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venerdì 20 dicembre 2013

Ritorno alla forma - La linea figurativa e realistica nell’arte molisana del Novecento

Amedeo Trivisonno, Natività 

Ritorno alla forma
La linea figurativa e realistica nell’arte molisana del Novecento

A cura di
Francesca Della Ventura
Tommaso Evangelista

Col patrocinio di
PROVINCIA DI CAMPOBASSO

21 dicembre 2013 / 12 febbraio 2014

Inaugurazione sabato 21 dicembre ore 18.00

Galleria Artes Contemporanea
Viale Elena, 60, Campobasso

Artisti:
Antonio D’Attellis
Antonio Di Toro
Walter Genua
Giovanni Manocchio
Giulio Oriente
Leo Paglione
Gilda Pansiotti D’Amico
Rodolfo Papa
Antonio Pettinicchi
Marcello Scarano
Amedeo Trivisonno
Vincenzo Ucciferri

Una delle peculiarità dell’arte molisana contemporanea è stata quella di non aver mai smarrito una spiccata linea figurativa. Fuori dalle correnti più significative, lambita solo superficialmente dalle tensioni del Futurismo, lontananel dopoguerra dai dibattiti sull’astrattismo, la regione ha mantenuto intatta un modo di saper dipingere e scolpire che affonda molte radici nella tradizione più nobile dell’arte italiana. Il merito principale del perdurare di tale tendenza è da ascrivere soprattutto a Amedeo Trivisonno e Marcello Scarano. Mentre il primo, Trivisonno, ha creato una vera e propria “scuola” formando diversi validi artisti in relazione, in particolare, all’arte sacra autentica, Scarano ha ispirato una ricerca sempre sulla forma ma letta in chiave maggiormente espressiva e intimista. I dibattiti sorti agli inizi degli anni Sessanta, di rottura e tensione, e liberazione di un’arte non più legata alla forma ma al concetto, andavano contro gli epigoni e gli esponenti meno innovativi della pittura, i cosiddetti “pittori della domenica”, ma mai contro i grandi maestri. Una collettiva sulla linea figurativa e realistica nell’arte molisana è un atto dovuto alla storia della regione per fissare alcuni punti certi, per riscoprire maestri dimenticati e soprattutto per mostrare un’arte sempre attuale e mai anacronistica, fatta di sapere tecnico e progettuale ma anche di spiccate doti creative; è anche un’occasione di studio e di approfondimento su artisti significativi del Novecento. Oltre alle opere di artisti storici si sono voluti esporre anche i lavori di pittori che, pur nel perdurare delle correnti e degli “ismi”, non hanno mai abbandonato il pennello e la forma. La collettiva ha diversi pregi. Ha la pretesa di concentrare su poche pareti un secolo di arte molisana seguendo la linea della forma; vuol presentare una rassegna quanto più completa ed esplicativa degli artisti figurativi molisani, ovvero di quei pittori che maggiormente hanno indagato la raffigurazione, mostrando legami, derivazioni e ispirazioni; cerca di rivalutare contesti poco indagati dalla critica, mostrando un ambiente estremamente vitale e di forte spessore tecnico e qualitativo. Parlare della forma significa indagare l’intima natura dell’arte, capace di schiudere, nel gesto personale del rappresentare, la visione concreta e spirituale dell’artista chiamato a farsi carico del reale per comunicarlo all’esterno. Se l’astratto è tensione emotiva e riconfigurazione in chiave sintetica dell’idea, la costruzione sulla e intorno alla figura comporta un perenne agire sulla struttura interna del dipinto per veicolare, nello scontro tra immagine e percezione, una personale osservazione sull’unicità del mondo.



mercoledì 24 aprile 2013

La mummia che ha ispirato L'urlo

Sulla genesi del suo capolavoro Munch ha lasciato queste parole: 'Camminavo lungo la strada con due amici, quando il sole tramontò; il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue; mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto, sul fiordo neroazzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco, i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura, e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura'. La versione principale dell'Urlo è del 1893, ma ne esistono oltre 50 varianti, perché era costume del pittore rifare continuamente i suoi soggetti più importanti. Secondo lo storico dell'arte americano Robert Rosenblum, a fare da modello per il volto emaciato fu una mummia peruviana del Musèe de l'homme a Parigi, le cui mani legate sono accostate alle gote come nel quadro di Munch. La critica ha visto in quell'immagine l'uomo solo con la sua paura in una natura che non consola, ma che amplifica quel grido fino al cielo rosso sangue. Dipinto alla fine del secolo scorso, sembra anticipare quello che il Novecento vedrà: l'Olocausto, Hiroshima. La forte carica espressionista del quadro, gli occhi ciechi, la bocca spalancata, hanno influenzato anche la cultura popolare.



venerdì 19 ottobre 2012

Lost Art

La storia dell'arte purtroppo è fatta anche dalle storie delle tante distruzioni avvenute nel corso dei secoli. A riguardo due segnalazioni. La prima è Gallery of Lost Art. Si tratta di una mostra online che racconta le storie di opere d'arte scomparse, distrutte, rubate, rifiutate, o cancellate e che non possono più essere viste. "The Gallery of Lost Art" è un sito web visivamente strutturato come un magazzino open con vista dall'alto, con vere e proprie scritte in gesso che delimitano le zona dove si trovano le opere d’arte, facendolo somigliare ad una vera e propria scena del crimine. La seconda è il sito Necrologi dell'Arte che racconta le storie di opere distrutte, disperse, degradate. Tra queste quelle che riguardano il celebre e disastroso Incendio della Flakturm Friedrichshain  che è stato il più grande disastro artistico della storia moderna, dopo la distruzione del Palazzo dell'Alcazar di Madrid, avvenuta nel 1734.


giovedì 16 febbraio 2012

Le ceramiche di Giò Ponti


amore per l'antichità
Tra le opere più affascinanti del Novecento italiano annovero di certo le ceramiche di Giò Ponti. Ponti, architetto e designer italiano, proprio in questi oggetti decorativi ha dato il meglio di sè per la freschezza dell'inventiva, la genuinità del disegno sintetico e l'unione di tante e svariate influenze in un'unico stile ecclettico e ricercato. I decori ispirati all’arte greca, romana, etrusca e all’architettura palladiana ma anche alle recenti conquiste del cubismo (analitico e sintetico) e dell'astrattismo sono quanto di più studiato e spontaneo allo stesso tempo. Mai una linea di troppo o un contorno che sfiora la retorica delle forme, mai un tentennamento nel segno o nella struttura. Tutto è calibrato e armonico col colore, mai invasivo, che costruisce la struttura più che decorarla. Inizialmente nelle ceramiche il suo disegno riflette la Secessione viennese e sostiene che decorazione tradizionale e arte moderna non sono incompatibili. In seguito riscopre i valori del passato, il razionalismo e il realismo magico tanto che trova sostenitori nel regime fascista incline alla salvaguardia dell’identità italiana e al recupero degli ideali della “romanità” che si esprimerà poi compiutamente in architettura con il neoclassicismo semplificato del Piacentini. Bellissimo l'originale e vitale recupero dell'antichità. "Non è il cemento, non è il legno, non è la pietra, non è l’acciaio, non è il vetro l’elemento più resistente. Il materiale più resistente nell’edilizia è l’arte" soleva ripetere l'artista e allora si comprende come queste ricerche di designer non tentavano tanto ad estetizzare l'oggetto comune quanto riscoprivano tutta la prassi della bottega che creava, anche l'accessorio più inutile con la stessa perizia e attenzione adoperate ad esempio per una tela. La serie più significativa è stata quella realizzata dalla manifattura Richard Ginori, di cui Gio Ponti fu direttore artistico negli anni Venti, con la produzione che si colloca tra il 1923 e il 1930 destinata alla ricca borghesia milanese. 

"Le opere rivelano l’originalità e la straordinaria modernità di questo “neoclassico a Milano”, come fu definito da un critico d’eccezione quale Carlo Carrà, che recensì la primaMostra internazionale di arti decorative a Monza nel 1923, elogiando il giovane architetto per le sue prime ceramiche. E si può tranquillamente affermare che il grande pittore aveva visto giusto, dato che due anni dopo Ponti presentò le sue opere alla Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes a Parigi, vincendo il “Gran Prix”. Le immagini su vasi, centritavola e maioliche traggono ispirazione dall’antichità classica per le figure mitologiche, ma non mancano vedute prospettiche di chiaro stampo rinascimentale o ancora, sfondi teatrali e personaggi Déco, fusi in uno stile nuovo e inconfondibile che sembra quasi surrealista. Il tutto è sospeso, infatti, in una dimensione quasi metafisica, come sospesi sono i personaggi e gli oggetti raffigurati: donne formose avvolte tra le nuvole, animali, clown, barche. Il richiamo all’antico è facilmente riconoscibile: ogni opera presenta forme e decorazioni che si rifanno all’arte vascolare greca, etrusca e romana, come coppe e cisti (c’è anche quella che Ponti dedicò al più temuto critico di allora, Ugo Ojetti).Ad introdurre la mostra, una decina di grandi foto che riproducono particolari del Pirellone: buona l’idea di riutilizzare proprio il 'contenitore' della mostra per confrontare spazi e linee con le ceramiche (e questo fa la differenza rispetto alle tante altre mostre analoghe sul Ponti ceramista, recenti e lontane). Peccato che manchino le informazioni sulle architetture; e comunque si sarebbero potuti aggiungere altri scatti nel percorso, ad esempio in fondo nell’ultimo angolo rimasto 'sguarnito'" (fonte).

Per approfondire consiglio questo libro: Giò Ponti. Il fascino della ceramica.
prospettiva



putti con serpente




le attività gentili

passeggiata archeologica

allegoria dell'architettura

giovedì 14 luglio 2011

Breve storia della galleria La Tartaruga


La Tartaruga è una galleria storica romana, fondamentale per lo sviluppo dell'arte italiana nel secondo dopoguerra; da qui sono passati tutti i più grandi artisti; qui gli italiani, ancor prima degli americani, avevano inventato la pop art e facevano concorrenza all'egemonia culturale di oltre oceano. Poi sono arrivati i dollari di Leo Castelli e l'arte come arma di conquista. Un articolo su Il Mondo degli archivi di Sonia Grossi e Nora Santarelli ne ripercorre la storia.

Recentemente la Soprintendenza archivistica ha acquistato per l’Archivio di Stato di Latina, dopo un lungo e complesso iter, l’archivio della Galleria d’arte La Tartaruga, di proprietà di Plinio De Martiis.
L’archivio della galleria d’arte “La Tartaruga” documenta con buona continuità dal 1954 (data di nascita) sino agli anni ’90 la storia dell’arte contemporanea e non solo. Testimonia soprattutto la cultura degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta romana e italiana: in particolare, ruotava intorno alla Tartaruga tutta “la dolce vita” di quegli anni.
La galleria fu un luogo determinante per il rinnovamento artistico dell’Italia del dopoguerra, rinnovamento che ebbe tra la metà degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta la sua punta più avanzata proprio a Roma. Fu infatti a Roma che una comunità di artisti, già attivi nei decenni precedenti, in singolare posizione di dissidenza rispetto alle correnti ufficiali, si confrontò con straordinaria originalità con le generazioni più giovani e con i loro percorsi spesso divergenti. Questo confronto anche conflittualmente dialettico ebbe luogo in buona parte negli spazi della galleria La Tartaruga.
Plinio De Martiis e sua moglie Ninnì Pirandello aprirono la Tartaruga nel febbraio del 1954, spinti e incoraggiati dagli amici che frequentavano in quegli anni: Mafai, Turcato, Scarpitta, Maccari, Leoncillo. Il nome stesso della galleria fu una scelta condivisa con quegli artisti: proposto da Mino Maccari, fu estratto a sorte tra altri bigliettini dal cappello di Mafai.
Nelle intenzioni di Plinio quel locale di via del Babuino 196 doveva essere uno studio fotografico, poiché questa era la sua professione[1]. Divenne invece il luogo di ritrovo di artisti, poeti, letterati, critici, giornalisti, attori, registi, musicisti, collezionisti, galleristi e intellettuali di tutto il mondo, vale a dire di quanti hanno contribuito alla circolazione delle idee d’avanguardia a Roma.
Ad inaugurare la galleria fu una mostra di litografie di Daumier, alla quale seguirono numerose altre esposizioni di artisti affermati e di giovani emergenti, italiani e stranieri, tanto che, appena quattro anni dopo, allo scadere del decennio, la Tartaruga era in grado di contrassegnare, con l’instancabile impegno e la tenacia della sua attività, il panorama culturale di quelli che Plinio definì “gli anni originali”[2].
Dopo le mostre di Scarpitta nel 1955, dei Sette pittori romani nel 1956 con, tra gli altri, Dorazio, Perilli e Novelli, e quella di Afro, Burri e Scialoja, vennero nel 1957 gli esordi più memorabili, con le personali a Roma di Appel e Marca-Relli[3], di Asjer Jorn e Wols nel 1958 e, sempre in quello stesso anno, oltre alla collettiva Afro Capogrossi Consagra De Kooning Kline Marca-Relli Matta, le prime personali in Europa di Franz Kline e Cy Twombly.
Seguirono, l’anno dopo, la personale di Rauschenberg, la collettiva Giovane pittura di Roma con, tra gli altri, Rotella, Bignardi, Perilli, Novelli, Accardi, Sanfilippo e Scarpitta, la mostra Kline Rothko Scarpitta Twombly e, in collaborazione con la Galerie Aujourd’hui di Bruxelles, la mostra Novelli, Perilli, Twombly.
La Tartaruga è stata dunque la prima a presentare a Roma all’inizio del nuovo decennio l’arte americana, ma anche la migliore avanguardia italiana ed europea e, soprattutto, a creare una serie di legami e collaborazioni importanti con altre gallerie[4], musei, curatori e promotori d’arte contemporanea nel mondo, stabilendo percorsi preferenziali soprattutto con New York, grazie a Leo Castelli, ma anche con la Francia, l’Olanda e la Germania[5].
Il nuovo decennio si aprì all’insegna del “clima felice degli anni Sessanta” e la galleria si trasferì a piazza del Popolo[6] dove prese piede quel gruppo di giovani artisti, in seguito fu definito “ scuola di piazza del Popolo”.
All’esordio di Kounellis e alla prima personale a Roma di Brüning nel 1960, seguirono l’esordio di Schifano, quello di Giosetta Fioroni a Roma e la mostra di Castellani e Manzoni nel 1961.
Nel 1962 fu la volta della mostra collettiva La materia a Roma con Festa, Angeli e Schifano accanto a Burri e Rotella, nel 1963 quella dei 13 pittori a Roma con, tra gli altri, Mambor, Mauri e Tacchi, e la personale di Baruchello. Nel 1964, dopo la mostra Otto giovani pittori romani che presentò, tra gli altri, Lombardo, fu la volta di Ceroli, Rotella e Warhol, mentre nel 1966 venne inaugurata la prima personale in Italia di Richter, alla quale seguì la mostra collettiva Lichtenstein Raus. Seguirono l’esordio di Mattiacci nel 1967, mentre nel 1968 la personale di Warhol e Twombly precedette l’inaugurazione del Teatro delle mostre, ciclo di mostre giornaliere  inaugurato da Giosetta Fioroni, che trasformò la galleria in un laboratorio permanente. Un’occasione di incontro quotidiano fra gli artisti e il pubblico nello spirito di un diverso modello di esposizione e di rapporto con l’opera, a fronte della qualità più accentuatamente effimera che andava assumendo la produzione artistica di quegli anni.
Chiusero il decennio nel 1969 le mostre di Paolini e la selezione, intitolata Archivio, delle foto realizzate da Plinio, con la sua Rolleicord 6x6, dei protagonisti che avevano partecipato ai primi 15 anni di vita della Tartaruga,
Negli anni Settanta, dopo la scomparsa di Ninnì e le mostre del primo biennio[7], seguì una pausa di due anni (1972-1973). Quando la galleria riprese l’attività, concesse spazio soprattutto al teatro, al cinema, alla musica e alla poesia visiva[8].
Nel 1978, infine, con l’esordio di Piruca  la Tartaruga aprì la sua ultima grande stagione raccogliendo intorno a sé il gruppo dei “sei pittori” colti, poi definiti “Anacronisti” (Piruca, Abate, Di Stasio, Marrone, Panarello, Pizzi Cannella), ai quali si aggiunsero Ligas, Bulzatti e Gandolfi.
L’attività di Plinio, però, non terminò con la chiusura della galleria nel 1984, dopo le due retrospettive sulla “Scuola Romana” e sulla “Scuola di Piazza del Popolo” dell’anno prima. Proseguì, infatti, sul piano editoriale, con la pubblicazione di una nuova serie di Quaderni della Tartaruga[9], dal 1986 al 1993[10]. Si tratta di quaderni d’arte e letteratura, ispirati nel taglio editoriale e nel formato a “L’Italiano” di Longanesi, stampati una o due volte l’anno da De Luca Editore, con cui Plinio collaborava fin dagli anni storici.
L’attività editoriale è stata, infatti, per Plinio una costante parallela a quella espositiva, con i primi “Bollettini della Tartaruga” nel 1954, alcune monografie a tiratura limitata (Scarpitta nel 1958, Scialoja nel 1959 e Twombly nel 1961), i cataloghi, le locandine, i manifesti, gli inviti e l’intera produzione di quel vasto corpus di materiali tipografici che tanto amava e che oggi costituisce una parte importante dell’archivio cartaceo della Tartaruga.
Accanto all’attività tipografica, Plinio ha infine continuato a curare mostre in varie sedi e a promuovere i giovani artisti. Ha collaborato con la Galleria Netta Vespignani[11], dove ha presentato Promemoria nel 1989, Millenovecentosessanta nel 1990, Archivio. Fotografie di Plinio De Martiis nel 1993 e Per il clima felice degli anni Sessanta nel 1998, mostra, questa, già presentata a Castelluccio di Pienza, nuova sede espositiva della Tartaruga che Plinio inaugurò nel 1995 con Gli anni originali. Tra le altre collaborazioni importanti ricordiamo quella con la Galleria Niccoli di Parma per la mostra L’arte Pop in Italia nel 2000.
Nel 2003, infine, oltre alla mostra all’Istituto Nazionale per la Grafica inaugurata in occasione dell’acquisizione da parte della Calcografia dei cartelli della Tartaruga[12], tre importanti esposizioni resero omaggio a Plinio fotografo, Americani a Roma[13] allo Spazio Fendi, Piazza del Popolo e Premio Michetti in occasione del quale Duccio Trombadori, presidente di giuria, assegnò a Plinio de Martiis il premio alla carriera.
Già nel 1999 Plinio De Martiis aveva proposto l’acquisto del suo archivio all’Istituto della Grafica - Calcografia Nazionale, nonostante le richieste pervenute da altre Istituzioni e Fondazioni internazionali di grande rilevanza, quali la Guggheneim di New York. L’archivio comprendeva i cartelli autografi realizzati dagli artisti e presentati alla Galleria, cartoni,  pastelli, oli di vari autori, nonché l’archivio fotografico, composto a sua volta di ca. 5.000 negativi e positivi, scattati e stampati dallo stesso Plinio De Martiis nei primi anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto ad amici intellettuali letterati, poeti e artisti.
Ma la trattativa non andò in porto del tutto e l’Istituto della Grafica acquisì solo una parte dell’archivio e cioè i cartelli, anche perché come afferma De Martiis in una sua lettera alla direttrice di quell’Istituto dell’ottobre 2002 “sono impaurito dai tempi d’attesa per me non affrontabili”[14]. La pratica per l’acquisto dell’archivio della galleria passò quindi alla DARC (Direzione Generale per l’Arte Contemporanea). Ci furono appelli all’allora ministro per i Beni Culturali, Giovanna Meandri, per non smembrare e disperdere il ricchissimo archivio della Tartaruga costituito non solo da  fotografie e cartelli, ma anche da carteggi, cataloghi di mostre, bozzetti, manifesti, ecc.
In seguito nel 2001 la pratica approdò alla Direzione Generale per gli Archivi e di conseguenza alla Sovrintendenza archivistica per il Lazio che nell’agosto 2003 dichiarava tutto il complesso archivistico conservato da Plinio De Martiis di notevole interesse storico e riproponeva l’acquisto all’Amministrazione. La trattativa è andata avanti a lungo per vari motivi, tra cui le scarse risorse economiche da parte dell’Amministrazione e l’iter burocratico che l’acquisizione da parte dello Stato comporta.
Plinio De Martiis moriva nel luglio 2004 senza aver avuto il piacere di vedere acquistato il suo complesso archivistico dallo Stato, verso cui la sua sensibilità si era rivolta, desiderando rendere pubblico e fruibile il proprio patrimonio culturale e artistico.
Succedevano le eredi, Paola e Caterina. Soprattutto quest’ultima aveva collaborato col padre al riordinamento dell’archivio, che lo stesso Plinio, ancora in vita  aveva conservato e inventariato, con cura e metodo, nella sua bella casa di Vignoni in Val d’Orcia, coadiuvata  dalla d.ssa Sonia Grossi, storica dell’arte contemporanea, che ha redatto un inventario e un indice dell’archivio, utili strumenti di corredo per la ricerca.
Il complesso documentario è assai ricco e consistente, frutto dell’attività poliedrica di un intellettuale  tra i più rappresentativi del mondo dell’arte contemporanea.
L’archivio si compone di materiale cartaceo (documentario e bibliografico), includente corrispondenza con artisti, critici, storici d’arte, letterati; cataloghi, locandine, manifesti, brochures; materiale a stampa e pubblicazioni varie; materiale fotografico e audiovisivo (interviste, filmati) nonché  materiale grafico. Un complesso documentario che costituisce un ricchissimo e inestimabile patrimonio che rientra a pieno titolo tra gli archivi del Novecento meritevoli di essere tutelati e valorizzati.


[1] Fu fotoreporter di varie riviste e diversi giornali, tra cui “L’Unità” e “Il Mondo”. Prima di aprire la galleria fotografò numerose immagini della realtà sociale dell’Italia del dopoguerra; in seguito documentò, con una serie straordinaria di ritratti in bianco e nero, il fermento vivo del panorama artistico e culturale romano degli anni Cinquanta e Sessanta e dunque anche la storia della sua galleria.
[2] Questo il titolo della mostra dedicata agli anni Cinquanta, la prima inaugurata nel 1995 a Castelluccio di Pienza, sede delle ultime esposizioni curate da Plinio fino al 2000.
[3] Sempre nel 1957 la Tartaruga inaugurò anche la prima personale di Ettore Colla.
[4] Tra quelle italiane ricordiamo le gallerie Apollinaire, dell’Ariete, L’Attico, Blu, de’ Foscherari, Lambert, Marconi, il Naviglio e Schwarz.
[5] Non vanno dimenticati, però, anche i rapporti che la Tartaruga ebbe con, tra gli altri, le gallerie Iris Clert e la Gallerie Brateau di Parigi, Martha Jackoson e Sonnabend di New York, con il Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, con Anne Abels a Colonia, con la Galerie Schmela, con lo Staatliche Kunsthalle di Baden Baden e molti altri.
[6] Le sedi della Tartaruga: via del Babuino 196 (1954-1963), piazza del Popolo 3 (1963-1970), via Principessa Clotilde 1/A (1970-1974), via Ripetta 22 (1974), via Pompeo Magno 6 (dic. 1974), via Pompeo Magno 6 /B (1975-1980), piazza Mignanelli 25 (1980-1984).
[7] Tra le altre ricordiamo quelle di Twombly, Festa, Castellani, Ceroli, Fioroni, Burri, Kounellis, Notargiacomo, Agnetti Ceroli.
[8] Tra le manifestazioni più importanti ricordiamo: Una favola di Alberto Boatto con musiche di Sylvano Bussotti e tavole di Giosetta Fioroni nel 1974; Smettete di giocare nella strada, azione scenica e pittorica di Aglioti e Perlini, il concerto di Mosconi, la collettiva Parlare e scrivere curata da Barilli, Camera 3, tre films in super8 di Barzini, Carini, Miscuglio, Corpus Scripsit, quattro giorni di poesia a cura di Nanni Cagnone e il concerto Nuove forme sonore nel 1975; nel 1977 i films di Barzini e Taylor Mead, e il Laboratorio di poesia”, curato da Elio Pagliarani e replicato nel 1978.
[9] Nel 1984 la Tartaruga, infatti, aveva già pubblicato tre Quaderni di cui due monografici, dedicati a Bulzatti (Quaderno n. 2, febbraio 1984) e Pirica (Quaderno n. 3, marzo 1984).
[10] Con una nuova sede in via Passeggiata di Ripetta 19 (1986-1988) e in via di S. Anna 18 (1988-1993).
[11] Tra le altre ricordiamo le mostre Promemoria nel 1989 e Millenovecentosessanta nel 1990.
[12] Raccolta di opere su carta (cm 50 x 60) realizzate con materiali e tecniche varie, che Plinio fece eseguire agli artisti in occasione delle loro mostre come “cartelli” segnaletici delle esposizioni e che venivano esposti in una bacheca all’ingresso della galleria, per circa una decina d’anni, tra il 1950 e il 1962. Tale prassi fu ripresa, in seguito, in occasione del Teatro delle mostre.
[13] Con la galleria di ritratti dei pittori americani: Twombly, Rauschenberg, De Kooning, Marca-Relli.
[14] Cfr. fascicolo. “La Tartaruga” presso l’archivio della Sovrintendenza del Lazio

mercoledì 20 ottobre 2010

Il cubo nell'arte contemporanea

Perduta la figurazione è la geometria a farla da padrone. Come vera e propria "formula di pathos", così, la figura del cubo ritorna in molte opere e installazioni, da Manzoni a Kosuth a Warhol (nei materiali più diversi), e questo post di artfagcity, IMG MGMT: The Cube Show, ne offre un'esauriente carrellata. In basso alcune opere tratte dal post

Jean Nouvel - Monolith (2002)
Joseph Kosuth - Box, Cube, Empty, Clear, Glass-A Description (1965)
Paul Thek - Meat Piece With Warhol Brillo Box (1965)
continua su artfagcity

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