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mercoledì 13 aprile 2016
mercoledì 19 febbraio 2014
Le mitiche gallerie romane d'arte contemporanea dal 70 al 90
Molto spesso capita (a me compreso) di guardare più attentamente le realtà lontane rispetto a quelle che ci circondano. Anche per questo motivo ho deciso di scrivere un articolo focalizzato sulla storia della città nella quale sono nato ed attualmente vivo: Roma. In particolare, ho deciso di ripercorrere in breve la storia di quei luoghi che hanno fatto la "storia dell'arte contemporanea" nella città negli anni '60 - '70 –'80 – '90. Ma l'idea era di non scrivere qualcosa di didascalico. Perciò ho optato per una scelta particolare. E' da tempo che ho il desiderio di scoprire cosa è rimasto di quelle gallerie e di quegli spazi che ho sempre sentito nominare nei libri e nei racconti di tante persone. Così sono andato direttamente a fotografare le loro identità attuali, affiancando alle immagini brevi testi esplicativi sulle singole attività.
Spero che questo articolo possa servire a suscitare l'interesse e la curiosità di riscoprire un passato totalmente oscuro, ma di grande prestigio che necessita di essere valorizzato e storicizzato.
Per problemi di spazio ho dovuto (purtoppo) tralasciare alcuni posti che ritengo ugualmente importanti quali la galleria GAS, Mario Diacono, Cannaviello Studio d'Arte, Incontri Internazionali d'Arte, D'Alessandro-Ferranti, Autorimessa.
LA TARTARUGA (1954-anni '90):
via del Babuino > piazza del popolo 3 > via principessa clotilde 1-a
Plinio de Martiis, recentemente scomparso, fu uno dei promotori dello sviluppo e della promozione dell'arte contemporanea a Roma soprattutto nel corso degli anni '50 e '60 (la galleria è rimasta aperta fino agli anni '90). Ebbe il grande merito (grazie anche all'aiuto di Leo Castelli) di mettere in contatto artisti internazionali come Rauschenberg, Twombly, De Kooning con i vari Festa, Schifano, Burri. La Tartaruga ha esposto tre o quattro generazioni di artisti, dalla Accardi a Fioroni, da Mauri e Kounellis a Notargiacomo e Ceroli fino ad Agnetti e Parmiggiani. Indimenticabile è il progetto "Teatro delle mostre", in cui Plinio propose di allestire una mostra al giorno per ogni artista - tra gli altri Ettore Innocente, Castellani, Tacchi, Paolini, Prini, Fioroni, Calzolari, Boetti. In occasione delle singole esposizioni, i diversi artisti dovevano creare una sorta di cartello segnaletico, da porre all'ingresso del portone, per pubblicizzare la mostra.
piazza di spagna 20 > via cesare beccaria 22 (ora discoteca 'Vamp') > via del paradiso 41
Diretta da Fabio Sargentini, l'Attico è forse la galleria che, negli anni '70, ha promosso le mostre "più sperimentali", grazie all'enorme vis creativa del suo fondatore. Oltre alle personali ormai celebri, come quella di Kounellis che presentò dodici cavalli vivi all'interno della galleria, L'Attico propose festival di danza e musica con Terry Riley, La Monte Young, Trisha Brown; concerti di Steve Reich, Philip Glass insieme a Joan Jonas; proiezione dei video di Gerry Schum. Marisa Merz, nel 1970, decollò su un aereo, in contatto radio con la galleria: l'artista trasmetteva i dati tecnici del volo che venivano trascritti direttamente da Sargentini su un grafico. Durante la mostra "Lavori in corso" il pubblico era invitato a visitare la galleria durante i lavori di ristrutturazione. Nel 1972, nella sede di via del Paradiso, Gilbert & George si esibirono per sei giorni consecutivi in "The Singing Sculpture".
Beuys, Ontani, De Dominicis, Duchamp, Prini, Le Witt, Acconci sono solo alcuni degli artisti esposti in questi anni. Nel 1975 in "24 ore su 24", diversi artisti (tra cui Boetti, Chia, Mattiacci e Prini) furono invitati a esporre per sei giorni consecutivi. Un anno dopo Sargentini decise di abbandonare la galleria a via Cesare Beccaria allagando lo spazio. Dall'inizio degli anni '80 la galleria perde la sua vena sperimentale, esponendo esclusivamente la nuova pittura commerciale, senza ricercare e supportare i lavori di artisti "di ricerca", che verranno alla ribalta negli anni '90.
LA SALITA (1957-1986):
salita san sebastianello 16/a (ora agenzia immobiliare) > via gregoriana 5 > via garibaldi 86
Fondata da Gian Tomaso Liverani nel 1957, inizialmente la galleria si affidò alle cure di critici quali Crispolti, Restany, Lionello Venturi. Questi organizzarono collettive con artisti come Novelli, Vedova, Burri, Schifano, Festa, Angeli. Il 1961 è un anno importante per la galleria: i lavori del Gruppo Zero sono esposti insieme a Yves Klein e Francesco Lo Savio; seguono le personali di Fabio Mauri, Giulio Paolini, Christo (al suo debutto in Italia). Tre anni dopo Liverani, influenzato dal clima Pop, decide di prelevare dalla Standa banchi espositivi, su cui espone opere d'arte in serie, in vendita ai prezzi del grande magazzino. Ma è "Animal Habitats, Live and Stuffed", la personale di Richard Serra, a segnare la storia del La Salita. Animali vivi e impagliati sono in mostra nei locali della galleria: Liverani finisce in tribunale, ma viene assolto grazie alle testimonianze di G.C. Argan e di Palma Bucarelli. In seguito, dopo le personali di Lombardo, Mochetti, Innocente, Fabro e Notargiacomo, l'attività dello spazio va sempre più perdendo la sua forza; la galleria chiude nel 1986, dopo il trasferimento in Via Garibaldi 86.
PRIMO PIANO (1972-2003):
via vittoria 34 > via panisperna 203 (ora appartamento privato)
Maria Colao, anche lei purtroppo scomparsa, aprì lo spazio inizialmente in via Vittoria esponendo gli artisti italiani della sua generazione -come Lorenzetti, Gastini, Carrino, Masi con qualche personale di stranieri importanti come Fred Sandback, Mel Bochner. Fin dalla nascita, la galleria, oltre che spazio espositivo, è uno spazio di documentazione dove leggere e comprare libri e cataloghi. Ma è negli anni '80 che la funzione di Primo Piano diventa importante: è l'unica galleria romana che, durante gli anni della transavanguardia e nuova pittura, promuove artisti di ricerca come Ana Mendieta, Roman Opalka, Carl Andre, Robert Barry, Bernar Venet, Jean-Luc Vilmouth, Bernd & Illa Becher. Fuori dalle logiche del mercato dell'arte, Maria Colao ebbe il merito di seguire giovani artisti, all'epoca non ancora affermati, come Cesare Pietroiusti, Graham Gussin, Julian Opie, Luca Vitone, Olaf Nicolai. E' l'unica galleria che è riuscita a sostenere l'arte "d'avanguardia" di diverse generazioni. L'ultima mostra vede la partecipazione dell'allora quasi sconosciuta Katharina Grosse, protagonista, recentemente, di una personale al Palais de Tokyo -e della copertina di Parkett!
piazza santi apostoli 49 > via quattro fontane 20 (ora istituto straniero) > via della pallacorda 15 (ora antiquario)
Galleria storica, aperta nel 1972, a Piazza Santi Apostoli 429, da Gian Enzo Sperone con Konrad Fisher (in società fino al 1974); questo spazio, più di ogni altro, durante gli anni '70, seguì gli artisti concettuali europei ed americani. Dopo aver inaugurato con una personale di Gilbert & George, presentò, infatti, il lavoro di Robert Barry, Giulio Paolini, Douglas Huebler, Donald Judd, Jan Dibbets, Alighiero Boetti, Lawrence Weiner, Joseph Kosuth, Daniel Buren insieme ai protagonisti dell'arte povera come Zorio e Fabro. Col passare del tempo, la galleria perse la sua identità, cominciando a esporre la pittura simbolo degli anni Ottanta, con mostre di Clemente, Chia e altri. La galleria, situata per dieci a Palazzo del Drago, nel 1984 si trasferì in via della Pallacorda dove è rimasta fino alla chiusura avvenuta nel 2004.
CENTRO JARTRAKOR (1977-1995):
via dei pianellari 20 (ora studio privato)
Fondato dall'artista Sergio Lombardo nel 1977, è uno dei primi spazi no-profit di Roma dediti alla ricerca e alla promozione dell'arte contemporanea e sede della "Rivista di Psicologia dell'arte". Lo spazio, oltre che da Lombardo, era gestito da Cesare Pietroiusti che proprio qui espose i suoi primi lavori. A cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, alle mostre di Pietroiusti e dello stesso Lombardo, si affiancarono quelle di Anna Homberg e Domenico Nardone.
Lo spazio promuoveva incontri sperimentali, legati alla psicologia ed ai suoi possibili usi in campo artistico, performative writings, mostre di artisti storici -come Piero Manzoni, Ettore Colla, Salvatore Meo- o giovani come Mottola, Capaccio, Asdrubali, Rossano. Rispetto allo sperimentalismo degli inizi, lo spazio col passare del tempo perse la sua peculiarità. Terminò la sua attività nel 1995.
GALLERIA PIERONI (1979-1993)
via panisperna 203
Trasferitasi da Bagno Borbonico (Pescara), la galleria di Mario Pieroni (fondatore dell'associazione Zerynthia) apre, nel 1979, con una collettiva di De Dominicis, Kounellis e Spalletti. Lo spazio espone artisti già affermati come Luciano Fabro, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz, Sol Le Witt, Giulio Paolini, Alighiero Boetti insieme ai più "giovani" Franz West, Gunther Forg, Bertand Lavier e Jan Vercruysse.
Era situata nello stesso edificio di Primo Piano.
LA SCALA (1983-1985)
piazza san giovanni 10 (ora negozio)
Galleria gestita da Domenico Nardone (dopo l'esperienza come artista presso Centro Jartrakor), insieme a Daniela De Dominicis e Antonio Lombardi, situata negli spazi sconsacrati della chiesa del complesso della Scala Santa. L'attività dello spazio è legata soprattutto alla promozione, da parte del gruppo, di artisti denominati "Piombinesi" (Salvatore Falci, Stefano Fontana e Pino Modica, ai quali nel 1987 si aggiunse Cesare Pietroiusti), che passeranno, traghettati dallo stesso Nardone, nelle mani dello Studio Casoli a Milano. Tra le mostre della galleria ne ricordiamo una sulla poesia visiva (Miccini, Sarenco) e una personale di Ettore Innocente.
LA SCALA C/O IL DESIDERIO PRESO PER LA CODA (1985-1986)
vicolo della palomba 23 (ora ristorante 'Il desiderio preso per la coda')
Lascala c/o il desiderio preso per la coda nasce dalla volontà di Domenico Nardone di creare una galleria itinerante, senza una sede fissa, in grado di trasformare, di volta in volta, un luogo diverso in spazio espositivo. Cominciò (e si concluse, purtoppo) organizzando una serie di mostre e performances all'interno del ristorante "Il desiderio preso per la coda" (in grande anticipo sui tempi). Da segnalare la performance "Opening oysters" di Terry Fox e Mariano Vismara, in cui i due artisti passarono una serata ad aprire 25 kg di cozze! Tra gli artisti coinvolti nel progetto: il gruppo dei Piombinesi, Ettore Innocente, Renato Mambor e Cesare Pietroiusti.
GALLERIA ALICE (1988-1992)
via monserrato 34
Dopo le esperienze di Lascala e Lascala c/o, un altro spazio diretto da Domenico Nardone (sicuramente uno dei curatori-critici-galleristi più attivi di quegli anni). La galleria promosse gli artisti con cui Nardone aveva precedentemente lavorato come i Piombinesi, Stefano Arienti, Premiata Ditta, Alfredo Pirri. Da ricordare la collettiva "Storie", curata da Carolyn Christov-Bakargiev, la quale tentò di mettere a confonto artisti italiani ed internazionali con interessi comuni. Alla mostra parteciparono il gruppo dei Piombinesi insieme a Henry Bond, Sophie Calle, Willie Doerthy, Christian Marclay, Sam Samore (niente male per una piccola galleria romana, no?).
GALLERIA PAOLO VITOLO (1990-1992)
via gregoriana 4 (ora parrucchiere)
Insieme ad Alice, una delle poche gallerie "di ricerca" a Roma; forse questo spiega la leggera, ma evidente, contrapposizione tra i due spazi creatasi all'epoca.
Paolo Vitolo (ora gestisce una libreria d'antiquariato in via Tadino a Milano), personalità di grande intelligenza e capacità (pensate che, nella sua galleria di Milano, organizzò la personale di un giovanissimo Martin Creed!) decise di portare avanti una precisa linea di ricerca, accompagnandosi spesso anche a critici come Gabriele Perretta.
Tra le personali: Formento e Sossella (da riscoprire in particolare per la loro attività all'interno di Blob), Alberto Zanazzo, Luca Vitone, Cesare Viel. Da segnalare, nel 1991, la presenza di Maurizio Cattelan nella collettiva "Medialismo" (sfortunato tentativo di creare una nuova corrente artistica).
STUDIO CASOLI (1995-2001)
via della vetrina 21 (ora galleria VM21)
Galleria inizialmente milanese, nel 1995, decide di aprire uno spazio a Roma, esponendo artisti italiani ed internazionali. Tra gli artisti presentati Nan Goldin, Gino De Dominicis, Gordon Matta Clark (personale a cura di Adachiara Zevi), Pino Pascali, Lucio Fontana fino alle nuove generazioni come Nan Goldin e Letizia Cariello.
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venerdì 20 dicembre 2013
Ritorno alla forma - La linea figurativa e realistica nell’arte molisana del Novecento
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Amedeo Trivisonno, Natività |
Ritorno alla forma
La linea figurativa e realistica nell’arte molisana
del Novecento
A cura di
Francesca Della Ventura
Tommaso Evangelista
Col patrocinio di
PROVINCIA DI CAMPOBASSO
21 dicembre 2013 / 12 febbraio 2014
Inaugurazione sabato 21 dicembre ore 18.00
Galleria Artes Contemporanea
Viale Elena, 60, Campobasso
Artisti:
Antonio D’Attellis
Antonio Di Toro
Walter Genua
Giovanni Manocchio
Giulio Oriente
Leo Paglione
Gilda Pansiotti D’Amico
Rodolfo Papa
Antonio Pettinicchi
Marcello Scarano
Amedeo Trivisonno
Vincenzo Ucciferri
Una delle peculiarità dell’arte molisana contemporanea è stata quella di non aver mai smarrito una spiccata linea figurativa. Fuori dalle correnti più significative, lambita solo superficialmente dalle tensioni del Futurismo, lontananel dopoguerra dai dibattiti sull’astrattismo, la regione ha mantenuto intatta un modo di saper dipingere e scolpire che affonda molte radici nella tradizione più nobile dell’arte italiana. Il merito principale del perdurare di tale tendenza è da ascrivere soprattutto a Amedeo Trivisonno e Marcello Scarano. Mentre il primo, Trivisonno, ha creato una vera e propria “scuola” formando diversi validi artisti in relazione, in particolare, all’arte sacra autentica, Scarano ha ispirato una ricerca sempre sulla forma ma letta in chiave maggiormente espressiva e intimista. I dibattiti sorti agli inizi degli anni Sessanta, di rottura e tensione, e liberazione di un’arte non più legata alla forma ma al concetto, andavano contro gli epigoni e gli esponenti meno innovativi della pittura, i cosiddetti “pittori della domenica”, ma mai contro i grandi maestri. Una collettiva sulla linea figurativa e realistica nell’arte molisana è un atto dovuto alla storia della regione per fissare alcuni punti certi, per riscoprire maestri dimenticati e soprattutto per mostrare un’arte sempre attuale e mai anacronistica, fatta di sapere tecnico e progettuale ma anche di spiccate doti creative; è anche un’occasione di studio e di approfondimento su artisti significativi del Novecento. Oltre alle opere di artisti storici si sono voluti esporre anche i lavori di pittori che, pur nel perdurare delle correnti e degli “ismi”, non hanno mai abbandonato il pennello e la forma. La collettiva ha diversi pregi. Ha la pretesa di concentrare su poche pareti un secolo di arte molisana seguendo la linea della forma; vuol presentare una rassegna quanto più completa ed esplicativa degli artisti figurativi molisani, ovvero di quei pittori che maggiormente hanno indagato la raffigurazione, mostrando legami, derivazioni e ispirazioni; cerca di rivalutare contesti poco indagati dalla critica, mostrando un ambiente estremamente vitale e di forte spessore tecnico e qualitativo. Parlare della forma significa indagare l’intima natura dell’arte, capace di schiudere, nel gesto personale del rappresentare, la visione concreta e spirituale dell’artista chiamato a farsi carico del reale per comunicarlo all’esterno. Se l’astratto è tensione emotiva e riconfigurazione in chiave sintetica dell’idea, la costruzione sulla e intorno alla figura comporta un perenne agire sulla struttura interna del dipinto per veicolare, nello scontro tra immagine e percezione, una personale osservazione sull’unicità del mondo.
mercoledì 11 luglio 2012
Vulcano Extravaganza 2012
Di sicuro tra gli eventi d'arte, in Italia, più interessanti del periodo estivo vuoi per la splendida location, l'isola di Stromboli, vuoi per gli artisti invitati e il concept di fondo. Un progetto di Fiorucci Art Trust sull'isola di Stromboli a cura di Milovan Farronato in collaborazione con un artista guest-star d'eccezione: Nick Mauss. Una condivisione di intenti con artisti e critici selezionati in base alla loro "sensibilità” al progetto che quest'anno prende in prestito il concetto di "stra-vaganza” di Alighiero Boetti, visto come la capacità e la volontà di interagire nella molteplicità degli incontri.
Una serie di incontri e conferenze, che partiranno il prossimo 20 luglio e che culmineranno il 23 agosto, con l'opening di un progetto firmato proprio da Nick Mauss e che resterà visibile fino alla primavera del 2013.
Ma c'è una novità: un gruppo di artisti, addetti ai lavori e curatori sono stati invitati a performare il proprio soliloquio di fronte al vulcano, in un una dimensione che ispira allo stesso tempo reverenza ed eccitazione: all'appello hanno risposto gli artisti Than Hussein Clark e Karl Homqvist, il direttore del FRAC Champagne-Ardenne Florence Derieux, i curatori Stuart Comer e Mark Nash e il critico Michael Sanchez.
Inoltre, tra gli altri protagonisti vi saranno Paolo Chiasera e Antonio Grulli, e la partecipazione ai programmi dell'artist run space bolognese Interno4, nonché una residenza parallela indetta dalla guida all'arte online milanese That's Contemporary, che però si terrà nella vicina isola di Lipari.
Per seguire l'evento c'è il blog http://dedicatostromboli.blogspot.it/
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domenica 12 febbraio 2012
L'inganno del critico - Jean Clair
Jean Clair riesce sempre ad aprirci gli occhi sulle dinamiche dell'odierno sistema dell'arte
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Poussin - Autoritratto |
Provo sempre un sentimento di disagio quando mi si applica la qualifica di "critico d' arte". L' origine del termine è tra le più incerte, il suo impiego è tra i più vaghi, la sua serietà tra le più contestate. Poiché requisito dell' arte è il silenzio - Poussin diceva che «la pittura concerne le cose mute» - il critico d' arte non potrà che esserne la protesi, una sorta di ventriloquo dell' arte. L' etimologia della parola sembra, in verità, suffragare questa interpretazione. È un termine che rinvia a una condizione di malessere che è forse quello di cui oggi soffre l' arte. In ogni caso è in questa prospettiva che l' attività "critica" acquista un senso. Proveniente dal greco krinein, la parola avrebbe un' origine medica e si riferirebbe a quel momento - krisis - dell' evoluzione della malattia giudicata pericoloso, difficile, decisivo. E critico è il medico che sa ravvisare quel momento, influenzando così la prognosi. La critica d' arte come attività specifica compare, in effetti, in un momento in cui, dopo tanto risplendere, l' arte comincia ad essere preda della malattia o di ciò che Manet - che ne fu uno spettatore consapevole - chiamerà la sua "decrepitudine". L' attività critica diventa un rimedio a questo male. Il critico è, dunque, una invenzione recente, che risale all' incirca al XVIII secolo. Non vi era crisi nell' arte arte antica, nell' arte d' Antico Regime. Non vi erano dei "critici" ma dei giudici, incaricati di verificare la conformità delle opere a dei canoni,a delle norme invariabili, a dei programmi iconografici precisi. Non si critica la muscolatura di un eroe la cui figura è conforme al canone di Policletoo di Vitruvio. Non si critica la rappresentazione di una Deposizione dipinta da un artista per un convento. Si verifica se esse siano conformi a dei programmi, dei trattati di proporzione, dei dogmi religiosi, dei paradigmi. Credo che sia proprio nel momento in cui il corpo dell' arte si ammala, che il critico d' arte entra in scena. Pensiamoa Diderote alle sue critiche dei Salons, scritte quando le opere d' arte non rispondono più a una committenza pubblica, religiosa o principesca, ma sono l' espressione di un gusto individuale in vista di un pubblico profano. È anche il momento in cui la nozione di "Belle Arti", rispondente a regole, canoni, teorie, paradigmi, scompare a profitto de "l' Arte" tout court, qualità propria ed inimitabile di un individuo che si vuole creatore e si crede un genio. È allora che, a partire dal 1750, in corrispondenza con questa scomparsa, nasce l' Estetica, una nuova scienza che si accinge a prendere in esame l' infinita varietà delle sensazioni e la diversità delle sensibilità corporee, senza più tener conto dei canoni antichi. Fintanto che l' arte era destinata agli Dei e ai Potenti, la valutazione critica - fenomeno umano, troppo umano - non aveva alcun senso. È quando l' arte diventa oggetto di diletto per dei privati che vediamo l' emergere di una critica privata e di quel bizzarro mestiere - a malapena un mestiere - a cui andrà il nome di critico d' arte. Fin dalla sua origine, tuttavia, l' arte è sempre stata sottomessa alla parola. La formula di Cicerone, docere, delectare, movere, che definisce l' arte della parola, la retorica, verrà presto estesa all' arte plastica, l' arte delle forme e dei colori, anche essa capace di eloquenza e, dunque, di "ben dire". Nicolas Poussin - ancora lui! - farà propria la formula: docere et delectare. Colui che parla dell' arte, l' oratore, il critico, sarebbe, in fondo, la voce che spiega e che forse impartisce direttive alle voci del silenzio, alle voci delle Belle Arti. Non ci dimentichiamo che Fidia stesso fu un oratore e che, in musica, l ' Offerta musicale di Bach viene composta sul filo della lettura dell' Istituzione oratoria di Quintiliano. Quel che bisogna conservare, e non criticare, è questo dialogo tra le arti - la pittura, la musica, l' architettura, la retorica - perché, pur rispondendo a discipline diverse, esse obbediscono tutte alla stessa armonia. Eppure il dialogo è venuto meno. Il tempo in cui un' unica e uguale armonia dettava le leggi di un quadro, di una composizione musicale, di un' architettura o di un corpo umano si è concluso.
Nato da questo dialogo spezzato, un nuovo regime si instaura a partire dal momento in cui il critico d' arte si fa carico della responsabilità che fino ad allora era stata di pertinenza dello scrittore, del musicista, del poeta, per diventare il ventriloquo di un' arte che, privata del suo rigore retorico, è più muta e confusa che mai. E - peggio ancora - per imporsi come una sorta di spettro che viene ad abitare il corpo muto della pittura, fino a dirigerne dall' interno gesti e atti. Una critica d' arte? Piuttosto un magistero sconfinante con l' ossessione spiritica. Se i programmi iconografici o le regole estetiche scompaiono è allora a profitto di programmi politici, presto chiamati manifesti. Il critico non può che mettersi al servizio di un programma, diventa un portavoce, meglio ancora un profeta che apre la via e che battezza: la sua missione non è più quella di difendere un canone ma una causa. Da consigliere delle corti e dei salotti a eminenza grigia del regime il passo sarà breve. Se la politica si è estetizzata, presto sarà l' estetica a politicizzarsi. I nuovi "critici" saranno Bottai o Lounatcharski, ma presto anche Jdanovo Goebbels (egli stesso scrittore), al servizio di despoti capaci di ridurvi al silenzio, all' ergastolo. La critica non ha più posto nella divulgazione di un' arte che è ridiventata un' arte ufficialee di culto. Il fatto che ogni gesto sia codificato, ogni attitudine conforme, ogni sorriso sottoposto a verifica, ma anche ogni colore vagliato esclude l' intervento di qualsivoglia esercizio "critico". Questo va da sé. Ma, a rischio di apparire paradossali e provocatori, andiamo oltre, in direzione dell' arte "borghese" favorevole alla critica "formalista": quale critico avrebbe osato, negli anni ' 30, criticare le forme dell' avanguardia, che nel frattempo erano diventate delle formule? Chi avrebbe osato criticare la doxa del cubismo,o le prescrizioni maniacali degli adepti dell' astrazione geometrica alla Mondrian? Una volta di più, il critico non era un compagno di strada, ma colui che forniva le formule, i programmi. Impone le parole d' ordine, le formule, i manifesti e all' artista di ubbidire. L' impostura si spingerà ancora più lontano quando, negli anni ' 60, finito da tempo il programma utopico delle "avanguardie", si continuerà nondimeno a usare il termine "avanguardia", a servirsene come di un marchio di fabbrica, di uno slogan di cui il critico diventa allora l' uomo sandwich. Più tardi, negli anni ' 90, quando l' impostura divenne ancora più evidente, si inventò il termine di "arte contemporanea" per distinguere colui che nella attuale produzione emergeva munito di una qualità che lo rendeva - lui e lui solo - capace di garantire della qualità della "contemporaneità" come di un grado superiore di presenza al momento presente, e che fa sì che Jeff Koons sia più "contemporaneo" di Botero- quando in realtà sono entrambi ugualmente kitsch. Il critico ridiventò allora il personaggio centrale di questa manipolazione. C' era bisogno di una operazione singolare, di una sorta di catalisi perché la sua parola assumesse la forza di un dogma. La catalisi la si ottiene aggiungendo ai suoi lati due figure essenziali: lo storico d' arte e il mercante. Il mercante è quello che fornisce la mercanzia, lo storico d' arte colui che ne attesta la provenienza. Al critico non resterà più che autentificarne la qualità e tentare di descriverla con le sue parole. Se parlo con tanta convinzione di questo processo è perché io stesso ne ho fatto parte. Non sono più un critico d' arte da molto tempo, ma lo sono stato quanto basta per avere la misura dei limiti di questo strano mestiere.
Nel 1970 creai, poi diressi per quattro anni, una rivista di avanguardia, Chroniques de L' Art Vivant. Assai prima di riviste come Art Press o Teknikart, che oggi danno il "la" in fatto di mode estetiche, L' Art Vivant fu la prima a lanciare in Francia la passione dell' avanguardia. Vi apparvero i primi articoli su artisti, allora pressoché sconosciuti, come Boltanski e Buren - ne fui l' autore-e sulle prime stelle della Scuola minimalista americana come David Judd o Robert Ryman. Vi pubblicammo anche le prime interviste a Joseph Beuys e un numero speciale consacrato agli artisti dissidenti dell' Unione Sovietica, che mi valsero una convocazione minacciosa dell' Ambasciatore dell' Urss a Parigi. Nel 1974 misi fine a questa esperienza. Avevo sperimentato l' impostura che poteva rappresentare una pubblicazione consacrata a dei movimenti così detti d' avanguardia. Avevo visto com' era possibile, nel giro di sei, otto mesi, lanciare sul mercato dell' arte nomi o prodotti. La condizione era quella di riuscire a creare quella triade miracolosa di cui ho parlato prima: mettere d' accordo fra di loro per osannare lo stesso artista, un conservatore di museo, tutto eccitato di riscaldarsi ai fuochi dell' attualità, uno storico d' arte, ugualmente felice di lasciare i suoi studi per riscaldarsi al calore degli atelier dei giovani creatori, un giovane critico ambizioso e naturalmente un mercante per aiutare, sul piano materiale, questa trinità a rivelare al profano i misteri dell' Avanguardia... Potei inoltre verificare, come aveva mostrato McLuhan, che il supporto, il medium, diventava il messaggio. Poco importava l' oggetto: era la sua esposizione, la sua messa in valore, il modo di fotografarlo, le parole per descriverlo che lo facevano esistere, non il suo valore intrinseco. Questa esperienza delle arti fittiziee dei mercati ingannevoli mi allontanò per sempre dalla critica. Vi acquistai una certezza: che la storia dell' arte moderna e contemporanea è fatta di cliché - nel senso quasi tecnico del termine - e che era venuto il momento di scriverla. Intrapresi questa riscrittura in due modio su due scale. Intendevo fare vedere che la concatenazione delle scuole e dei movimenti d' avanguardia era una illusione retrospettiva di cui bisognava liberarsi. Così ideai due mostre che mi valsero la reputazione di reazionario o di revisionista. Nei Realismi tra le due guerre del 1981 (Centre Pompidou), cercai di smentire la doxa secondo cui l' arte tra le due guerre aveva segnato il trionfo dell' astrattismo e l' inizio del primato dell' arte americana. In realtà, tra le due guerre, dalla "Neue Sachlichkeit" tedesca ai "Valori Plastici", si era fatto ritorno al soggetto, al classicismo e alla forma. E nel 1995, per il centenario della Biennale di Venezia, tentai ugualmente, con la mostra Identità-Alterità, di dimostrare che l' arte del XX secolo aveva segnato il trionfo del ritratto. Al contempo le mie curiosità sull' arte di oggi mi spinsero a cercare degli artisti viventi il cui genio potesse corrispondere a questa storia rivisitata di cui cercavo di riscrivere le tappe. Si trattava ancora di critica? Sì se, come abbiamo visto, si intende con ciò l' arte del terapeuta che formula una diagnosi. O ciò che Kant aveva definito come critica in relazione alla Ragion pura e da cui noi non avremmo mai dovuto scostarci: una rivoluzione copernicana del nostro modo di comprendere il mondo a prescindere dalle mode e dai capricci dei nostri sensi. (Traduzione di Benedetta Craveri)
JEAN CLAIR su Repubblica 5 febbraio 2012
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domenica 8 gennaio 2012
Società liquida, sistemi rigidi e necessità d'identità
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R. Papa, Theophania, 2005 coll. priv. |
Su engrammi avevo iniziato a raccogliere gli articoli del prof. Rodolfo Papa da Zenit, "Riflessioni sull'arte"; ora è nato il blog personale che raccoglie tutti questi contributi e pertanto vorrei segnalarlo caldamente aii lettori poichè queste osservazioni sono un interessante contributo alla lettura della situazione odierna dell'arte proponendo una visione controcorrente al "sistema" che mi sento pienamente di appoggiare. Vi lascio col link del sito http://rodolfopapa.blogspot.com/ e con l'ultimo testo uscito su zenit.
SOCIETÀ LIQUIDA, SISTEMI RIGIDI E NECESSITÀ D’IDENTITÀ (III PARTE)
di Rodolfo Papa
ROMA, lunedì, 5 settembre 2011 (ZENIT.org).- Nelle due parti precedenti di questo articolo, abbiamo sottolineato che i complessi rivolgimenti occorsi negli ultimi centocinquanta anni non hanno avuto l’esito finale di esprimere un nuovo sistema filosofico e/o un nuovo sistema artistico, ma di fatto hanno condotto ad un totale assorbimento nel mercato. Il mercato si presenta ormai come l’unico criterio ontologico per identificare le arti.
La proposta di cambiamento all’origine della modernità, che nasceva come soluzione elitaria e rivoluzionaria, autoassegnandosi il compito di cambiare il mondo, ebbe il progetto di pensare un sistema di valori alternativo a quello tradizionale ma, essendo sintomo non già di una spinta propulsiva feconda, quanto piuttosto di un disagio e di una decadenza in atto, finì di fatto con l’asservimento globale alle regole del mercato. Tutto è divenuto prodotto di consumo. Oggi non è neanche più significativo se tale consumo sia “di massa”, perché è il marketing a stabilire la fetta di mercato in cui collocare il prodotto, di qualunque tipo esso sia: cibo, divertimento, vacanze, musica, letteratura, pittura, filosofia, politica o religione. Il mercato viene definito come la massima espressione della democrazia. Quindi non esistono più cittadini, cultori di una disciplina, fedeli, studenti o professori: ma solo consumatori. Tutto viene realizzato in nome del profitto e con le regole del profitto. L’eventuale mercato culturale, letterario o artistico, è determinato non da principî morali, etici o estetici, ma più banalmente dal marketing. Tutto deve essere appetibile per essere consumato; deve essere “sexy” per essere desiderato. Ormai raramente si vedono progetti ad ampio respiro, monumenti che richiedono decenni per essere realizzati, in quanto tutto deve rispondere alle tre regole fondamentali del consumismo: Easy, Fast and Pop. Tutto deve essere facile, non complicato, velocemente consumabile, e, soprattutto, non deve mai porre problemi al “consumatore”, non deve porlo di fronte ad una scelta o ad un tempo per pensare, tutto deve rimanere incolto, volgare, “popolare”, nel senso che il “consumatore” non deve mai pensare, altrimenti recupererebbe una coscienza individuale. Ogni aspetto propriamente “culturale” o “impegnato” viene anch’esso proposto all’insegna dell’estrema leggerezza, del divertimento e del consumo; tutto viene offerto entro il format del festival: musica, letteratura, filosofia, politica, arte, teologia …
La cornice globale è quella della “tolleranza”, perché il mercato non può ammettere intolleranze, tutto deve essere consumato anche se immorale o dannoso alla salute; il mercato vende i prodotti, insieme agli antidoti per renderli tollerabili. Tale condizione serve per mantenere lo stato di fatto in una illusione di ordine apparente, ma nel frattempo sta pericolosamente mostrando in tutto l’Occidente segni preoccupanti di intolleranza o di tradizionalismi etnici, politici e/o religiosi di vario segno e di varia natura. Il vero volto di questa situazione è la “dittatura del relativismo”, come Benedetto XVI denuncia da tempo. La forzata impossibilità di uscire dalla condizione post-moderna, come se in definitiva fosse il vero ed ultimo esito degli ultimi due secoli di rivoluzioni, sta impedendo la naturale tendenza dell’uomo a mettere in ordine il mondo che lo circonda, superando il caos. Questa necessità che è spirituale, e poi psicologica e solo successivamente politica, si sta manifestando in maniera confusa e distonica, da molte parti e con molti aspetti a volte anche inquietanti. Tanto disagio e tanta sofferenza sono realmente tangibili nel mondo che chiamiamo economicamente e tecnologicamente sviluppato.
C’è una necessità definitoria nell’uomo che va oltre la contingenza fluida e impalpabile del mondo presente. Anche se la società contemporanea, secondo la ormai affermata terminologia del sociologo Zygmut Bauman, è una “società liquida”, “neotribale”, dove la consistenza degli «sforzi di autocostruzione, e l’inevitabile inconcludenza e frustrazione di questi sforzi conducono al loro smantellamento e rimpiazzo»[1], ciononostante si fa largo in controtendenza una necessità di definire dei termini sui quali poggiare le scelte individuali e quindi il senso dell’agire e del fare, ed anche del fare artistico. Anche se tutto della realtà che ci circonda sembra mostrare che è impossibile affermare la certezza di una verità, in realtà sappiamo che senza una minima azione di giudizio, senza la condivisione di verità anche minime, è impossibile fare, commissionare e fruire arte.
Del resto, lo stesso Bauman, precisa che la condizione neo-tribale non significa che non esista una tensione verso l’autocostruzione, ma il fatto stesso che tale tensione venga costantemente frustrata dal fallimento e dalla dissolvenza delle tribù nel giro anche di pochi anni, nel tempo di una moda stagionale, non significa che questa tensione non ci sia. A mio avviso, significa in realtà che l’insopprimibile sete d’infinito che l’uomo porta con sé, ha necessità di trovare un approdo. Però l’approdo viene ostacolato dalla “intolleranza”, imposta dalla “dittatura del relativismo”, nei confronti della “necessità definitoria”. Siamo di fatto ben coscienti che proporre soluzioni e affermare valori è intollerabile per la struttura contemporanea delle coscienze individuali. Appare ancora attuale quanto scriveva Hans Jonas nel Il principio responsabilità nel 1979, sebbene allora il mondo fosse geo-politicamente diverso, perché si confrontava ancora con i blocchi contrapposti demarcati dal muro di Berlino; Jonas affermava che si può reagire all’utopia del progresso tecnologista materialista, contrapponendo al principio speranza, non il principio paura, ma il principio responsabilità, in quanto « lo spirito della responsabilità respinge il verdetto precipitoso dell’inevitabilità e a maggior ragione rifiuta che venga sancito dalla volontà come conseguenza di quella supposta inevitabilità, poiché intende porsi dalla parte della storia. (La storia poi potrà mostrarsi anche troppo disponibile a schierarsi a favore di una resa di quello spirito, a meno che non preferisca offrire una delle sue sorprese)»[2].
Per fondare un vero principio di responsabilità è necessario conoscere e definire, superare cioè l’indistinta confusione dei termini e organizzare un ordine capace di contenere un corretta visione della natura e di conseguenza la capacità di sviluppare un giusto e sano umanesimo. Occorre evitare di cadere negli opposti eccessi, come ammonisce Benedetto XVI: «né cadere in una superbia che disprezza l’uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto distrugge, né abbandonarsi alla rassegnazione che impedisce di lasciarsi guidare dall’amore e così servire l’uomo»[3].
Ci sono domande di fondo che vanno poste e per le quali si devono cercare risposte chiare ed esaustive. Se vogliamo ridare slancio alla cultura, se vogliamo dare nuova vita all’arte per poi muovere verso una più proficua azione per far rinascere il sentimento giusto capace di promuovere veramente l’arte sacra nella cattolicità, allora occorre partire dalla consapevolezza della situazione contemporanea, evitando azioni revansciste o nostalgiche. Ce lo insegna la statica: quando un sistema rigido si inserisce in un sistema elastico, accade che il sistema elastico non riesca a tollerare le spinte del sistema rigido se sottoposto a sollecitazioni, e così si determina il crollo del manufatto. Ogni volta che inseriamo un sistema rigido in un contesto elastico o addirittura fluido come è il nostro, il risultato è quello di una intollerabilità che non produce alcun effetto se non quello di far sembrare ridicola e anacronistica la soluzione. C’è necessità, invece, di promuovere un movimento che scuota le coscienze e le indirizzi rapidamente ad una azione di preparazione culturale alla rinascita, una sorta di preparazione al parto. Tutto deve essere in movimento, ma con la finalità di costruire un preambolo –un addensamento- capace di accogliere in seguito i primi vagiti di soluzione ai problemi posti dalla nostra attuale condizione.
Potremmo quindi dire, che per proporre una narrazione vera[4] dell’arte e della sua storia, prima di tutto occorre individuare dei preambula narrationis, e dopo, soltanto dopo, si potrà snodare la vera e propria narratio historiae dell’arte sacra, in cui si mostrano i principî proposti dal Magistero della Chiesa e gli exempla offerti dalla tradizione. La riflessione sulla contemporaneità impone la scelta non di soluzioni definitive, rigide e quindi automaticamente inaccettabili, ma piuttosto di un percorso, di un movimento finalizzato, l’individuazione di principî forti attorno ai quali far coagulare gli interessi degli artisti e dei committenti -che negli ultimi decenni sono stati abbagliati solo da soluzioni facili e poco concrete, affascinati dalla notorietà di nomi, legata non ad effettive qualità e valori, ma solo al mercato-. In modo particolare, la questione dell’arte sacra non può essere risolta con il reclutamento di stars e starlette dell’ultima moda consumistica contemporanea, e neanche con lo scimmiottamento di sistemi d’arte, che nulla hanno in comune con il sentire cattolico, con Magistero e con il catechismo della Chiesa.
La scelta di produrre una vera e proficua analisi, capace di rintracciare e promuovere i principî fondativi e peculiari dell’arte sacra cattolica, non è dettata solamente dalla opportunità di scientificità e di correttezza, ma anche e soprattutto dalla necessità di operare una distinzione all’interno del campo artistico, al fine di giungere alla scoperta di principî originari propri dell’arte cristiana. Come insegna Benedetto XVI, ci sono valori non negoziabili che sono l’identità del cristiano. Anche nel campo dell’arte, esistono principî regolatori non negoziabili, che se messi di nuovo in circolo offrirebbero la possibilità di muovere verso, di portare a; si avrebbe la possibilità di reintrodurre il lievito nella farina per far fermentare l’intera pasta, per infornare a tempo opportuno un pane “tanto antico, quanto nuovo”.
1 Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, Torino 2010, pp. 275-6.
2 Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009, pag. 284.
3 Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas est, Citta del Vaticano 2006, II, 36.
4 La questione del rapporto tra narrazione storica e principî critici è una delle maggiori questioni storiografiche che ha impegnato ed impegna gli storici e i filosofi dell’arte da Heinrich Wölfflin fin ad Arthur Coleman Danto nei nostri giorni.
mercoledì 7 dicembre 2011
La casta dell'arte...parla il blogger Luca Rossi
Il dibattito sul sistema-arte è feroce e tocca qualche nervo scoperto. Il blogger Luca Rossi, gestore di Whitehouse, accetta di intervenire e lo fa a gamba tesa per raccontare ad Affari come è organizzata la Casta e come gestisce i giochi di potere.
Whitehouse è nato nel 2009 e propone una riflessione critica e propositiva che partendo dalle dinamiche del sistema dell'arte e dei suoi linguaggi, arriva ad una riflessione più ampia sul periodo storico attuale. Attraverso la figura di Luca Rossi, il blog ha iniziato a proporre dei progetti indipendenti, mettendo in discussione alcuni codici e convenzioni. Nel 2010 Fabio Cavallucci (direttore del Centro per l'Arte Contemporanea di Varsavia e collaboratore della rivista Flash Art), in un'articolo apparso su Exibart, ha definito così il blogger: "E' la personalità artistica più interessante del panorama italiano di questo momento. Lo è perché, insieme ai contenuti, rinnova anche il linguaggio. In prospettiva, potrebbe modificare anche il sistema".
Il mondo dell'arte è una Casta? Perché? Qualche intervento dei lettori nell'ambito del dibattito accusa di assenza di fondamento questa affermazione...
"Vorrei partire facendo un'utile semplificazione. Potremo dire che il mondo dell'arte italiano è diviso in tre parti: la parte che fa riferimento a Vittorio Sgarbi, la parte che fa riferimento a Luca Beatrice (curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2009) ed una terza parte che, potremmo dire, fa riferimento a due giovani riviste di arte come Mousse e Kaleidoscope (con tutti gli operatori e gli inserzionisti che ne fanno parte). Questo per dare punti di riferimento semplici. La parte del sistema più interessante, come qualità e capacità di esportare all'estero l'arte italiana, è la terza, quella appunto che ruota intorno alle riviste Mousse e Kaleidoscope (che chiamerei il polo Moussoscope). Quindi mi concentrerei su questa parte..."
Ok partiamo da qui...
"Tale sistema è gestito da un'oligarchia di pochi operatori (governo di pochi) mentre il suo pubblico è formato solo da addetti ai lavori e curiosi. Infatti a tale sistema interessa il collezionismo (bastano una dozzina di buoni collezionisti, semmai tra italia ed estero, per tenere in piedi una galleria), compiacere gli addetti ai lavori e guadagnarsi fama sulla scena internazionale. L'assenza di un pubblico è paragonabile all'assenza di "opinione pubblica" negli stati democratici: non c'è interesse e controllo su questa oligarchia".
Quindi?
"In Italia esiste un divario fortissimo tra questa parte del sistema e il pubblico (e di conseguenza anche tra tale parte e il sistema politico): l'operazione "volgare" di Sgarbi si insinua proprio in questo vuoto mantenuto colpevolmente in vita da quella che può chiamarsi Casta, che può liberamente 'sguazzare' tra il conflitto di interessi, i favoritismi relazionali e di tipo commerciale. La conseguenza? Un disincentivo forte all'emergere di situazioni virtuose e di qualità. Anzi i fantomatici critici di questo sistema non operano mai un'azione realmente critica verso questa Casta, né dal punto di vista dei contenuti (quindi del'arte) né col tentativo di eliminare i "giochi di potere". Questo perché ogni critico, ogni addetto ai lavori teme di perdere un possibile ingaggio futuro andando contro tale Casta".
E per quanto riguarda l'aspetto finanziario? Il business?
"La Casta opera anche sulla lievitazione dei prezzi delle opere, senza partire da alcuna base critica, ma solo sull' alleanza tra 2/3 operatori- amici. Questo crea sulle opere d'arte un'effetto Parmalat e mentre il risparmiatore protesta perché rivuole il suo denaro, il collezionsita che ha subito un bidone sta zitto per paura di perdere il suo status sociale e per paura di non poter più rivendere la sua opera-bidone. Ma l'anomalia più paradossale è che questo sistema, oltre ad essere criticabile sul piano etico-morale, è inefficace e non produce risultati positivi sulla scena internazionale".
Può fare qualche esempio?
"Se lei intervistasse alcuni operatori, anche molto autorevoli, le direbbero che gli artisti italiani vengono ignorati dalla scena internazionale. Questo perchè la Casta mira, prima di tutto, a disincentivare l'innovazione, l'approfondimento critico e quindi la qualità. Nomi come Cattelan, Vezzoli, Beecroft, Bonvicini, che hanno consolidato la loro fama all'estero negli anni '90, ce l'hanno fatta solo lanciandosi da soli in un sistema internazionale".
Ha altre informazioni dettagliate da raccontare?
"Ci sono casi di conflitto di interessi, alleanze commerciali tra fondazioni private, gallerie private e curatori".
Qual è il punto sul quale si sente più critico?
"Il punto essenziale è che i giochi di potere penalizzano la qualità, importante qui e all'estero; rendono quella che dovrebbe essere la parte 'migliore' dell'Italia precaria, condannando molti giovani brillanti a vivere alle spalle di quella che ho chiamato "Nonni Genitori Foundation" (vero ammortizzatore sociale del sistema dell'arte italiano). Tale sistema produce illusioni e delusioni per gli studenti che escono dalle accademie e dalle scuole".
Conosce esperienze dirette o indirette di artisti che a causa di questa Casta non riescono a decollare?
"Conosco esperienze dirette ed indirette di curatori e critici che trattano in modo sprezzante gli artisti e che decidono le mostre mandando qualche e-mail ad alcuni amici. Conosco di favoritismi nei confronti di artisti di certe gallerie e non di certe altre. Conosco gallerie private che forniscono agli artisti condizioni economiche inaccettabili e fuori da qualsiasi etica del lavoro. Bisogna considerare che da 10-15 anni le file dei giovani artisti sono sempre più numerose e quindi c'è sempre qualcuno disposto a prendere il posto di chi si rifiuta di sottostare a certi diktat. Questo provoca un circolo vizioso che disincentiva ulteriormente la qualità. In questo sistema oligarchico gli artisti sono la parte piu' debole del sistema. I piu' forti sono i curatori, gli organizzatori, che spesso nascondono, in modo piu' o meno celato, aspirazioni artistiche da 'prime donne'. Gli artisti, e soprattutto i piu' giovani e quindi quelli di domani, sviluppano una 'sindrome arrendevole' esattamente come fossero 'operai non specializzati tenuti in ostaggio' da un sistema capace di escluderli nel caso non siano disposti a compromessi".
Di che cosa si occupa il suo blog?
"Nella figura del blogger convergono tutti i ruoli del sistema dell'arte (artista, curatore, critico, direttore di rivista, spettatore, commentatore, collezionista, gallerista, ecc). In questo modo è possibile organizzare un'azione indipendente che possa bypassare le deficienze del sistema reale e della Casta. Quindi oltre ad esprimere una visione critica rispetto ai contenuti e ai giochi di potere, viene anche proposta un'alternativa concreta fatta di progetti e mostre fruibili nella realtà. Tale attività ha interessato alcuni operatori autorevoli come Fabio Cavallucci, Roberto Ago, Alfredo Cramerotti, Giacinto Di Pietrantonio, Andrea Lissoni, Micol Di Veroli, Stefano Mirti. Questo interesse è scaturito anche in operatori che sono stati criticati dal blog, ma che hanno accettato il confronto ed il dialogo".
Vede all'orizzonte una possibile soluzione?
"Devo dire che in questi due anni di attività l'azione solitaria del blog ha determinato una maggiore apertura della Casta. In ogni caso è molto difficile modificare così velocemente alcune dinamiche ed alcune situazioni. Bisogna far capire alla Casta che il suo comportamento è fondamentalmente inefficace e che sarebbe nel suo interesse favorire una maggiore apertura critica e un maggiore confronto su i contenuti. Sembra strano ma il blog Whitehouse è l'unico luogo in Italia dove viene sviluppata un'azione critica".
E delle altre due parti che mi ha citato all'inizio del percorso?
"Sono ancora peggio di quella che ho descritto ora che è la parte 'migliore' del sistema. La parte di Luca Beatrice e quella di Vittorio Sgarbi, in modo più radicale, offrono situazioni sintomatiche sia dal punto di vista dei contenuti che delle dinamiche relazionali interne. Il progetto di Sgarbi per il suo Padiglione Italia mette in luce la sovraproduzione di opere, artisti che vengono trattati come polli in batteria, gioco delle raccomandazioni, opere d'arte come accessori marginali e decorativi in favore della personalità artistica del curatore, incapacità di definire scale critiche e valoriali come punti di riferimento per la qualità".
Quali sono secondo lei personaggi positivi (che si spendono per rompere il sistema della Casta) e quali negativi (lo portano avanti)?
"Se considera quanto detto precedentemente è molto difficile l'emergere di personaggi veramente positivi. Tutti temono di perdere future opportunità di lavoro. Alcuni personaggi hanno perso il lavoro perché qualche potente pensava che lavorassero al mio blog. In Italia la Casta possiede diversi centri di potere, soprattutto sull'asse Torino, Milano, Venezia, Bergamo. Ci sono operatori aperti al dialogo, ma che poi non fanno nulla per invertire certe tendenze, mi riferisco ad Angela Vettese. Operatori che predicano bene e razzonalo male, mi riferisco a Pier Luigi Sacco (che con la Vettese e Carlos Basualdo dirigono il festival internazionale dell'arte contemporanea a Faenza). Ci sono operatori giovani estremamente devoti alla Casta quali Milovan Farronato ed Alessandro Rabottini; alleanze tra professori e sistema per favorire gli studenti di certe scuole in modo tale che tali scuole siano legittimate (mi riferisco al caso virtuoso del professore/artista Alberto Garutti a Brera); esistono operatori della Casta estremamente aperti al dialogo come Giacinto Di Pietrantonio; galleristi silenti come Paolo Zani della Galleria Zero o il gallerista Massimo Minini; direttori di riviste, come Giancarlo Politi di Flash Art, incerti tra l'abbracciare la mia azione o censurarla; operatori autorevoli molto più aperti e fattivi come Fabio Cavallucci, Alfredo Cramerotti ed Andrea Lissoni. Giovani operatori come Roberto Ago che dalle pagine di Flash Art tentano di rendere la mia azione più accettabile ed efficace rispetto le anomalie del sistema italiano".
...
"Per concludere vorrei sottolineare che questa parte del sistema italiano, quella che ha maggiori possibilità sul piano internazionale, produce, e sarebbe in grado di produrre, il meglio che si possa fare in Italia. Questo non avviene solo per una forma di "stupidità generale" che condanna il sistema italiano alla precarietà interna e alla totale marginalità sul piano internazionale".
venerdì 4 novembre 2011
Arte e mercato. Il punto di Artprice
Come ogni anno, Artprice analizza il mercato dell'arte con il suo report. Si riscontra una sfiducia diffusa, compensata però dalla tenuta del mercato. Il baricentro dell’arte si sposta verso est, ma non ci sono molte sorprese tra i più venduti. Fra gli italiani, tengono i Transavanguardisti, insieme a Rudolf Stingel e ai soliti Cattelan e Beecroft (insomma, tutti i non italiani!) (fonte).
Il documento è scaricabile da questo link
sabato 15 ottobre 2011
Whitehouse - Uno sguardo critico sul "sistema dell'arte"
Segnalo questo interessantissimo blog, Whitehouse, che offre approfondimenti mai banali, ma sempre critici e (de)costruttivi, sul sistema dell'arte contemporanea e sullo stato della critica d'arte oggi in Italia (si veda la recente uscita di Politi sul ruolo della stagista). Realizzato da addetti ai lavori è arricchito da molte interviste con critici e curatori strutturandosi come una sorta di project room online. L'autore è Luca Rossi e tra i tanti spunti volevo inserire queste riflessioni
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Qual è lo stato della nuova critica d’arte in Italia?
Non esiste critica, esistono curatori che vogliono fare gli artisti e gli autori. Gli artisti non sono il cardine (come viene detto nel primo appuntamento di sentimiento nuevo), non sono i protagonisti del testo, ma sono un pretesto. Il sistema seleziona certo, e sceglie la strada del"mi piace/non mi piace" di facebook, non c'è mai alcuna riflessione ed approfondimento rispetto le luci e le ombre.
Chi sono le sue figure di riferimento?
Non ci sono, forse questo blog. Ma se non c'è confronto critico non ci sono figure di riferimento ovviamente.
Come è cambiata la scrittura d’arte nell’epoca dei curatori?
La critica diventa prosa funzionale ad un progetto artistico. Non ci sono scale critiche e valoriali ma tutto può andare se proposto e sostenuto nei luogi e dalle relazioni che "ci piacciono".
E’ possibile trovare una nuova scala di valori, un nuovo vocabolario, nuovi modelli narrativi per la critica d’arte?
Sì, ma non lo si fa sopra torri d'avorio nel 2011. Ci vuole il coraggio di non compiacere sempre tutti, ed inoltre il coraggio per un corpo a corpo con il pubblico.
È vero che in Italia si scrive molto ma si legge poco anche tra gli addetti ai lavori?
Il testo scritto (vedi Moussoscope) diventa solo riempitivo, estetica del testo; la rivista diventa opera giovanilistica. Non si legge perchè si scrivono sempre le stesse cose, rispetto ad un linguaggio che vive una crisi profonda (e non solo in italia).
Quali sono gli articoli e i saggi più importanti degli ultimi dieci anni?
Ci sono poche cose quà e là. Forse questo blog ha innescato una fase di utile riflessione. Ma le cose si costruiscono in anni ed anni, non dal giorno alla notte.
Siamo ancora in grado di racchiudere la scena dell’arte italiana attuale in un pensiero critico forte, capace di imporsi anche fuori dai nostri confini?
Assolutamente no. La scena italiana è paralizzata da esterofilia e complessi di inferiorità, da una parte, e assenza di un pubblico appassionato ed interessato dall'altra parte. Il pubblico del contemporaneo è fatto da addetti ai lavori e curiosi.
Quali punti di forza e carenze possiedono le nuove riviste e case editrici?
Il punto di forza è la continuità e la voglia di fare, ma procedono paralizzate esattamente come la scena italiana.
Esiste uno spazio di dibattito critico sui quotidiani e i principali mezzi di comunicazione?
Assolutamente no. Un sistema piccolo, precario e con posta in gioco bassa non può creare confronto critico e approfondimento. Questo, negli anni, mortifica e disincentiva la qualità. C'è un compiacimento generale e un conflitto di interessi permanente che disincentiva la libertà di espressione.
Dopo due anni, il sistema riconosce le sue carenze, ma invece di attivare un confronto reale ed allargato, decide di salire su torri d'avorio ancora più alte, consolato dalla presunzione di riflettere su se stesso con leggerezza, amicizia e simpatia.
Perché in Italia i musei faticano a costituirsi come istituzioni in cui una comunità di artisti, critici, curatori, galleristi, collezionisti, scrittori, editori, possano raccogliersi attorno ad un pensiero critico?
Perchè i musei in italia non nascono dalla prodonda necessità del loro contenuto e di una missione verso il pubblico; nascono come grandi insegne luminose, lì a dimostrare ostinatamente la presunta modernità dei soggetti pubblici e privati che li sostengono. Quindi non c'è mai reale attenzione per il contenuto, perchè questi sono contenitori degenerati in grandi insegne. Questo anche perchè in italia non c'è un pubblico realmente interessato ed appassionato all'arte contemporanea. Negli ultimi venti anni il "miglior" sistema italiano non è stato capace di ricucire uno scollamento con il pubblico; o forse non ha voluto, perchè convinto di non riuscirci. Questo determina anche un sistema politico e mediatico che non riconosce questo miglior sistema (due dati: in otto anni di vita l'associazione Amaci -dei musei di arte contemporanea italiani- non è mai riuscita a farsi ricevere da un ministro del cultura; nel 2011 il festival internazionale, dico internazionale, di faenza non è stato ribattuto neanche nella versione web-cultura dei principali quotidiani italiani). E' chiaro che poi il massimo diventano sgarbi e giovanni minoli.
giovedì 13 ottobre 2011
Nanni Balestrini - Original tag cloud
La sistemazione grafica di parole in base alla loro pregnanza o importanza, definita tag cloud, che va tanto di moda su siti e blog in realtà è stata sperimentata per la prima volta in Italia negli anni '70 quando molti artisti giocavano con le frasi. Allora l'operazione era artistica, con una forte componente politica, e il processo di costruzione della "nuvola" era manuale. Significativo, per esempio, è Potere operaio di Nanni Balestrini che fu esposto per la prima volta in occasione della Quadriennale di Roma del 1972. Finì poi in un deposito per quasi trent’anni. Tornato alla luce fu restaurato e appartiene oggi a una collezione privata.
Nanni Balestrini, nato a Milano nel 1935, vive tra Roma e Parigi. Negli anni Sessanta è stato tra i principali animatori della stagione della neoavanguardia, autore di numerose raccolte di poesia e di romanzi di successo. Negli ultimi cinquant’anni, parallelamente alla produzione poetica e narrativa, ha sviluppato un’importante ricerca in campo visivo partecipando a numerose mostre in Italia e all’estero.
«La furia collagistica di Balestrini, che dura dalla fine degli anni Cinquanta, ha prodotto un corpus di grande coerenza e dalla cifra riconoscibilissima, segno che in questa riappropriazione non indebita dei testi altrui egli ci ha messo qualcosa del suo, che è poi lo stile – il che per un poeta è tutto, ed è fatto di molto sudore creativo» (Umberto Eco, 2002).
«Balestrini simula un’operazione di massaggio del linguaggio, mediante una condensazione manuale che ne evidenzia l’aspetto fisico e tangibile (…). Tutto è oggetto trovato, ma proprio per questo manipolato e manipolabile. Balestrini realizza opere che sono un suggerimento di opera, fondazione di un metodo evidente ma che richiede in ogni caso lo stato di grazia dell’artista capace di portare il materiale nella necessità della forma» (Achille Bonito Oliva).
«Che questo spazio pittorico sia anche uno spazio linguistico e che questo spazio linguistico divenga qui uno spazio pubblico, mi sembra più che evidente. Nanni è sempre stato un politico. Ha fatto politica prima con le poesie che rompevano ogni tessuto linguistico per riportare i segni all’alienazione di cui erano costituiti; poi ha ricostruito questi segni dentro vicende rivoluzionarie che i suoi romanzi descrivevano; adesso si è messo a fare politica con i collage…» (Toni Negri).
giovedì 1 settembre 2011
Jean Clair - L'inverno della cultura
Non ne potete più di Biennali invase da installazioni simili a discariche, di gallerie occupate da esercizi concettuali incomprensibili? Non ne potete più di animali in formaldeide, di sculture fumettistiche, di pontefici abbattuti da meteoriti? Provate un profondo fastidio di fronte alle mostre blockbuster e al degrado di molti musei, trasformati in supermarket? Non vi resta che leggere gli scritti di Jean Clair, il cui ultimo pamphlet, L' hiver de la culture , è uscito in Francia da Flammarion (in Italia lo pubblicherà Skira a novembre). Diario di sconfitte, taccuino di indignazioni, è il quarto momento di un percorso avviato nel 1989 con Critica della modernità , e proseguito nel 2004 con De Immundo e nel 2007 con La crisi dei musei . Sono i tasselli di un polittico coerente, che rivela una forte tensione etica. Paragrafi di un discorso teorico d' impronta conservatrice. «L' atteggiamento reazionario è più utile di ogni illusione di progresso», ci dice Clair. Già direttore del Musée Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia, direttore della Biennale di Venezia del centenario (nel 1995), dal 2008 membro dell' Académie française, Clair è un raffinato intellettuale che non ha niente in comune con la maggior parte dei critici militanti di oggi, attenti soprattutto ad assecondare le mode e il gusto. Immune da questo vizio, riesce a essere saggista e polemista: si abbandona a un' affabulazione ricca di seduzioni. Nelle sue analisi, tende a iscrivere le diffidenze sempre più diffuse nei confronti delle degenerazioni dell' arte contemporanea dentro una cornice sofisticata, densa di riferimenti storico-letterari. Da moderno-antimoderno, sceglie di interpretare le esperienze del nostro tempo senza mai aderirvi: si mette di lato, cercando di salvaguardare l' aristocrazia dello sguardo. Per comprendere il senso della sua «azione», potremmo richiamarci al Pasolini degli Scritti corsari - insofferente di fronte a ogni omologazione - e a Il tramonto dell' Occidente , monumentale affresco della nostra civiltà. Riprendendo motivi della filosofia di Spengler, in sintonia con il Fumaroli di Paris-New York et retour , Clair parla di «hiver de la culture». Nel «nostro» inverno, la cultura non è più spazio di una religiosità laica, né strumento per «rendere il mondo abitabile», conducendo verso «una trascendenza al di là delle parole». A prevalere è una logica mercantile. Clair spiega: «Siamo stati riportati a terra, tra paesi desertificati». Dunque, addio cultura. «Resta solo il culturale: che è simulacro, imbroglio, scarto, parola di riflessi condizionati, dispersione, vaporizzazione». Stiamo assistendo al crollo di un edificio millenario. Si pensi alla situazione in cui versano i musei. Grandi magazzini: «Depositi di civilizzazioni defunte» - ripete - dove si allineano i dipinti secondo criteri cronologici. Lì si stipano individui solitari, che trovano nel «culto dell' arte la loro ultima avventura collettiva». Vanno al Louvre o agli Uffizi come una volta ci si recava nei templi. Si spostano in gruppo: «Più la gente è sola, più va al museo». Chiassosi pellegrini postmoderni, vanno all' assalto di mostre-evento, che esercitano uno straordinario potere attrattivo. Di fronte alle miserie del presente, scelgono di rifugiarsi nel passato, in un «miscuglio di timida e paurosa reverenza». Preferiscono un quadro a un libro, perché l' immagine possiede un' imperiosa immediatezza, che si concede «senza fatica, in una profusione di significati possibili». Andare in un museo, per loro, è solo un modo per distrarsi. Da più parti, si insegue la risposta del pubblico di massa, dimenticando che, come ripeteva Georges-Henri Rivière, «il successo di un museo non si misura dal numero dei visitatori che riceve, ma dal numero dei visitatori cui insegna qualcosa». La medesima deriva si può ritrovare in molte sperimentazioni delle post-avanguardie, esaminate da Clair anche in un piccolo libro-intervista, Breve storia dell' arte moderna (Skira). Gli scenari attuali sono caratterizzati da due indirizzi. Da un lato, un soggettivismo narcisistico, basato sull' esibizione degli scarti del corpo. Artisti come Serrano, Orlan e Sherman fanno l' elogio della spontaneità e della violenza. Pensano l' opera come «mostruosità, rifiuto, cosa abietta, informe e senza vita». Testimoni di un' estetica del disgusto, esaltano l' ego onnipotente. Trascrivono pulsioni irrefrenabili. Sfidano ogni morale, con un «gesto portato all' estremo limite, e finalmente alla performance». Dall' altro lato, ecco gli eredi di Duchamp: Cattelan, Hirst, Koons, Murakami, i fratelli Chapman. Sostenitori di uno stile non supportato da conoscenze tecniche, i post-dadaisti non frequentano più botteghe. Privi di mestiere, studiano solo le strategie del marketing. Si comportano come nuotatori che, per non affogare, compiono esclusivamente atti disperati. «Poveri noi, a volte, con i loro gingilli senza talento, vengono ospitati in musei prestigiosi o in siti storici come Versailles. Siamo proprio ridotti male...». Dal dopoguerra, dice Clair, è iniziato un drammatico declino, segnato da scandali, da rivoluzioni permanenti, dalla tirannia di un «nuovo» senza origine. Siamo nella geografia del negativo. In un teatro di pantomime burlesche: un teatro «festivo e funebre, venale e mortificante», contagiato da blasfemie. L' artista del nostro tempo non è più un profeta. «Somiglia all' assassino di cui aveva scritto Thomas de Quincey: pratica la dissacrazione, la profanazione, il furore omicida». Come uscire da questo abisso? Clair non ha dubbi. In un' epoca che tende a trasformare tutto in intrattenimento, bisogna riaffermare la grandeur ; sottolineare l' importanza di quello che Robert Hughes ha definito l' «inestimabile», evitando ogni confusione tra prezzo e valore dell' opera. Ritornare alla figurazione; riscoprire sobrietà, equilibrio, sapienza. «L' arte deve darsi di nuovo, come tessuto di continuità, immobilità e silenzio; costruzione che si vede, si dà nel tempo e nel tempo si ritrova». Universo di bellezza e di purezza. Emozione, colpo al cuore. Esperienza mistica, fondata su segrete ragioni spirituali. Artificio per dare voce - è quanto hanno fatto personalità solitarie come Lucian Freud e Zoran Music - a «temi sociali o addirittura politici», a interrogazioni assolute e drammatiche. «Senza questo dramma l' opera non vale niente, non dice niente, è irresponsabile», osserva Clair. In L' hiver de la culture Clair oscilla tra pessimismo e nostalgia. Per un verso, descrive gli esiti di una catastrofe: i contorni di un' apocalisse. Per un altro verso, auspica il recupero di regole classiche. Il suo è un racconto critico radicale, spietato, volto a smascherare falsi miti e fragili leggende. Un racconto che, tuttavia, tende a proporre gerarchie forse desuete tra arti maggiori e arti minori. Per Clair, infatti, esistono frontiere che non bisogna mai valicare tra la cultura alta - fatta di sculture e quadri - e la cultura pop, fatta di cartoon, graffiti, video. «La discesa dall' high culture alla low culture è una discesa agli inferi», ci dice. Un esempio: i fumetti di Art Spiegelman sul nazismo non hanno lo stesso valore dei disegni su Dachau e Buchenwald di Music, Taslitzky e Colville, i quali hanno saputo dare di quegli orrori un «equivalente plastico di incontestabile bellezza». È davvero così? Difendere la specificità «storica» di pittura e scultura suona come un ritorno all' ordine troppo anacronistico. Impedisce di misurarsi con il paesaggio in divenire delle poetiche attuali. Lo sforzo sta non nel rifiutare «tutto» il presente, ma nel riconoscere ciò che, in esso, ha autentica forza. Inutile invocare la ripresa di categorie tradizionali. Meglio confrontarsi con artisti - come Kentridge, Viola, Kiefer o Paladino - impegnati nella riflessione sulle proprietà tecniche del linguaggio di cui, di volta in volta, si servono. Clair coglie solo le opacità del nostro tempo. Sembra dimenticare che, anche nel cuore della notte, esistono improvvisi sprazzi di luce. Proprio nel buio, è necessario aprire gli occhi, in cerca di quelle lucciole di cui aveva parlato Pasolini sul «Corriere della Sera». Commentando quell' intervento, Georges Didi-Huberman ha ricordato, in un recente pamphlet ( Contro le lucciole , Bollati Boringhieri), quanto è bello «rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono - e si amano - le lucciole». Forse, anche nell' «inverno della cultura», ci sono significative sacche di resistenza. Non crede che sia così? «No - risponde Jean Clair - di fronte a me vedo solo un inaccettabile imbarbarimento estetico. Mi creda, non ci resta che essere reazionari».
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