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sabato 21 dicembre 2013

Raffaello e le Vie Lauretane - Un autoritratto inedito del pittore

Sono grato ad un bellissimo e pressoché ignorato affresco che vidi per la prima volta nel lontano 1984 in una antica chiesa di proprietà privata, non più officiata da secoli, lungo un percorso lauretano nelle Crete senesi. Un’opera fino ad allora considerata minore nel complesso panorama della pittura senese fra fine ‘400 ed inizi ‘500. Il dipinto, dovuto alla mano di almeno quattro artisti della scuola umbra, mi apparve subito di grande qualità, come hanno confermato poi gli studi che ho fatto, che mi hanno portato a collocarne l’esecuzione nell’anno del Grande Giubileo di Mezzo Millennio, il 1500. Il fatto poi che vi fossero raffigurati, ai lati della Madonna col Bambino, i santi Pietro e Paolo, mi fece pensare ad una committenza partita da Roma, da dove si gestiva il decoro delle Vie Lauretane, da inserire nel quadro delle varie iniziative di abbellimento e arricchimento dei luoghi sacri intraprese per il Giubileo. Inoltre notai che nella figura che rappresentava uno degli altri sei santi dell’affresco si celava l’autoritratto, inconfondibile, del pittore stesso che l’aveva eseguito, che mi fece pensare subito ad un giovanissimo Raffaello. L’impressione venne poi confermata, ad una visione ravvicinata della superficie pittorica, dalla firma “RAPH.V.” che si legge, anche se ormai lievissima, sul colletto del giovane santo guerriero.
Naturalmente anche questo poteva non bastare a fugare i dubbi che si trattasse davvero di opera dello straordinario magister, allora diciassettenne. Le conferme, abbondanti, dovevano arrivare dallo studio che intrapresi su argomenti di cui allora sapevo poco o niente, come le Vie Lauretane, le relazioni dei pellegrinaggi, l’iconografia della Madonna di Loreto e da una attenta e inedita rilettura in chiave “lauretana” della produzione artistica del grande pittore urbinate. In anni di lavoro su questi temi, che sono a questo punto ben lieto di aver dovuto fare, ho potuto andare anche oltre a quanto potesse servire a confermare la mia attribuzione, arrivando a scoprire un Raffaello intimamente devoto della Madonna di Loreto, come ci dicono vari intimi e nascosti accenni iconografici visibili in numerosi suoi dipinti, come il boschetto di allori con la chiesetta in cima e il Monte Conero sullo sfondo, le ricorrenti immagini della Sacra Famiglia, interi tratti di percorsi lauretani e varie toccanti raffigurazioni della Fuga in Egitto, tutti segni di cui la rivista Il Messaggio della Santa Casa-Loreto gentilmente più volte ha dato notizia. Rimane da dire della firma, infine, l’unica che il pittore abbia apposto sui suoi autoritratti. Vedo allora, dalle relazioni di pellegrinaggio del tempo, che fra i vari impegni del buon pellegrino lauretano c’era quello di dedicarsi, alla vigilia della partenza per un gioioso ma anche faticoso e pericoloso percorso penitenziale, a Dio. Cosa c’era di meglio, allora, per un grande giovane artista, la cui forte, pressante personalità creativa stava per esplodere, che debuttare ufficialmente in un percorso lauretano sotto la protezione della Madonna, esprimendo oltre che interiormente anche visivamente questa sua dedica con tanto di immagine e firma, una volta per sempre, quale entusiasta artefice e devoto pellegrino, nell’anno del fastoso Giubileo di Mezzo Millennio? La conoscenza inattesa di un “patrono” artistico così grande può contribuire a dare slancio alla riscoperta delle Vie Lauretane in Toscana e non solo, a lungo localmente dimenticate e sulle quali si registra ora una ricca, crescente fioritura di studi.

mercoledì 29 febbraio 2012

Giovanni Reale - La stanza della Segnatura

Il filosofo Giovanni Reale, già autore di importanti studi sulle stanze di Raffaello, spiega in un sintetico quanto interessante articolo sul Corriere i significati della Stanza della Segnatura in Vaticano.


Le tre vie al Vero. Così Raffaello sconfigge il tempo. «Parnaso», «Scuola di Atene», «Disputa»: è il ruolo eterno di arte, filosofia e religione.

Nel 1511 Raffaello terminava i suoi grandiosi capolavori nella Stanza della Segnatura, studio del Pontefice, i quali esprimevano un vero e proprio programma ideale del pensiero della Chiesa rinascimentale. I tre grandi affreschi, che hanno assunto i titoli Il Parnaso, La Scuola di Atene e La Disputa, rappresentano, infatti, quelle che sono state considerate le tre grandi vie che l'uomo percorre nella sua ricerca del Vero e dell'Assoluto: l'arte, la filosofia e la religione. L'arte ricerca l'Assoluto mediante la poesia (espressa in varie forme), la filosofia mediante la ragione, e la religione mediante la fede. Raffaello rappresenta tali concetti in forme immaginifiche pressoché perfette e come paradigmi che si impongono nella dimensione del classico. Robert von Zimmermann nel suo trattato di estetica (1865) scriveva: «Shakespeare non è meno classico di Omero; anche Raffaello sta accanto a Fidia». E precisava: «La pura forma estetica del classico non include alcuna determinazione di tempo; il classico sta nel tempo, la classicità sta fuori dal tempo». E in effetti, quegli affreschi di Raffaello rimangono vivi oggi come cinquecento anni fa, e incantano chi li guarda, come incantavano il pontefice Giulio II che li aveva commissionati.

La Stanza della Segnatura, originariamente destinata a biblioteca privata di papa Giulio II, contiene i più famosi affreschi di Raffaello. Il tema del «Bello» è raffigurato nell’affresco del «Parnaso» (1510-11) con Apollo e le Muse e, tutt’intorno, diciotto poeti. Tra questi: Petrarca, Saffo, Omero, Dante, Virgilio, Boccaccio e Ariosto.

Il Parnaso è l'affresco meno studiato e meno gustato, anche perché è tagliato in basso al centro dalla parte alta di una porta che risulta disturbante. Alcuni rimangono perplessi per l'Apollo che sta al centro, e che si differenzia nettamente dalle raffigurazioni greche classiche. Ma esso rappresenta l'immagine tipicamente rinascimentale del dio, e rispecchia il concetto platonico dell'«ispirazione poetica», come viene presentato nel Fedro : «L'invasamento e la mania che provengono dalle Muse, impossessatesi di un'anima tenera e pura, la destano e la traggono fuori di sé nella ispirazione bacchica in canti e in altre poesie...». Incantevoli sono poi le Muse, raffigurate in molti casi con gli strumenti che le caratterizzano. I quattro gruppi di poeti sono suddivisi in lirici, epici, bucolici e tragici, secondo una formula esemplare; e alcuni di essi sono raffigurati in modo assai efficace, come per esempio Saffo, Omero, Dante e i tre grandi tragici greci Eschilo, Sofocle e Euripide.

Nella Stanza della Segnatura il «Vero razionale», o la filosofia, è rappresentato dall’affresco della «Scuola di Atene» (1509-11), con la raffigurazione dei grandi filosofi (al centro Platone e Aristotele)

La Scuola di Atene è certamente l'affresco di Raffaello più noto e più studiato a livello internazionale.Friedrich Adolf Trendelenburg scriveva che in esso i personaggi non rappresentano «un passato», bensì «la permanente attualità della storia» del pensiero, e quindi una storia contratta in un eterno presente. Edgar Morin, in Pensare l'Europa , scrive che nel Medioevo la «Scuola di Atene» era morta, la sua porta fu riaperta nel Rinascimento, e la sua perennità fu consacrata proprio in questo affresco nella Stanza della Segnatura in Vaticano. E conclude: «La riattivazione dell'eredità greca, merito originale del Rinascimento, diventa permanente. Da questo momento il pensiero, la poesia e l'arte europea rimangono ancorati a questa fonte». Raffaello rappresenta il pensiero greco dalle origini alla fine in ottica platonica, con le precise indicazioni dategli da Fedro Inghirami, straordinario conoscitore e amante dell'antichità. Inizia dalla raffigurazione del messaggio degli orfici (alla sinistra per chi guarda) con un sacerdote (raffigurato con il volto dello stesso Inghirami) che sta leggendo, da un libro appoggiato sulla base di una colonna, la grande rivelazione secondo la quale l'anima dell'uomo era un demone divino, che per un peccato commesso era stato rinchiuso nel carcere di un corpo, ma che attraverso una serie di reincarnazioni ritornerà a essere un dio fra gli dèi. La base su cui è appoggiato il libro orfico costituisce un simbolo del pensiero greco, che si svilupperà proprio come una colonna spirituale appoggiata su quella base. A fianco sono rappresentati i pitagorici e i filosofi presocratici che si sono ispirati all'orfismo, e in particolare Empedocle ed Eraclito (con le fattezze di Michelangelo). Nella parte destra è raffigurato lo splendido gruppo dei geometri con Euclide (nelle sembianze di Bramante), con accanto due personaggi simboleggianti la geometria e l'astronomia. Al centro, seduto sulla scalinata, è raffigurato Diogene il Cinico. In alto a sinistra sono rappresentati tre sofisti, Prodico, Protagora e Gorgia. Uno dei socratici vorrebbe scacciarli dal consesso dei filosofi, mentre Gorgia gli sta rispondendo: eppure ci siamo anche noi! Il gruppo dei socratici è splendido. Sono ben riconoscibili, fra i vari personaggi, Alcibiade e Senofonte. Al centro spiccano le due figure più belle: Platone (con il viso di Leonardo da Vinci) e Aristotele, con accanto gruppi di loro discepoli rappresentati in maniera superba. Dopo un gruppo che rappresenta un maestro con discepoli, è raffigurato da solo Plotino, che nel Rinascimento venne rivalutato e ammirato (nel 1492 Ficino pubblicava la traduzione delle Enneadi che ebbe importanza epocale). Viene raffigurato isolato, in quanto sosteneva che il vertice della vita perfetta consisteva in una eliminazione di tutto, e in una fuga verso Dio «da solo a Solo».

Il tema del «Vero soprannaturale» è illustrato nella «Disputa del SS. Sacramento» (o la Teologia, 1509), dipinta su uno dei lati della stanza che, sino alla metà del XVI secolo, non servì da biblioteca, ma da tribunale della Santa Sede, la «Segnatura Gratiae et Iustitiae», presieduto dal pontefice

L'affresco intitolato La Disputa è ispirato soprattutto al tredicesimo libro delle Confessioni (come ha dimostrato Heinrich Pfeiffer). In effetti Agostino, in quanto platonico, nel Rinascimento era stato rivalutato rispetto a Tommaso. Raffaello lo rappresenta a destra in modo imponente, mentre sta dettando a uno scrivano, mentre San Tommaso è raffigurato alle sue spalle a mezzo busto. «Disputa», sulla base del testo agostiniano, non significa una discussione, ma una «rivelazione» che viene data all'uomo dall'alto, e non (come molti hanno pensato) sul sacramento dell'Eucaristia, che nel grande affresco rappresenta solo un piccolo particolare, ma sulla realtà in generale, ossia Dio, la Trinità, le vite angeliche, gli evangelisti, i santi e gli uomini che cercano e discutono di Dio, rappresentati su tre livelli: quello sopraceleste, quello celeste e quello terrestre. La Trinità è poi rappresentata come un cuneo verticale, con al vertice Dio Padre, sotto di lui Cristo, cui segue la colomba simbolo dello Spirito Santo, con al di sotto di tutti l'ostia consacrata, simbolo di Cristo incarnato (e quindi della Trinità). La composizione di questo affresco è stata probabilmente la più impegnativa per Raffaello, come dimostrano le numerose prove e i bozzetti che ci ha lasciato. Alcuni lo considerano come il vertice artistico di Raffaello. Johann Friedrich Overbeck scriveva: «Giammai forse nella pittura è stato creato alcunché di più sublime di questa gloria della Disputa. Si vede il cielo aperto, e si resta rapiti come Stefano». E qualcuno lo ritiene superiore alla stessa Scuola di Atene.

Questi tre capolavori danno veramente il meglio di Raffaello, e fanno capire quanto sia vero ciò che Friedrich Nietzsche diceva di lui, considerandolo un vulcano e una straordinaria forza creativa naturale senza pari e irripetibile, quando scriveva: «Solo perché non sapete che cosa sia una natura naturans come quella di Raffaello, non vi fa né caldo né freddo apprendere che essa fu, e che non sarà più».

lunedì 5 dicembre 2011

In giro per mostre a Roma - da Raffaello e Michelangelo a Caravaggio

Torno a scrivere dopo diverso tempo e vorrei riprendere con alcune impressioni derivate dalle ultime frequentazioni romane. Si parla di mostre e si deve allora subito distinguere tra due prospettive: la visita per ammirare dal vivo capolavori e opere studiate solo sui libri, in un percorso esclusivamente di fruizione estetica, e la visita che dovrebbe lasciare una traccia anche livello formativo, ovvero dovrebbe accrescere le nozioni su un determinato periodo storico seguendo un'ottica scientifica e non esclusivamente didattico-manualistica. Il problema principale è la degradazione della mostra a semplice e basso evento di consumo turistico-propagandistico. Lo spiega bene Montanari nell'articolo Il sonno della ragione genera mostre quando scrive "Per rendere vero il luogo comune consolatorio per cui ‘le mostre avvicinano al patrimonio artistico e alla cultura il grande pubblico’, esse dovrebbero, al contrario, stimolare il senso critico ed il pensiero, non l’evasione e la distrazione. Una mostra potrebbe definirsi educativa se il pubblico uscisse dall’ultima sala persuaso a recarsi in un museo, in una chiesa o in una libreria per colmare alcune delle lacune intellettuali o culturali emerse durante la visita. E invece accade tutto il contrario". Per secondo spesse volte ci si trova con allestimenti completamente finti e spaesanti che alterano la percezione dell'opera spingendo più verso un'atmosfera di maniera che verso una lettura pulita e funzionale. Primo imputato è la mostra Il rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello. Ambiente inadeguato, allestimento pessimo e claustrofobico, tentativo di definizione di un periodo di per se complesso e articolato (la prima metà del 500), scelta di opere prese in larga parte da musei romani (e quindi fruibili nel loro contesto in un raggio di poche miglia), inserimento di opere non legate al contesto romano (come la scelta dei Raffaello, di certo i primi che hanno avuto a disposizione, tanto per inserire il gettone di presenza). Tra le poche cose che si salvano, oltre ribadisco la valenza estetica delle singole opere, il commovente originale della celebre lettera di Raffaello a Leone X, lo splendido disegno di Raffaello del Pantheon (tra le prime vedute esatte di monumenti romani), la produzione privata dell'ultimo Michelangelo con il confronto delle tavole (autografe?) della crocifissione e della pietà. 



La mostra Roma al tempo di Caravaggio appare ancor più un disastro. Le chiese romane sono state completamente depredate di pale d'altare (ben 40 in mostra) esposte poi su falsi e stucchevoli altari in finto marmo che rimandano un'atmosfera cupa e cimiteriale, da film dell'orrore. Se lo scopo era una ricognizione scientifica, infatti, niente di meglio sarebbe derivato da un allestimento pulito e minimale, anche asettico, che mettesse in evidenza l'opera prima di tutto e non la relegasse a pura immagine di se stessa. La Madonna dei Pellegrini, all'ingresso, in una posizione per nulla meritevole messa a confronto con non notevole tela dalla scuola dei Carracci. Percorso con poco filo logico, se si esclude una divisione prettamente cronologica. Troppe tavole didattiche sotto le opere che rischiano di smarrire lo sprovveduto visitatore Errore nelle iconografie con l'Allegoria di Roma di Valentin de Boulogne che diventa una retorica Allegoria dell'Italia. Ennesimo tentativo di far passare per originale di Caravaggio una tela privata (il sant'Agostino) recentemente scoperta. Quindi poca scientificità. Si spera che contributi interessanti vengano dalla seconda parte del catalogo, con nuovi saggi (ma anche il catalogo generale risulta interessante), e dal ciclo di conferenze: da non perdere quella della Macioce sul Caravaggio attraverso le incisioni (tema pochissimo affrontato), quella sulla pittura di paesaggio a Roma e su Roma vista da Milano. Tra le cose interessanti in mostra, invece, lo splendido lacerto della grande tela di Sezze di quel geniale caravaggista che fu Orazio Borgianni (dal quale questo blog, finalmente lo sveliamo, ha preso l'immagine di copertina), il poetico confronto tra le due Madonne con bambino di Orazio e Artemisia Gentileschi, l'altro confronto tra l'Angelo custode di Antiveduto Grammatica e il Tobiolo e l'angelo dello Spadarino, la bellissima Sacra Famiglia di Cavarozzi, il Martirio di Santa Caterina di Reni, lo sfondo neutro della sepoltura di Cristo di van Baburen da San Pietro in Montorio. Un recente articolo di Tomaso Montanari sulla mostra Roma e Caravaggio, scopriamo gli altarini, sintetizza bene tutti i punti negativi dell'esposizione.


Infine, girando nei pressi di Piazza Navona, non ho potuto non notare il Pasquino restaurato. Incredibilmente, ignorando del tutto la sua gloriosa storia, non è più possibile affiggere invettive e satire sul basamento poichè è stato posto a fianco un'anonimo totem di ferro che dovrebbe accogliere i versi.


Il Fatto Quotidiano, Tommaso Montanari, 2 dicembre

ALTO TRADIMENTO. Roma al tempo di Caravaggio non è solo l’ennesima kermesse caravaggesca promossa da Rossella Vodret nei due anni che sono passati dalla sua nomina a soprintendente di Roma: è letteralmente un atto di alto tradimento, culturale e professionale. La frenesia caravaggesca della dottoressa Vodret è tale che, al posto del Bacco di Bartolomeo Manfredi, a Palazzo Venezia c’è un cartello che informa che l’opera arriverà solo il 1 dicembre, al ritorno dalla inconsistente mostra su «Caravaggio en Cuba», sempre realizzata su progetto della Vodret.

Insomma, per disciplinare il traffico aereo dei Caravaggio movimentati dalla soprintendenza di Roma ormai ci vuole una torre di controllo dedicata. Ma la cosa più grave di Roma al tempo di Caravaggio è che quasi quaranta opere sacre sono state strappate dagli altari veri che ancora le accolgono nelle chiese per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo, in una specie di galleria cimiteriale per cui davvero non c’era bisogno di scomodare Pier Luigi Pizzi. In questo momento le chiese di Roma sono dunque ridotte ad un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l’unico luna park in attività: la stessa Vodret ha, per esempio, autorizzato l’espianto dalla Cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo) e la spedizione a Mosca della Conversione di Paolo di Caravaggio, un atto che distrugge (pro tempore, salvo incidenti) uno dei pochi ecosistemi artistici del tempo di Caravaggio che ci sia arrivato intatto.

E ai musei non va molto meglio: i pochi caravaggeschi dell’appena inaugurato Palazzo Barberini che non sono a Cuba sono stati deportati in Piazza Venezia, e anche la Galleria Borghese e la Corsini hanno pagato un alto prezzo all’ambizione della soprintendente. D’altra parte, quale sia la considerazione della soprintendenza per i musei, lo dice lo stato del disgraziatissimo Museo Nazionale di Palazzo Venezia, che sembra sempre il parente povero della mostra di turno nello stesso palazzo un degrado espresso perfettamente dal busto quattrocentesco di Paolo II ridotto a decorazione del guardaroba della mostra. E sta proprio qua l’alto tradimento: è la soprintendente stessa a lacerare il fragile e unico tessuto artistico romano che è pagata per difendere. In un conflitto di interessi intollerabile, la Rossella Vodret curatrice della mostra chiede i prestiti alla Rossella Vodret soprintendente: e, non sorprendentemente, li ottiene tutti. Tutto questo per una mostra che non ha nulla - ma davvero nulla - a che fare, non dico con la ricerca scientifica degli storici dell’arte seri, ma nemmeno con un buon progetto di divulgazione. Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele E. M. Emanuele, scrive in catalogo che l’«assunto scientifico dell’esposizione è il confronto tra le due correnti del naturalismo e del caravaggismo»: che, invece, sono la stessa cosa.

Ma non bisogna fargliene troppo carico, perché è davvero difficile capire quale sia, quel famoso assunto: il “tempo di Caravaggio” (morto nel 1610) viene infatti dilatato fino al 1630, dimenticando un secolo di distinzioni storico-critiche e ammannendo al pubblico un polpettone indigeribile. Fin dalla prima sala (dove tiene banco un confronto, malissimo impostato, tra un capolavoro di Caravaggio e una tela della bottega di Annibale Carracci), la mostra appare dilettantesca, slabbrata, disinformata: una mostra come la si sarebbe potuta fare nel 1922. E nel 2011, con un tavolo pieno di monografie, tre milioni di euro in tasca e una buona ditta di traslochi a disposizione, l’avrebbe fatta meglio un laureando qualunque dei (pessimi) corsi triennali in Valorizzazione dei Beni culturali.

Ciliegina sulla torta, ecco la strizzatina d’occhio al mercato dell’arte. Finalmente tutti possono vedere il quadro lanciato a giugno come un Caravaggio a prova di bomba. L’esame diretto conferma che il SantAgostino è un gran bel quadro: ma dipinto trent’anni almeno dopo la morte del Merisi. A parte la curatrice della mostra, il proprietario e la professoressa Danesi Squarzina (che lo ha pubblicato), nessuno crede all’attribuzione a Caravaggio. Una pattuglia di specialisti autorevoli (tra cui Ursula Fischer Pace) pensa che sia un’opera del cortonesco Giacinto Gimignani, mentre a me ricorda addirittura le primissime prove di Carlo Maratti nella bottega di Andrea Sacchi (1640 circa).

Comunque sia, siamo lontani anni luce da Caravaggio: e ora c’è solo da sperare che non si provi a rifilarlo allo Stato italiano per qualche milione di euro. Non molti sanno che in Senato giace da mesi un’interrogazione in cui il senatore Elio Ianutti (IDV) chiede al ministro per i Beni culturali perché Rossella Vodret ricopra il posto di Soprintendente di Roma senza esser mai riuscita a superare un concorso da dirigente. Ebbene, dopo il colossale disastro di «Roma al tempo di Caravaggio», la soprintendente di Roma potrebbe prendere in considerazione una soluzione che farebbe risparmiare tempo al Senato e al suo ministro: dimettersi.


giovedì 6 maggio 2010

Raffaello ritrovato - la Perla modenese

Per decenni e' stata ritenuta una copia e quasi dimenticata in un deposito nel modenese. Ma quella testa di donna, seppure a prima vista di foggia ottocentesca, e' apparsa subito stranamente raffaellesca, troppo raffaellesca per non meritare un esame piu' approfondito. E in pochi mesi di analisi a Firenze ecco la verita': il dipinto e' proprio del maestro di Urbino, frammento superstite della prima redazione della celeberrima 'Madonna della Perla' oggi conservata al museo del Prado di Madrid. La scoperta si deve alla sensibilita' di Mario Scalini, soprintendente ad interim di Modena e Reggio Emilia e titolare della soprintendenza di Siena e Grosseto, che si occupa, tra l'altro, del progetto di allestimento del Palazzo Ducale di Sassuolo e della valorizzazione della Galleria Museo e Medagliere Estense di Modena. Non appena ha potuto osservare il dipinto, Scalini non ha potuto fare a meno di pensare che quella 'copia' era molto particolare. ''Il primo indizio - spiega Scalini - e' stato il tratto finissimo del disegno, ma a mettermi sulla strada giusta anche la cornice, una superba cornice 'di galleria' secentesca, inusuale se la 'testa' fosse stata di poco pregio''. ''Il fatto - aggiunge la restauratrice Lisa Venerosi Pesciolini, che ha coordinato le analisi realizzate dal laboratorio fiorentino Art-Test - che la tavola con il dipinto fosse stata piu' volte restaurata, nel '600 e '800, sottolinea come fosse tenuta in grande considerazione. Le analisi effettuate sotto gli strati di restauro, che hanno via via nei secoli addolcito la figura rendendola piu' affine ai gusti successivi, hanno poi potuto svelare il disegno originario e non smentire l'intuizione di Scalini''. La 'perla modenese', cosi' come e' stata battezzata da Scalini e Venerosi Pesciolini, e' ricordata nell'inventario della quadreria Estense del Palazzo Ducale, redatto nel 1663, ove figura infatti un 'ritratto di donna' riferito a Raffaello, che non risulta tra i dipinti ceduti all'Elettore di Sassonia nel 1746, ne' e' tra quelli dispersi successivamente. Alla fine delle indagini il dipinto appare impostato dal maestro e condotto a perfezione dopo la sua morte, con pochi tocchi, dall'allievo Giulio Romano, come alcune altre opere estreme dell'urbinate (ad esempio la celebre Trasfigurazione dei Musei Vaticani). Di fatto, sottolinea Scalini, si tratta del frammento autografo superstite della prima redazione, di mano di Raffaello, della celeberrima 'Perla' del Prado, che, ormai quasi concordemente ritenuta di Romano, mostra alle radiografie una quadrettatura di partenza che rende evidente come questa derivi puntualmente da una composizione del maestro sinora ignota. ''La scoperta - continua Scalini - e' di estrema importanza, sia in assoluto che per la valorizzazione del patrimonio culturale estense conservatoci, e sara' illustrata al pubblico in anteprima nell'ambito delle conferenze finanziate dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e Reggio Emilia. In futuro e' gia' in programma una esposizione a Siena''. Le analisi sono state finanziate dalla banca popolare dell'Emilia Romagna. (via: ANSA)



sabato 5 settembre 2009

Picasso, Raffaello e la Fornarina

L’arte non è casta […] se lo fosse non sarebbe arte”. Questa frase di Pablo Picasso ci fa comprendere come l’eros sia uno dei temi e delle ossessioni nelle opere dell’artista a cominciare dal "Bordello filosofico" del 1907, più noto come “Les demoiselles d'Avignon”, per passare alle varie tauromachie.

L'eros di Picasso è un "eros mediterraneo" dalle tinte forti e dal tratto deciso che trova spesso la sua strada tra le maglie della grande pittura del passato rivisitata con un occhio alle forme ed un altro verso quella tensione inconscia verso l’erotismo e la sensualità che l’artista rintraccia nei capolavori e che trasfigura con la sua linea sensuale e vibrante, una linea continua che da forma alle cose e alle sue visioni, che scompone il corpo distorcendolo in pose acrobatiche.

Nel 1968 l’ottantasettenne Picasso è rintanato nella sua casa sulla collina di Mougins con Jacqueline. Lavora incessantemente, giorno e notte, in preda a una febbre creativa inarrestabile. Seduto al tavolo della sala da pranzo, una stanza accogliente colma di libri e di tele, incide senza tregua, sperimenta, asseconda un’urgenza espressiva dirompente che a tratti rasenta l’ossessione.
Lo fa per sei mesi; sei mesi in cui genera 347 carte che sono il racconto di una vita, la narrazione sagace ed ironica del suo immaginario erotico ed onirico. Tra queste carte le performance erotiche di Raffaello e la Fornarina, con personaggi illustri (tra cui Michelangelo ed egli stesso) in veste di occhiuti voyeur.

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E questa è l’interpretazione di Milo Manara della scena, tratta dall’album “Modelle”.

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Picasso, l'arte, le donne (Vedi).

giovedì 16 luglio 2009

Le zucchine della Farnesina

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La Villa Ghigi realizzata dal Perruzzi tra il 1506 e il 1509, definita la Farnesina dopo l'acquisto fattone dal cardinale Alessandro Farnese nel 1590, situata a via della Lungara, è forse uno degli esempi più belli di quella riscoperta del mondo classico avvenuta durante il Rinascimento. Costruita col preciso scopo di essere preposta a villa delle delizie, questa residenza suburbana, ma inserita pienamente nel circuito stradale principale della Roma del tempo, vanta un ciclo di affreschi di inestimabile rilevanza: vi lavorarono tra i tanti il Peruzzi, Sebastiano del Piombo, il Sodoma,Raffaello e la sua bottega.

Proprio alla bottega di Raffaello si deve forse il ciclo di affreschi più famoso, quello con le Storie di Amore e Psiche, realizzati nella seconda loggia la quale in origine costituiva la loggia di accesso alla dimora. Di questo ciclo, concepito come un pergolato al di là del quale si scorgono porzioni di cielo in cui si svolgono gli episodi della favola narrata da Apuleio nell'Asino d'Oro, volevo sottolineare però gli splendidi festoni realizzati da un aiuto di Raffaello: Giovanni da Udine.

Per il finto pergolato questi realizzò una decorazione, ispirata agli affreschi romani, che comprende un trionfo di frutta e di fiori (se ne contano circa 150 specie diverse) del tutto verosimili e assemblati con una tale fantasia e vividezza che nessun altro pittore riuscì ad eguagliare.

Tra i tanti capricci realizzati da Giovanni vengono subito all’occhio una serie di composizioni basate su zucchine, cetrioli ed altre verdure lungiformi, che prendono effettivamente la forma di falli e che si pongono quali elementi apotropaici di fertilità e di buon augurio per il banchiere Ghigi.

Il più notevole, ricordato anche dal Vasari, è il capriccio posto sopra Mercurio (divinità anche della fecondità) ed indicato dalla stessa divinità.

“…sopra la figura di un Mercurio che vola ha finto per Priapo una zucca attraversata da villucchi, che ha per testicoli due petroncioni, e vicino al fiore di quella ha finto una ciocca di fichi brugiotti grossi, dentro a uno dei quali, aperto e troppo fatto, entra la punta della zucca col fiore, il quale capriccio è espresso con tanta grazia, che più non si piò alcuno immaginare”.

Vasari, vita di Giovanni da Udine.

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Su questo ottimo sito troverete un’analisi di tutti i frutti ed i fiori del pergolato, con la loro precisa collocazione.

http://www.hort.purdue.edu/newcrop/udine/default.html

mercoledì 25 marzo 2009

La bocca del ventre

Raffaello-santa margherita
Santa Margherita d'Antiochia fu una santa importante, in particolare nel medioevo, quando fu inserita tra i "quattordici Santi Ausiliatori", nome col quale venivano designati un gruppo di 14 santi alla cui intercessione il popolo cristiano soleva far ricorso nei momenti difficili dell'esistenza. Essi sono: Acacio, Egidio, Barbara, Biagio, Cristoforo, Ciriaco, Dionigi, Erasmo, Eustachio, Giorgio, Caterina, Margherita, Pantaleone e Vito.

Secondo la Passio un giorno, mentre conduceva le pecore al pascolo, Margherita, venne notata da Oliario, nuovo governatore della provincia che, rimasto colpito dalla sua bellezza, ordinò che gli fosse condotta dinnanzi. Dopo un lungo colloquio il governatore non riuscì nell'intento di convincere Margherita a diventare sua sposa, essa si dichiarò subito cristiana e fu irremovibile nel professare la sua fede e difendere la sua verginità. Il governatore, dopo un lungo interrogatorio, alle risposte di Margherita, controbatte con la flagellazione e l'incarcerazione. Secondo la tradizione, in carcere a Margherita appare il demonio sotto forma di un terribile drago, che la inghiotte, ma lei armata da una croce che teneva tra le mani, squarcia il ventre del mostro sconfiggendolo.

Da questo fantastico episodio nacque nella devozione popolare quella virtù riconosciuta a Margherita di ottenere, per la sua intercessione, un parto facile alle donne che la invocano prima dell'inizio delle doglie, diventando così protettrice delle partorienti.

In questa stupenda opera di Raffaello del 1518, presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, vediamo la santa, in una posa classica a chiasmo, reggere il crocefisso, impassibile dopo l'uscita dal ventre del mostro; quello che mi colpisce però è l'orrenda bocca del drago così orribilmente spalancata ed innaturale, un vuoto e un grido rosa che calamita subito l'occhio dell'osservatore. In questa bocca allora, considerando il ruolo di Margherita quale protettrice delle partorienti e le modalità della sua uscita dal ventre della bestia, non è assurdo vedervi la rappresentazione (non so quanto inconscia) di una enorme vagina.

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