il mondo. Ed era stato così a inizio secolo, con la grande crisi dell’Europa industriale che apriva alla società di massa e negli anni Cinquanta, con il primo, tragico dopoguerra.

A quanto pare ci risiamo, come dimostra una museografia ispirata alle ricerche, purtroppo prematuramente interrotte di Adalgisa Lugli, che nel 1983 (non a caso) aveva pubblicato un libro (Naturalia et Mirabilia) destinato a fare storia proprio sulla storia delle Wunderkammer, i gabinetti di curiosità rinascimentali e barocchi da cui sarebbero nati i musei. Ricerche ispirate a quelle di Julius von Schlosser che nel 1908 (ancora una volta una data non a caso) aveva pubblicato la prima opera sui gabinetti di curiosità, destinata a fare epoca. Ci risiamo, quindi, come dimostra l’allestimento scelto da Gioni che sembra un vero e proprio labirinto, disordinato ma con una sua via d’uscita, come le leggi infinite, analogiche della scienza barocca a cui si ispira. Rifiuto del’organizzazione razionale del museo moderno.

Le opere in mostra, perciò, non hanno nulla a che vedere con quelle neomoderniste della Biennale di Robert Storr di sei anni fa. Somigliano, piuttosto, a ritrovamenti di un’archeologia fantastica da cui costruire ipotetici orizzonti di senso. È il caso delle istallazioni di Rosemarie Trockel, fatte di relitti di un’infanzia novecentesca – bambole, pupazzi rabberciati di tela, carta e spago – o nella distesa di dagherrotipi e foto antiche anonime, a metà visibili e a metà svanite, esposti assieme a veri ex voto popolari o altri autentici reperti. Un’altra categoria di opere, in special modo video, invece, investigano i limiti della tecnologia moderna, per dirla con le parole del curatore in riferimento al francese Laurent Montaron presente in mostra, investigano i «processi irrazionali e misteriosi delle macchine». È il caso del video di Yuri Ancarani, che racconta il lavoro di un robot chirurgico come se fosse un essere mostruoso e animato, costruito - suggerisce l’autore - secondo paradigmi antropomorfi.

Sono 150 le opere raccolte da Gioni e, che piaccia o meno, sono raccolte ed esposte con una coerenza che tiene dall’inizio alla fine. Dando vita a una mostra piuttosto intellettualistica, a dire la verità, forse lontana dai centri e dai problemi nevralgici del mondo contemporaneo e vicina all’immaginario di una borghesia occidentale che sembra compiacersi del proprio decadimento. Ma di sicuro nevrotica, ossessiva e forse anche un po’ cinica, restituendo un’immagine antropologicamente esatta dell’aria che tira in questa parte del mondo".


domenica 12 febbraio 2012

L'inganno del critico - Jean Clair

Jean Clair riesce sempre ad aprirci gli occhi sulle dinamiche dell'odierno sistema dell'arte

Poussin - Autoritratto
Provo sempre un sentimento di disagio quando mi si applica la qualifica di "critico d' arte". L' origine del termine è tra le più incerte, il suo impiego è tra i più vaghi, la sua serietà tra le più contestate. Poiché requisito dell' arte è il silenzio - Poussin diceva che «la pittura concerne le cose mute» - il critico d' arte non potrà che esserne la protesi, una sorta di ventriloquo dell' arte. L' etimologia della parola sembra, in verità, suffragare questa interpretazione. È un termine che rinvia a una condizione di malessere che è forse quello di cui oggi soffre l' arte. In ogni caso è in questa prospettiva che l' attività "critica" acquista un senso. Proveniente dal greco krinein, la parola avrebbe un' origine medica e si riferirebbe a quel momento - krisis - dell' evoluzione della malattia giudicata pericoloso, difficile, decisivo. E critico è il medico che sa ravvisare quel momento, influenzando così la prognosi. La critica d' arte come attività specifica compare, in effetti, in un momento in cui, dopo tanto risplendere, l' arte comincia ad essere preda della malattia o di ciò che Manet - che ne fu uno spettatore consapevole - chiamerà la sua "decrepitudine". L' attività critica diventa un rimedio a questo male. Il critico è, dunque, una invenzione recente, che risale all' incirca al XVIII secolo. Non vi era crisi nell' arte arte antica, nell' arte d' Antico Regime. Non vi erano dei "critici" ma dei giudici, incaricati di verificare la conformità delle opere a dei canoni,a delle norme invariabili, a dei programmi iconografici precisi. Non si critica la muscolatura di un eroe la cui figura è conforme al canone di Policletoo di Vitruvio. Non si critica la rappresentazione di una Deposizione dipinta da un artista per un convento. Si verifica se esse siano conformi a dei programmi, dei trattati di proporzione, dei dogmi religiosi, dei paradigmi. Credo che sia proprio nel momento in cui il corpo dell' arte si ammala, che il critico d' arte entra in scena. Pensiamoa Diderote alle sue critiche dei Salons, scritte quando le opere d' arte non rispondono più a una committenza pubblica, religiosa o principesca, ma sono l' espressione di un gusto individuale in vista di un pubblico profano. È anche il momento in cui la nozione di "Belle Arti", rispondente a regole, canoni, teorie, paradigmi, scompare a profitto de "l' Arte" tout court, qualità propria ed inimitabile di un individuo che si vuole creatore e si crede un genio. È allora che, a partire dal 1750, in corrispondenza con questa scomparsa, nasce l' Estetica, una nuova scienza che si accinge a prendere in esame l' infinita varietà delle sensazioni e la diversità delle sensibilità corporee, senza più tener conto dei canoni antichi. Fintanto che l' arte era destinata agli Dei e ai Potenti, la valutazione critica - fenomeno umano, troppo umano - non aveva alcun senso. È quando l' arte diventa oggetto di diletto per dei privati che vediamo l' emergere di una critica privata e di quel bizzarro mestiere - a malapena un mestiere - a cui andrà il nome di critico d' arte. Fin dalla sua origine, tuttavia, l' arte è sempre stata sottomessa alla parola. La formula di Cicerone, docere, delectare, movere, che definisce l' arte della parola, la retorica, verrà presto estesa all' arte plastica, l' arte delle forme e dei colori, anche essa capace di eloquenza e, dunque, di "ben dire". Nicolas Poussin - ancora lui! - farà propria la formula: docere et delectare. Colui che parla dell' arte, l' oratore, il critico, sarebbe, in fondo, la voce che spiega e che forse impartisce direttive alle voci del silenzio, alle voci delle Belle Arti. Non ci dimentichiamo che Fidia stesso fu un oratore e che, in musica, l ' Offerta musicale di Bach viene composta sul filo della lettura dell' Istituzione oratoria di Quintiliano. Quel che bisogna conservare, e non criticare, è questo dialogo tra le arti - la pittura, la musica, l' architettura, la retorica - perché, pur rispondendo a discipline diverse, esse obbediscono tutte alla stessa armonia. Eppure il dialogo è venuto meno. Il tempo in cui un' unica e uguale armonia dettava le leggi di un quadro, di una composizione musicale, di un' architettura o di un corpo umano si è concluso. 

Nato da questo dialogo spezzato, un nuovo regime si instaura a partire dal momento in cui il critico d' arte si fa carico della responsabilità che fino ad allora era stata di pertinenza dello scrittore, del musicista, del poeta, per diventare il ventriloquo di un' arte che, privata del suo rigore retorico, è più muta e confusa che mai. E - peggio ancora - per imporsi come una sorta di spettro che viene ad abitare il corpo muto della pittura, fino a dirigerne dall' interno gesti e atti. Una critica d' arte? Piuttosto un magistero sconfinante con l' ossessione spiritica. Se i programmi iconografici o le regole estetiche scompaiono è allora a profitto di programmi politici, presto chiamati manifesti. Il critico non può che mettersi al servizio di un programma, diventa un portavoce, meglio ancora un profeta che apre la via e che battezza: la sua missione non è più quella di difendere un canone ma una causa. Da consigliere delle corti e dei salotti a eminenza grigia del regime il passo sarà breve. Se la politica si è estetizzata, presto sarà l' estetica a politicizzarsi. I nuovi "critici" saranno Bottai o Lounatcharski, ma presto anche Jdanovo Goebbels (egli stesso scrittore), al servizio di despoti capaci di ridurvi al silenzio, all' ergastolo. La critica non ha più posto nella divulgazione di un' arte che è ridiventata un' arte ufficialee di culto. Il fatto che ogni gesto sia codificato, ogni attitudine conforme, ogni sorriso sottoposto a verifica, ma anche ogni colore vagliato esclude l' intervento di qualsivoglia esercizio "critico". Questo va da sé. Ma, a rischio di apparire paradossali e provocatori, andiamo oltre, in direzione dell' arte "borghese" favorevole alla critica "formalista": quale critico avrebbe osato, negli anni ' 30, criticare le forme dell' avanguardia, che nel frattempo erano diventate delle formule? Chi avrebbe osato criticare la doxa del cubismo,o le prescrizioni maniacali degli adepti dell' astrazione geometrica alla Mondrian? Una volta di più, il critico non era un compagno di strada, ma colui che forniva le formule, i programmi. Impone le parole d' ordine, le formule, i manifesti e all' artista di ubbidire. L' impostura si spingerà ancora più lontano quando, negli anni ' 60, finito da tempo il programma utopico delle "avanguardie", si continuerà nondimeno a usare il termine "avanguardia", a servirsene come di un marchio di fabbrica, di uno slogan di cui il critico diventa allora l' uomo sandwich. Più tardi, negli anni ' 90, quando l' impostura divenne ancora più evidente, si inventò il termine di "arte contemporanea" per distinguere colui che nella attuale produzione emergeva munito di una qualità che lo rendeva - lui e lui solo - capace di garantire della qualità della "contemporaneità" come di un grado superiore di presenza al momento presente, e che fa sì che Jeff Koons sia più "contemporaneo" di Botero- quando in realtà sono entrambi ugualmente kitsch. Il critico ridiventò allora il personaggio centrale di questa manipolazione. C' era bisogno di una operazione singolare, di una sorta di catalisi perché la sua parola assumesse la forza di un dogma. La catalisi la si ottiene aggiungendo ai suoi lati due figure essenziali: lo storico d' arte e il mercante. Il mercante è quello che fornisce la mercanzia, lo storico d' arte colui che ne attesta la provenienza. Al critico non resterà più che autentificarne la qualità e tentare di descriverla con le sue parole. Se parlo con tanta convinzione di questo processo è perché io stesso ne ho fatto parte. Non sono più un critico d' arte da molto tempo, ma lo sono stato quanto basta per avere la misura dei limiti di questo strano mestiere. 

Nel 1970 creai, poi diressi per quattro anni, una rivista di avanguardia, Chroniques de L' Art Vivant. Assai prima di riviste come Art Press o Teknikart, che oggi danno il "la" in fatto di mode estetiche, L' Art Vivant fu la prima a lanciare in Francia la passione dell' avanguardia. Vi apparvero i primi articoli su artisti, allora pressoché sconosciuti, come Boltanski e Buren - ne fui l' autore-e sulle prime stelle della Scuola minimalista americana come David Judd o Robert Ryman. Vi pubblicammo anche le prime interviste a Joseph Beuys e un numero speciale consacrato agli artisti dissidenti dell' Unione Sovietica, che mi valsero una convocazione minacciosa dell' Ambasciatore dell' Urss a Parigi. Nel 1974 misi fine a questa esperienza. Avevo sperimentato l' impostura che poteva rappresentare una pubblicazione consacrata a dei movimenti così detti d' avanguardia. Avevo visto com' era possibile, nel giro di sei, otto mesi, lanciare sul mercato dell' arte nomi o prodotti. La condizione era quella di riuscire a creare quella triade miracolosa di cui ho parlato prima: mettere d' accordo fra di loro per osannare lo stesso artista, un conservatore di museo, tutto eccitato di riscaldarsi ai fuochi dell' attualità, uno storico d' arte, ugualmente felice di lasciare i suoi studi per riscaldarsi al calore degli atelier dei giovani creatori, un giovane critico ambizioso e naturalmente un mercante per aiutare, sul piano materiale, questa trinità a rivelare al profano i misteri dell' Avanguardia... Potei inoltre verificare, come aveva mostrato McLuhan, che il supporto, il medium, diventava il messaggio. Poco importava l' oggetto: era la sua esposizione, la sua messa in valore, il modo di fotografarlo, le parole per descriverlo che lo facevano esistere, non il suo valore intrinseco. Questa esperienza delle arti fittiziee dei mercati ingannevoli mi allontanò per sempre dalla critica. Vi acquistai una certezza: che la storia dell' arte moderna e contemporanea è fatta di cliché - nel senso quasi tecnico del termine - e che era venuto il momento di scriverla. Intrapresi questa riscrittura in due modio su due scale. Intendevo fare vedere che la concatenazione delle scuole e dei movimenti d' avanguardia era una illusione retrospettiva di cui bisognava liberarsi. Così ideai due mostre che mi valsero la reputazione di reazionario o di revisionista. Nei Realismi tra le due guerre del 1981 (Centre Pompidou), cercai di smentire la doxa secondo cui l' arte tra le due guerre aveva segnato il trionfo dell' astrattismo e l' inizio del primato dell' arte americana. In realtà, tra le due guerre, dalla "Neue Sachlichkeit" tedesca ai "Valori Plastici", si era fatto ritorno al soggetto, al classicismo e alla forma. E nel 1995, per il centenario della Biennale di Venezia, tentai ugualmente, con la mostra Identità-Alterità, di dimostrare che l' arte del XX secolo aveva segnato il trionfo del ritratto. Al contempo le mie curiosità sull' arte di oggi mi spinsero a cercare degli artisti viventi il cui genio potesse corrispondere a questa storia rivisitata di cui cercavo di riscrivere le tappe. Si trattava ancora di critica? Sì se, come abbiamo visto, si intende con ciò l' arte del terapeuta che formula una diagnosi. O ciò che Kant aveva definito come critica in relazione alla Ragion pura e da cui noi non avremmo mai dovuto scostarci: una rivoluzione copernicana del nostro modo di comprendere il mondo a prescindere dalle mode e dai capricci dei nostri sensi. (Traduzione di Benedetta Craveri)

JEAN CLAIR su Repubblica 5 febbraio 2012

martedì 20 dicembre 2011

Transfunzionalità


Termine nuovo per un concetto ormai acclarato per l'arte contemporanea degli ultimi 30 anni. E' il caso del nuovo libro di Marco Tonelli THE ART HORROR PICTURE SHOW Dalla Transavanguardia alla Transfunzionalità. La nascita dell’Arte contemporanea come provocazione, i suoi illustri critici e difensori, la Transavanguardia italiana, il MAXXI di Roma, i Supercollezionisti internazionali, i curatori alla moda, gli artisti oltre i limiti dell’arte. Un libro sfrontato, discorsivo, argomentato e polemico sull’Arte contemporanea, valutata per la prima volta secondo una nuova chiave interpretativa e di estrema attualità: la Transfunzionalità.
Un libro che è una cruda radiografia di un fenomeno, quello appunto dell’Arte contemporanea, che non sa più distinguersi dal mondo dei media, della cronaca e della pubblicità e che è oramai costretto a confessare la verità sulle sue reali funzioni nella società contemporanea. Ma cosa ha voluto intendere l’autore con il concetto di Transfunzionalità nell’arte? "Un oggetto comune diventato opera d’arte semplicemente per essere stato spostato dal suo contesto originario e che va quindi analizzato e motivato secondo il sistema dell’arte".


mercoledì 7 dicembre 2011

La casta dell'arte...parla il blogger Luca Rossi


Il dibattito sul sistema-arte è feroce e tocca qualche nervo scoperto. Il blogger Luca Rossi, gestore di Whitehouse, accetta di intervenire e lo fa a gamba tesa per raccontare ad Affari come è organizzata la Casta e come gestisce i giochi di potere.

Whitehouse è nato nel 2009 e propone una riflessione critica e propositiva che partendo dalle dinamiche del sistema dell'arte e dei suoi linguaggi, arriva ad una riflessione più ampia sul periodo storico attuale. Attraverso la figura di Luca Rossi, il blog ha iniziato a proporre dei progetti indipendenti, mettendo in discussione alcuni codici e convenzioni. Nel 2010 Fabio Cavallucci (direttore del Centro per l'Arte Contemporanea di Varsavia e collaboratore della rivista Flash Art), in un'articolo apparso su Exibart, ha definito così il blogger: "E' la personalità artistica più interessante del panorama italiano di questo momento. Lo è perché, insieme ai contenuti, rinnova anche il linguaggio. In prospettiva, potrebbe modificare anche il sistema".

Il mondo dell'arte è una Casta? Perché? Qualche intervento dei lettori nell'ambito del dibattito accusa di assenza di fondamento questa affermazione...
"Vorrei partire facendo un'utile semplificazione. Potremo dire che il mondo dell'arte italiano è diviso in tre parti: la parte che fa riferimento a Vittorio Sgarbi, la parte che fa riferimento a Luca Beatrice (curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2009) ed una terza parte che, potremmo dire, fa riferimento a due giovani riviste di arte come Mousse e Kaleidoscope (con tutti gli operatori e gli inserzionisti che ne fanno parte). Questo per dare punti di riferimento semplici. La parte del sistema più interessante, come qualità e capacità di esportare all'estero l'arte italiana, è la terza, quella appunto che ruota intorno alle riviste Mousse e Kaleidoscope (che chiamerei il polo Moussoscope). Quindi mi concentrerei su questa parte..."

Ok partiamo da qui...
"Tale sistema è gestito da un'oligarchia di pochi operatori (governo di pochi) mentre il suo pubblico è formato solo da addetti ai lavori e curiosi. Infatti a tale sistema interessa il collezionismo (bastano una dozzina di buoni collezionisti, semmai tra italia ed estero, per tenere in piedi una galleria), compiacere gli addetti ai lavori e guadagnarsi fama sulla scena internazionale. L'assenza di un pubblico è paragonabile all'assenza di "opinione pubblica" negli stati democratici: non c'è interesse e controllo su questa oligarchia".

Quindi? 
"In Italia esiste un divario fortissimo tra questa parte del sistema e il pubblico (e di conseguenza anche tra tale parte e il sistema politico): l'operazione "volgare" di Sgarbi si insinua proprio in questo vuoto mantenuto colpevolmente in vita da quella che può chiamarsi Casta, che può liberamente 'sguazzare' tra il conflitto di interessi, i favoritismi relazionali e di tipo commerciale. La conseguenza? Un disincentivo forte all'emergere di situazioni virtuose e di qualità. Anzi i fantomatici critici di questo sistema non operano mai un'azione realmente critica verso questa Casta, né dal punto di vista dei contenuti (quindi del'arte) né col tentativo di eliminare i "giochi di potere". Questo perché ogni critico, ogni addetto ai lavori teme di perdere un possibile ingaggio futuro andando contro tale Casta".

E per quanto riguarda l'aspetto finanziario? Il business? 
"La Casta opera anche sulla lievitazione dei prezzi delle opere, senza partire da alcuna base critica, ma solo sull' alleanza tra 2/3 operatori- amici. Questo crea sulle opere d'arte un'effetto Parmalat e mentre il risparmiatore protesta perché rivuole il suo denaro, il collezionsita che ha subito un bidone sta zitto per paura di perdere il suo status sociale e per paura di non poter più rivendere la sua opera-bidone. Ma l'anomalia più paradossale è che questo sistema, oltre ad essere criticabile sul piano etico-morale, è inefficace e non produce risultati positivi sulla scena internazionale".

Può fare qualche esempio?
"Se lei intervistasse alcuni operatori, anche molto autorevoli, le direbbero che gli artisti italiani vengono ignorati dalla scena internazionale. Questo perchè la Casta mira, prima di tutto, a disincentivare l'innovazione, l'approfondimento critico e quindi la qualità. Nomi come Cattelan, Vezzoli, Beecroft, Bonvicini, che hanno consolidato la loro fama all'estero negli anni '90, ce l'hanno fatta solo lanciandosi da soli in un sistema internazionale". 

Ha altre informazioni dettagliate da raccontare?
"Ci sono casi di conflitto di interessi, alleanze commerciali tra fondazioni private, gallerie private e curatori".

Qual è il punto sul quale si sente più critico?
"Il punto essenziale è che i giochi di potere penalizzano la qualità, importante qui e all'estero; rendono quella che dovrebbe essere la parte 'migliore' dell'Italia precaria, condannando molti giovani brillanti a vivere alle spalle di quella che ho chiamato "Nonni Genitori Foundation" (vero ammortizzatore sociale del sistema dell'arte italiano). Tale sistema produce illusioni e delusioni per gli studenti che escono dalle accademie e dalle scuole".

Conosce esperienze dirette o indirette di artisti che a causa di questa Casta non riescono a decollare? 
"Conosco esperienze dirette ed indirette di curatori e critici che trattano in modo sprezzante gli artisti e che decidono le mostre mandando qualche e-mail ad alcuni amici. Conosco di favoritismi nei confronti di artisti di certe gallerie e non di certe altre. Conosco gallerie private che forniscono agli artisti condizioni economiche inaccettabili e fuori da qualsiasi etica del lavoro. Bisogna considerare che da 10-15 anni le file dei giovani artisti sono sempre più numerose e quindi c'è sempre qualcuno disposto a prendere il posto di chi si rifiuta di sottostare a certi diktat. Questo provoca un circolo vizioso che disincentiva ulteriormente la qualità. In questo sistema oligarchico gli artisti sono la parte piu' debole del sistema. I piu' forti sono i curatori, gli organizzatori, che spesso nascondono, in modo piu' o meno celato, aspirazioni artistiche da 'prime donne'. Gli artisti, e soprattutto i piu' giovani e quindi quelli di domani, sviluppano una 'sindrome arrendevole' esattamente come fossero 'operai non specializzati tenuti in ostaggio' da un sistema capace di escluderli nel caso non siano disposti a compromessi". 

Di che cosa si occupa il suo blog?
"Nella figura del blogger convergono tutti i ruoli del sistema dell'arte (artista, curatore, critico, direttore di rivista, spettatore, commentatore, collezionista, gallerista, ecc). In questo modo è possibile organizzare un'azione indipendente che possa bypassare le deficienze del sistema reale e della Casta. Quindi oltre ad esprimere una visione critica rispetto ai contenuti e ai giochi di potere, viene anche proposta un'alternativa concreta fatta di progetti e mostre fruibili nella realtà. Tale attività ha interessato alcuni operatori autorevoli come Fabio Cavallucci, Roberto Ago, Alfredo Cramerotti, Giacinto Di Pietrantonio, Andrea Lissoni, Micol Di Veroli, Stefano Mirti. Questo interesse è scaturito anche in operatori che sono stati criticati dal blog, ma che hanno accettato il confronto ed il dialogo".

Vede all'orizzonte una possibile soluzione?
"Devo dire che in questi due anni di attività l'azione solitaria del blog ha determinato una maggiore apertura della Casta. In ogni caso è molto difficile modificare così velocemente alcune dinamiche ed alcune situazioni. Bisogna far capire alla Casta che il suo comportamento è fondamentalmente inefficace e che sarebbe nel suo interesse favorire una maggiore apertura critica e un maggiore confronto su i contenuti. Sembra strano ma il blog Whitehouse è l'unico luogo in Italia dove viene sviluppata un'azione critica".

E delle altre due parti che mi ha citato all'inizio del percorso?
"Sono ancora peggio di quella che ho descritto ora che è la parte 'migliore' del sistema. La parte di Luca Beatrice e quella di Vittorio Sgarbi, in modo più radicale, offrono situazioni sintomatiche sia dal punto di vista dei contenuti che delle dinamiche relazionali interne. Il progetto di Sgarbi per il suo Padiglione Italia mette in luce la sovraproduzione di opere, artisti che vengono trattati come polli in batteria, gioco delle raccomandazioni, opere d'arte come accessori marginali e decorativi in favore della personalità artistica del curatore, incapacità di definire scale critiche e valoriali come punti di riferimento per la qualità".

Quali sono secondo lei personaggi positivi (che si spendono per rompere il sistema della Casta) e quali negativi (lo portano avanti)?
"Se considera quanto detto precedentemente è molto difficile l'emergere di personaggi veramente positivi. Tutti temono di perdere future opportunità di lavoro. Alcuni personaggi hanno perso il lavoro perché qualche potente pensava che lavorassero al mio blog. In Italia la Casta possiede diversi centri di potere, soprattutto sull'asse Torino, Milano, Venezia, Bergamo. Ci sono operatori aperti al dialogo, ma che poi non fanno nulla per invertire certe tendenze, mi riferisco ad Angela Vettese. Operatori che predicano bene e razzonalo male, mi riferisco a Pier Luigi Sacco (che con la Vettese e Carlos Basualdo dirigono il festival internazionale dell'arte contemporanea a Faenza). Ci sono operatori giovani estremamente devoti alla Casta quali Milovan Farronato ed Alessandro Rabottini; alleanze tra professori e sistema per favorire gli studenti di certe scuole in modo tale che tali scuole siano legittimate (mi riferisco al caso virtuoso del professore/artista Alberto Garutti a Brera); esistono operatori della Casta estremamente aperti al dialogo come Giacinto Di Pietrantonio; galleristi silenti come Paolo Zani della Galleria Zero o il gallerista Massimo Minini; direttori di riviste, come Giancarlo Politi di Flash Art, incerti tra l'abbracciare la mia azione o censurarla; operatori autorevoli molto più aperti e fattivi come Fabio Cavallucci, Alfredo Cramerotti ed Andrea Lissoni. Giovani operatori come Roberto Ago che dalle pagine di Flash Art tentano di rendere la mia azione più accettabile ed efficace rispetto le anomalie del sistema italiano". 

...
"Per concludere vorrei sottolineare che questa parte del sistema italiano, quella che ha maggiori possibilità sul piano internazionale, produce, e sarebbe in grado di produrre, il meglio che si possa fare in Italia. Questo non avviene solo per una forma di "stupidità generale" che condanna il sistema italiano alla precarietà interna e alla totale marginalità sul piano internazionale".

venerdì 21 ottobre 2011

Achille Bonito Oliva Vs Diprè

Andrea Diprè, sedicente critico d'arte, ha un proprio canale sul satellite dove invita e presenta artisti senza alcuna selezione e promettendo grandi fortune. In televisione, come stesse vendendo un prodotto, naturalmente elogia opere d'arte di qualsiasi genere e qualità. Viene pizzicato da Mi manda RaiTre dopo le denunce di alcuni pittori che, per apparire in video, hanno dovuto sborsare molti soldi. In studio è invitato anche il critico Bonito Oliva. Inizia così uno scambio di offese tra le due figure a tratti comico e surreale ma che ben stigmatizza il sistema dell'arte contemporanea con Diprè che arriva a dare del coglione a Bonito Oliva, definendolo nessuno e asservito al mercato, quello che conta. Da una parte quindi critici che avvallano tutto e che si prestano a parlare su qualsiasi proposta, dall'altra la figura istituzionale dello "studioso" che sancisce e sceglie cosa sia o meno valido, da una parte l'artista che si crede tale e che vuole, spendendo, il suo momento di gloria, dall'altro il mercato e il sistema. Lascio a voi decidere chi sia nel giusto.


sabato 15 ottobre 2011

Whitehouse - Uno sguardo critico sul "sistema dell'arte"

Segnalo questo interessantissimo blog, Whitehouse, che offre approfondimenti mai banali, ma sempre critici e (de)costruttivi, sul sistema dell'arte contemporanea e sullo stato della critica d'arte oggi in Italia (si veda la recente uscita di Politi sul ruolo della stagista). Realizzato da addetti ai lavori è arricchito da molte interviste con critici e curatori strutturandosi come una sorta di project room online. L'autore è Luca Rossi e tra i tanti spunti volevo inserire queste riflessioni

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Qual è lo stato della nuova critica d’arte in Italia?

Non esiste critica, esistono curatori che vogliono fare gli artisti e gli autori. Gli artisti non sono il cardine (come viene detto nel primo appuntamento di sentimiento nuevo), non sono i protagonisti del testo, ma sono un pretesto. Il sistema seleziona certo, e sceglie la strada del"mi piace/non mi piace" di facebook, non c'è mai alcuna riflessione ed approfondimento rispetto le luci e le ombre. 

Chi sono le sue figure di riferimento?

Non ci sono, forse questo blog. Ma se non c'è confronto critico non ci sono figure di riferimento ovviamente. 

Come è cambiata la scrittura d’arte nell’epoca dei curatori?

La critica diventa prosa funzionale ad un progetto artistico. Non ci sono scale critiche e valoriali ma tutto può andare se proposto e sostenuto nei luogi e dalle relazioni che "ci piacciono". 

E’ possibile trovare una nuova scala di valori, un nuovo vocabolario, nuovi modelli narrativi per la critica d’arte?

Sì, ma non lo si fa sopra torri d'avorio nel 2011. Ci vuole il coraggio di non compiacere sempre tutti, ed inoltre il coraggio per un corpo a corpo con il pubblico.

È vero che in Italia si scrive molto ma si legge poco anche tra gli addetti ai lavori?

Il testo scritto (vedi Moussoscope) diventa solo riempitivo, estetica del testo; la rivista diventa opera giovanilistica. Non si legge perchè si scrivono sempre le stesse cose, rispetto ad un linguaggio che vive una crisi profonda (e non solo in italia). 

Quali sono gli articoli e i saggi più importanti degli ultimi dieci anni?

Ci sono poche cose quà e là. Forse questo blog ha innescato una fase di utile riflessione. Ma le cose si costruiscono in anni ed anni, non dal giorno alla notte. 

Siamo ancora in grado di racchiudere la scena dell’arte italiana attuale in un pensiero critico forte, capace di imporsi anche fuori dai nostri confini?

Assolutamente no. La scena italiana è paralizzata da esterofilia e complessi di inferiorità, da una parte, e assenza di un pubblico appassionato ed interessato dall'altra parte. Il pubblico del contemporaneo è fatto da addetti ai lavori e curiosi.

Quali punti di forza e carenze possiedono le nuove riviste e case editrici?

Il punto di forza è la continuità e la voglia di fare, ma procedono paralizzate esattamente come la scena italiana. 

Esiste uno spazio di dibattito critico sui quotidiani e i principali mezzi di comunicazione?

Assolutamente no. Un sistema piccolo, precario e con posta in gioco bassa non può creare confronto critico e approfondimento. Questo, negli anni, mortifica e disincentiva la qualità. C'è un compiacimento generale e un conflitto di interessi permanente che disincentiva la libertà di espressione. 
Dopo due anni, il sistema riconosce le sue carenze, ma invece di attivare un confronto reale ed allargato, decide di salire su torri d'avorio ancora più alte, consolato dalla presunzione di riflettere su se stesso con leggerezza, amicizia e simpatia. 

Perché in Italia i musei faticano a costituirsi come istituzioni in cui una comunità di artisti, critici, curatori, galleristi, collezionisti, scrittori, editori, possano raccogliersi attorno ad un pensiero critico?

Perchè i musei in italia non nascono dalla prodonda necessità del loro contenuto e di una missione verso il pubblico; nascono come grandi insegne luminose, lì a dimostrare ostinatamente la presunta modernità dei soggetti pubblici e privati che li sostengono. Quindi non c'è mai reale attenzione per il contenuto, perchè questi sono contenitori degenerati in grandi insegne. Questo anche perchè in italia non c'è un pubblico realmente interessato ed appassionato all'arte contemporanea. Negli ultimi venti anni il "miglior" sistema italiano non è stato capace di ricucire uno scollamento con il pubblico; o forse non ha voluto, perchè convinto di non riuscirci. Questo determina anche un sistema politico e mediatico che non riconosce questo miglior sistema (due dati: in otto anni di vita l'associazione Amaci -dei musei di arte contemporanea italiani- non è mai riuscita a farsi ricevere da un ministro del cultura; nel 2011 il festival internazionale, dico internazionale, di faenza non è stato ribattuto neanche nella versione web-cultura dei principali quotidiani italiani). E' chiaro che poi il massimo diventano sgarbi e giovanni minoli.

lunedì 4 luglio 2011

La svalutazione del critico d'arte

Riporto dei passi dall'articolo della critica ed estetologa Anita Tania Giuga (Italia, il paradiso perduto dell'arte) che, amaramente, raccontano la difficoltà di un mestiere che non trova riscontro nella realtà concreta e che può lasciar molti sospesi nell'incertezza di un futuro, nel tentativo di una sicurezza, tra l'amore per la materia e lo sconforto di un sistema chiuso ed autoreferenziale. La svalutazione dell'arte e la sua crisi passano anche attraverso questi meccanismi.

La svalutazione dello storico dell'arte

Ora, è anomalo, di un'anomalia tutta italiana, che si debba essere ricchi e di nobil casato per sviluppare una professione che, in teoria, possiederebbe tutti i requisiti per presentarsi fra le più ovvie da scegliere. Allorché, si manca di proposte e volontà politica, in un paese che celebra e ostenta un'eredità secolare di Beni architettonici e artistici, pari al 50% dell’intero patrimonio nazionale. Tuttavia, mentre lo storico dell'arte è una qualifica che può essere accertata e inserita, a livello concorsuale, nelle sovrintendenze, dopo la laurea canonica “tre più due” e un triennio di specializzazione in Storia dell’arte; il critico, al contrario, non esiste. Proprio così! Abbiamo studiato per un ruolo sociale inesistente, che obbliga chi può contare sulla sola professionalità, a scendere a compromesso sempre e comunque, svendendo competenze in cambio di visibilità. Questo vuole dire, in parole povere, redigere un intero catalogo per un celebre museo ed essere retribuiti poco più di quattrocento euro; rispondere alle richieste sempre più esigenti di una notissima responsabile di un’altrettanto conosciuta associazione culturale, per non raccogliere né compensi né ringraziamenti né opportunità di carriera e nemmeno copia del libro in cui è stato pubblicato il lungo intervento redatto dal professionista “anonimo”.
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Chi scrive, raggiunto questo punto di confidenza è bene dichiararlo, è una ricercatrice indipendente che si è lasciata attrarre dall'arte come fosse il canto delle sirene. Fino da bambina, fino da quando ha memoria di avere compiuto un atto determinato e consapevole.
Mi dicono che l'arte, la cultura, la possibilità di declinare il tempo secondo piacere e passione, è assimilabile sempre più al fashion, quindi al potere d’acquisto che la ricchezza conferisce. Io ci sono riuscita. Almeno per dieci lunghi anni. Grazie alla famiglia, riluttante ma complice, e agli amici più cari, che sempre hanno creduto nelle mie doti intellettuali.
Certo è che l'avventura, il periplo attorno al promontorio dell’arte contemporanea si è dipanato in maniera romanzesca, per almeno tre motivi condivisi da molti: sono siciliana, provengo da un ambiente piccolo borghese, le mie risorse finanziarie sono tutt'altro che illimitate. Ogni giorno quelli come me hanno l'obbligo di domandarsi se producono contenuti accessibili a tutti. Ogni giorno quelli come me sono costretti a chiedersi se il decennale e poco documentabile investimento in cultura non sia stato una frode. Inutile, nonché dannoso, citare l'assenza di meritocrazia e di presente, badate bene, non di futuro. Io, però, avendo contravvenuto al comandamento dell’ubbidienza nei confronti del mio tutor, che mi voleva complice e artefice di cene piuttosto che brava teorica, dal 23 dicembre 2009 mi sono trovata costretta a portare avanti una personale battaglia, venata da una forma privatissima di resistenza passiva.

Meriti a parte
Tutto ciò, per mantenere aperto un iter universitario, che mi ha sorretto sino a dicembre 2010, permettendomi, grazie a una borsa di studio vinta per il summenzionato Dottorato di ricerca in Estetica e Pratica delle Arti (Università di Catania, XXIV ciclo, già soppresso), di continuare a dedicarmi alla punta più sperimentale del contemporaneo. Solo questa negletta vittoria ministeriale mi aveva consentito, infatti, di raddoppiare gli sforzi, oltre che incoraggiare una minima mobilità, benché dopo lunga malattia mi sia trovata privata del sussidio e sotto procedimento di esclusione dallo stesso Dottorato (procedimento che si è concluso il 13 maggio 2011 con un decreto di esclusione definitiva).
Riassumere i punti del disagio culturale che la mia generazione sta vivendo, come si può constatare, non è cosa semplice, né univoca. E soprattutto rischia di diventare un memoriale privo di interesse, se i numeri di quelli che si dedicano ancora alle discipline umanistiche non fosse pericolosamente elevato.
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Giacché, non sarà il corporativismo la soluzione, se mai in Italia fosse venuto meno. Ciò nondimeno, servirebbe l’abolizione di una forma compulsiva di ricorso alla parola e alla pratica dello stage e alla riconoscibilità coatta, non mi stanco di ripeterlo, come corvée: un servizio di fatica che i graduati dell’esercito della cultura assegnano ai soldati semplici. Gioverebbe un riordino e il recupero di un’idea di professionalità da inserire nella Pubblica amministrazione e nei poli museali, innovativa e veramente flessibile. Così, invece che fare scappare all’estero le nuove leve, ci si potrebbe risolvere ad ammettere che la cultura paga se solo fosse internazionale come il pistacchio di Bronte e la mozzarella di bufala! [...]

Il rischio hobby
Abbiamo lasciato che altri trasformassero il nostro futuro, dice sempre la mia amica, e non è possibile darle torto. Insomma, per potere dimostrare di essere critici d'arte non vi è un titolo, né un qualsivoglia tesserino che ne dimostri l’esercizio e l’autorità. Inoltre, il "sistema Italia” non investe né punto né poco in chi si propone di formarsi nei mestieri trasversali dell’arte, magari con un'apertura di credito restituibile al primo lavoro vero, come avviene nei paesi anglosassoni. Così, per resistere in questo mondo esplosodell'arte contemporanea è poi necessario scrivere e lavorare senza cachet e sine die, con l'unica speranza (esasperata ed esasperante) che la visibilità (questa parolaccia) torni in ingaggi e ruoli significativi, retribuiti a sufficienza per pagarsi da vivere. C’è del dolo e dell’incuria in tutto ciò… Dato che se non sussiste retribuzione non può nemmeno esserci lavoro, che per essere chiamato tale abbisogna di riferirsi a un indice retributivo, altrimenti la categoria di riferimento diviene più prossima al puro svago, all’hobby, all’aberrazione nel senso del tempo non certificabile e della sua ipoteca perenne in una qualche attività non proprio identificabile.
Vi sono due ulteriori punti focali. Ovvero, l'interesse che il mondo contemporaneo, sempre più autonomo nello scegliere, può avere nei confronti di un "personaggio" che si arroga il diritto di sapere operare una distinzione tra il grano e il loglio.
L’altro, non meno importante, è il tema della verità nell'arte; antico qualche migliaio d’anni, che la critica sfiora di continuo fino a farne una metafisica.
Più semplicemente, oggigiorno, il senso del nostro ruolo sta tutto nel Sistema dell’arte, e nella legittimazione di cui il sistema economico si serve per vendere meglio l’artista.

E il “Sistema” è chiuso nell’esercizio assiomatico e quasi massonico di lobbyes di potere, che premiano i
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commensali e non le eccedenze esogamiche. Come avviene per gli ex MBA (Master in Business Administration) i quali hanno l’obbligo di assunzione verso altri MBA ex students. A dirla tutta, chi partecipa al banchetto possiede anche il tavolo: con diritto di prelazione sui fornitori.
Altro problema, lasciatemelo sostenere, ben più radicale, concerne la predetta formazione. La terribile impostura in termini professionali e didattici che questa stessa vituperata formazione alla critica d’arte comporta.
Il curatore ha, è vero, al contrario, un ruolo concreto e di ordine sostanziale: mette in piedi l'allestimento delle mostre seguendo un concetto. Il "giovane curatore" ha anche imparato le caratteristiche dei materiali, la forza del progetto, l'ambivalenza tra significante e significato e la utilizza, per rendere l’esposizione un organismo vivente (nel migliore dei casi). Non temo divagazioni insomma, e mi auguro di non risultare ridondante, quando cerco legittimazione, pur ammettendo le asperità di un linguaggio critico disancorato dalla realtà, e distante dal forse superato ruolo di saldatura fra intellettuali e gente comune, tanto da apparire ostico e autolesionista. Ma il problema esiste, che si voglia regolarizzare, o meno, una figura dalle troppe ombre, resta un dato: l'università, il D.A.M.S. capofila, ci forma come esperti, esattamente come si va dal dentista per farsi curare un dente e non da un rappresentante politico, e ci butta nel mare indistinto dell'invenzione di un mestiere, senza regole né albi.

Le qualità artistiche
Personalmente ho anche sperimentato con un discreto successo di virare alla volta del giornalismo culturale, tuttavia l'annoso dato della mancanza di "rispetto" economico per i lavori della penna resta. Così, quelli come me si dibattono imprigionati nella favola che chi si occupa d'arte, come diceva Croce, dovesse aver le terre...
Capire quel che si guarda è poi una mera questione di esercizio. Se l’artista imbroglia o c’è “del buono che dura”; se l'esaminato porta con sé qualcosa di più essenziale del giochino linguistico, che molti avventizi cavalcano, e di cui, scrivendo, sviluppo la storia e la poetica, le ragioni e la prassi, i processi e i cedimenti a un surplus estetico... Insomma, non so se sono utile né, meno che mai, necessaria; eppure, pur essendo sovra visibile, non esisto.

mercoledì 26 gennaio 2011

Il Gruppo Solare. Appunti per una storia delle arti visive in Molise.


Trovo che il Molise sia una realtà, dal punto di vista artistico, interessantissima anche perché poco analizzata e storicizzata a livello nazionale sebbene abbia prodotto eventi e movimenti di indubbio valore che, pur ricevendo poca eco sulle pagine delle grandi riviste d’arte, hanno avuto il merito di smuovere un ambiente da un certo punto di vista ancora chiuso e arretrato. Mi riferisco alle annuali mostre Fuoriluogo nella galleria Limiti Inchiusi a Campobasso, all’esperienza di Kalenarte a Casacalenda (CB), alla rassegna d’arte contemporanea di Macchia d’Isernia (IS) o al recente progetto portato avanti da Lorenzo Canova  con l’Aratro, archivio delle arti elettroniche e laboratorio per l’arte contemporanea dell’Università degli studi del Molise. Interessanti le attività del MACI, Museo d’Arte contemporanea di Isernia, sotto la guida di Luca Beatrice, con eventi dal respiro internazionale che però si rivelano inutili in assenza di una politica culturale rivolta in primo luogo al territorio, da intendere quale indispensabile base di partenza. Significativo, infine, il Premio Termoli, l’unica esperienza artistica di valenza internazionale operante in regione, giunto alla sua 55° edizione e quest’anno curato da Miriam Mirolla con il progetto IMAGO. Proprio Termoli si segnala quale il centro che più di altri ha prodotto in Molise esperienze rilevanti circa l’arte contemporanea. Nel 1985 viene fondato da Nino Barone, Ernesto Saquella, Michele Peri ed Elio Cavone, il Gruppo di Orientamento mentre nel 1998 vi nasce il movimento d’arte internazionale Archetyp’art. Ideatore, insieme all’artista Nino Barone, è Antonio Picariello, critico d’arte militante e tra i più significativi studiosi del contemporaneo in Molise[1]. Da sottolineare, infine, sempre a Termoli la manifestazione Tracker Art, ovvero il convegno della nuova critica d’arte italiana giunto alla sua 6° edizione e che ha accolto, negli anni, interventi di importanti critici quali Omar Calabrese, Giuseppe Siano, Silvia Bordini, Antonio Gasbarrini, Paola Ferraris. Alle origini di tutto ciò si colloca l’attività artistica del Gruppo Solare, il primo laboratorio di arti visive del Molise e primo movimento in regione con un preciso programma culturale e teorico. Dopo aver ritrovato forse l’unico libro pubblicato sull’argomento[2], superati ormai i vent’anni dallo scioglimento del gruppo, ritengo opportuno tracciare le linee di una storia affascinante e nascosta che, spero, venga maggiormente studiata.
La prima manifestazione che vede attivo il gruppo risale al 1976 a Termoli; l’intenzione è quella di denunciare la poca attenzione del comune per la valorizzazione e il turismo. Parteciparono Nicola di Pardo, Mimmo di Domenico, Nino Barone, Salvatore Martinucci, Nicola di Pietrantonio e Rocco Ragni. Le motivazioni che spinsero a questa azione sono da ricercare nel confronto dialettico di due culture diverse e quasi antitetiche che si sono trovate ad agire sul territorio: da una parte quella settentrionale giunta in relazione all’insediamento industriale della FIAT nel Molise, dall’altra la cultura locale. Già da questo primo evento si nota lo stretto legame del gruppo col territorio e il tentativo, tramite forme d’arte estemporanea, di scuotere l’opinione pubblica.


Nel mese di agosto del 1977, sempre a Termoli, il Gruppo da vita ad un evento che prevede la realizzazione, in piazza, di grandi pannelli raffiguranti l’uomo nella società in relazione all’ambiente, alla religione, allo stato. Lo stile adottato è un realismo di stampo espressionista, con l’uso di colori contrastanti e segni induriti, forti linee di contorno e una struttura della scena intesa quale palinsesto di memorie e impressioni; i riferimenti possono andare da espressionisti ante-litteram quali Goya (con le pitture dalla Quinta del Sordo) e Daumier a Ensor e Rouault fino a giungere ai muralisti messicani, Orozco su tutti. C’è però ben altro in queste pitture e lo sottolinea bene Jolanda Covre nella nota introduttiva al testo: “Ecco allora che la vostra gioia di dipingere, la dimensione narrativa che non abbandonate mai, l’improvvisazione del lavorare in pubblico con un’aria tra la festa e la protesta, sono, a modo loro, gesto e comportamento. Ma non per programma, che significherebbe essere nuovi, bensì per istinto”[3].


Da queste prime manifestazioni si nota come il Gruppo mira a ridefinire il ruolo dell’artista nella società in cui opera, ponendosi quale elemento di rottura e di presa di coscienza. La sua è un’azione “politica” nel senso che è indirizzata alla polis. Gli artisti cercano il contatto e il dialogo con le masse, coinvolgendo il popolo nell’azione e nella struttura delle tele; fanno dell’arte una vera e propria esperienza comunicabile e trasmettibile, non abbandonando mai la “tradizione” e non cadendo mai nell’originalità a tutti i costi. “Noi non crediamo nell’artista inteso nella maniera tradizionale, cioè un uomo al di fuori della realtà umana, estroso, esaltato, traviato, ma in un uomo con i limiti, i difetti e i pregi di tutti, che trasmette attraverso le proprie opere la sua esperienza e cerca il confronto con gli altri per ritrovare la sua vera dimensione”[4]. Il discorso portato avanti dal Gruppo è antico: come moderni saltimbanchi gli artisti scelgono la piazza come luogo deputato alle loro azioni e rifiutano il fruitore “tipo” poiché il pubblico è dato dalle persone comuni coinvolte nella scena, persone alienate da simili esperienze culturali. La formula è a metà strada tra la performance e l’estemporanea, i murales realizzati sono invece anti-prodotti artistici in quanto frutto di azione spontanea e non di logiche di mercato. La loro arte, allora, è veramente arte pubblica intrisa di una forte componente etica.
Dopo la realizzazione dei pannelli sul tema “L’Uomo” nel 1978 il Gruppo torna a riunirsi per la manifestazione antinucleare in Piazza Principe di Piemonte a Termoli. Realizzano allora la loro “azione” più incisiva dipingendo carcasse metalliche di oggetti di consumo (automobili, frigoriferi, lavatrici, televisori). Chiamano le loro decorazioni “Tributi in natura” e le considerano un’affermazione della creatività e della vita sul progresso più becero volto al consumo.


Sempre nel 1978 il Gruppo, volendo dimostrarsi ancor più legato al territorio, comincia ad interessarsi alle tradizioni delle diverse civiltà presenti nel Molise e alla “storia vissuta” delle civiltà contadine. Cominciano allora una serie di eventi che hanno come idea di fondo la riscoperta, attraverso i segni e la pittura (e quindi ancora una volta il linguaggio del passato), delle più importanti sagre regionali, contro la civiltà contemporanea sorda verso il locale. L’idea è quella di un intervento diretto nel territorio molisano durante le più importanti manifestazioni religiose. La formula adottata è quella della realizzazione in estemporanea di grandi pannelli che sintetizzino i temi (antropologici, religiosi, sociali, storici) dell’evento. Il linguaggio, ancora una volta, non abbandona la forma e, pur cercando la sintesi e la bidimensionalità, evita la dispersione delle idee nell’informale. Si ha quindi una sovrapposizione di prospettive, di scorci autonomi, di volti ma mai la perdita della figurazione. Nel 1978 il Gruppo agisce e opera nella festa di San Pardo a Larino, nella festa di Sant’Antonio a Montecilfone, a Santa Cristina a Campomarino e durante la Carrese a Portocannone. Sempre nel 1978 gli artisti, legati all’idea di arte per tutti, fondano una scuola di pittura aperta a bambini e ragazzi: la Scuola Solare.
Nel 1980, infine, il Gruppo si scioglie per divergenze culturali e stilistiche tra i componenti in quanto gli artisti più giovani spingevano verso un’interpretazione astratto-concreta della realtà, mentre i membri più anziani insistevano sul linguaggio della tradizione e sulle tematiche a sfondo sociale.
Rimane però il segno di un’esperienza artistica unica, in Molise e forse in Italia, che ha lasciato i suoi frutti anche solo per aver smosso le acque di un ambiente culturale ancora poco aggiornato[5].

Tommaso EVANGELISTA




[1] Cfr. A. Picariello, Molise Mon Amour. Diario di un critico d’arte, Ferrazzano 2000.
[2] N. Barone, Gruppo Solare, Termoli 1999.
[3] N. Barone, op. cit., p. 8
[4] N. Barone, op. cit., p. 25
[5] Le immagini fotografiche sono state realizzate da Antonio Landolfi, Gino Giancristoforo e Salvatore Marinucci.

martedì 19 ottobre 2010

Quanto conta l'artista?

La classifica annuale stilata dalla rivista Art Review è tra le più documentate e affidabili nel panorama dell'arte contemporanea; naturalmente, come tutte le classifiche, è solo un gioco che, comunque, non si discosta di molto dalla realtà. L'ultima, quella del 2010, è uscita da pochi giorni e vede in testa il gallerista Larry Gagosian seguito dal curatore Hans Ulrich Obrist. Interessante gli scivoloni di Jeff Koons e Damien Hirst mentre di italiani si segnalano Celant, Cattelan, Gioni, Massimo De Carlo e Galleria Continua. Osservando questi grafici di analisi alla classifica non posso non constatare come le persone più influenti dell'arte contemporanea, oggi, siano sopratutto critici e galleristi, mentre gli artisti occupano una piccola percentuale. Ribaltamento, ormai consolidatosi da diversi anni, che sa di assurdo e che sminuisce prima di tutto gli artisti e la loro arte (per conoscere i veri critici d'arte, italiani, che prima di essere critici erano sopratutto degli illustri storici, consiglio questo libro L' occhio del critico. La storia dell'arte in Italia da Cavalcaselle a Previtali.)




venerdì 15 ottobre 2010

Arte e morte dell'arte - Hegel

Pensiero fondamentale, quello di Hegel, per comprendere gli sviluppi della critica d'arte del '900 è qui proposto in un'antologia scaricabile direttamente da scribd curata da Paolo Gambazzi e Gabriele Scaramuzza

Hegel {Paolo Gambazzi & Gabriele Scaramuzza} - Arte e morte dell'arte

sabato 26 giugno 2010

La poetica e lo sguardo. Sara Pellegrini e Giuseppe Zupa



Luogo: Officina Solare Gallery Via Marconi, 2 Termoli
Data: 26 giugno / 8 luglio 2010
Orario di apertura: 19.30 /21.30  tutti i giorni compreso festivi
Organizzazione: Nino Barone
A cura di: Tommaso Evangelista
Inaugurazione: sabato 26 giugno 2010, ore 19.00
Info: 329.4217383


 Lo spazio, nell’assenza di una narrazione, può diventare segno sulla tela; questa, percorsa da epopee materiche e minimali, evoca sensazioni che si frantumano sulla soglia della comprensione. Si può pensare di cogliere un orizzonte, il greto arso di un fiume, una successione di colline, le porte d’acciaio d’una fortezza inespugnabile ma non si sta che contemplando la materia in tutte le sue epifanie. Con le opere di Sara Pellegrini siamo sul confine della Storia, nella purezza del dettato astratto e informale, e, parafrasando un testo di Giovanni Pozzi, sull’orlo di un’invisibile parlare poiché l’artista comunica attraverso un silenzioso gioco di tracce. Questi lavori, lontani dalla tragicità e dall’inquietudine di Burri, non accolgono tensioni e contrasti di forze ne tantomeno riordinano impulsi psichici che vengono dal profondo, bensì pervasi da una pacata monumentalità si giovano di un lento accumulo di segni, come se ogni impronta, ogni tacca, ogni brano di terra o di colore fosse il risultato di una diversa era geologica. Il tempo stempera le tensioni e questo senso di serenità dato dal segno puro e dalla materia inerme priva le tele di qualsivoglia drammaticità e ci restituisce una superficie estremamente poetica, da contemplare e non da percepire come forza contraria. In questo caso il critico, o il semplice osservatore, diventa un paleografo alla scoperta di segni di una lontanissima rottura o di orme che rivelino una scrittura dimenticata ancora da tradurre. Dalla materia che avvolge tutta la superficie della tela emergono tracce naturali (le crettature delle terre) o tracce realizzate dall’uomo (incisioni, solchi, tessiture di mosaici immaginari), segni archetipici legati ad una sacralità dispersa. Affiorano parimenti elementi cruciformi tra le vene delle terre, rivelazioni o dimenticanze, impronte liturgiche che il fare artistico propone come tracce sedimentate. La tela diventa un palinsesto materico sul quale noi percepiamo solo lontanamente lo stridio di dissonanze e tensioni; ogni traccia di violenza del gesto, infatti, è annullata da una liricità tutta personale che fa si che emerga un mondo pacificato, forse in lenta decadenza. Dove in Burri si assiste alla degradazione della pittura in materia, a oscura e confusa testimonianza organica, Pellegrini cerca la strada dell’incanto, trasfigurando la materia in poesia. E il tempo? Nell’opera che potrebbe rimandare ai celebri tagli di Fontana, infatti, si rinviene una concezione diversa. Fontana con i suoi tagli ci voleva trasmettere l’idea di una dimensione altra dietro la tela, rompendo l’illusione del supporto; in questo caso, invece, i due tagli sono solchi profondi incisi nella materia che, semmai, rimandano ad un tempo immobile e immutabile. Spostandoci sulle foto, invece, Giuseppe Zupa, abile nella resa dei particolari, ci aiuta a penetrare nelle opere mostrandoci i segni, i grumi, il trattamento della materia e del colore. Accostandoci ai lavori ci nasconde i confini fisici della cornice; questa visione ravvicinata ci aiuta a riflettere sul mezzo e sulla tecnica oppure a vagheggiare su improbabili e fantastici paesaggi, immagini di un mondo dismesso (poiché la mente cerca sempre la forma nell’informe). Le foto aiutano a focalizzarci sui particolari e al tempo stesso ci mostrano una realtà diversa; duplicando una parte dell’opera ne ruba un pizzico di autenticità. Assistiamo in questo modo ad un intelligente gioco di rimandi: abbiamo le opere dal vero e dettagli fotografati, nelle foto osserviamo ciò che potremmo vedere da vicino mentre sulle opere siamo alla ricerca del particolare fotografato. Dov’è allora il reale? Nelle foto che ci svelano il particolare o nelle tele che ci mostrano l’universale? E l’immagine fa parte della stessa opera o è qualcosa di diverso? Tornando al suggestivo e impegnativo titolo della mostra, la poetica è quella dell’artista che lavora col segno e con la materia, a volte con la gestualità della pennellata, altre con un rigoroso ordine estetico; lo sguardo, analitico e indagatore, è quello del fotografo che ragiona sull’immagine e riflette sul dettaglio. Riuscito connubio di due anime alla ricerca.






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