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martedì 9 ottobre 2012

Bernini. Scolpendo l'argilla - I modelli in terracotta

"Bernini. Scolpendo l'argilla" è il titolo dell'importante esposizione che si è aperta mercoledì 3 ottobre, nella Robert Lehman Wing del Metropolitan Museum of Art di New York.
I modelli di terracotta del Bernini gettano luce sul particolare processo creativo dello scultore. Per poter visualizzare le enormi statue di marmo a grandezza naturale da lui realizzate, il grande scultore Lorenzo Bernini (1598-1680) iniziava a modellarle nella creta in dimensioni ridotte. Questi studi in terracotta sono dei magnifici esempi espressivi a se ed, insieme agli schizzi relativi alle opere, testimoniano l’inizio del processo creativo ed immaginativo dello scultore destinato a concretizzarsi in alcune delle statue più famose e spattacolari di Roma. Tra le quali anche la Fontata di Piazza Navona e gli Angeli sul Ponte Sant’Angelo.
La mostra al Metropolitan, in programma sino al 6 gennaio 2013, ospiterà circa 40 di questi studi in terracotta, per la prima volta mostrati al pubblico nel loro insieme, ed anche 30 schizzi. Grazie ai prestiti di varie Istituzioni, l’esposizione è la prima nel suo genere e permette di apprezzare l’unicità e la grandezza della tecnica creativa della più grande officina dell’epoca, di penetrare nella mente creativa dell’artista e di meglio comprendere l’ impatto del Bernini sul Barocco. 







lunedì 19 marzo 2012

Della magnificenza di Roma barocca

Di ritorno da un seminario di studi tutto incentrato sulla Roma barocca riporto alcune impressioni. La prima è la bellezza sublime della statua di Santa Cecilia del Maderno, bellezza accentuata dalla veridicità della posa (che riprende quella del corpo ritrovato nel 1600) e dalla bizzarria dei panneggi. Il volto nascosto, eppur presente, le mani che indicano la Trinità, le ferite sul collo dalle quali esce una goccia di sangue, trasmettono verità e devozione.Nel 1599, durante i restauri della basilica di Santa Cecilia in vista del Giubileo del 1600, compiendo la ricognizione del suo corpo, Cecilia fu ritrovata incorrotta, nella stessa posizione che aveva al momento della sua morte. Il cardinale Sfondrato, titolare della basilica, incaricò lo scultore Stefano Maderno di ritrarla così come era stata rinvenuta e lo scultore ne trasse un capolavoro che i recenti restauri hanno ancora più valorizzato. La testa reclinata all’indietro con la profonda ferita della decapitazione, le mani che indicano la fede nel Dio Uno e Trino, la posa così drammatica e nel contempo serena della santa colpiscono profondamente e commuovono.


"La forma purissima di S. Cecilia è miracolosa misura di bellezza possibile, condivisibile, per tutti significante: avvolta nei veli, stretta dai lacci, ritrosa al mondo e confidente nel suo riposo sereno, lei così fragile fatta marmo, lei così offesa per sempre trionfante. In quest’epoca di tutti gli sberleffi — alla bellezza, all’arte, all’intelligenza — Cecilia attende e consola coloro che varcano il doppio ingresso del Convento, il portale della Basilica luminosa, che cela nella controfacciata l’affresco di Pietro Cavallini, ove di diversa, iridescente bellezza vibrano le ali di imperturbabili angeli". (Gabriella Rouf).


Maderno. Santa Cecilia (parte nascosta)
La seconda è la grandezza della visione d'insieme che ha permesso una perfetta armonia tra le tre arti (architettura, scultura e pittura) al servizio della Chiesa che poneva tutte le forme espressive al servizio della Fede e contro le derive protestanti. L'idea di fondo era di mostrare il Paradiso in terra, di dilettare i fedeli e di elevare la loro coscienza. Riporto a riguardo un testi riportato a sua volta dal sempre interessante blog Almanacco Romano.

Lorenzo Giusso (Napoli, 1900 – Roma, 1957) fu pensatore, letterato, ispanista. I brani del fiammeggiante saggio che riportiamo sono tratti dalla sua relazione su 'cultura cattolica e barocco' che tenne, nel 1954, a uno dei congressi internazionale di studi umanistici, i leggendari appuntamenti organizzati dal conte Enrico Castelli Gattinara (in Retorica e Barocco, atti del convegno, Roma 1955). Neppure sul web si fa cenno a questo scritto di Giusso, nessuna bibliografia lo menziona: sepolto. Appena un aperitivo le righe che qui mettiamo on line, per invogliare a leggere le sue opere rintracciabili con un po’ di buona volontà in qualche pubblica biblioteca: Spagna e Antispagna (da Calderón a Ortega Y Gasset, di cui fu amico),Leopardi, Stendhal, Nietzsche, Il viandante e le statue, con uno strepitoso saggio sul personaggio dannunziano, le poesie del Don Giovanni ammalato…).

«Il barocco emana da sé un radicale ampliamento dei canoni estetici, un’indiscriminata accettazione dell’apparenza. Quel suo straripare dai canoni rettilinei, quella sua infatuazione per parabole ed iperboli, quella sua ornamentazione agglutinata di sarmenti, di viticci, di nasse, di raggi transveberanti, di genii o di teschi, quelle sue cupole a spirale dove traspare qua e là la sagoma del tempio orientale, attestano la volontà di comprendere Iddio nell’infinità dei suoi modi, una volontà non diversa da quella che protende i suoi pinnacoli concettuali nel De Infinito, Universo et Mondi di Bruno o nell’Ethica di Spinoza. Il barocco architettonico e plastico procede alla riabilitazione di tutte le forme, al censimento di tutte le credute irregolarità o aberrazioni. È la mobilitazione di tutte le apparenze mondiali, compresi i cadaveri e i mostri. La natura e l’animalità, fino allora sottoposte a rigorosa quarantena, irrompono in massa. La pampa e il deserto, le cordigliere rocciose e le costiere oceaniche, la fauna selvaggia, i primitivi giganti dagli smisurati bicipiti forzano il tempio, già aristocraticamente selettivo come un teatro palladiano, della figurabilità. Quella fiera campionaria di mostri, di fiere, di centauri, di sileni, di colossi mitologici, dalle schiene traboccanti di pigmenti, quegli inarcamenti di groppe e di addomi stanno ad indicare nella pittura di Rubens, come nella prosa di Bruno, l’approssimazione del ferino al Divino, e viceversa.

Baciccia, Trionfo del nome di Gesù
L’epoca del Cavaliere 

[Bernini] si professa disperato di raggiungere i Greci, si atteggia ad imitatore mentre è veramente il genio dell’immaginazione che mobilita tutto il magazzino delle sue risorse. Non gli bastano i corpi. Mette a contributo l’elemento ondoso,gli sciacquii della luce, fa entrare nella sua giurisdizione i vortici delle fiamme e le ondulazioni dell’etere, gli inturgidimenti della morte e gli sfioccamenti della spuma. Le sue fontane monumentali sono capricci naturali dove stanno in bilico quadrighe solari, cavalli natanti e colate e cascate di marmo divallano, e tripudi muscolari accerchiano i geroglifici degli obelischi […]. Il mondo di Michelangelo è un mondo austero: i suoi personaggi esprimono grandezze imperiose e legislative, comminano sanzioni e intonano versetti biblici. In Bernini l’immaginazione adora se stessa in una sorta di impersonalità scintillante, in un galleggiamento oceanico di tutte le apparenze e di tutte le forme.

La Controriforma è una grandiosa riconquista del mondo attraverso la taumaturgia dell’arte. Nei primi decenni di quest’epoca soprattutto, arti plastiche, eloquenza, musica, regìa spettacolare, vengono precettati ad majorem Dei gloriam. Germania, Olanda, Scandinavia non producono che commentari irosi, sillogi giuridiche, controversie o trattati delle rivoluzioni. […]

Duro è l’urto della magnificenza italiana contro quella che Bruno qualificò la ‘ribaldaria’ e cioè la mutria aggressiva protestante. È una suprema mobilitazione degli dèi e mostri, un sistema di fortificazioni delle montagne classiche, dell’Elicona e del Parnaso, ribenedette di incenso e di benzoino, contro il rigore della scienza. […]. Descartes, pur confessandosi cattolico, si allinea coiBilderstürmer, coi rovesciatori di immagini. È forse questa la frattura del Rinascimento. La meccanica celeste surroga nel dominio degli spiriti il panpsichismo pagano. Egli vive in un mondo senza immagini, in un mondo di parallassi, di sezioni coniche di spirali, di rondelle e di particelle bislunghe […]. Prima di Wagner, Bernini ha concepito una sorta di cooperazione magica di tutte le arti: le negromanzie di Bayreuth sono state anticipate in grande scala da certi suoi monumenti (come nel grande concerto fluviale di Piazza Navona) i quali sono rocce e bacini, caverne e cascate rifabbricate dall’arte. […] Roma diventa così una serie di convegni mitologici, di grovigli spettacolari, di girandole e di fuochi d’artificio solidificati.

Bernini, Fontana dei quattro fiumi
I diritti dell’immaginazione

Questo mondo monumentale e impressionistico, questa avventura colorata in marmo e travertino, questa mobilitazione di divinità, di obelischi, di gravitazioni statuarie e di frontespizi ellittici – è quanto l’Italia e la Controriforma hanno opposto alla critica biblica e alle controversie del diritto ecclesiastico. Alla vita come ragione si contrappone una immensa e ilare spettacolarità. Roma diventa una centrale di meraviglie immaginative e di magie sincretiste. […] Ciò che rende affascinante per gli stranieri il cattolicesimo dell’epoca del ‘Cavaliere’ e di Urbano VIII, ciò che determina il flusso delle conversioni dei protestanti olandesi e tedeschi è questa solidarietà del Verbo Cattolico con l’architettura, con le arti e con le umane lettere.

Il Romanticismo, in numerosi suoi esponenti – Novalis, Schlegel, Schelling – cattolicizza. […] Buon numero degli scrittori pre-romantici guardano all’Italia come a una terra d’elezione. […] Potremmo dire che Cristina [di Svezia] presenta, in pectore, Le Génie du Christianisme (cioè la sua apologia autorizzata dai diritti dell’immaginazione, come in lei sono presentite tutte le apologie disingannanti dell’illuminismo. L’orrore da Cristina professo per i ‘predicanti’ riformati diventerà ai primi dell’Ottocento, l’insofferenza dei poeti e ideologi romantici per le disseccate analisi del pensiero, rinvilito a sensazione trasformata che i monotoni procedimenti dell’‘ideologia’ ricondussero alla religione o, quantomeno, a un dialettismo religioso di tipo di quello di Hegel». 

Cupola di San Carlo al Corso


giovedì 23 febbraio 2012

L'elefante Annone e il "pulcino" della Minerva

Dopo un restauro durato 205 giorni, torna finalmente al suo antico splendore il celebre Elefantino di piazza della Minerva a Roma, una delle sculture più popolari della capitale. L’elefantino e l’obelisco di granito rosa proveniente dal vicino tempio di Iside, furono eretti nella piazza nel 1667 su disegno di Gian Lorenzo Bernini e su commissione di papa Alessandro VII. Bernini eseguì con la sua bottega, ben 10 diversi progetti per il monumento, tre dei quali, da lui firmati, sono conservati nella Biblioteca Apostolica Vaticana.



Hypnerotomachia
Il modello al quale si ispirò il Bernini  fu verosimilmente attinto da una stampa dall’Hypnerotomachia del Polifilo con l'elefante con l’obelisco sormontato dalla palla, anche se vi sono altre suggestioni di carattere storico legate ad un particolare animale che si aggirava nei Giardini Vaticani. E' la storia del mitico elefante Annone raccontata molto bene in questo articolo di Picchio "La trionfale ambasciata dell’elefante Annone”.

La vicenda, assolutamente reale, si svolge nel 1514. Qualche tempo prima il re del Portogallo, Manuel I, aveva ricevuto in dono dal Pakistan un rinoceronte ed un piccolo elefante bianco. Il Re trovandosi nella assoluta necessità di un appoggio economico da parte di Papa Leone X , pensò di ingraziarsi il Pontefice e tutta la corte romana, inviando una ambasceria a Roma che avrebbe consegnato, oltre ai tradizionali doni, anche una cinquantina di animali esotici, con in testa il rinoceronte e l’elefante. Si tratta di rievocare, dunque, la più strana delle missioni diplomatiche, guidata da un … elefante! La bizzarra ambasceria era una fantasmagoria di colori, di musiche, di splendori d’alabarde e d’armature, di vesti di seta e di piume, e poi gli animali, tra cui una pantera nera ed un cavallo persiano, pappagalli ed uccelli mai visti prima, il rinoceronte e, naturalmente, “l’illustre pachiderma ammaestrato che incedeva sicuro, mirabilmente istruito e conscio della propria autorità.” Questo elefante fu battezzato Annone, eppure, essendo di origine indiana, gli sarebbe spettato un nome orientale; ma per gli europei dell’epoca gli elefanti erano indissolubilmente legati alla lontana spedizione di Annibale, e così gli imposero un nome cartaginese! Annone aveva quattro anni, era bianco e di dimensioni modeste, al punto che quando raggiunse la sua massima altezza non superò di molto quella di un uomo; in compenso era assai grasso. Allo scudiero reale Nicolò de Farìa fu assegnato il delicatissimo compito di “istruire” Annone affinché facesse una bellissima figura dinanzi al Papa. Il pachiderma, dopo alcuni mesi imparò ad obbedire ai comandi del suo istruttore, dapprima alla voce, infine addirittura comprendendo al volo i cenni quasi impercettibili di Nicolò.

L’elefante Annone in un disegno riprodotto nel volume “Antigualias Romanas” di Francisco de Holandia

Venne il giorno della partenza. La spedizione attraversò le terre del regno per otto giorni, suscitando curiosità e meraviglia tra la popolazione. Così scriveva Nicolò al Re in una delle periodiche missive che gli era stato ingiunto di inviare regolarmente a corte: “Nei tre giorni in cui restammo ad Alicante avemmo sempre intorno a noi tanta gente che era una maraviglia vedere, e circondati da persone e da navi ci trovammo in tanta confusione che più non si sapeva che fare. Partimmo finalmente ed arrivammo ad Ivìza, dove ci fermammo alcuni giorni, circondati sempre dalla ressa e poi, giunti che fummo a Majorca, nei dieci o dodici giorni di sosta che vi facemmo, tanta fu la folla che ci assediò che mai non avevamo intorno meno di cento battelli dove il ponte ed il cassero erano stati dati in affitto e da quelli vennero a vederci i nobili e i maggiorenti di Majorca con le loro mogli, tanto che in città non restò più nessuno”.

La curiosità per il mitico animale che da oltre mille anni non metteva piede in Europa era stata prevista, ma nessuno avrebbe potuto immaginare ciò che avvenne in Italia quando, dopo una parte di viaggio in mare ed uno sbarco reso difficoltoso dal mare grosso, Annone potè finalmente posare le sue pesanti zampe sul suolo italiano. Sembra anche che una delle navi, che trasportava il rinoceronte, affondò e l’animale morì, mentre l’elefante giunse sano e salvo, sbarcando ad Orbetello. Iniziò quella parte del viaggio in terra italiana, direzione Roma, che fece registrare scene di entusiasmo ed incredibili episodi di delirio collettivo. Mentre i componenti della spedizione, sempre con Annone in testa, percorrevano una strada consolare, ai bordi della stessa si accalcava una folla straripante ed agitata, smaniosa di vedere il già famoso elefante indiano! La storia registra danni ingenti a coltivazioni, vigne, frutteti e persino devastazioni di ville e case, dove scale e balconi furono prese d’assalto per raggiungere ottimi punti di osservazione.

L’ornamento di Annone era splendente e sfarzoso: “una gualdrappa di seta azzurra, punteggiata di smeraldi e rubini gli copriva la groppa, sulla quale era collocato un cofano di sandalo dorato, con intarsi di madreperla, tempestato di gemme. Racchiudeva i doni più preziosi per il Sommo Pontefice: un piviale di broccato, il cui peso era raddoppiato da quello delle gemme, e calici, turiboli, anelli ed arredi d’oro”. Finalmente il corteo arrivò a Roma. Nella grande sala per le udienze Leone X sedeva sul trono; intorno a lui sedevano i Cardinali, gli Arcivescovi, i Vescovi, i Principi romani, gli ambasciatori, i dignitari di corte e gli artisti, tra i quali il Buonarroti, Raffaello Sanzio e Giulio Romano. Nicolò de Farìa avanzò nella sala, preceduto da quattro alabardieri, si fermò, fece un inchino e si fermò: “dietro di lui gli occhi dei presenti scorsero una strana mole avanzante. Sotto la grande bardatura azzurra tutti riconobbero il bianco elefante delle Indie, con quel suo curioso capo d’animale fiabesco, le grandi orecchie a ventola, la zanne appena sporgenti, i piccoli occhi vivaci e la proboscide pendente ed oscillante come un turibolo. Le zampe dell’animale si muovevano lente e sembravano piccole colonne di marmo. Annone si fermò chinando la testa in un atto che parve di reverente umiltà e del quale restarono tutti ammirati; ma nessuno s’aspettava il prodigio che subito incominciò. Stupiti, gli spettatori videro tosto le zampe anteriori della bestia flettersi adagio e l’intera sua mole, con il cofano prezioso che le torreggiava sul dorso, reclinarsi in avanti. Annone, l’elefante indiano, s’inginocchiava davanti a Sua Santità! Ed era un portentoso simbolico omaggio dell’India selvaggia e remota al Vicario di Cristo!

Nel genuflettersi, Annone levò la proboscide come un braccio teso in un gesto d’invocazione e da quella sua strana bocca dalle labbra frastagliate uscì per tre volte un barrito, non peraltro violento come quelli della giungla, ma sommesso e modulato, con un accento quasi umano. Il Papa, che si era levato in piedi, batté le mani. L’applauso, che il rispetto aveva fino a quel momento contenuto, scrosciò allora caloroso ed unanime. L’animale volse ancora la testa a destra e a sinistra, parve abbozzare due piccoli inchini, poi tuffò la proboscide in un bacile colmo d’acqua e la spruzzò tutt'attorno come gioioso saluto a Leone X e i cardinali, ma non bagnò loro, che erano in una posizione più alta rispetto a lui, bensì servi e famigli, guardie svizzere e arcieri! Insomma Annone aveva fatto uno scherzo simpatico ed innocuo. Tutta la gente era così ammirata quando Annone lasciò la sala!” L’ambasceria, grazie soprattutto al suo strano capo aveva ottenuto un completo successo. Tutte le richieste di Re Manuel furono accolte. Gli ambasciatori di Portogallo, i dignitari e i loro accompagnatori ricevettero onori e doni. Il Papa fu talmente contento del dono “vivente” da decretare libero e gratuito accesso nei teatri per tutto il periodo ai Portoghesi per tutto il tempo che fossero rimasti a Roma.

Giovanni da Udine, Villa Madama, giardino all'italiana. L'elefante Annone
Di questo privilegio ebbero ad approfittare anche numerosi romani che si fecero passar per “portoghesi”. E non solo a teatro! Celeberrima la frase:“oste io nun te pago gnente/ che so’ portoghese, nun se sente?”

Da questo evento il popolo chiamò “portoghesi” coloro che entrano “gratis” dove si dovrebbe pagare! Il pontefice ordinò la costruzione di una sontuosa stalla dentro il Vaticano, così da permettere ai romani di far visita ad Annone tutte le domeniche.Per due anni le visite a questo simpatico pachiderma si susseguirono incessantemente, poi, come in tutte le cose, l’interesse venne meno e il numero dei visitatori scemò sensibilmente. Tre anni dopo Annone cominciò ad avere una tosse fastidiosa. Forse il clima umido, o più probabilmente una crisi di nostalgia della sua terra d’origine, fecero ammalare l’elefante che in breve morì. I dottori romani diagnosticarono un’angina; ma c’è chi parla di una folle cura, costituita da un forte lassativo rinforzato con mezzo chilo di oro in polvere (!) suggerita dai veterinari. Leone X aveva pregato Raffaello Sanzio di ritrarre l’elefantino. Il grande pittore non andò di persona, ma mandò Giulio Romano il quale, a matita rossa, ne disegnò quattro magnifici schizzi, ora conservati ad Oxford. Possiamo ora tornare al piccolo elefante di fronte Santa Maria sopra Minerva. Opera di Lorenzo Bernini, venne eseguito circa un secolo e mezzo dopo gli avvenimenti sin qui narrati. Anche in questo caso c’è una storia/leggenda molto gustosa che, per ragioni di spazio, ci limitiamo a sintetizzare. Nel 1667, Papa Alessandro VII , appartenente alla famiglia Chigi, volle recuperare e posizionare un obelisco che era stato ritrovato due anni prima in un giardino vicino la Chiesa di Santa Maria sopra Minerva,dell'Ordine Domenicano.

I Domenicani presentarono un progetto che prevedeva di poggiare l'obelisco su una base costituita da sei piccole montagnette (simbolo della casata dei Chigi), con un cane in ciascun angolo (simbolico: in latino 'Domini Canes' = 'I cani del Signore', guardie fedeli). Al Papa il progetto non piacque e chiese al Bernini una soluzione diversa. Il grande scultore, forse memore dell’elefantino Annone, o di un altro elefante chiamato Hanno (cioè Annone in latino!!!), il cui padrone chiedeva denaro per mostrarlo, divenuto subito molto popolare, decise di inserire l'obelisco sopra un Elefante! Il papa approvò il progetto ma i domenicani ebbero a protestare sostenendo che Bernini non aveva inserito un cubo sotto la pancia del pachiderma e temevano che, senza di esso, l'obelisco sarebbe potuto cadere sulla statua, ricordando che "nessun peso a piombo deve avere sotto di sè il vuoto, perchè non sarebbe solido nè durevole". Bernini replicò sostenendo che 16 anni prima aveva già realizzato la fontana di Piazza Navona con un obelisco sistemato su una roccia vuota.

Ma i Domenicani si impuntarono e pretesero il “cubo” e Bernini dovette arrendersi, ma a modo suo. Lo scultore, che non aveva certo un carattere accomodante, mise in atto uno scherzetto niente male nei confronti dei “simpatici” Domenicani. Nella realizzazione finale, infatti, Bernini pose l'elefantino sopra la base cubica, parallelamente all’entrata della Chiesa, ma con la testa voltata verso l’esterno ossia dalla parte opposta della porta principale, mentre la coda era girata verso sinistra accentuando una posa un po’ irriverente. In pratica Bernini aveva sistemato l’elefantino al contrario rispetto all’entrata della chiesa! Fu lo stesso papa Alessandro VII a dettare le iscrizioni ai lati del piedistallo. Una di esse spiega la ragione dell'Elefante: "Oh tu che vedi qui, portato da un Elefante (il più forte degli animali) i geroglifici del saggio Egitto, capisci l'avvertimento: c'è bisogno di una mente forte per sostenere la solida Conoscenza". A questo gioiello di scultura i Romani diedero il burlesco ed affettuoso nome di “porcino della Minerva”, successivamente modificato in “pulcino della Minerva”, con cui è tuttora chiamato.

Giulio Romano, studi di elefante




domenica 19 febbraio 2012

La cattedra di San Pietro del Bernini

Per non dimenticare la grandezza dell'arte cristiana, la profondità dei significati teologici che un'opera può contenere e la ricchezza del suo insegnamento, anche per orientare verso una giusta lettura, voglio condividere l'omelia del Santo Padre Benedetto XVI che oggi, Solennità della Cattedra di San Pietro, ha riflettuto sulle valenze e sulla simbologia della Cattedra di Pietro realizzata dal Bernini per la chiesa San Pietro. Una lettura diversa dell'opera d'arte che di certo può arricchire la sua comprensione.


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
 

Nella solennità della Cattedra di san Pietro Apostolo, abbiamo la gioia di radunarci intorno all’Altare del Signore insieme con i nuovi Cardinali, che ieri ho aggregato al Collegio Cardinalizio. Ad essi, innanzitutto, rivolgo il mio cordiale saluto, ringraziando il Cardinale Fernando Filoni per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti.
Estendo il mio saluto agli altri Porporati e a tutti Presuli presenti, come pure alle distinte Autorità, ai Signori Ambasciatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli, venuti da varie parti del mondo per questa lieta circostanza, che riveste uno speciale carattere di universalità.

Nella seconda Lettura poc’anzi proclamata, l’Apostolo Pietro esorta i “presbiteri” della Chiesa ad essere pastori zelanti e premurosi del gregge di Cristo (cfr 1 Pt 5,1-2). Queste parole sono anzitutto rivolte a voi, cari e venerati Fratelli, che già avete molti meriti presso il Popolo di Dio per la vostra generosa e sapiente opera svolta nel Ministero pastorale in impegnative Diocesi, o nella direzione dei Dicasteri della Curia Romana, o nel servizio ecclesiale dello studio e dell’insegnamento. La nuova dignità che vi è stata conferita vuole manifestare l’apprezzamento per il vostro fedele lavoro nella vigna del Signore, rendere onore alle Comunità e alle Nazioni da cui provenite e di cui siete degni rappresentanti nella Chiesa, investirvi di nuove e più importanti responsabilità ecclesiali, ed infine chiedervi un supplemento di disponibilità per Cristo e per l’intera Comunità cristiana. 

Questa disponibilità al servizio del Vangelo è saldamente fondata sulla certezza della fede. Sappiamo infatti che Dio è fedele alle sue promesse ed attendiamo nella speranza la realizzazione di queste parole dell’apostolo Pietro: “E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).

Il brano evangelico odierno presenta Pietro che, mosso da un’ispirazione divina, esprime la propria salda fede in Gesù, il Figlio di Dio ed il Messia promesso. In risposta a questa limpida professione di fede, fatta da Pietro anche a nome degli altri Apostoli, Cristo gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la “pietra”, la “roccia”, il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cfr Mt 16,16-19). 

Tale denominazione di “roccia-pietra” non fa riferimento al carattere della persona, ma va compresa solo a partire da un aspetto più profondo, dal mistero: attraverso l’incarico che Gesù gli conferisce, Simon Pietro diventerà ciò che egli non è attraverso «la carne e il sangue». 

L’esegeta Joachim Jeremias ha mostrato che sullo sfondo è presente il linguaggio simbolico della «roccia santa». Al riguardo può aiutarci un testo rabbinico in cui si afferma: «Il Signore disse: “Come posso creare il mondo, quando sorgeranno questi senza-Dio e mi si rivolteranno contro?”. Ma quando Dio vide che doveva nascere Abramo, disse: “Guarda, ho trovato una roccia, sulla quale posso costruire e fondare il mondo”. Perciò egli chiamò Abramo una roccia». Il profeta Isaia vi fa riferimento quando ricorda al popolo «guardate alla roccia da cui siete stati tagliati… ad Abramo vostro padre» (51,1-2). Abramo, il padre dei credenti, con la sua fede viene visto come la roccia che sostiene la creazione. Simone, che per primo ha confessato Gesù come il Cristo ed è stato il primo testimone della risurrezione, diventa ora, con la sua fede rinnovata, la roccia che si oppone alle forze distruttive del male.

Cari fratelli e sorelle! Questo episodio evangelico che abbiamo ascoltato trova una ulteriore e più eloquente spiegazione in un conosciutissimo elemento artistico che impreziosisce questa Basilica Vaticana: l’altare della Cattedra. 

Quando si percorre la grandiosa navata centrale e, oltrepassato il transetto, si giunge all’abside, ci si trova davanti a un enorme trono di bronzo, che sembra librarsi, ma che in realtà è sostenuto dalle quattro statue di grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. E sopra il trono, circondata da un trionfo di angeli sospesi nell’aria, risplende nella finestra ovale la gloria dello Spirito Santo. Che cosa ci dice questo complesso scultoreo, dovuto al genio del Bernini? Esso rappresenta una visione dell’essenza della Chiesa e, all’interno di essa, del magistero petrino.

La finestra dell’abside apre la Chiesa verso l’esterno, verso l’intera creazione, mentre l’immagine della colomba dello Spirito Santo mostra Dio come la fonte della luce. Ma c’è anche un altro aspetto da evidenziare: la Chiesa stessa è, infatti, come una finestra, il luogo in cui Dio si fa vicino, si fa incontro al nostro mondo. 

La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro - con la “A” maiuscola - da cui proviene e a cui conduce. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile.

La grande cattedra di bronzo racchiude un seggio ligneo del IX secolo, che fu a lungo ritenuto la cattedra dell’apostolo Pietro e fu collocato proprio su questo altare monumentale a motivo del suo alto valore simbolico. 

Esso, infatti, esprime la presenza permanente dell’Apostolo nel magistero dei suoi successori. Il seggio di san Pietro, possiamo dire, è il trono della verità, che trae origine dal mandato di Cristo dopo la confessione a Cesarea di Filippo. Il seggio magisteriale rinnova in noi anche la memoria delle parole rivolte dal Signore a Pietro nel Cenacolo: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

La cattedra di Pietro evoca un altro ricordo: la celebre espressione di sant’Ignazio di Antiochia, che nella sua lettera ai Romani chiama la Chiesa di Roma “quella che presiede nella carità” (Inscr.: PG 5, 801). In effetti, il presiedere nella fede è inscindibilmente legato al presiedere nell’amore. 

Una fede senza amore non sarebbe più un’autentica fede cristiana. Ma le parole di sant’Ignazio hanno anche un altro risvolto, molto più concreto: il termine “carità”, infatti, veniva utilizzato dalla Chiesa delle origini per indicare anche l’Eucaristia. 

L’Eucaristia, infatti, è Sacramentum caritatis Christi, mediante il quale Egli continua ad attirarci tutti a sé, come fece dall’alto della croce (cfr Gv 12,32). Pertanto, “presiedere nella carità” significa attirare gli uomini in un abbraccio eucaristico - l’abbraccio di Cristo -, che supera ogni barriera e ogni estraneità, e crea la comunione dalle molteplici differenze. 

Il ministero petrino è dunque primato nell’amore in senso eucaristico, ovvero sollecitudine per la comunione universale della Chiesa in Cristo. E l’Eucaristia è forma e misura di questa comunione, e garanzia che essa si mantenga fedele al criterio della tradizione della fede.

La grande Cattedra è sostenuta dai Padri della Chiesa. 

I due maestri dell’Oriente, san Giovanni Crisostomo e sant’Atanasio, insieme con i latini, sant’Ambrogio e sant’Agostino, rappresentano la totalità della tradizione e, quindi, la ricchezza dell’espressione della vera fede dell’unica Chiesa. Questo elemento dell’altare ci dice che l’amore poggia sulla fede. Esso si sgretola se l’uomo non confida più in Dio e non obbedisce a Lui. Tutto nella Chiesa poggia sulla fede: i Sacramenti, la Liturgia, l’evangelizzazione, la carità.

Anche il diritto, anche l’autorità nella Chiesa poggiano sulla fede. La Chiesa non si auto-regola, non dà a se stessa il proprio ordine, ma lo riceve dalla Parola di Dio, che ascolta nella fede e cerca di comprendere e di vivere. I Padri della Chiesa hanno nella comunità ecclesiale la funzione di garanti della fedeltà alla Sacra Scrittura. Essi assicurano un’esegesi affidabile, solida, capace di formare con la cattedra di Pietro un complesso stabile e unitario. Le Sacre Scritture, interpretate autorevolmente dal Magistero alla luce dei Padri, illuminano il cammino della Chiesa nel tempo, assicurandole un fondamento stabile in mezzo ai mutamenti storici.

Dopo aver considerato i diversi elementi dell’altare della Cattedra, rivolgiamo ad esso uno sguardo d’insieme. E vediamo che è attraversato da un duplice movimento: di ascesa e di discesa. E’ la reciprocità tra la fede e l’amore. La Cattedra è posta in grande risalto in questo luogo, poiché qui vi è la tomba dell’apostolo Pietro, ma anch’essa tende verso l’amore di Dio. In effetti, la fede è orientata all’amore. Una fede egoistica sarebbe una fede non vera. Chi crede in Gesù Cristo ed entra nel dinamismo d’amore che nell’Eucaristia trova la sorgente, scopre la vera gioia e diventa a sua volta capace di vivere secondo la logica di questo dono. 

La vera fede è illuminata dall’amore e conduce all’amore, verso l’alto, come l’altare della Cattedra eleva verso la finestra luminosa, la gloria dello Spirito Santo, che costituisce il vero punto focale per lo sguardo del pellegrino quando varca la soglia della Basilica Vaticana. A quella finestra il trionfo degli angeli e le grandi raggiere dorate danno il massimo risalto, con un senso di pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso.

Cari fratelli e sorelle, a noi, ad ogni cristiano è affidato il dono di questo amore: un dono da donare, con la testimonianza della nostra vita. Questo è, in particolare, il vostro compito, venerati Fratelli Cardinali: testimoniare la gioia dell’amore di Cristo. Alla Vergine Maria, presente nella Comunità apostolica riunita in preghiera in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,14), affidiamo ora il vostro nuovo servizio ecclesiale. Ella, Madre del Verbo Incarnato, protegga il cammino della Chiesa, sostenga con la sua intercessione l’opera dei Pastori ed accolga sotto il suo manto l’intero Collegio cardinalizio. Amen!

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana



Per contrasto voglio mostrare un'odierna opera di arte sacra. E' la decorazione della cappella di Sant'Andrea a Ganz realizzata nel 2003 dall'artista Otto Zitko. L'artista, originale a suo modo nel declinare i moduli di una pittura gestuale e informale, in particolare in grandi spazi che rende claustrofobici e indefiniti, mostra però in questo caso tutta l'inadeguatezza verso un ambiente liturgico.



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