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domenica 2 marzo 2014

La Grande Bellezza di Sorrentino e l'arte

Un interessante proposta per leggere la Grande Bellezza di Sorrentino sotto lo sguardo della storia dell'arte con influenze e ispirazioni. Il film vive in effetti di questo perenne scambio osmotico tra bellezza, struttura e forma, e disordine (sopratutto interno e mentale) e decadenza. Uno sguardo disincantato e trasognato tra le pieghe di una città eterna per nome e per questo quasi indifferente, o superiore, agli sviluppi della microstoria. Ma il tempo che passa, e segna i passi dei protagonisti, è forse l'elemento che più di tutti concorre a trasfigurare l'esistenza singola e collettiva. Allora la città appare come un'infinito elogio alla vanità e alla bellezza delle cose.

"L’invito a scorrere mentalmente i fotogrammi de La Grande Bellezza chiedendo loro se riescono a vedere nella filigrana di quest’opera alcune grandi opere della storia dell’arte del nostro Paese, anzi del nostro continente. Nella galleria qui acclusa vengono infatti proposte della ‘diadi’: un frammento del film di Sorrentino e un’opera della storia dell’arte (l’intero o un dettaglio), l’uno come codice cifrato dell’altra, in un gioco di riflessi che meriterebbe, forse, un’analisi sistematica e dettagliata. Chi ha condotto questa ricerca – che proponiamo come atto di informazione realizzato davvero gratis et amore da tutti coloro che vi hanno preso parte – ha pensato e trovato decine di diadi: quelle della galleria di PEM, che l’Istituto italiano di cultura di Los Angeles ha accolto per offrirle in visione a chi passa in quelle sale all’approssimarsi della notte degli Oscar, sono solo alcune, citate qui come fossero il campionario di una mostra ancora da fare e di un libro da scrivere". (Fonte: Treccani)


Rembrandt, attribuito, Testa di Cristo, XVII sec. Filadelfia, Philadelphia Museum 


Georges Seurat, Studio per Une dimanche après midi à l’Île de la Grande Jatte, 1884-1885. New York, Metropolitan Museum of Art


Umberto Boccioni, La risata, 1911 New York, Museum of Modern Art (MoMA)


Amedeo Modigliani, Nudo disteso, 1917 New York, Metropolitan Museum of Art


Luis Tristán de Escamilla, Santa Monica, 1616. Madrid, Prado

lunedì 18 febbraio 2013

Lo sguardo di Michelangelo

Michelangelo Antonioni (1912-2007) è uno dei padri della modernità cinematografica. La sua opera ha oltrepassato i confini della settima arte: è stata profondamente ispirata dalle arti figurative e ha esercitato a sua volta su di esse un notevole ascendente, come sul cinema di ieri e di oggi. Tra i suoi ultimi lavori Lo sguardo di Michelangelo è un cortometraggio del 2004 che indaga con l'occhio della macchina da presa e un'assoluto silenzio il Mosè di Michelangelo a San Pietro in Vincoli. Splendida fotografia, attenzione per i più minimi dettagli e sostanzialmente un profondo e intimo amore per l'opera d'arte

Lo Sguardo di Michelangelo (Michelangelo Antonioni, 2004, KINOTE) from jeanne dielman on Vimeo.

lunedì 10 dicembre 2012

Il film sull'arte e altri ebook

Dall'archivio online dell'Università Ca' Foscari di Venezia segnalo una serie di tesi di dottorato in storia dell'arte scaricabili in pdf. 


Tra i tanti Paolo Veronese: dall'immagine al silenzio,  Gli oggetti e la loro simbologia in Arancia Meccanica e Shining di Stanley Kubrick, tra individuo e l'universo del cinema. , Arte e contestazione - Arte in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta , Riflessione sul senso tattile nell'arte contemporanea , Dall'iconoclastia all'iconoclash ricerche sulle strategie iconoclaste contemporanee.

Mentre metto in evidenza questo

Immagini dal film Dreams that Money can Buy di Hans Richter, 1947.
Il film sull'arte e la Mostra internazionale del cinema di Venezia

La tesi affronta il dibattito nato attorno al film sull'arte dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta attraverso la ricostruzione della storia e delle iniziative delle istituzioni internazionali create al fine di una sua regolamentazione, utilizzo e circolazione. Una volta individuato e contestualizzato il ruolo dell'Unesco, la prima parte della tesi segue la nascita della Fédération Internationale du Film sur l'Art nel 1948, i protagonisti e i successivi congressi che ne stabilirono obiettivi e politiche d'intervento, per poi passare ad altre istituzioni e all'osservazione dei differenti cataloghi prodotti a livello mondiale. La seconda parte si focalizza sul contesto dei festival internazionali e, in particolare, sulla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Vengono così affrontati tanto la produzione dei film stessi quanto il dibattito critico e metodologico che intorno al genere andava definendosi.

E tra gli ebook segnalo anche l'ultima pubblicazione del Centro Internazionale Studi di Estetica: Elisabetta Di Stefano, Iperestetica: Arte, natura, vita quotidiana e nuove tecnologie.

giovedì 29 novembre 2012

Il nudo più bello della storia del cinema


Le retour à la raison (II ritorno alla ragione)
(1923, b/n, muto, 4’)
interpreti: Alice Kiki Prime (Kiki de Montparnasse)

Realizzato in una sola notte, fu presentato tra fischi di disapprovazione alla storica serata del “Coeur à barbe”, organizzata da Tristan Tzara nel 1923. Privo di qualsiasi struttura e costruito con frammenti di pellicola impressionata, senza alcuna concatenazione logica, il film fece scandalo, secondo le intenzioni dell’autore. Man Ray infatti “filmò i movimenti di una spirale di carta ... e cosparse la pellicola vergine di spilli e di vari oggetti d’uso comune come bottoni c fiammiferi, i quali impressionarono la pellicola in modo tale che alla proiezione sembrava di assistere a una curiosa caduta di neve metallica. Un corpo di donna nuda e delle luci da fiera sono i soli elementi concreti di questo film.” (Ado Kyrou)

Man Ray che aveva lavorato intensamente nei campi della fotografia, della progettazione di oggetti, in un clima di ricerche prettamente dadaista si accosta al cinema intorno agli anni Venti. Il primo film di Ray "Retour à la raison", presentato nel 1923 durante la famosa serata dadaista "Coeur à barbe", fu realizzato praticamente in una sola notte con diversi materiali cinematografici, in parte già pronti.

Si può considerare come, almeno nella tradizione che prima ancora di tramandarci la copia ce ne ha tramandato la mitologia, un film confezionato "all'improvviso", una sorta di collage nato in laboratorio di montaggio. Esso dura pochi minuti ed è costruito al di fuori di ogni struttura formale e contenutistica, pochè vuole essere assolutamente provocatorio, come anche il titolo dimostra: infatti era tutto fuorchè razionale o razionalmente determinato.

Gli strappi reali della pellicola che si sono verificati nel corso della tumultuosa proiezione (anche questo fa parte della mitologia oramai inseparabile dal testo visivo) sono omologhi degli strappi metaforici del tessuto discorsivo e narrativo che il film realizzava. Le porzioni di pellicola impressionata senza ricorrere alla cinepresa, ma per semplice "contatto" di oggetti comuni (spilli, puntine da disegno, pepe e sale) sono altrettanti "strappi" alla scena illusoria in profondità prospettica della "storia" inscenata dal cinema narrativo (che eredita la scena prospettica della pittura e del teatro): un calcolato effetto di shock ci riporta alla superficie dello schermo, della pellicola, dell'emulsione.

Da questo punto di vista, il piccolo film di Man Ray realizza con la pellicola qualcosa di simile all'assemblaggio di ready made della "pittura" dada. D'altra parte, l'intrecciarsi degli elementi più sfrenatamente casuali con altri di raffinatezza fotografica molto ricercata (i sottili arabeschi dell'ombra di una tenda sul corpo nudo della modella, nella parte finale) ci portano dentro il procedimento tipico dell'arte di Man Ray, basato su un dosaggio di "caso" e "necessità", improvvisazione e rigore formale. (Man Ray e il cinema)




mercoledì 1 agosto 2012

Distruggiamo Venezia

VENEZIA - La distruzione di Venezia tra mega-navi e grattacieli
SALVATORE SETTIS
La Repubblica, 31 luglio 2012

C’È UNA nuova moda tra i potenti: profanare Venezia. In barba alle leggi e asservendo le istituzioni. Tre eventi in sequenza non lasciano dubbi in proposito. Atto primo: dopo l’incidente della Costa Concordia naufragata al Giglio con gravi perdite umane e disastro ambientale, da tutto il mondo venne la richiesta che si stabilissero :«Nuove regole per quei colossi».
SPECIALMENTE nel punto più prezioso e fragile, Venezia. E infatti il decreto è arrivato in marzo, e vieta “inchini” e passaggi a meno di due miglia nautiche dalla costa (quasi quattro chilometri). Con una sola eccezione: Venezia, dove enormi navi, da 40.000 tonnellate e oltre, sfiorano ogni giorno Palazzo Ducale, incombono sulla città, inquinano la laguna, oltraggiano lo skyline di Venezia e i suoi cittadini. Venezia dunque “fa eccezione”, ma non perché è più protetta, come il mondo si aspetta, bensì perché non lo è affatto (due incidenti evitati per pochi metri negli ultimi sei mesi).

Secondo atto: Benetton compra il Fondaco dei Tedeschi, prezioso edificio di primo Cinquecento ai piedi del ponte di Rialto, per farne «un megastore di forte impatto simbolico». Accettabile, vista l’antica destinazione commerciale di quella fabbrica illustre. Ma Rem Koolhaas, l’architetto incaricato della ristrutturazione, disegna un neo-Fondaco con sopraelevazione, mega-terrazza con vista su Rialto e scale mobili che violentano da lato a lato l’armonioso cortile. Dopo la denuncia di questo giornale (“Quel centro commerciale che ferisce Venezia”, 13 febbraio) e di molti altri, dopo il parere negativo della Soprintendenza, Koolhaas insiste: «Faremo il progetto, al diavolo il contesto, è quello che paralizza la nuova architettura». Profanare un edificio storico è dunque parte del “forte impatto simbolico” commissionato da Benetton.

Il terzo atto è di questi giorni: Pierre Cardin, memore delle sue origini venete, a 90 anni vuol lasciare un segno in Laguna. Costruendo a Marghera un Palais Lumière da un miliardo e mezzo, alto 250 metri, superficie totale 175mila metri quadrati. Tre torri intrecciate, 60 piani abitabili, un’università della moda e poi uffici negozi, alberghi, centri congressi, ristoranti,
megastore, impianti sportivi. Una città verticale, un’occasione unica per il recupero di un’area industriale in degrado. Ma la Torre di Babele targata Cardin, coi suoi 250 metri di altezza, sarebbe alta 140 metri in più del campanile di San Marco, e svettando su Marghera segnerebbe duramente lo skyline di Venezia, in barba a tutte le norme urbanistiche: impossibile non vederla da piazza San Marco, anzi da tutta la città. Specialmente di notte, perché il mastodonte, illuminatissimo, meriti il nome di
Palais Lumière.

Non solo: sarebbe sulla rotta degli aerei, e violerebbe di ben 110 metri i limiti di altezza imposti dall’Enac (Ente
nazionale aviazione civile). Ma se l’Enac risponde picche, Cardin non demorde: o un sì integrale al progetto, o il suo palazzo emigrerà in Cina.

Che cos’hanno in comune questi tre episodi? Sono tre occasioni per Venezia. Ma perché, se vogliamo portare turisti a Venezia per mare, va fatto con meganavi superinquinanti che s’insinuano in città come altrettanti grattacieli? Perché, se vogliamo
recuperare all’uso commerciale il Fondaco dei Tedeschi, dobbiamo violarne l’architettura? Perché Cardin non può, nei 250mila metri quadrati del parco che avrebbe a disposizione, edificare due, tre torri più basse, con la stessa superficie totale? C’è una sola risposta: in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del progetto. E’ essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce i sacerdoti della modernità quanto una vergine restia può irritare un dongiovanni che si crede irresistibile. 

La profanazione, anzi la visibilità della profanazione, ha una forte carica simbolica, è uno statement di iper-modernità rampante e volgare, che si vuol prendere la rivincita sul passato, umiliare Venezia guardandola dall’alto di una mega-nave o di una superterrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo a Marghera. Pazienza se (lo ha scritto Italia Nostra) l’Unesco dovesse cancellare Venezia dalle sue liste, dato che nel 2009 lo ha fatto con Dresda, dopo la costruzione di un ponte visibile dalla città barocca.

Ma c’è un altro denominatore comune: i soldi. 
In tutti e tre i casi, il ricatto è lo stesso: senza le mega-navi calano i turisti; per avere la mega-torre di Marghera e la mega-terrazza del Fondaco bisogna ubbidire al committente senza fiatare. 

E le istituzioni? Prone ai voleri del dio Mercato, sono pronte a tutto: nel caso del Fondaco, il Comune ha accettato da Benetton una sorta di “bonus” di 6 milioni promettendo in cambio di permettere (e far permettere) tutto; il sindaco Orsoni dichiara che «è assurdo mettersi di traverso a Cardin». 

Intanto il presidente della regione Zaia incensa lo stilista paragonandolo a Lorenzo il Magnifico (forse non ricordava il nome di nessun doge), e chiede «che il ministro Passera si metta una mano sul cuore» e induca l’Enac a chiudere un occhio: anche la sicurezza dei voli dovrà pur inchinarsi al Denaro. 

In questa squallida sceneggiata, due sono le vittime: non solo Venezia (e i veneziani), ma anche la legalità, sfrattata a suon di milioni.
E intanto Pierre Cardin ha già messo in vendita gli appartamenti del Palais Lumière, con un annuncio diffuso a Parigi, in cui lo si vede torreggiare sullo sfondo di una Venezia ridotta a miniatura. La legalità può aspettare, la Costituzione può andare in soffitta.

P.s. E che Venezia sia da sempre meta di attacchi lo dimostra questo volantino lanciato dai futuristi



Contro la Venezia passatista
27 aprile 1910
L'8 luglio 1910, 800.000 foglietti contenenti questo manifesto furono lanciati dai poeti e dai pittori futuristi della Torre dell'Orologio sulla folla che tornava dal Lido.

Contro la Venezia passatista

Noi ripudiamo l'antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico.
Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell'imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo.
Noi vogliamo guarire e cicatrizzare questa città putrescente, piaga magnifica di passato. Noi vogliamo rianimare e nobilitare il popolo veneziano, decaduto dalla sua antica grandezza, morfinizzato da una vigliaccheria stomachevole ed avvilita dall'abitudine dei suoi piccoli commerci loschi.
Noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa rovinare il mare Adriatico, gran lago Italiano.
Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi.
Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l'imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture.
Venga finalmente il regno della divina Luce Elettrica, a liberare Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobiliata.

Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo

Gerardo Dottori, Venezia, 1932
e anche certa cinematografia americana sempre in prima linea quando si tratta di distruggere monumenti italiani

mercoledì 4 luglio 2012

Mimmo Rotella...un americano a Roma

Inediti legami tra Mimmo Rotella e la nascita del personaggio di un Americano a Roma in questo interessante e suggestivo articolo di Andrea Bruni.

DUCHAMP… M’HAI PROVOCATO… E IO ME TE MAGNO!

Prime delle Contesse Scalze, degli spogliarelli proibiti di Aichè Nanà, della suburra catacombale fotografata dall’entomologo Marcello Rubini (La dolce vita) ci fu una Roma sotterranea e vitalissima che non guardava solo ai salottini di Via Veneto o alle serate con Chet Baker alla Rupe Tarpea. No, guardava oltralpe, con voraci antenne, senza fermarsi ai diktat del “Politecnico” di Vittorini, o ai furibondi scorci proletari di Sfrenato Guttuso, come lo chiamava l’amico Marino Mazzacurati. Se Tommaso Landolfi, più bello di Errol Flynn, navigava- fiero e solitario- verso il Mar delle Blatte, altri cercavano diversamente un Altrove. Magari a Saint Tropez. Con un frustino in mano, e con due bionde ignude accovacciate sui sedili della propria Spider, come Mimmo Rotella, guascone delle Avanguardie. Roma-Saint Tropez- Parigi- Kansas City- New York- e poi di nuovo Roma, magari per dirigere, con piglio squisitamente Dada, la sua Suoneria Epistaltica, assieme ad una certa Ursula Andress (a cui Rotella aveva assegnato una “macchina da scrivere con forchetta sincronizzata”), e ad un certo Lucio Fulci, giovane appena uscito dal Centro Sperimentale, che seguiva l’amico artista con un tamburo, nella speranza di recuperare un bel Picchiapò fumante ed una compagnia femminile per la notte…Tutto vero: siamo fra il 1952 ed il 1953, Mimmo Rotella ha già tenuto due personali alla Rockhill Nelson Gallery, e l’Università della città lo ha nominato “Artist in Residence”… Ma lui niente; ogni volta che gli era possibile, eccolo tornare alla adorata Roma, con i suoi giubbotti in pelle da “teddy boy”, le camicie floreali, i cappelloni texani, l’inimitabile accento calabro-roman-americano…Un bel giorno (di quelli magici che capitavano solo a Roma, dagli studi di Cinecittà, sino al Teatrino della Barafonda) il giovane Fulci- nel frattempo divenuto aiuto-regista di Stefano Vanzina, nome d’arte Steno, ovvero il Sommo Artigiano- incontra Rotella reduce dall’America che gli dice: “Sono appena tornato da Kansas City, dove ho insegnato poesia…Ho anche dei danzatori che potrebbero lavorare per la nostra “Suoneria Epistaltica”…Ma là, però, perché qui in Italia è tutto difficile…Come lo dite in Italiano…have relationship…”; e Fulci: “Si dice amicizie…”, e l’artista post-Dada: “Ma io parlo un ottimo americano!”… “Cos’è il genio?”, si domandava il Perozzi in Amici miei…Ecco Fulci che, nel giro di un nanosecondo crea Nando Moriconi- pensando ai tic esterofili di Mimmo Rotella- per la nascente star Alberto Sordi. Nando Moriconi, coatto romano con ossessioni a “stelle e strisce”, fa la sua prima apparizione in Un giorno in pretura (1953), nel celebre episodio del bagno nella “Marrana”. A ruota, nel 1964, esce Un americano a Roma, e qui siam già nella leggenda. Ma della strana amicizia fra Fulci e il tonitruante artista che “vuo fa l’americano” non se ne ricorda più nessuno. 

di Andrea Bruni su Satisfiction



venerdì 6 aprile 2012

I colori della Passione (The Mill and Cross) - Un film su Pieter Bruegel

Tra le sorprese cinematografiche di quest'ultimo periodo, per rimanere anche in tema col Venerdì Santo, segnalo questo film che dal trailer e dalle foto si dimostra assolutamente incredibile e visionario.  Lo svedese Lech Majewski si è misurato in un’opera ambiziosa, I colori della Passione, con l’intento di entrare nel mondo complesso e misterioso dell’arte di Pieter Bruegel. The Mill and Cross (questo il titolo originale) è “ambientato” all’interno del quadro La Salita al Calvario di Bruegel il Vecchio, ed è un film che assottiglia in modo sorprendente la distanza tra realtà e sfera artistica. Tra le diverse recensioni voglio inserire questa uscita su Cineblog inserendo delle immagini, tratte dal film, veramente suggestive. 



Prendete un dipinto, uno dei più famosi di sempre. Poi prendete un'idea, quella di dargli vita. Il risultato è quanto vediamo ne I colori della Passione di Majewski. Chi conosce il regista polacco sa in qualche modo a cosa va incontro dandosi ad un suo film. Majewski tratta il cinema con la stessa riverenza con la quale si approccia all’Arte, perché lui, è bene dirlo, è anche un pittore. Lui che fa parte di quell’arte moderna e contemporanea che mal digerisce, pur rientrando nella categoria. Un personaggio che vive di Arte, respira Arte e si interroga sull’Arte. Non si spiegherebbe diversamente questo suo ritorno alla metà del XVI secolo, quando il pittore fiammingo Pieter Bruegel completa una delle sue più importanti opere: Salita al Calvario. A riguardo eccovi due interessanti retroscena a bruciapelo. Il primo riguarda il rapporto tra Majewski ed il dipinto in questione. Quando era piccolo, il futuro regista era solito passare le vacanze estive a Venezia. Muovendosi in treno, gli capitava sistematicamente di fermarsi a Vienna, dove il Kunsthistorisches Museum rappresentava una tappa fissa di questo suo breve soggiorno. Si dà il caso che il quadro di Bruegel sia esposto in un’ala interna a quel museo. Ebbene, il diretto interessato racconta che già all’epoca si instaurò un particolare rapporto tra lui e quel dipinto che rivisita il Calvario di Nostro Signore. Osservandolo, creava storie inerenti a tutti quei protagonisti inconsapevoli. In nuce, I colori della passione era già lì.


Per la seconda curiosità, ci tocca fare un salto temporale di parecchi anni, al 2005. Quell’anno lo scrittore e critico d’arte Michael Francis Gibson ebbe modo di vedere Angelus. Colpito dalla sensibilità pittorica manifestata in sede di regia da Majewski, decise di consegnare a quest’ultimo una copia del suo libro The Mill and The Cross (Il mulino e la croce). Fu allora che lo stesso regista, a sua volta affascinato dalle formulazioni presenti in quell’opera, ebbe a coltivare un’ambizione: raccontare la Salita al Calvario di Bruegel mediante il mezzo cinematografico. Il contesto storico è importante, seppur non essenziale, per comprendere il messaggio. Il pittore di Breda, evidentemente sensibile a quanto stava avvenendo a suo tempo in terra fiamminga, vedeva nei tumulti dell’epoca qualcosa di molto vicino alla persecuzione. In ottica protestante è agevole comprendere a cosa alludesse Bruegel: così come i primi cristiani furono perseguitati dal Sinedrio negli anni in cui Cristo ancora predicava, al medesimo modo nel ‘500 era la Chiesa Cattolica a perseguitare i seguaci di Lutero. Con non poco estro e fantasia, quindi, decise di portare a termine una tela che descrivesse tutto ciò. Tale aspetto si scorge durante la visione del film, con un Bruegel (Rutger Hauer) in costante apprensione riguardo all’esito di questa sua missione per certi aspetti autoimposta. In una pellicola in cui a farla da padrone sono e devono essere le immagini, c’è davvero poco spazio per la parola. Basti pensare che per il primo dialogo dobbiamo attendere il trascorrere della prima mezz’ora. E’ bene evidenziare quanto appena rilevato, perché in relazione a quanto attiene agli intenti di Majewski, I colori della passione riesce pienamente. L’utilizzo della computer grafica non ha rappresentato un semplice vezzo artistico, bensì una condizione indispensabile per farci letteralmente entrare nel dipinto. Chissà quanti artisti nei secoli passati avranno almeno una volta fantasticato sulla possibilità di dar vita alle proprie opere. Senza ricorrere ad arzigogolate teorie sugli albori del cinema, in fondo lo stesso nacque alla luce di questa pressante esigenza, quasi un’ossessione, circa il movimento.


Ebbene, Majewski ed il suo team imprimono su pellicola quanto solo l’immaginazione è in grado di partorire. E’ uno di quei non moltissimi esempi in cui davvero la tecnologia al cinema dei nostri giorni non rema contro la creatività, bensì si pone al suo servizio. L’autore ci ha brevemente accennato qualcosa in merito al dispendioso iter che ha condotto alla realizzazione del film. Tre anni passati a lavorare su ogni singolo aspetto, cercando di risolvere veri e propri enigmi come quello del cielo che fa da sfondo al dipinto. 
Ripreso in Nuova Zelanda, non si riusciva a farlo combaciare con quanto stava sotto. I più tecnici avranno un’idea di quanto appena riportato, ma quale che sia il grado di comprensione, sappiate che si è trattato di un lavoro immane. Certo, qualche rischio bisogna pur correrlo quando si punta così in alto. Ed infatti I colori della passione è come un carro trainato da cavalli in piena corsa: non è lui a fermarsi per lasciarvi salire, ma dovete essere voi abbastanza “abili” da saltare a bordo. Con questo, non pensate che il limite del film sia da ricercare nel frenetico svolgersi degli eventi, anzi! Come già accennato, passano più o meno trenta minuti per udire il suono di una frase di senso compiuto, ed in generale il film scorre con una certa lentezza. E’ il dazio che la pellicola di Majewski deve necessariamente pagare per arrivare a raggiungere il suo scopo. Anziché prediligere l’articolazione e la foga di una qualunque manifesto scritto, I colori della passione opta, giustamente, per i lunghi e martellanti silenzi di immagini che si susseguono in maniera nient’affatto casuale. Non a caso è difficile uscire dalla sala con un’idea ben precisa. Questo perché si tratta di una di quelle opere che pretendono di essere metabolizzate, e che non cedono a compromessi pur di chinarsi verso lo spettatore. Non un cinema artisticamente autoreferenziale, ma uno di quelli che tratta lo spettatore con un rispetto tale da esigere un piccolo sforzo per essere pienamente apprezzato. Fugaci ma intense le interpretazioni di Rutger Hauer, Michael York e Charlotte Rampling, ben integrati in un contesto da cui molto si desume e poco si può inequivocabilmente connotare. E’ questo il bello dell’Arte, quando lascia spazio alla libertà di chi ne partecipa in maniera tutt’altro che passiva. Quando si instaura quel gioco che ci spinge a ricercarne il senso, che non è mai banale e che brama di essere colto.


E se qualche perplessità permane è per la palese ammirazione manifestata nel film nei confronti di Bruegel. Così come il pittore fiammingo non volle protagonisti nel proprio quadro - nemmeno Gesù stesso - così Majewski non ha voluto che le storie da lui immaginate quando era un pargoletto ledessero a questa ferma volontà del pittore. Sì perché le storie di cui ci parla il regista, davvero brevi e tutt’altro che approfondite, non hanno in sé nulla di eccezionale. Potremmo semmai dire che sono eccezionalmente ordinarie. Ma ricordiamoci che il film non verte su una persona, un periodo storico o chi per loro. I colori della passione racconta di una tela, un dipinto che è il solo, vero e unico protagonista. Tutto ciò che troviamo al suo interno deve la sua esistenza alla presenza stessa del quadro entro cui si muove. Fuori da esso esiste, è vero, ma solo in funzione della “parte” che deve inconsapevolmente recitare in quell’eterno ed irripetibile istante.
Probabilmente non è poi così lontano il giorno in cui sarà possibile letteralmente vedere ciò che vedono gli altri quando si aggrappano alla propria immaginazione. Bene o male che sia, quindi, restiamo in sospeso all’idea di come sarebbe stato assistere a questo film così come Majewski lo ha esattamente immaginato. Ma poiché quel giorno ancora non è oggi, prendiamo atto di un lavoro encomiabile seppur tutt’altro che perfetto. Ed è proprio per questo che molti lo apprezzeranno visceralmente, mentre altri rimarranno tiepidi, ai limiti dell’indifferenza. Nonostante ciò, l’impatto visivo trascende qualsivoglia presa di posizione: tecnologia a servizio dell’Arte e non viceversa. Ci pare un ottimo punto d’approdo da cui immediatamente ripartire.





Inserisco i link ad altri articoli: 


e suggerisco questa bellissima pagina da wikipedia che elenca tutti i film realizzati sugli artisti e sul mondo dell'arte. Per tutti gli appassionati di storia dell'arte e cinema una vera chicca.


martedì 13 settembre 2011

Giovan Battista Villari detto Il Caparra

Giovan Battista Villari detto Il Caparra, grande pittore romano dimenticato. Altro che quello scarparo di Caravaggio. La situazione presa dal film Fantasmi a Roma è così simpatica e plausibile che ho voluto pubblicarla; e tra l'altro esiste un artista detto Il Caparra, era fiorentino, del Quattrocento, citato anche dal Vasari per essere un maestro del ferro.

venerdì 26 agosto 2011

Entr'acte, un film dadaista

Entr'acte (1924) è un cortometraggio diretto da René Clair, scritto per un siparietto per il Relache Ballets al Théâtre desChamps-Élysées a Parigi. Relache si basa su un palinsesto di Francis Picabia, prodotto da Rolf de Maré con le coreografie di Jean Borlin.La musica sia per il balletto che per il film è stata composta da Erik Satie.
Per questa produzione, i dadaisti collaborando al progetto inventato un nuovo modo di produzione: instantanéisme. Il film completo dura circa 20 minuti e usa tecniche e soluzioni innovative come il rallentatore, il montaggio all'indietro, le inquadrature da sotto (per la ballerina), dei primitivi stopmotion per far scomparire la gente o far trasformare un uovo in un uccello. Nel cast apparizioni cameo di Francis Picabia, Erik Satie, Man Ray e Marcel Duchamp. Il direttore d'orchestra alla prima era Roger Désormière. In questa (definitiva) edizione la colonna sonora è stata eseguita nel 1967 da Henri Sauguet.

giovedì 1 aprile 2010

Boogie Woogie - La Londra di Hirst in un film


Boogie Woogie è un film di Duncan Ward del 2010 su soggetto di Danny Moynihan, con Amanda Seyfried, Gillian Anderson, Stellan Skarsgård, Heather Graham, Christopher Lee, Joanna Lumley, Alan Cumming, Danny Huston, Charlotte Rampling, Gemma Atkinson. Prodotto in Gran Bretagna. Nella Londra contemporanea (quella di Hirst e del gruppo YBAs) si intrecciano le storie di collezionisti, artisti, imprenditori e commercianti tutti con un unico scopo nella vita: ottenere fama, sesso, denaro e salire rapidamente la scala sociale. La storia è incentrata intorno all'acquisto di un'opera di Mondrians dal titolo Broadway Boogie Woogie. Il film narra le vicende dei mercanti d'arte, collezionisti, artisti e wannabees tutti disposti a usare ogni mezzo necessario per realizzare le loro ambizioni personali. Ogni storia parallela precipita verso la sua conclusione depravata ed egoista; un finale tragico riorganizzerà tutte le storie. Damien Hirst ha agito come consulente artistico del film, che include alcune delle sue opere, tra cui il dipinto Spin. Uscirà nelle sale il 16 aprile e speriamo di vederlo presto in Italia.





giovedì 26 novembre 2009

Gli americani e la “Sindrome del David”

In alcuni casi ciò che è troppo bello scatena sentimenti ambivalenti.

Nel 1991 Pietro Cannata, un individuo affetto da problemi psichici, prende a martellare il David di Michelangelo danneggiando un dito del piede sinistro; Dopo quell’episodio Cannata nel 1993 in due diversi momenti sfregia Le esequie di Santo Stefano di Filippo Lippi e L’adorazione dei pastori di Michele di Raffaello delle Colombe. Nel 1999 colpisce con un pennarello Sentieri ondulati di Pollock; Luther Blissett, con una lettera provocatoria a Repubblica, in solidarietà di Pietro affermò “L'intervento di Cannata è il migliore tributo che persona potesse fare ad un artista quale era Pollock. L'unica differenza che corre tra l'espressionista astratto americano e il performer italiano è che il primo consumava le sue follie in un "contesto artistico" e ricercava, trovandolo, il supporto teorico ed economico di critici e galleristi, senza il quale anche Pollock sarebbe stato probabilmente rinchiuso in un manicomio”. In seguito si accanirà su due opere di Fontana e Burri alla Gnam.

17__Jackson_Pollock_-_Sentieri_ondulati,_1947

Il record degli attentati spetta alla Ronda di notte di Rembrandt, che negli anni ne ha collezionati tre: nel 1915 un calzolaio disoccupato graffia leggermente la tela; nel 1975 un uomo apre a coltellate 13 squarci verticali lunghi fino a 80 centimetri sulla tela; nel 1990 un olandese vi getta acido solforico.

Rembrandt-La-ronda-di-notte

Negli ultimi 25 anni sono stati oggetto di attacchi anche l’Adorazione del vitello d’oro di Poussin, La femme qui lit di Picasso, la Danae di Rembrandt, il Ritratto di cardinale di Raffaello. Nel 1987 Robert Cambridge spara contro un disegno di Leonardo alla National e un anno dopo Joachim Bohlmann getta acido solforico su tre dipinti di Durer. Nel 1989 un uomo su una sedia a rotelle entra nella pinacoteca dei Musei Vaticani, getta del liquido infiammabile sulla Madonna di Foligno di Raffaello e tenta di dargli fuoco.

MadonnaDiFoligno

La bellezza estetica delle opere può provocare violenti turbamenti emotivi, che rischiano di sfociare anche in una spiccata volontà vandalica chiamata appunto “Sindrome del David”, che si contrappone alla più famosa “Sindrome di Stendhal”. Chi ne soffre è sovente una persona estremamente sensibile e amante dell’arte, in cui l’impulso a distruggere viene vissuto come estraneo. Chi si lascia trasportare da questa sindrome vuole dimostrare di essere grande e forte a cospetto di opere universali o, viceversa, sentendosi geloso e invidioso vuole distruggere l’opera per riaffermare il proprio Io messo in pericolo da troppa profusione estatica.

Al di là della ricerca di facili catastrofismi corredati da effetti speciali alla Blockbuster, ritengo che sia proprio un misto di ammirazione e gelosia per il nostro patrimonio a spingere, negli ultimi tempi, molti registi statunitensi ad inserire nei loro film scene “spettacolari” nelle quali vengono distrutti celebri monumenti mondiali, in particolare italiani, e ancora più in particolare della Città Eterna:

Piazza di Spagna e il Colosseo esploso nel film The core

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la distruzione del baldacchino del Bernini in Angeli e Demoni con danni diffusi in tutta la basilica e la piazza

angeli e demoni

per terminare con l’apoteosi della distruzione nell’ultimo catastrofico film 2012 nel quale crolla addirittura la Sistina con tutto San Pietro



Qualcuno risponderà che sono luoghi simbolici e che creano pertanto maggior effetto con la loro distruzione, che le immagini rimangono li, innocue, come vuoti effetti speciali; ritengo che la spettacolarizzazione della distruzione dell’arte celi motivazioni ben più profonde oltre ad avere ripercussioni emotive ben più sentite di quanto si pensi. L’impulso irrefrenabile degli americani a danneggiare e distruggere non risparmia l’arte, anzi, su di essa si accaniscono le inconsce gelosie e frustrazioni nel modo più spettacolare e devastante possibile. E’ tutta una finzione, è vero, ma il gesto resta ed è una cosa che non sopporto; le immagini del crollo della Sistina rimangono per me qualcosa di totalmente osceno.

E pensare che tutto era iniziato nel 1957 quando nel film A 30 milioni di chilometri dalla terra (capolavoro) di Nathan Juran il mostro alieno aveva distrutto senza catastrofismi, quasi con gentilezza, Ponte Sant’Angelo e il Foro romano.

martedì 13 ottobre 2009

Caravaggio XXI – Il pathos del reale

Forse è un’operazione troppo facile trarre tableaux vivants dalle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio ma ciò dipende non certo dalla banalità dei registi o attori quanto dall’intrinseca natura delle opere del Merisi, soggetti così miracolosamente reali e significanti di per se stessi, senza il ricorso a un primo approccio a lettura iconografiche, da prestarsi a questo genere di riutilizzazione. Arte sublime e ricorso a specifiche formule di pathos (pathosformel appunto) capaci da sole di trasmettere emozioni. E’ quello che ha cercato di fare compagnia Malatheatre con la regia di Ludovica Rambelli con lo spettacolo Caravaggio XXI che verrà trasmesso, in prima assoluta, alle ore 21.00, presso il Cinema Azzurro Scipioni di Roma. Dalle immagini che ho trovato trovo assolutamente valida, dal punto di vista estetico, la loro operazione tanto da aver scambiato l’immagine con la Maddalena, ad un primo sguardo, per un dipinto reale. L’azione scenica non fa che aumentarne la resa.

CARAVAGGIO XXI

CARAVAGGIO XXIa

CARAVAGGIO XXIb CARAVAGGIO XXIc

ecco i quadri originali, per un veloce raffronto.

caravaggio-matteo, part. maddalena_caravaggio1_N

caravaggio-lazzaro, part. caravaggio, part. francesco

Un breve video del lavoro si può visionare dal blog Caravaggio400, sempre aggiornato sugli ultimi avvenimenti intorno all’artista.

Da questo link, invece, un video desunto dal Caravaggio di Darek Jarman, assoluto capolavoro di regia e di contestualizzazione dell’opera del Merisi nel contemporaneo.

caravaggio_sepoltura-cristo malatheatre-caravaggio

giuditta oloferne

GiudittaeOloferne1599

giovedì 17 settembre 2009

Io e…Luciano Emmer (l’amore per l’arte si racconta con una torcia)

Questo post è un omaggio ad un grande regista da poco scomparso, Luciano Emmer, che tra i grandi registi italiani è stato quello che più di altri si è avvicinato, è rimasto attratto ed ha raccontato la grande arte con uno stile unico, tanto rispettoso della tradizione quanto elegante e sensibile al “bello”.

emmer

Già nel 1938 realizza Racconto di un affresco, il suo primo documentario d'arte, dedicato agli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Nel 1940 ripete l'esperienza affrontando i quadri di H. Bosch in Paradiso terrestre, avviando così una fortunata carriera di documentarista che troverà momenti topici con Goya (1950), Leonardo da Vinci (1952) e Picasso, una straordinaria analisi dell’artista (1954). Il regista di Le ragazze di Piazza di Spagna e di Una domenica d' agosto, tra i primi ad inaugurare la “commedia all’italiana” e tra i più attenti narratori dell'Italia del primo boom economico, inventore della sigla di Carosello e dello stile dei siparietti pubblicitari, riguardo l’opera d’arte si dimostra un silenzioso spettatore, attento al particolare, alle sensazioni, ai luoghi ed al loro contesto; le sue riprese potrebbero formare un ricco manuale tanto sono rispettose del manufatto lasciato a comunicare direttamente con lo spettatore. Poche frasi, poche voci fuori campo di chi l’arte la vive intimamente come esperienza. Il resto sono solo immagini filmiche, mute ed eloquenti, come di chi, così affascinato dalla misteriosa bellezza dei capolavori, si limita a registrare e mai ad interpretare. Un moderno viaggiatore del grand tour che al consueto taccuino di disegni sostituisce la macchina da presa. Una vasta cultura pittorica che va dalle pitture rupestri di Lescaux, dove il cadavere del cacciatore ucciso dal bufalo rappresenta in assoluto la prima storia mai raccontata, e lui lo racconta immergendosi nelle profondità delle grotte, alle tentazioni dell’umanità così minuziosamente descritte ne Il giardino delle delizie di Bosch fino a Degas, Van Gogh, Picasso.

La pittura viene nuovamente trattata nel 1972 con il programma televisivo per la Rai "Io e..."; in 14 puntate il regista lascia dialogare celebri intellettuali, artisti, scrittori, direttamente con l’arte; ognuno di loro, scelto un tema, un’opera, un luogo, lo affronta dal proprio punto di vista; il regista si limita a riprendere. Le opere non vengono mai tradite ma, seguendo i commenti degli intervistati, acquistano valenze e sfumature nuove, del tutto personali. E’ una muta dichiarazione di appartenenza al bello. Le puntate, anche per lo spessore degli intervistati, sarebbero tutte da vedere. Tra di loro sottolineo:

Io e l'Adorazione dei magi del Sassetta” intervista a Severino Gazzelloni, vero equilibrio tra arte e musica,

Io e la morte di Marat” intervista a Guttuso, bellissima analisi del grande pittore,

“Io e l’Eur” intervista a Federico Fellini, metafisica riflessione sul quartiere,

“Io e il battesimo di Cristo di Giovanni Bellini” intervista a Guido Piovene, pregnante discorso sul capolavoro,

“Io e il campo di grano con corvi di Van Gogh” intervista a Cesare Zavattini, intimamente vissuta,

“Io e la Cortigiana romana di Scipione” intervista ad Alberto Moravia, lucida analisi dell’intima anima di Roma,

“Io e Piazza san Marco” intervista a Goffredo Parise, poetica e sentita impressione del luogo,

“Io e la Colonna Traiana” intervista a Bianchi Bandinelli. Forse la puntata più bella e suggestiva nella quale il grande storico dell’arte antica viene portato, attraverso una scala mobile, letteralmente intorno al fregio della colonna, raccontandocene la storia, lo stile, le sue impressioni. Emmer, anche lui sulla scala, filma il tutto da dietro, indugiando sui bassorilievi tanto vivi quando inaccessibili per lo spettatore da terra. La colonna, finalmente, è nuda sotto i nostri occhi; non più celata dall’altezza mostra l’incredibile intreccio degli avvenimenti. Il tutto nella luce di un notturno.

Nel 1974 la serie venne ripresa, curata da un altro regista, e ci regalò la splendida analisi di Pasolini sulla “forma della città”.

Nel 1988 il regista torna al documentario d'arte con La bellezza del diavolo - Viaggio nei castelli trentini, mentre al 1997 risale il suo capolavoro Bella di Notte.

borghese-gallery-galleria

Un visitatore notturno si muove tra capolavori armato di una lampadina tascabile, emozionato davanti ai dipinti che appaiono quasi all' improvviso, dal buio, felice di raccontare il suo amore per l' arte. Per cinque notti, Emmer filma le sale restaurate della Galleria Borghese di Roma; scorrono davanti ai suoi e ai nostri occhi capolavori di Canova e Bernini, Rubens e Tiziano, i Caravaggio e i Raffaello, statue e dipinti di cui il regista rivela segreti e magie, facendo annotazioni curiose, costruendo un dialogo immaginario con Scipione Borghese, che raccolse in quella che era la villa della famiglia, un patrimonio di valore inestimabile. Un itinerario solitario, un ritratto personale, lontano da critiche estetiche e da nozionismi storici, che segue solamente il filo della suggestione. Il risultato è straordinario.

"Mi avevano chiesto di realizzare un documentario sul restauro della Galleria Borghese" spiegherà Emmer "ma ho risposto che ci sono giornalisti Rai più bravi di me. Così ho realizzato un' opera di cinema partendo da un punto di vista personale, immaginando di essere un visitatore che si trova di notte a scoprire le meraviglie di questo posto".

Il suo ultimo film Trilogia: il pensiero, lo sguardo, la parola non è che una lucida riflessione sulla vita e sull’arte.

“D’altronde, quella torcia che si aggira all’interno di Villa Borghese è il simbolo più concreto del mestiere d’autore, dell’umanità e del calore di uno sguardo, di un faro che illumina e racconta l’arte non come materia immobile e distante, ma come elemenoi che influenza la nostra vita, la nostra stessa essenza di uomini. E fare emergere dall’oblio e dal buio l’arte (intesa come pensiero, come materia) dei nostri tempi è forse uno dei compiti più concreti che il cinema stesso può darsi”. (fonte).

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lunedì 7 settembre 2009

“Destino” di Salvator Dalì

Volevo scrivere già da tempo questo post ma non riuscivo mai a trovare il video ottimale; con sommo piacere voglio proporvi oggi un piccolo capolavoro dell’animazione Disney inserito integralmente su youtube da un paio di mesi; si tratta di “Destino” di Salvator Dalì.

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La storia del cortometraggio è complicata; Walt Disney amava l’artista Dalì e lo stesso artista spagnolo definiva l’inventore del cinema d’animazione il più grande artista surreale vivente. L’idea originale del film risale 1945; il progetto doveva essere il risultato della collaborazione tra l’animatore statunitense Walt Disney e l’artista spagnolo Salvador Dalì, con le musiche eseguite dal compositore messicano Armando Dominguez.

Molto probabilmente il cortometraggio doveva essere inserito nel sequel di Fantasia, capolavoro assoluto di Walt il cui fascino misterioso, la bellezza dei disegni, l’armonia con la musica non finisce mai di colpirmi; riuscita nelle sale nel 1969 infatti riscosse un entusiasmo inaspettato per il suo stile visionario che la faceva considerare un'opera psichedelica. Il progetto prevedeva una vera e propria opera globale da far uscire a scadenze prestabilite, chiamando a realizzare i vari cortometraggi i più grandi artisti e disegnatori allora in circolazione; solo il relativo insuccesso alla prima uscita fece naufragare l'idea. I disegni e i bozzetti preparativi di Destino vennero realizzati dallo stesso Dalí in otto mesi, tra il 1945 e il 1946. Tuttavia, a causa di problemi di natura finanziaria, il progetto fu abbandonato: la Walt Disney, infatti, fu colpita da una grave crisi economica durante la Seconda Guerra Mondiale. Hench produsse un piccolo test d’animazione della durata di circa 18 secondi, nella speranza di un futuro recupero del progetto.

Nel 1999, il nipote di Walt Disney, Roy Edward Disney, mentre stava lavorando per la realizzazione di Fantasia 2000, il sequel tanto atteso, rispolverò il progetto di Destino e decise di ripristinarlo; per il completamento del cortometraggio vennero incaricati gli studios Disney di Parigi. Il film fu prodotto da Baker Bloodworth e diretto dall’animatore francese Dominique Monfrey, per la prima volta nelle vesti di regista. Un team di circa 25 animatori si diede da fare per decifrare gli storyboard criptici di Dalí ed Hench (avvalendosi anche dei diari scritti dalla moglie di Dalì, Gala). Alla fine il risultato è questo cortometraggio di circa 6 minuti in cui sono mescolati elementi di animazione classica a ritocchi apportati con la computer grafica.
Il cortometraggio non è tuttora in commercio quindi consiglio, prima che la Disney lo tolga dalla rete, di vederlo e scaricarlo.

Destino tratta di una storia d'amore in puro stile disneyano, narrando il viaggio di una ballerina attraverso un paesaggio desertico e un inquietante scenario surreale. L’alfabeto è quello classico degli oggetti dei quadri di Dalì: orologi molli, torri oscillanti, grucce, piramidi e ballerine senza testa che sembrano effettivamente le animazioni dei suoi quadri; l’interpretazione dell’artista però era stata molto diversa: per questi, infatti, il punto chiave della storia doveva essere il baseball come metafora della vita.

“Questi sette minuti di miscela di animazione ed azione in vivo, è una storia di amore senza dialoghi fra due giovani amanti, il "bat" e la palla; dovendo superare numerosi ostacoli per il loro affetto. Include immagini tipiche di Dali come occhi vestiti, orologi sciolti, formiche, il campanario di un monasterio, la torre di Babel, una parete corrosa dalle sabbie del tempo, una testa di ballerina che si trasforma in una palla, una scultura di Venus che viene alla vita come una bella donna, e due teste con corpi di tartarughe ; fra molte altre cose. Disney direbbe "Dali ha concepito per la prima volta il 'baseball' americano come una coreografia di un ballet". (fonte).

I disegni e le tele originali sono molto belli ed hanno effettivamente un che di cinematografico; ne ho inseriti alcuni:

Da_painting Dal_three

destino.dalì Dal_one

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ritrovando anche qualche riferimento alla grande arte del passato, in questo caso a Bellini

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ed ecco finalmente il corto. Buona visione.



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