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domenica 31 marzo 2013

Pasqua di Resurrezione

Una santa Pasqua di Resurrezione con una formella del polittico in alabastro del Museo Nazionale di Castello Pandone di Venafro (IS).

Passione di Cristo (part. della Resurrezione), Bottega di Nottingham, XV secolo, alabastro, Museo Nazionale del Molise in Castello Pandone, Venafro, già in Chiesa della SS. Annunziata


...La settima formella conclude la narrazione rappresentando il momento della Resurrezione. Un Angelo ha spostato con facilità la pesante pietra del sepolcro e Cristo ne esce trionfante e benedicente mentre i quattro soldati lasciati a guardia della tomba stanno dormendo. L’immagine del Cristo anche in questo caso è di grande efficacia con quel piede che, uscito dal sarcofago, poggia sulla spalla di un soldato mentre con la mano sinistra regge una croce astile con bandiera sventolante (fonte: Franco Valente: Gli alabastri inglesi tardo-gotici dell’Annunziata di Venafro)

mercoledì 17 ottobre 2012

Il medioevo: un nano sulle spalle di un gigante?


Ciro Lomonte
Il medioevo: un nano sulle spalle di un gigante?
Com’è stato possibile indire la “crociata delle cattedrali”.


Bernardo di Chartres[1] esortava gli allievi ad imitare gli antichi: “noi siamo come nani seduti sulle spalle dei giganti affinché possiamo vedere più cose di loro e più in lontananza”. C’è anche una vetrata della cattedrale di Chartres dedicata a questo detto di Bernardo.

I cristiani si consideravano nani sulle spalle dei giganti – degli antichi – perché potevano vedere più di loro: “…non certo per l’acutezza della nostra vista o la grandezza dei nostri cuori che possiamo vedere più di loro, ma poiché siamo sollevati e portati in alto dalla grandezza dei giganti”. Se potevano lanciarsi in avventure impensabili era grazie alla grandezza di persone come Platone ed altri che li avevano preceduti, che avevano preparato il terreno per le loro conquiste.

Giovanni di Salisbury aggiunge che Bernardo ed altri suoi allievi si davano pena di conciliare l’aristotelismo ed il platonismo. Una delle cose strane della cattedrale di Chartres, dove è vissuto l’impulso platonico in maniera somma, è l’assenza di Platone. Eppure troviamo rappresentato due volte Aristotele. Viene da chiedersi come mai questi chartriani così amanti di Platone preferiscano raffigurare Aristotele.

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Fermiamoci adesso al XII secolo, perché fornisce le premesse indispensabili al tema del nostro incontro. Figura interessante ai nostri fini è l’abbé Suger[2], uomo di Chiesa e di governo, dato il ruolo che questo monastero ha svolto nella storia della monarchia francese.

In tale condizione, Suger riuscì a combinare il servizio di Dio con la fedeltà al re Luigi VII in forza di grandi capacità diplomatiche e amministrative e di una singolare tenacia. In questa prima metà del secolo XII, così ricca di fermenti di ogni genere, Suger è l’anti-Bernardo[3], almeno nella vita attiva. Dalla più influente personalità religiosa del tempo lo distingueva quasi tutto, compreso un certo disinteresse per problemi di dottrina o di regola. Su questo fra Suger e Bernardo ci fu una polemica, ma è significativo che l’altro e ben più famoso avversario di Bernardo, Abelardo, che ebbe l’ardire un po’ altezzoso di smontare il mito di san Dionigi l’Areopagita proprio quando era ospite all’abbazia, non venga preso in considerazione da Suger che per sistemare la faccenda piuttosto imbarazzante della sua appartenenza alla congregazione di Saint-Denis.

Ma ad opporre Suger a Bernardo e ai cistercensi è soprattutto l’aspirazione alla bellezza e al fasto dei luoghi sacri, l’uso dell’arte e dell’architettura in servizio della gloria di Dio. È questa la vera passione di Suger, passione tanto più forte in quanto fondata sull’opera di quel Dionigi al quale era intitolata l’abbazia.

Dionigi (pseudo-Dionigi per noi, forse un anonimo siriano che scrive fra IV e V secolo) inserisce nella sua teologia una metafisica della luce, che combina elementi neoplatonici e cristiani. La luce discenderebbe dall’Uno alla materia terrestre, che, pur oscurata, ne conserva qualche parte; la luce presente nel mondo è così guida e ascesa al divino come le materie che la possiedono: l’oro, le gemme, le vetrate. La luce è poi anche luce architettonica, ampiezza e altezza della costruzione: in questo modo il nuovo coro di Saint-Denis inaugura l’arte gotica dell’Ile-de-France.

Suger restò sempre profondamente convinto dell’utilità dell’impresa e del suo valore religioso e celebrativo. Forse intuì anche la modernità di certe soluzioni artistiche e architettoniche: lo dimostra il libello che egli ha lasciato sull’opera di ricostruzione di Saint-Denis. Che poi a questo si accompagnasse anche un’autocelebrazione, un rinascimentale desiderio di perpetuazione, è ipotesi improbabile quanto suggestiva.

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Il medioevo non sembra davvero un millennio di nani. Pensiamo ad alcuni giganti del XIII secolo: Federico II (1194-1250); S. Luigi IX (1214-1270), che proprio a Saint Denis si occupa della sistemazione delle tombe reali per garantire continuità ideale da merovingi a capetingi; S. Tommaso d’Aquino (1225-1274); S. Bonaventura da Bagnoregio (Giovanni Fidanza, 1217-1274); …

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I romani, grandi pragmatici con un notevole complesso di inferiorità nei confronti della cultura e dell’arte greche, sviluppano l’architettura senza rendersi conto della portata delle proprie conquiste. Saranno i bizantini a farne un uso consapevole (è la cultura classica che dà finalmente frutti maturi, vivificata dalla Rivelazione e dalla venuta del Messia). Gli arabi impiegheranno a piene mani le sofisticherie dell’architettura bizantina.

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L’architettura gotica si scatena. Le caratteristiche delle cattedrali rispecchiano una differente concezione della vita e del mondo. Lo sviluppo dell’edificio è in verticale, con la facciata serrata fra due alte torri. Tutta la struttura s’innalza grazie all’uso d’archi acuti o ad ogive, che permettono altezze mai raggiunte prima, sgravando il peso delle volte a crociera dalle mura laterali, destinate a divenir sovente immense vetrate colorate. Le linee di congiunzione degli archi formano un naturale punto di fuga che vola verso l’alto, l’abside si allontana e la magnificenza del luogo si fa sempre più grande.

Il linguaggio gotico, oggi rivalutato al punto da essere considerato tra i più prolifici e innovatori, ha anche una caratteristica del tutto nuova. Nonostante le differenze locali, più o meno marcate, i tratti nazionali e più spesso regionali, esistono alcune peculiarità distintive del genere, che unificano, per la prima volta dai tempi dell’antica Roma, le espressioni artistiche di tutta Europa.

Storicamente, l’arte gotica s’inserisce in un momento di forte cambiamento. Laddove l’impero entra in crisi, ad esso iniziano a sostituirsi le monarchie, che organizzano il potere politico e si appoggiano saldamente al nuovo ceto, contrapposto alla vecchia nobiltà feudale: la borghesia. Coesistono nel nuovo assetto sociale borghesi, ma anche antichi signori e soprattutto religiosi, che formano vere e proprie comunità e svolgono un ruolo decisivo nell’ambito della cultura in genere, dell’arte e dell’istruzione in particolare.

La cattedrale gotica è stata paragonata alle Summae medievali. Pensiamo all’universo rappresentatovi dagli artisti con pertinenza antropologica e teologica. In realtà il corrispettivo della Summa theologiae di S. Tommaso d’Aquino e della Divina Commedia di Dante Alighieri è la Sagrada Familia di Antoni Gaudí, iniziata nella seconda metà del XIX secolo e ancora in costruzione. Le cattedrali di quest’epoca sono opera corale di un’intera società, una vera crociata incruenta, a volte durata centinaia di anni. Impresa resa possibile dalle corporazioni di artisti e artigiani che avevano i loro spazi riservati (logge) nel cantiere.

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Lo sviluppo della tecnologia dell’arco a sesto acuto è legato alla nascita della scienza (non di quella sperimentale, galileiana). La riflessione sul Logos, nei termini in cui parla del Figlio di Dio il prologo del Vangelo di Giovanni, consente di comprendere che l’universo non è caos, come lo vedeva il pensiero classico, bensì è razionale e conoscibile. Con questo non intendiamo sminuire le sorprendenti conoscenze empiriche dell’antichità. Tuttora infatti non sappiamo come funziona la cupola del Pantheon. Della cultura architettonica del passato ci rimane soltanto il trattato di Vitruvio, i Dieci libri dell’architettura. Probabilmente l’incendio della biblioteca di Alessandria ha causato una perdita irreparabile.

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L’arte bizantina e quella romanica (specie quest’ultima, meno ieratica) testimoniano la grande unità di un’intera cultura. Ogni cosa stava al suo posto, in armonioso ordine gerarchico. Non è un caso che gli artisti prestassero maggiore attenzione prima alle cattedrali, poi alle sedi delle istituzioni e infine alle costruzioni domestiche. Inoltre tutte le arti erano unite, non frammentate. Tutto sommato gli esercizi piuttosto cerebrali della logica tardoscolastica hanno rotto questo equilibrio. È la tentazione luciferina della gnosi, sempre insidiosamente presente nel pensiero cristiano.

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Del gotico è impressionante la libertà artistica: l’universo rappresentato in pittura e scultura, architettura dis-ordinata, rapporto con l’intero cosmo. Questo dà molto fastidio al rinascimento e all’illuminismo.

È Giorgio Vasari ad utilizzare per primo il termine “gotico”, a definire quella che egli considera una barbara manifestazione artistica. L’arte gotica è barbara, appunto, come fosse realizzata dai Goti, perché non corrisponde al canone classico cui il rinascimento intende tornare.

Perduta con gli anni ogni accezione negativa, la definizione rimane ad indicare un’epoca artistica, con caratteri e stilemi comuni. Ma forse rimane molto da fare per comprendere che i veri nani sono gli illuministi che hanno cercato di ridurre la complessità del reale dentro le classificazioni dell’enciclopedia, in particolare il concetto stesso di stile. In fondo un nano può sempre rifugiarsi nell’ironia di fronte alla grandezza dei giganti.


[1] Questo monaco, che morì intorno al 1130, non va confuso con il contemporaneo San Bernardo, di cui si parla di seguito. Qui è citato da Giovanni di Salisbury.
[2] Suger fu abate dal 1122 al 1151 dell’antica abbazia parigina di Saint-Denis.
[3] La sua è un’audacia che può farsi temeraria contro una possanza (quella di San Bernardo e dei cistercensi) che può degenerare in sicumera.

lunedì 30 gennaio 2012

La morte delle cattedrali, di Marcel Proust

In un'epoca di brutture architettoniche e relativismo etico e morale, che si traduce anche in relativismo estetico, un prezioso testo di Marcel Proust, con grazia di sintesi, ci illumina sulla bellezza delle cattedrali (e per traslato dell'arte sacra) in relazione alla funzione religiosa e ci da una serie di imput per cogliere, anche incoscientemente, la grandezza spirituale della simbologia. In basso la premessa della traduttrice Cristina Campo

"Questo studio di Marcel Proust apparve nel «Figaro» del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, l’istituzione delle cultuali pena la confisca di quegli stessi beni da parte dello Stato, la «polizia dei culti», ecc. Legge che, come è noto, fu occasione di vittoria spirituale da parte dell’episcopato francese, obbediente all’ordine di San Pio X: lasciarsi spogliare serbando, in povertà assoluta, il mandato pastorale. Oggi che senza alcuna pressione da parte di governi laici si ode parlare negli stessi ambienti ecclesiastici di «sacrificio necessario» delle cattedrali e del canto gregoriano sembra opportuno rileggere la sottile, sferzante, appassionata perorazione di Proust in difesa dell’immenso tesoro di cui s’è nutrita per secoli – con la fede cristiana – tutta la grande arte di Occidente, e che non è facile comprendere a chi o a che cosa voglia oggi essere immolato [N.d.T.]"

mercoledì 11 gennaio 2012

Iconografia della Croce dipinta

Un interessante articolo dello storico dell'arte Marco Bona Castellotti sul tema della Croce dipinta che ho accompagnato con una selezione di opere. Un percorso di secoli: dal Cristo vivo e trionfante a quello morto e patiens. Alla scoperta del soggetto iconografico che condensa in sé la natura umana e quella divina del Figlio di Dio.

croce 432 Uffizi
Perché il tema della croce dipinta e del suo mistero? Se mi si ponesse la domanda di quale espressione d'arte riflette più intensamente il senso del Mistero di Dio, non potrei che rispondere: una croce dipinta italiana del XII secolo. Ma un altro mistero soggiace al tema della croce dipinta ed è un mistero di carattere culturale: quali sono le ragioni che dettano il passaggio dell'iconografia del Cristo vivo e trionfante sulla croce a quella del Cristo morto e patiens sulla croce in Oriente e in Occidente. Il volto di Cristo della Croce 432 degli Uffizi, che si data intorno alla metà del XII secolo, di autore anonimo, a mio parere rappresenta una vetta assoluta nella storia dell'arte, nella sua apparente mancanza di espressione di dolore e nella sua evidente espressione di mestizia e di lontananza. Nella crocifissione che compare su un codice della Biblioteca Laurenziana di Firenze, detto codice di Ràbula, nome dell'autore delle miniature, probabilmente di origine siriaca, possiamo vedere una raffigurazione del tema già molto progredita nella densità degli elementi che la compongono: Cristo, i due ladroni, a sinistra la Vergine e san Giovanni, Stefanato e Longino (Longino è quello che raccoglie il sangue sgorgato dal costato di Cristo in un calice e lo porta a Mantova, infatti il calice del sangue di Cristo per tradizione è ancora conservato a Mantova e ivi venerato), i tre soldati che giocano sotto la croce e il gruppo delle pie donne sulla destra estrema.

È probabile che il codice sia di origine siriaca, in quanto la raffigurazione di Cristo e di tutti i personaggi che compongono la scena è molto realistica; ad esempio il Cristo veste una specie di gonnellone, il colobium di origine siriaca, porta la barba, diversamente dall'iconografia del Cristo di origine ellenistica che è imberbe. La cultura ellenistica è una cultura più estetizzante, quindi era più probabile che si raffigurasse un volto glabro, imberbe piuttosto che questo, realista, come è realista tutto quanto il cristianesimo di origine orientale. Il sole e la luna compaiono spesso nelle raffigurazioni della crocifissione e hanno una precisa allusione al Vangelo di Luca, che dice che «obscuratus est sol» nel momento della morte di Cristo, ma potrebbero anche stringere un nesso con certe iconografie più antiche, pagane, proprio di area siriaca, che accompagnano la raffigurazione di alcune divinità, come Serapide o Iupiter Heliopolitanus o Mitra, divinità legate al culto del sole, culto dal quale il cristianesimo recupera molti elementi, vedi il concetto di Cristo come Sol invictus.

Arte aniconica

Santa Maria Antiqua, crocifissione
Nei primi tre secoli l'arte cristiana è completamente aniconica, si basa unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo. Con l'avvento di Costantino avviene il trionfo della croce, e Costantino aveva usato come vessillo della sua vittoria la croce stessa. Nel monogramma di Cristo comincia a comparire la croce con l'alfa e l'omega e il monogramma continua anche molto dopo l'epoca costantiniana. Intorno al 340 si colloca anche la leggenda del ritrovamento della vera croce operata dalla madre di Costantino, sant'Elena. Quindi la croce comincia il suo cammino trionfale, ma non un cammino iconografico perché la croce, specialmente la crocifissione col corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell'iconografia, in quanto la crocifissione è un supplizio pagano. Nel 340 il supplizio della croce viene abolito. La croce, come si vede nel grande mosaico absidale di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna del VI secolo, ha ancora una valenza simbolica. L'unico elemento che richiama Cristo è quel medaglione che sta al centro ma tutto il resto invece è ricondotto a pura geometrizzazione. Quali sono le ragioni? Qui cominciano a infittirsi i misteri collegati all'iconografia della croce, e bisogna sconfinare finché è possibile nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle eresie a esso connesse. Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del IV secolo è quella di Eutichio il quale negava la natura umana di Cristo, lasciando in vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato. Si mette ordine nel problema piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si tiene un Concilio detto "in Trullo" nel quale un comma, l'undicesimo, esprime chiaramente il problema: «È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla memoria di Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo». Quindi finalmente si poteva lasciare assoluto spazio alla figurazione anche di Cristo in croce; ma a quali condizioni? A condizione che fosse rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte e anche a questo punto il problema, il mistero, si infittisce e molti hanno cercato di capire perché Cristo è trionfante, non bastando le scritture soltanto a giustificare la vita di Cristo in croce, da morto. Nello straordinario affresco di Santa Maria Antiqua a Roma, dell'VIII secolo, Cristo è vivo, inespressivo, non venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti e incantati, trionfante per la sua solenne calma oltre la morte. È probabile che la spiegazione di Cristo oltre la morte si ritrovi nella risposta alla teoria eutichiana che venne promulgata durante il Concilio di Calcedonia, nel V secolo, nel quale si affermò che nell'unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la natura umana. La compresenza di queste due nature doveva superare il problema del dolore di Cristo morto e anche superare, in forma onnicomprensiva e sintetica, il concetto della passione.

Movimento iconoclasta

L'iconografia di Cristo vivo in croce, trionfante, dura in Oriente fino all'XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII secolo. L'affresco di Santa Maria Antiqua probabilmente appartiene a un anonimo maestro costantinopolitano, lo si data di solito verso la fine dell'VIII secolo, perché a Roma potevano confluire maestri di area orientale in quel momento, per una ragione storica molto semplice, storicamente individuabile, ed è costituita dal grande movimento iconoclasta che si colloca fra il 730 e l'840 all'incirca, che aveva dato vita a una vera e propria guerra di religione, contro tutto ciò che potesse essere immagine del Redentore. Da che cosa nasceva questo movimento iconoclasta, appoggiato fondamentalmente dal Basileo e da gli ambienti intellettuali che si muovevano intorno alla corte? Dal fatto che il realismo di una certa pittura popolare era considerato peccaminoso. Nacque, il movimento iconoclasta, da un giudizio morale che immediatamente si convertì in un giudizio culturale di portata inaudita; fu una rivoluzione che portò a eccidi. Alle origini del movimento iconoclasta ci fu un'influenza islamica. L'arte islamica è aniconica, è pura decorazione; ma furono proprio la base di elementi popolari e gli ambienti monastici, ancora una volta dell'Oriente cristiano, a conservare e custodire una iconografia sacra realistica, perché gli ambienti popolari volevano una immagine davanti a sé, non un'idea.

Mentre in Occidente la raffigurazione di Cristo vivo in croce perdura fino al XIII secolo, quanto invece accade in Oriente due secoli prima è ancora avvolto dal mistero. Per quale ragione nei primi due decenni del Mille, intorno al 1020, compare un codice, miniato nel monastero di Stoudios a Costantinopoli, in una delle cui miniature Cristo viene raffigurato in croce morto? Per quale ragione nel mosaico, stupefacente, di Dafnì, Cristo ha reclinato il capo, il suo corpo si è arcuato, ha perso la fermezza, il tipo di ieraticità, di fissità come invece era fino a quel momento, e il capo si appoggia sulla spalla? Perché gli occhi sono quasi completamente chiusi e Cristo è morto - benché non sia una morte totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno, è una morte quasi disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena che una morte -, gli occhi sono chiusi e qualcosa di nuovo è accaduto nel frattempo? Fra le miriadi di ipotesi che si sono susseguite negli studi moderni, e contemporanei, ce n'è una che è da considerarsi la più attendibile. Proprio nel monastero di Stoudios, verso la fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di mettere ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi: come giustificare che Dio potesse morire in croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la sua divinità pur da morto. Ed era arrivato a questa soluzione teologica: morì, sì, in croce, il suo corpo morì, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, sì che pur morto viveva nello Spirito. Ciò toglieva ormai tutti gli ostacoli alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a confidare nella vita di Dio. Ma perché potesse il fedele essere ancora più certo che in un corpo morto, nel corpo morto di Cristo, la vita ancora proseguisse, venne raffigurato per la prima volta il fiotto di sangue che sgorga dal costato.

Vivo e trionfante

Croce di Rosano
Il grande crocefisso di avorio che proveniva in origine dalla cattedrale di Leon, ora conservato nel Museo Archeologico di Madrid, la croce di Ferdinando I di Castiglia del 1160, dimostra come la tradizione iconografica del Cristo vivo in croce non solo dura, ma anche si diffonde in ambiente latino, in Spagna e specialmente in Italia. Cristo ha un'aria quasi spettrale dovuta al fatto che i grandi occhi spalancati, perché è vivo e trionfante, sono di porcellana, porcellana azzurra, quindi tutto quanto cerca di puntare sul tema della sospensione pur essendo straordinariamente concreto nella sua forza d'urto.
Il fenomeno della fioritura delle croci dipinte è italiano, ma non si sa se la prima croce dipinta fosse italiana. La cosa strana e curiosa è che, comunque, dopo Dafnì, dopo il pensiero che si esprime nel monastero di Stoudios, dopo Nichetas Sthetatos, dopo che Cristo muore o comunque si abbandona in qualcosa di molto simile alla morte in Oriente, in Occidente - che dovrebbe essere così aggiornato culturalmente - Cristo continua a trionfare fino agli inizi del 1200.
In un'altra delle straordinarie croci dipinte italiane, quella di Rosano, conservata agli Uffizi, la croce è mozza nel capocroce, ma è completa in tutti gli altri elementi e cominciano a comparire intorno alla figura di Cristo anche i tabelloni che di solito illustrano in dettaglio tutti i momenti della passione di Cristo, ma Cristo è vivo.
È piuttosto sconvolgente il particolare del volto. Certo l'influenza bizantina è ancora molto forte, ma questa influenza bizantina si deve adattare, entrare nel vivo di una forza di concretezza di immagine che è italiana; ed è vero che Cristo è raffigurato quasi impassibile, non colpito e non espressivamente segnato dal dolore, ma è anche evidente che in questo sguardo così incantato c'è un senso di lontananza, di tristezza, di mestizia che ha come bisogno di espandersi e di trovare una forma nuova per esprimersi e diventare sempre più vero, lasciare la sua condizione totemica che, nella sua inafferrabilità è insufficiente ad appagare anche la pietas di chi vuole invece essere sempre più vicino alla figura di Cristo.
La croce di Pisa mantiene ancora la struttura con i tabelloni ai fianchi di Cristo, che in qualche modo sono il segno di una tradizione antica; inoltre c'è come un eccesso di linearismo: Cristo non è più con gli occhi spalancati, non è più vivo ma è morto, ma questa morte, a ben guardare, ha ancora i caratteri del Cristo morto di Dafnì, il che fa supporre - per la tripartizione della chioma, l'eccesso di linearismo, con cui viene segnata la curva del naso, le palpebre, ma soprattutto l'abbandono incorporeo, quasi lievitante, quasi sognante -, che l'autore è orientale. È certamente la prima croce di area italiana nella quale Cristo muore. E allora è da pensare che l'autore fosse già soggetto a quel fatto assolutamente rivoluzionario nella cultura europea, che rappresenta la ragione certa della svolta di proporzioni colossali, soprattutto di una svolta senza confini che portò anche come riflesso figurativo la morte di Cristo in croce? Questo fatto non è altro che l'avvento di san Francesco e del suo pensiero, della sua predicazione.

L'avvento di San Francesco.

Giunta Pisano, Crocifissione, San Domenico
La meravigliosa croce di Giunta Pisano, databile poco dopo il 1220, oggi si trova nella chiesa di San Domenico a Bologna. Cosa è successo? Quanto è lontano questo volto di Cristo - oramai affondato dalla sofferenza, assolutamente morto, senza ombra di esitazione, e così capace anche di coinvolgere lo spettatore, il devoto, di portarlo con sé - dalla croce di Dafnì. È qualcosa di dirompente quello che è accaduto. Perché nel pensiero e nella predicazione di san Francesco l'identificazione con Cristo morto è diventata uno dei cardini così di tutta quanta la sua spiritualità, così della pietà, e da ciò ne è scaturito tutto quanto ne è conseguito poi sul piano figurativo. Non c'è nulla di più efficace, di più eloquente, utile, a spiegare cos'è accaduto, delle parole di Jacopone da Todi, che in clima francescano a un certo punto canta: «Voglio me stesso renegare e la croce voglio portare». Quasi in un crescendo di dolore terreno Giunta dipinge intorno a quegli anni anche la croce di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Si è abbandonata la linearità ascensionale, tutto quanto è diventato come più concreto, perché il cammino poi continua per quello a cui in fondo si doveva arrivare e si arriverà soltanto con Giotto: portare fino all'estremo della sua verità l'umanizzazione del sacro e quindi anche della figura di Cristo.
La croce dipinta di Coppo di Marcovaldo, nel museo di San Gimignano, è del 1274. Certe resistenze antiche permangono, vedi appunto ancora l'illustrazione episodica dei tabelloni, con le storie di Cristo, e poi l'alleggerimento della figura del Cristo morto che in qualche modo richiama al fatto, alla possibilità di lasciarlo come parzialmente, impalpabilmente in vita. Quanto c'è di nuovo in un pittore come Coppo di Marcovaldo è da attribuirsi a un suo immediato predecessore benché più giovane di lui, che aveva effettivamente fatto un passo anche ulteriore rispetto a Giunta: Cimabue. Allora c'è qualcosa di nuovo, innanzitutto c'è un alleggerimento di certe parti, però non da intendersi come retroattivo, come una volontà di tornare al passato, nell'impalpabilità della figura, ma invece è da intendersi come una volontà faticosa di arrivare a quella umanizzazione del sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato. Per arrivare a questo ci vuole un'altra rivoluzione: consimile a quella di san Francesco anche se proiettata su un altro piano. Proprio in funzione della umanità dichiarata di Cristo, nella sua morte (ma questa volta è una morte fisica, umana fino in fondo e come tale può essere anche attraversata da un fremito di vita, perché nel crocefisso del Tempio Malatestiano Cristo è morto ma è umano e divino), mai ci si è totalmente spinti in una corsa verso la modernità, e la sua concentrazione di umano e divino è definitivamente decretata.

Marco Bona Castellotti

E per terminare questo articolo, mostrando come l'iconografia è sempre viva e un'immagine può evolversi nella storia avendo come saldi punti di riferimento la dottrina cristiana ecco una croce realizzata dall'artista Rodolfo Papa che segna una novità: Cristo è morto ma è come se fosse già in gloria, risorto in quanto stagliato su un cielo luminoso.


venerdì 17 aprile 2009

Genitalpanik

Nel 1969 l’austriaca Valie Export realizza la sua “azione” Genitalpanik; indossando pantaloni col cavallo rimosso offriva agli spettatori un contatto crudo e immediato con la sua sessualità. Il corpo così può diventare inquietante proprio perché rifiutando filtri e finzioni mette davanti agli occhi l’oggetto del desiderio il quale, appunto poichè non veicolato da stereotipi o concezioni maschiliste, appare come un elemento perturbante, che crea panico proprio in quanto sfida la sicurezza dell’uomo nel suo possesso. L’inquietante rapporto con il mitra, poi, non fa che creare un cortocircuito mettendo sullo stesso piano di funzione-azione la vagina e l’arma da fuoco.
L’artista serba Marina Abramović ha recentemente riproposto quest’idea in una performance del 2005, forse in maniera anche più cruda nel mostrarsi al centro della sala nel “sacro” silenzio del museo, con intorno attenti spettatori.


Del resto questo gesto, come molti altri, fa parte della nostra memoria collettiva e inconscia; nell’antichità infatti il significato delle figure femminili che ostentano i genitali era legato all’idea della fertilità e alla capacità rigeneratrice della natura; mostrare la vagina nell’antichità era considerata infatti un’azione salutare, la cui vista produceva serenità e riso. Nel medioevo la trattatistica teologica affida ai genitali femminili un significato e una funzione morali, in quanto sede della fecondazione e simboli del desiderio di generazione; oltre al valore apotropaico di allontanamento dalla cattiva sorte.

Un esempio è questa metopa dal duomo di Modena o questo bassorilievo del XIII sec. definito la Putta di porta Tosa:

Maestro_delle_metope-ermafrodito (la potta di modena)

Putta di porta Tosa valie-export

Come simbolo di seduzione e con una forte accezione di realismo, tipico della sua poetica, il tema sarà ripreso nell’800 da Courbet che creerà una sorta di paesaggio sessualizzato:

Courbet-Origine 1866

Su questo rapporto fra terra femminile e riguardante s’imposta invece un’opera capitale del percorso artistico del Novecento, che può ben considerarsi una delle prime installazioni che si ricordino. È il celebre assemblaggio di Marcel Duchamp intitolato Dati: 1. La cascata d’acqua. 2. Il gas illuminante: al di là di una porta chiusa, da una fessura (che pare di fortuna) si può sbirciare una figura femminile nuda che tiene in mano una lampada a gas.

EtantDonnes

La donna – un manichino ricoperto di pelle di maiale trattata dall’aspetto estremamente convincente – ha una posa assai esplicita che ricorda quella del quadro di Courbet: sdraiata su un prato di sterpi, rappresenta la Terra. Di lei non è possibile, come nel caso della donna di Courbet, scorgere il volto; è la femminilità della natura, sempre pronta a procreare eppure eternamente vergine. A fecondarla, con lo sguardo, quell’uomo, o meglio “l’uomo” che la sbircia dalla fessura della porta senza, però, poterla mai raggiungere. La presenza dell’acqua della cascata sullo sfondo, del fuoco della lampada che tiene in mano, della terra su cui è distesa e dell’aria tersa che riempie il cielo, simboli dei quattro elementi primordiali, originari della vita (terra, acqua, aria e fuoco), fa di questo scorcio uno spicchio di paesaggio sessualizzato. Tanto l’uomo che guarda, quanto l’artista che ha creato l’opera, ma che poi, una volta creatala, si è trovato nella stessa posizione del primo, finiscono per sentirsi immersi in un universo pervaso dalla vita fervente. Qui le colline si ammantano di verde o di giallo autunnale al ritmo del respiro delle stagioni e, come un’immensa madre, la terra morbida dalle chiome di bosco e di foresta, dalle vene pulsanti di acque torrentizie, dai denti bianchi di roccia scintillante, accoglie gli uomini che sanno amarla.
Duchamp impiegò più di vent’anni per realizzare quest’opera che ha un po’ il sapore della summa di una lunga tradizione iconografica, simbolica e, se si vuole, religiosa”
(M. Bussagli).

E per mostrare come tale gesto-raffigurazione non sia solo una velleità artistica ricordo come questo comportamento fosse ben noto ad Ernesto De Martino, che si rifaceva ad un esempio rumeno in Morte e pianto rituale. Questa azione, il ricorso all'esibizione della vulva nei momenti di intensa crisi cosmica o sociale, connessa ad antichissime costumanze documentate nella tradizione mediterranea ed in altre tradizioni, quella giapponese e quella egizia, interveniva quando il gruppo parentale era immerso nel delirio di morte e di abbandono, quanto tutto l'universo sembrava farsi vano per l'emergenza improvvisa del dissolversi nel rituale del lutto.

marina abramovic- Balkan Erotic Epiccfr. M. Bussagli, Il nudo nell'arte; B. Pasquinelli, Il gesto e l'espressione.

sabato 4 aprile 2009

Uta di Naumburg e la strega di Biancaneve



Le sopravvivenze nell’immagine, come spesse volte ho ricordato in questo blog, possono prendere le vie più impensabili e misteriose ma quasi mai inconsapevolmente; anacronismi o flasch back, disturbi della memoria visiva, riproposizioni con polarità diverse di forme significanti non sono casuali e spesso possono celare storie significative. E’ il caso dell’argomento di questo post.

Questa statua raffigura Uta degli Askani di Ballenstedt e si trova nella chiesa di Naumburg, una piccola cittadina della Sassonia che possiede una splendida cattedrale, il più importante edificio della transizione dal romanico al gotico di tutta la Germania e forse di tutta l'Europa. La costruzione fu iniziata ai primi del tredicesimo secolo e conserva magnifiche vetrate coeve e soprattutto, nelle cappelle absidali del coro, tra le agili colonne, le dodici splendide statue dei fondatori (1260 ca.), altissimo capolavoro dell'ignoto maestro di Naumburg. Lei, moglie senza figli di Ekkehard II di Messein, sfuggita al rogo dopo aver subito un processo per stregoneria e vissuta nel XII secolo, in particolare, affiancata alla figura dell’austero principe tedesco suo marito, distaccata visivamente dalla vita attiva del compagno per mezzo del suo scudo e della sua spada, simboli della sua condizione di valoroso guerriero, nel suo pesante abito volge lo sguardo malinconico altrove, mostrando una fredda regalità e una bellezza distaccata senza precedenti per una scultura romanica. Forse per queste morbidezze stilistiche, per queste caratteristiche sorprendenti proprio nella positura e nei caratteri somatici della giovane sposa effigiata, più vicina a certi intenti accademici di fine XIX secolo e al forte sentimento romantico e neomedievale, fu considerata orgoglio iconico dell’intera tradizione teutonica, sia essa post-bismarkiana che socialista e poi considerata simbolo della bellezza ariana nella Germania nazista, celebrata come esempio di arte classica contrapposta all’”arte degenerata” dell’espressionismo e del surrealismo, proprio quando il nazismo, criticando le avanguardie pluto-giudaico-massoniche, cercava di ritrovare anche nell’arte lo spirito del proprio popolo nel suo rapporto secolare con la campagna, la terra e la razza.
Era consuetudine in quegli anni, inoltre, un pellegrinaggio dal velato sapore romantico di Grand Tour, una sorta di “cammino di Santiago dello spirito tedesco” verso la casa dove Nietzsche aveva vissuto; questo viaggio prevedeva una avvincente suddivisione in tappe presso luoghi simbolo della storia tedesca e culturale europea: dalla cittadina universitaria di Göttingen si proseguiva verso Eisenach, Gotha, Erfurth e quindi nella Weimar di Goethe mirando infine, dopo le ennesime, ma tradizionali ed irrinunciabili soste di Jena e Pforta, alla cittadina di Naumburg, autentica Mecca dell’itinerario per ammirare l’effige della dama.
Ecco allora, primo spostamento semantico, come un capolavoro dell’arte romanica diventa, in chiave nazionalista, l’emblema della donna tedesca, fiera ed austera, velata da un profondo sentimento wagneriano di tragicità e immortalità, simbolo dell’ideologia del pangermanesimo; non si presenta nuda come una Venere greca qualsiasi, mediterranea, ma si erge casta ed altera con "il volto bellissimo incorniciato da una benda che ne esalta l'ovale, le labbra tra il serrato e il dischiuso, il diadema con i gigli, l'ampio mantello con il bavero rialzato e nello stesso momento serrato al corpo con un gesto che appare forse più trepido che imperioso".
Wolfgang Reithermann era figlio di emigranti tedeschi giunti in America nel 1912; dopo aver studiato disegno, mettendo a frutto le sue doti innate, dopo un fortuito incontro, divenne uno dei grafici che con Walt Disney, il “mago di Burbank” allora alle prese con una favola d’origini franco-tedesche e la ricerca della “maschera” cattiva, definì tecniche, soggetti e bozzetti del film capolavoro Biancaneve e i sette nani, primo lungometraggio di animazione di Disney che avesse per soggetti non animali antropomorfizzati ma esseri umani.
Quando Disney partì nel 1935 per un tour europeo assieme al fratello Roy, durante il quale acquistarono più di trecento volumi d’arte e illustrati in vista del lungometraggio(è noto come gli alberi parlanti sono tratti da quelli disegnati da Gustavo Doré per la Divina Commedia di Dante), Reithermann lo consigliò caldamente di visitare Naumburg e di osservare da vicino la statua della bella Uta per cucirgli addosso i panni di Grimilde. Fu l’idea risolutiva, così come quella di mettere a Betty Boop i panni di Biancaneve. Disney fu colpito dalla fotografia della statua indicata dal suo collaboratore: «Era proprio bella, anzi impressionava e quasi raggelava, forse era da pensare a lei come modello per quella che ormai tutti erano d’accordo di chiamare col bel nome tedesco di Grimhilde…». La somiglianza è inequivocabile, e l’eco indiscutibilmente wagneriano del nome Grimhilde a questo punto non può essere certo un caso; del resto proprio la favola di Biancaneve derivava dalle celebri favole dei fratelli Jacob e Wilhem Grimm, grandi filologi e studiosi della lingua tedesca, pubblicate nella prima edizione nel 1812. Grimhilde, o meglio, la strega di Biancaneve è Uta di Naumburg con le sopracciglia folte arcuate, gli occhi verdi, seduttivi e malvagi, di Joan Crawford.
Secondo Umberto Eco, però, bisogna dire che il prototipo sarebbe da ritrovare in un'attrice degli anni Trenta, Helen Gahagan, che con vesti quasi uguali aveva interpretato la mitica 'She', bellezza sublime e maledetta, ispirata al romanzo celeberrimo di Rider Haggard.



Seguendo l’interessante libro di Stefano Poggi “La vera storia della Regina di Biancaneve, dalla Selva Turingia a Hollywood” ecco allora una vera spy story, con Goebbels che si infastidisce per il furto dell'icona tedesca, Disney che nel 1935 conosce sul France, di ritorno a New York, Marlene Dietrich e il suo fotografo Paul Horst, nativo di Weissenfels an der Saale, a un tiro di schioppo da Naumburg, di cui spesso visitava il duomo accompagnato dal padre, imbattendosi appunto nella statua di Uta (entrambi erano presenti alla proiezione del film a Los Angeles, in prossimità del Natale 1937; l’attrice era compiaciuta, Horst invece si rammaricò per la corona della matrigna cattiva «che – osservò – ricorda il grattacielo Chrysler di New York» ). I nazisti, con mille pretesti, finirono per non far circolare il film in Germania, con tutto che il film era stato celebrato dal "Berliner Morgenpost", e che Goebbels (uso a regalare a Hitler cartoni animati di Disney, che se li guardava la sera nella cancelleria del Reich, ne possedeva circa 18), reputasse Biancaneve "una grandiosa creazione artistica" nonché "una favola per adulti". La beffa di rendere malvagia la nobile e bella Uta sarebbe servita a infrangere il progetto estetico del Reich che aveva fatto di Uta un’eroina völkisch, emblema della bellezza femminile germanica al punto che il potente ministro della Propaganda di Hitler si sarebbe dato da fare per mettere a tacere la provocazione ordita dagli studi Disney ai danni della Germania.
Al di la delle varie considerazioni sulla vicenda, sugli intrecci politici e culturali e sui vari rapporti (il libro non tiene in giusto conto per esempio che Hitler era un fervente ammiratore di Disney e che il suo film Biancaneve, ispirato dalla favola dei fratelli Grimm, era il preferito del poeta francese e fascista Robert Brasillach, e che inoltre, nel suo viaggio americano, la regista Leni Riefenstahl, che aveva celebrato con Olympia i giochi di Berlino del 1936, fu accolta con amabile simpatia proprio da Walt Disney che non si uniformò al boicottaggio dell’opera della regista organizzato dalla Lega antinazista; senza dimenticare i presunti legami di Disney con la massoneria e il satanismo) rimane l’ennesimo spostamento semantico di un’immagine.
Uta da emblema della donna tedesca ariana, bella, volitiva, fedele e degna di rispetto, si trasforma così nell’affascinante e crudele Grimhilde, diventando archetipo di “malvagia” almeno per la storia della cinematografia animata in un cartone che ha fatto la storia del cinema e che ha le sue basi nei simboli inconsci della cultura umana.




giovedì 19 marzo 2009

Dio-architetto


Dio architetto

"Dio padre misura il mondo col compasso", 1220 circa, miniatura dalla Bibbia moralizzata, Vienna Österreichische Nationalbibliothek.

Dio Padre come sommo Architetto, come demiurgo platonico, col suo compasso (simbolo di Verità e Ragione) costruisce il cosmo e questo cosmo, allucinante, mi ricorda tanto la struttura di una cellula. Ecco come nel 1200 si immaginavano la propria Terra. Il Mondo biologico arriverà molto dopo.

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