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giovedì 19 marzo 2015

sabato 17 maggio 2014

Cristianesimo e Astrologia - Il cielo cristiano di Schiller

Nel 1627 l'astronomo gesuita Julius Schiller disegnò il “Cielo stellato cristiano”, che proponeva di sostituire il mondo mitologico greco con quello ispirato al Vecchio e al Nuovo Testamento, per cui le Costellazioni zodiacali vennero denominate con i nomi dei dodici Apostoli, mentre le Costellazioni boreali e australi con i nomi dei personaggi del Nuovo e Antico Testamento. Questa idea fu ripresa anche da Andrea Cellario nel 1661, ma poi il progetto decadde nella fatidica data del 1666, quando Astronomia e Astrologia furono separate dagli "scientisti mentaloidi". Julius Schiller pubblicò nel 1627 ad Augusta il suo "Coelum Stellatum Christianum", accompagnato da eleganti disegni che raffiguravano i nuovi signori delle stelle.


Questo è l’elenco delle costellazioni dello Zodiaco con il corrispondente sostituto cristiano:

Ariete – Pietro
Toro – Andrea
Gemelli – Giacomo Maggiore
Cancro – Giovanni Evangelista
Leone – Tommaso
Vergine – Giacomo Minore
Bilancia – Filippo
Scorpione – Bartolomeo
Sagittario – Matteo Evangelista
Capricorno – Simone
Acquario – Giuda Taddeo
Pesci – Matteo


"Coelum Stellatum Christianum" di Julius Schiller, Augusta 1627

Schiller tentò di sostituire anche i nomi dei corpi del sistema solare: il Sole, che è vita e luce, sarebbe diventato Cristo, re del cielo cristiano; Mercurio sarebbe stato rinominato come Elia di Tisbi, annunciatore della nascita di Cristo e profeta del secondo Avvento, salito al cielo con un carro di fuoco; Venere avrebbe dovuto prendere il nome da Giovanni Battista, colui che annunciò la prossima venuta di Gesù, così come il pianeta annuncia il sorgere del Sole; Marte sarebbe stato sostituito da Giosuè, forte in battaglia, colui che portò il popolo di Israele verso la Terra Promessa; Giove sarebbe stato chiamato Mosè, prediletto da Dio e dagli uomini, il principe dei popoli che ha ricevuto i precetti direttamente da Dio; Saturno, padre degli dei che tra le stelle erranti (i pianeti) occupa il posto più alto, (a quei tempi era l’ultimo pianeta conosciuto), avrebbe preso il nome di Adamo, il capostipite del genere umano. Il satellite naturale della Terra, la Luna, sarebbe stata la Beata Vergine Maria.
Una volta che ebbe dato il nome dei principali protagonisti del Cristianesimo ai sette antichi pianeti, il gesuita tedesco rinominò anche il resto delle stelle con grande lena e quello che ne risultò fu un cielo molto casto e pio. Per fare qualche esempio la Nave Argo diventò l’Arca di Noè; l’Idra si trasformò nel Fiume Giordano; al posto del Centauro mise Abramo e Isacco; Eva occupò lo spazio di Ape, Mosca e Camaleonte; il Sepolcro di Cristo prese il posto di Andromeda; il Cigno diventò la Santa Croce; Cassiopea lasciò il posto a Maria Maddalena; l’Orsa Minore fu soppiantata con San Michele e l’Orsa Maggiore dalla Barca di Pietro. 
Ma tale rivoluzione non ebbe successo, perchè miti tradizionali erano troppo radicati e continuarono ad essere privilegiati anche in ambienti ecclesiastici. Rimangono le splendide e preziose tavole del 1627. 





La rivoluzione di Schiller non ebbe molti seguaci e si esaurì all’apice del suo successo nel 1661, quando Andrea Cellario propose il suo "Atlas Coelestis seu Harmonia Macrocosmica", pubblicato ad Amsterdam.

Cellario, in questa opera, ha dedicato due delle ventinove tavole al cielo cristiano, una per ogni emisfero, la tavola 24 e le tavole 25 e 26, e nelle pagine dedicate al commento di queste si è dilungato sul progetto di Schiller.


"Atlas Coelestis seu Harmonia Macrocosmica" di Andrea Cellario, Amsterdam 1661

lunedì 1 luglio 2013

Caravaggio - L'incredulità di San Tommaso


La tela fu dipinta da Caravaggio intorno al 1601 per il Marchese Vincenzo Giustiniani per la galleria di dipinti del suo Palazzo, secondo quanto si può desumere da Le vite de’pittori scultori et architetti moderni di Giovan Pietro Bellori pubblicato nel 1672 a Roma, e dai numerosi documenti d’inventario che la riguardano. Nell’inventario della collezione Giustiniani del 1638 si legge «Nella stanza grande de quadri antichi. Un quadro sopra porta di mezze figure con l’historia di S. Tommaso che tocca il costato di Christo col dito dipinto in tela alta palmi 5. Larga 6,5 incirca, di mano di Michelangelo da Caravaggio con cornice nera profilata e rabescata d’oro».

La tela, dunque, fa parte della collezione Giustiniani ed è unsopraporta, dipinto cioé in orizzontale a mezze figure di circa cm 150 di larghezza e cm 100 di altezza. La tela poi fu venduta varie volte nel corso dei secoli, ed infine, dopo ulteriori vicissitudini legate agli eventi della Seconda Guerra Mondiale, pervenne nell’attuale collezione della Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam. Nel 2001 a Roma è stata proposta al pubblico italiano in una bellissima mostra dedicata alla ricostruzione dell’antica collezione Giustiniani.

Caravaggio costruisce il dipinto attraverso una struttura semplice che nell’essenzialità della scena punta diritto verso il cuore della narrazione evangelica. Cristo è attorniato da tre apostoli, tra i quali riconosciamo Pietro, dietro agli altri due in posizione più alta, e Tommaso, che sbigottito si vede prendere la mano dallo stesso Cristo e inserirla nella ferita del costato. Gesù è rappresentato con un incarnato più chiaro rispetto al gruppo degli apostoli, creando così una forte contrapposizione cromatica tale da determinare un doppio risultato narrativo; quello di portare il fedele ad un coinvolgimento diretto nell’azione, rendendolo presente e partecipe di quanto accade sotto i suoi occhi, e di evidenziare la corporeità del Risorto come il testo evangelico la descrive.

I tre apostoli hanno le fronti aggrottate, sono curvi in un inchino spontaneo di fronte al mistero della Risurrezione, i loro occhi sono attenti e le bocche aperte senza proferire parola, sono impietriti, ritratti nel momento che li vede colti da stupore; si differenzia l’atteggiamento psicologico di Tommaso che ha gli occhi sbarrati e si perde con lo sguardo attonito nell’abisso di ciò che gli si manifesta di fronte. Gesù, reclinando il capo, con la mano destra delicatamente scosta il mantello, mostrando la ferita sul costato ancora aperta e con la sinistra guida quella dell’apostolo, introducendo il dito tremante di Tommaso nella ferita del costato; il suo volto sembra accennare una impercettibile smorfia di dolore mentre accompagna con lo sguardo il gesto che compie con la mano di Tommaso. In questo dipinto non c’è altro, tutto è avvolto dalla penombra della stanza nel quale accade il fatto, davanti ai nostri occhi ci sono solo quattro figure colpite dalla luce che giunge dall’alto, tutto è reso attraverso un’abile descrizione psicologica degli apostoli, e poi null’altro.

Nel Vangelo di Giovanni leggiamo: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il Sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il costato e i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20, 19-20) «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: Abbiamo visto il Signore! Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel costato, non crederò. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettile nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 24-29)

Giovanni descrive minuziosamente quanto accaduto e pone in evidenza l’atteggiamento umano di Tommaso, che si dichiara scettico su quanto gli viene raccontato dagli altri e pone delle condizioni alla Fede, come facciamo noi ogni giorno della nostra vita posti di fronte alle difficoltà del mondo. Caravaggio dipinge questo turbamento, che anche è il nostro, e in modo sapiente traspone l’incredulo per eccellenza non soltanto nella ovvia figura di Tommaso, ma anche in quella degli altri due apostoli presenti nel dipinto.

Infatti lo scopo del dipinto non è solo quello di narrare i fatti così come ci vengono descritti da Giovanni, quanto piuttosto di porci di fronte al mistero della Risurrezione nella sua evidente corporeità. Cristo è risorto, è vivo; il dipinto di Caravaggio ci pone di fronte alla domanda dell’angelo alle donne: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? » (Lc. 24,5). Il dito di Tommaso affonda nella carne di Gesù; quella mano rozza, con le unghie sporche del proprio lavoro quotidiano, è la mano di tutti coloro che sono chiamati nella Fede a credere in Cristo. Lo scetticismo si scioglie nello stupore; gli occhi si spalancano davanti a quelle ferite, e la bocca tremante si apre balbettando, con un filo di voce « Mio Signore e mio Dio!».

L’arte di Caravaggio, come quella di moltissimi altri nel corso dei secoli, ha teso a rappresentare, attraverso la tecnica e gli strumenti propri della pittura, la corporeità del mistero dell’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Cristo, il mistero di Gesù, che è totalmente uomo e totalmente Dio, per fugare quei dubbi che persino gli apostoli, secondo la narrazione di Luca, ebbero: «Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma» ( Lc. 23,37). L’arte ci invita a vedere con gli occhi e a meditare nel cuore le parole di Cristo: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 23, 38-39).

Al riguardo sant’Agostino dice: «Cristo avrebbe potuto risanare le ferite della sua carne al punto da non fare apparire neppure le impronte delle cicatrici. Aveva il potere di non mantenere nelle sue membra il segno dei chiodi, di non mantenere la ferita del costato.(...) Lui, che lasciò fissi sul suo corpo i segni dei chiodi e della lancia, sapeva che in futuro ci sarebbero stati eretici tanto empi e distorti da affermare che il Signore Nostro Gesù Cristo simulò di avere carne e che avrebbe detto menzogne ai suoi discepoli e ai nostri Evangelisti quando disse: Tocca e vedi.(...) Supponiamo che ci sia qui un manicheo. Che cosa direbbe? Che Tommaso vide, toccò, palpò le impronte dei chiodi, ma che era una carne falsa.» Si comprende qual’è stato –è quale è tuttora- il compito dell’arte, e cioè affermare che Cristo è veramente risorto, vero uomo e vero Dio. Come scrive ancora sant’Agostino:« La Verità risuscitò carne vera. La Verità mostrò ai discepoli carne vera dopo la risurrezione. La Verità mostrò cicatrici di carne vera alle mani che le palpavano. Arrossisca dunque la falsità, poiché ha vinto la Verità».

*
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it  Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com  e.mail: rodolfo_papa@infinito.it  

"Il Mistero Svelato", le ultime interpretazioni de "L'Annunciata" di Antonello da Messina


Una nuova ed inedita interpretazione dell’Annunciata di Antonello da Messina è stata presentata nel mese di giugno presso l’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles.
Per anni quest’opera è stata oggetto d’indagine e di approfondimento di varia natura. Forse proprio perché considerata “misteriosa” l’interesse verso questo capolavoro assoluto del Rinascimento, uno dei dipinti più enigmatici e rappresentativi della storia dell’arte, è sempre stato molto forte.
Oltre all’inedita interpretazione del quadro proposta da Giovanni Taormina, esperto e restauratore di dipinti, ha introdotto la conferenza lo storico dell'arte Mauro Lucco, successivamente sono stati illustrati dal prof Franco Fazzio, dalla dott.ssa Maria Francesca Alberghina, dal dott. Salvatore Schiavone i risultati delle ricerche condotte negli anni, a partire dal 2006. Le indagini diagnostiche sono state realizzate, oltre che dai ricercatori presenti, dall’arch. Ermanno Cacciatore, dalla dott.ssa Fernanda Prestileo e dal dott. Giovanni Bruno, già Laboratorio di Fisica e Ambientalistica degli Interni del Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro della Regione Siciliana (CRPR) – Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana, sotto l’allora direttore arch. Guido Meli, da Giuseppe Salerno, radiologo, e dalla dott.ssa Lidia Perrone, chirurgo estetico.Inoltre, per l’approfondimento teologico, sono stati consultati gli studi del Ministro di Culto Cristiana Perrone.
Gli studi condotti hanno fornito numerose risposte agli interrogativi che da secoli sono stati legati a questo dipinto risalente al 1475/76 e oggi conservato nella Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di Palermo.
Da qui il titolo dello studio presentato all’IIC di Bruxelles “Il mistero svelato”.
L’autorevole storico dell’arte Mauro Lucco, già curatore di numerose mostre tra cui proprio quella su Antonello da Messina alle Scuderie del Quirinale, che ha introdotto la presentazione di questi studi ieri a Bruxelles, per il valore che egli stesso ha pubblicamente attributo a “il mistero svelato” di Giovanni Taormina, ha proposto di continuare insieme allo stesso Taormina e ai suoi colleghi queste ricerche.

Ecco i principali nodi sciolti da questo studio interpretativo dell’opera:
Maria ha dinanzi un Magnificat
Per anni si è cercato di capire cosa rappresentassero i segni posti dall’artista messinese sul libro dinanzi alla Madonna. Analizzando i punti in rosso cinabro sono emersi significativi risultati. In particolare il simbolo più evidente rappresenta un carattere onciale e cioè un tipo di scrittura adoperata in codici vergati per i titoli, le rubriche, gli incipit o gli explicit impiegati solitamente nei manoscritti dell’epoca come capolettera di un capitolo o di un paragrafo. Si è riusciti ad individuare in quel segno una “M”, in particolare una M di Magnificat.
Le scritte in nero sul foglio, inoltre, evidenziano residui di alcune lettere che dovevano comporre alcune frasi iniziali del Magnificat “anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo”.
Una nuova rappresentazione dello Spirito Santo sotto forma di vento
E’ la prima volta che si parla della presenza dello Spirito Santo nell’opera dell’Annunciata. Un argomento che non era mai stato trattato e che per primo Giovanni Taormina ha portato alla luce. Lo stesso Prof Mauro Lucco ha voluto valorizzare questa scoperta pubblicamente, complimentandosi con l’autore nel corso della serata evento organizzata all’IIC di Bruxelles. In sostanza nell’Annunciata di Palermo si puo’ notare che le pagine del libro dinanzi alla vergine sono come sollevate da un soffio di vento. Secondo Giovanni Taormina e il gruppo interdisciplinare che ha compiuto questi studi, quel vento rappresenta il soffio generante e ispiratrice dello Spirito Santo. Tra le varie spiegazioni c’è quella etimologica. La parola spirito in ebraico si traduce ruach, che nel suo senso primario significa soffio, aria, vento, respiro. 
Dal greco traduce pneuma (da pneo) e cioè soffiare, respirare, ricevere vita. (Theopneostos tradotto letteralmente soffiato da Dio, emessa dal respiro di Dio).
Chi è l’Annunciata di Palermo? Smentita la raffigurazione di Smeralda Calafato
Secondo alcune ipotesi la giovane ritratta da Antonello sia Santa Eustochia Calafato (al secolo Smeralda), nata a Messina nella stessa epoca di Antonello. Il gruppo interdisciplinare di studi coordinato da Giovanni Taormina ha, quindi, provveduto a identificare i resti mummificati, che si attestano essere di Smerala. Si è valutata quindi la possibilità di ricostruirne il volto e tentare il confronto, attraverso una serie di indagini comparate tra la mummia ed il dipinto dell’Annunciata. Per la mancanza di alcune autorizzazioni, pero’, tali approfondimenti non sono stati ancora eseguiti.
Grazie ad alcune analisi svolte da uno specialista in chirurgia estetica, comunque, è stato possibile asserire che l’ipotesi che vuole Smeralda Calafato come colei che avrebbe posato per la realizzazione dell’Annunciata, non trovi conferma il confronto tra l’Annunciata di Palermo e l’Annunciata di Monaco: la prima ha già Gesù in grembo
Le due opere sono state confrontate con l’obiettivo di far emergere nuovi indizi a supporto di una migliore comprensione del significato dell’Annunciata di Palermo. Da questo confronto è emerso che l’Annunciata di Monaco è stata rappresentata da Antonello in un momento in cui non si è ancora svolta l’azione di concepimento da parte dello Spirito di Dio, mentre in quella di Palermo è già avvenuta. A questa interpretazione è stato possibile risalire attraverso lo studio di piccoli particolari come il volto delle due Madonne: in quella di Palermo il viso di Maria evidenzia una leggera piega dell’angolo labiale che rappresenta un sereno sorriso mentre nella Maria di Monaco la bocca è aperta, come se la vergine fosse colta da stupore improvviso mentre l’angelo le annuncia che lei è la prescelta. Anche la posizione delle mani delle due vergini confermano questa ipotesi. “In un dipinto di Antonello, nulla è stato dipinto a caso, ogni pennellata è importante ed ha una sua spiegazione logica” si puo’ leggere nello studio presentato all’IIC di Bruxelles a pag 10.
“Ho fortemente voluto ospitare nel nostro Istituto Italiano di Cultura la presentazione di questo studio inedito su L’Annunciata di Antonello da Messina – ha dichiarato la prof.ssa Federiga Bindi, direttore dell’IIC di Bruxelles – non soltanto perché Antonello è uno degli artisti più significativi del Rinascimento italiano e mondiale, ma anche perché questa interessante analisi rappresenta un’eccellenza della ricerca italiana che va valorizzata e promossa anche all’estero”.

(Dott.ssa Federiga Bindi, Direttore I.I.C.B.)


domenica 9 giugno 2013

Il sogno nel Rinascimento - La mostra a Palazzo Pitti

“Se il sogno è di per sé fenomeno notturno e spesso inquietante, coincidente con una vacatio dell’anima cosciente che spalanca le porte della più abissale interiorità umana (ma anche, secondo radicate credenze, apre varchi al Divino), la rappresentazione del sogno è per gli artisti d’ogni tempo una sfida giocata sul duplice terreno della convenzione e della fantasia. 
E nel Rinascimento, le risposte artistiche a questa sfida furono – lo vedrà chi visita la mostra o sfoglia il catalogo – quanto mai varie e illuminanti” (Cristina Acidini).

Michele di Ridolfo del Ghirlandaio (Firenze 1503-1577) da Michelangelo
Allegoria della Notte
1553-1555 ca
Le parole della Soprintendente Cristina Acidini introducono con efficacia alla mostra che offrirà al visitatore la possibilità di addentrarsi per la prima volta in un argomento così coinvolgente e affascinante come il Sogno nel Rinascimento, cercando di metterne in luce la ricchezza e varietà.

Il tema del sogno assume infatti un rilievo particolare nella mitologia antica e nella cultura del Rinascimento, come dimostra il suo diffondersi nelle arti figurative ed in particolar modo in opere di soggetto religioso o legate alla riscoperta dei miti antichi.

Profetico o premonitore, illustrato da episodi celebri dell’Antico Testamento (i sogni del Faraone spiegati da Giuseppe ebreo, il sogno di Giacobbe, etc.) o dall’agiografia visionaria (sogni di Costantino, di san Francesco, di santa Orsola, etc.), il sogno si offre anzitutto come manifestazione e rivelazione di un altro mondo. Esso manifesta altresì, in senso profano, le possibilità induttive e speculative offerte all’animo umano; trasfigura il vissuto quotidiano e rivela la sua dimensione erotica; viene ad occupare un ruolo prezioso nella teoria e pratica dell’arte, non meno attente all’attività onirica che la letteratura, la filosofia o la medicina.

“Il taglio iconografico e iconologico scelto, inconsueto per le esposizioni italiane, consentirà al pubblico di guardare con occhi diversi ad opere celebri come, ad esempio, il Sogno del Cavaliere di Raffaello della National Gallery di Londra, cui, per la prima volta, sarà accostata la fonte principale fornita al Sanzio, il poema latino dei Punica di Silio Italico, stampato a Roma fra il 1471 e il 1472” (Alessandro Cecchi).

Lorenzo Lotto (Venezia 1480-Loreto 1556)
Apollo addormentato
1530 ca
Varie sezioni articoleranno la mostra, cominciando da quelle che definiscono e precisano il contesto nel quale il sogno si manifesta: la notte, il sonno. La Notte, che inaugura il percorso espositivo, vi sarà rappresentata con tutta la sua complessa simbologia ed in particolare attraverso alcune delle tante derivazioni plastiche e pittoriche tratte dalla Notte che Michelangelo scolpì nella Sagrestia Nuova, per il monumento funebre in memoria a Giuliano de’ Medici. La sezione successiva, intitolata La Vacanza dell’anima, metterà in primo luogo in risalto le opere legate al sonno, ne presenterà poi altre inerenti ai miti della classicità come il Fregio della Villa Medicea di Poggio a Caiano di Bertoldo, ma anche opere letterarie come la celebreHypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna, in cui il sogno svolge un ruolo fondamentale. Li affiancano dipinti e incisioni di soggetto mitologico e allegorico, alcuni per la prima volta esposti a Firenze come il Sogno del cavaliere di Raffaello della National Gallery di Londra e il dipinto con Venere e Amore addormentati e spiati da un satiro del Correggio proveniente dal Museo del Louvre.

Visioni dell’Aldilà tratterà il tema del sogno nella tradizione biblica e religiosa, con esempi grafici e pittorici dei secoli XV e XVI, dal Sogno di Giacobbe all’Interpretazione dei sogni da parte di Giuseppe, ai Sogni e Visioni di sante e santi come Elena, Orsola, Caterina d’Alessandria, Agostino, Girolamo.

Anonimo fiammingo
Il sogno di Raffaello
tavola
Di importanza fondamentale è la sezione intitolata La vita è sogno, che trae origine dall’eccezionale fortuna iconografica di un disegno di Michelangelo, Il Sogno o la Vanità dei desideri umani, come dimostra il gran numero di riprese e copie che ne sono state eseguite, fra le quali quelle di Giulio Clovio, Francesco del Brina, Battista Franco, etc. Nella stessa sezione I sogni del principe, presentano la figura di Francesco de’ Medici ed il suo particolare e fecondo rapporto con il sogno, di cui ci sono pervenute varie testimonianze, spesso impregnate di fantastica teatralità (come L’Allegoria dei Sogni del Naldini che si trova nello Studiolo), in questo simbolicamente rivelatrici di quanto e come il Sogno fosse al centro del dibattito culturale della fine del Rinascimento. Sono, in questo ambito, presentati disegni, documenti, dipinti fra i quali il Ritratto di Bianca Cappello di Alessandro Allori con al verso l’iconografia del celebre Sogno di Michelangelo e, sempre dell’Allori la rara Spalliera di letto dai motivi onirici, conservata nel Museo Nazionale del Bargello.

La penultima sezione Sogni enigmatici e visioni da incubo presenterà opere inquietanti e di difficile interpretazione come la stampa raffigurante Il sogno del dottore di Albrecht Dürer dove è difficile comprendere se l’artista abbia rappresentato un sognatore tentato da Venere oppure i pericoli dell’accidia, o Cibele che si prende gioco di un alchimista addormentato davanti al suo forno. Ancora opere da incubo, abitate dal Diavolo inteso come Separatore, il grande Trasgressore e provocatore di incubi, che si affaccia quando la sovranità del giorno si arrende e appare il lato oscuro delle cose: ed ecco le visioni dell’Inferno
o le Tentazioni di Sant’Antonio, di Bosch, Brueghel, Jan Mandijn e Met de Bles.

Battista Dossi (Ferrara 1490 ca-1548)
Allegoria della Notte
1543-1544
La mostra si conclude con un richiamo all’Aurora considerata nel Rinascimento come lo spazio - tempo dei sogni veri (rappresentata da un dipinto di Battista Dossi) per aprirsi, infine, al Risveglio (con il Risveglio di Venere di Dosso Dossi, Bologna, Collezione Unicredit Banca) come espressione della ciclicità paradigmatica e complementare del tempo.

La mostra - promossa dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Toscana, la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico, Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della città di Firenze, la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, Firenze Musei e l’ Ente Cassa di Risparmio di Firenze - è stata organizzata dalla stessa Soprintendenza del Polo Museale di Firenze e dalla Réuniones Musées Natoniaux Grand Palais di Parigi dove avrà una seconda sede al Musée du Luxembourg (9 ottobre 2013 - 26 gennaio 2014 - con la cura di Chiara Rabbi Bernard, Alessandro Cecchi e Yves Hersant, che hanno curato anche il catalogo edito da Sillabe.
Sito: http://www.unannoadarte.it/ilsognonelrinascimento/index.html

Mi permetto di rimandare, poichè in mostra, a questa mia breve ricerca Raimondi e il "Sogno di Raffaello" dedicata alla celebre e enigmatica stampa dell'artista

Marcantonio Raimondi (S. Andrea in Argine?, Bo, 1480 ca-Bologna)
Il sogno di Raffaello
1508 ca

mercoledì 22 maggio 2013

Rodolfo Papa - La Trinità di Lotto e altre letture iconografiche

Sul suo blog lo storico dell'arte Rodolfo Papa sta inserendo una serie di articoli tratti da varie riviste e che presentano interessanti e puntuali letture iconografiche di opere d'arte sacra. Tra i tanti segnalo l'articolo sulla Trinità di Bergamo di Lorenzo Lotto.



La Santa Messa della Solennità della Santissima Trinità, che sarà celebrata domenica prossima, nella colletta recita: “O Dio Padre, che hai mandato nel mondo il tuo Figlio, Parola di verità, e lo Spirito santificatore per rivelare agli uomini il mistero della tua vita, fa' che nella professione della vera fede riconosciamo la gloria della Trinità e adoriamo l'unico Dio in tre persone”.
Gli artisti hanno cercato spesso di tradurre in immagini lo spirito di questa preghiera. Una bellissima meditazione viene offerta da Lorenzo Lotto nella Trinità di Bergamo.
Lorenzo Lotto dipinse questa splendida tela intorno al 1523 per la chiesa della Trinità a Bergamo e come ricorda la descrizione della cronaca della visita pastorale del Vescovo Corneli nel 1573, era collocata sull’altare maggiore. La chiesetta dedicata alla Trinità apparteneva alla Confraternita dei Disciplinati della Santissima Trinitàed era stata fondata nel 1506. Evidentemente poco dopo la conclusione dei lavori di edificazione, la Confraternita pensò di affidare a Lotto –uno dei più grandi artisti del Cinquecento, che in quel momento si trovava a lavorare a Bergamo– l’esecuzione di alcune tele, in quanto alcune descrizioni (Tassi 1793) testimoniano che la chiesa era dotata di almeno un’altra tela di mano di Lorenzo: un Cristo morto sulle ginocchia della Madonna, san Giuseppe e un’altra santa martire. Sconsacrata nel 1808, la chiesa venne poi distrutta nel 1919. Al momento della sconsacrazione, il dipinto della Trinità fu acquistato dal curato don Giovanni Conti ad una asta demaniale e collocato nella sacrestia della chiesa di Sant’Alessandro della Croce dove ancora oggi possiamo ammirarlo. La tela fu sicuramente rifilata negli angoli per adattarla alla nuova collocazione e forse anche leggermente ridotta nelle dimensioni, ma il suo straordinario splendore è ancora del tutto intatto.
La particolarità inventiva che l’artista mette in campo in questo dipinto è sicuramente eccezionale, come eccezionale è il risultato stilistico e l’invenzione di una iconografia totalmente nuova. Questa tela raggiunge una di quelle vette somme, per sintesi e per capacità evocativa, che raramente capita d’incontrare all’interno del cammino contemplativo che l’arte porta, per sua natura, a compiere, a tal punto che una volta vista rimane fissa nella nostra mente e nella nostra anima. Siamo abituati a immagini diverse della Trinità. Come ricorda Benedetto XIV in Sollicitudini nostrae (Bullarium Romanum, I, Roma 1746, pp. 560-571) l’iconografia della Trinità nel corso dei secoli ha mostrato la Persona di Dio Padre sotto forma di un vecchio, prendendo ispirazione da Daniele: «L’Antico dei giorni si sedette» (Dn 7,9), e nel suo seno il Figlio Unigenito, Cristo Dio e Uomo, e tra loro due lo Spirito Santo Paraclito sotto l’aspetto di colomba; oppure ha rappresentato due Persone separate da un piccolo spazio: una di queste in forma di uomo più vecchio, evidentemente il Padre, l’altra il Cristo, e in mezzo a loro lo Spirito Santo in forma di colomba, come nella tipologia precedente; oppure ancora ha mostrato la Santissima Trinità in tre Persone identiche per statura, fisionomia e lineamenti, con fondamento nel racconto dell’apparizione ad Abramo raccontata nel Genesi (Gen 18, 1): «Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno». E occorre aggiungere anche la tradizione che rappresenta la Trinità con Cristo inchiodato alla Croce, che è sorretta dal Padre in forma di vecchio, e tra di loro sta lo Spirito Santo in forma di colomba.
Lorenzo Lotto in questa tela organizza invece la rappresentazione della Trinità a partire da un’altra matrice contemplativa: Cristo è il centro, la parte visibile del mistero trinitario. Lotto si ispira non solo ai caratteri iconografici veterotestamentari, ma piuttosto alle descrizioni evangeliche più direttamente cristologiche. La figura di Cristo, che Lotto dipinge, è particolarmente complessa, in quanto racchiude in sé molti modelli iconografici diversi. Il primo da considerare presente è immediatamente legato alla positura del corpo di Cristo: appare in piedi come se camminasse sopra un arcobaleno, mostrando le piaghe ai fedeli che contemplano l’immagine, secondo la tradizione dell’Imago pietatis (in cui solitamente è sorretto da angeli o esposto solo sul sepolcro come in attesa di sepoltura). Il capo leggermente reclinato verso destra rafforza questo legame con le rappresentazioni di genere popolare: riprende la tradizione dei volti santi, diffusissimi in tutta la cristianità come copie conformi all’originale volto della Veronica. I panneggi agitati e ritorti in ampie volute, richiamano anche il momento dell’Ascensione (infatti alcuni storici dell’arte più volte si sono confusi con questo tema), e ancor più alludono alla Risurrezione: Cristo Risorto nel seno del Padre mostra ai fedeli le mani forate dai chiodi aprendo le braccia in un atteggiamento che riprende quello dell’ombra di luce che gli è alle spalle. Dio Padre è, infatti, genialmente rappresentato come una sagoma di luce dietro e sopra Cristo, mentre lo Spirito Santo, secondo la metafora evangelica, come una colomba. L’immagine della Trinità proposta da Lotto poggia le sue fondamenta teologiche in modo particolare sui brani del Nuovo Testamento, non si riferisce infatti a immagini che prefigurano la piena rivelazione in Cristo, ma pone l’accento sui caratteri centrali della Incarnazione. Dunque bisogna leggere i passi evangelici della Trasfigurazione (Mt 17, 1-9; Mc 9, 2-10; Lc 9, 28-36) per capire la scelta della nube luminosa che avvolge Cristo e che ha al suo interno una ombra di luce come in forma di persona benedicente. Per comprendere il rapporto dinamico tra la colomba e la figura di Cristo, si devono leggere i brani evangelici che riguardano il Battesimo di Cristo nel Giordano (Mt 3, 13-17; Mc 1,7-11; Lc 3, 15-22). Ma per comprendere la centralità della figura di Cristo nella rappresentazione pittorica della tela di Bergamo dobbiamo soprattutto vedere tutto attraverso le parole di Gesù: «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12, 45-46).
Il cuore di questa rappresentazione è dunque legato al vangelo di Giovanni: «chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna» (Gv 5, 24) e ancora «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo» (Gv 8, 28).
La proposta contemplativa che Lotto propone in questo dipinto è costruita sulla visione giovannea della visibilità attraverso Cristo dell’intero mistero trinitario: ancora una volta l’arte si propone come un vero strumento di contemplazione, per il fedele che veramente voglia vedere con gli occhi le parole del Vangelo.

Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it


mercoledì 13 febbraio 2013

L'Immacolata Concezione: alcuni elementi di iconologia

Il prof. Rodolfo Papa ha inaugurato su Zenit una nuova rubrica di letture iconologiche che usciranno a scadenza quindicinale. La prima è stata sulla cappella Carafa a Santa Maria sopra Minerva mentre quella che proponiamo oggi riguarda l'iconografia dell'Immacolata concezione. 


L’11 febbraio 1858 la Vergine Maria appare alla giovanissima Maria Bernarda Soubirous nella grotta di Massabielle, sui Pirenei. Nelle sue apparizioni, la Madonna si manifesta a Bernadette dicendo “Io sono l’Immacolata Concezione”.

Solo quattro anni prima, con la bolla Ineffabilis Deus (8 dicembre 1854), Pio IX aveva definito il dogma dell’immacolato concepimento di Maria, ponendo in evidenza che la Vergine fu preservata dal peccato originale. Veniva così definita, dopo secoli di approfondimento teologico, una importante questione relativa alla persona ed al ruolo della Vergine Maria nel piano provvidenziale della Redenzione.

Nel 1870, Pio IX commissionò al pittore Cocchetti un dipinto raffigurante l’Immacolata, per l’arcosolio del presbiterio di Santa Maria in Trastevere: questo potrebbe essere considerato il primo dipinto legato al dogma dell’Immacolata Concezione, ma in realtà la pittura, tanto quanto la riflessione teologica, nel corso dei secoli era già stata chiamata a meditare questo tema. Già i Padri della Chiesa avevano accostato Eva e Maria, proprio per sottolineare che la Vergine era stata concepita senza il peccato, e con il passare del tempo l’assunto Semper Virgo. Dei Genitrix. Inmaculata era stato abbracciato da un numero sempre crescente di fedeli e difeso dai pontefici, fino a giungere alle celebri costituzioni di Sisto IV (Cum praeexcelsa, 1477, Grave nimis, 1483), confermate nella quinta sessione del Concilio di Trento nel Decretum de peccato originali (1546), su proposta soprattutto del card. Pietro Pacheco di Jaen. Questo cammino della Chiesa, coronato dalla definizione dogmatica di Pio IX, si specchia nel percorso dell’arte.

Il tema pittorico dell’Immacolata trova nascita nell’Italia meridionale e particolare diffusione in Spagna. Si definisce dal punto di vista iconografico intorno alla fine del Quattrocento[1], come dimostrano alcuni dipinti conservati in Italia, in Francia ed in alcune regioni della Penisola Iberica, e tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento gode di grande popolarità in Italia e, in modo speciale, in Spagna.

Fu per l’appunto uno spagnolo, Francisco Pacheco, che nel suo trattato Arte de la Pintura del 1638 ha fornito una guida chiara per raffigurare in maniera corretta l’Immacolata, riassumendo senza dubbio gli elementi comuni alle immagini che aveva visto e che giudicava affidabili; fra queste vi erano le immagini riprodotte sulle medaglie che Leone X aveva benedetto agli inizi del Cinquecento su istanza dell’ordine francescano, fedele difensore del privilegio di Maria (anche Sisto IV era dell’ordine dei frati minori): “ Si deve...dipingere...questa Signora nel fiore della sua età, da dodici a tredici anni, bellissima bambina con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance, i bellissimi capelli lisci, color oro... deve dipingersi con tonaca bianca e manto blu vestita del sole, un sole ovale ocra e bianco, che circundi tutta l’immagine, unito dolcemente con il cielo; coronato di stelle; dodici stelle distribuite nel circolo chiaro fra splendori, servendo di punto alla sacra fronte; le stelle su alcune macchie chiare formate a secco di purissimo bianco, che esca sopra tutti i raggi... Una corona imperiale deve adornare la sua testa ma che non copra le stelle; sotto i piedi, la luna che benché sia un globo solido, prese licenza per renderlo chiaro, trasparente sui paesi; nella parte di sopra, più chiara e visibile la mezza luna con le punte verso il basso...I tributi di terra si accomoderanno, convenientemente, per paese, e quelli del cielo, se vogliono fra le nubi. Adornasi con serafini e con angeli interi che hanno alcuni degli attributi... il dragone... al quale la Vergine spaccò la testa trionfando dal peccato originale...se potessi lo eliminerei per non disturrbare il quadro”. Queste indicazioni normative del Pacheco non solo traducono la visione della Apocalisse, ma sembrano anche descrivere la tela che Zurbarán aveva dipinto per il collegio religioso di Nuestra Señora del Carmen de Jadraque, nel 1632.[2] 

In questa tela, infatti, troviamo magistralmente raffigurata l’Immacolata, con tutti i suoi attributi iconografici. Il primo dei simboli, il sole, non è presente come astro, ma come luce che si irradia da dietro la figura della Vergine, facendo sì che questa si presenti come una “donna vestita di sole” (Ap 12,1). Le dodici stelle ornano simbolicamente l’aureola, la quale si tramuta in una vera apoteosi di teste di cherubini, che aprono il cielo fisico verso lo spazio delle sfere celesti. L’immagine quasi statuaria della Vergine si colloca in uno spazio assolutamente ideale, che sta a metà tra cielo e terra. Il suo alone di luce irradia un caldo ammasso di nuvole, in cui spiccano quattro attributi mariani; tra squarci di nubi a sinistra si vede la Porta del Cielo, Porta coeli (Gen 28,17) e la Scala di Giacobbe o del cielo, Scala coeli (Gen 28,12) a destra la Stella del Mare, Stella maris (Himn. Lit.) e lo Specchio senza macchia, Speculum sine Macula (Sap 7,26).

Nella parte inferiore del dipinto un paesaggio che si stende come una marina, a ricordare l’etimo poetico del nome della Vergine, riunisce una infinità di attributi mariani in un luogo reale e al tempo stesso simbolico, concepito appositamente per la contemplazione del fedele raccolto in preghiera, davanti al creato posto ai piedi di Maria. Ecco che, a saperlo guardare, il paesaggio si tramuta nell’Orto Sacro, Hortus Conclusus (Ct 4, 12), nel quale crescono fiori di campo rossi e bianchi, Flos campi, e dove si ergono la Torre di Davide, Turris David (Ct 4,4), il cipresso, Cypressus in monte Sion (Sir 24,17), il Tempio dello Spirito Santo, Templum Spiritus sancti (I Cor 6,19), la palma, Palma exaltata in Cades (Sir 24,18), i cedri, Cedrus exaltata in Libano (Sir 24,17), e gli ulivi, Oliva Speciosa (Sir 24,19). Al centro, il pozzo delle acque vive, Puteus aquarum viventium (Ct 4,15), e la fonte della grazia o dell’orto, Fons hortorum (Ct 4,15).

Zurbarán dipinge questa tela come una visione; mostra ai nostri occhi tutta la bellezza, lo splendore e la fragranza della natura immacolata di Maria e ci invita a rimanere con lei nel luogo delizioso che ha accolto il Verbo incarnato in un tripudio di colori e di forme belle. In casi come questo, l’arte stessa si rivela come un dono magnifico che Dio ha offerto all’umanità per contemplare, in un modo del tutto particolare, la bellezza dei suoi doni e del suo amore. Carlo Chenis scrisse a tal riguardo che «l’Immacolata sprigiona bellezza originale ed escatologica, così che la visione estetica di quanto la ravvisa conduce alla visione estatica di quanto la glorifica» e «lo splendore artistico rivela il reale nella sua totalità complessa» in quanto è « svelamento dei fondamenti ultimi, è metafora della gloria divina, è impronta della divina sostanza. Gli attributi che lo descrivono sono l’intergrità, in quanto occorre compiutezza intrinseca, e la conoscenza, poiché nihil est ordinatum quod non sit pulchrum»[3]

Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. 

*

NOTE

[1] Riguardo alcuni sviluppi del tema iconografico dell’Immacolata tra Cinquecento e Seicento Cfr. Rodolfo Papa, Leonardo teologo. L’artista «nipote di Dio», Ancora Milano 2006, pp. 86-148; Rodolfo Papa, Caravaggio pittore di Maria, Ancora, Milano 2005, pp. 67-76.

[2] Cfr. Rodolfo Papa, I colori dello Spirito. Capolavori dell’arte cristiana tra il XIV e il XVII secolo, Ed. Paoline, Milano 2005, pp. 15-22.

[3] Carlo Chenis, Tota pulchra, perché tutta pura. Paradigmi estetico spirituali dell’Immacolata, in Una donna vestita di sole. L’Immacolata Concezione nelle opere dei grandi maestri, catalogo mostra a cura di G. Morello, V. Francia, R. Fusco, 11 febbraio-13 maggio 2005, Braccio di Carlo Magno, Città del Vaticano, F.M.Editore, Milano, 2005, pp. 14-17.

(su Zenit)

martedì 15 gennaio 2013

Il ciclo dei mesi di Schifanoia - Il numero monografico di Engramma


Il ciclo dei Mesi di Schifanoia a Ferrara è uno dei cicli più interessanti ed enigmatici del rinascimento italiano, tanto studiato ed analizzato da Aby Warburg che proprio cento anni fa in occasione del X Congresso internazionale di Storia dell'Arte di Roma, avanzava per la prima volta l'ipotesi interpretativa della fascia mediana con i tre decani, ed è l'argomento trattato dall'ultimo numero di Engramma. Engramma è una delle riviste più belle, interessanti e scientificamente valide riguardo alla storia dell'arte e all'iconologia che si possono trovare in rete e che vale la pena di seguire.

I tre decani del mese di Luglio
L'editoriale di Marco Bertozzi e Alessandra Pedersoli


Il numero 102 di Engramma, dedicato al "cielo di Schifanoia," raccoglie saggi e contributi riguardanti la decorazione del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara e la complessa storia interpretativa dei soggetti raffigurati nei registri superiori dei comparti dei dodici mesi. Con questo numero celebriamo anche due anniversari: nel 1912 Aby Warburg, in occasione del X Congresso internazionale di Storia dell'Arte di Roma, avanzava per la prima volta l'ipotesi interpretativa della fascia mediana con i tre decani del segno per ciascun mese; nel 1992, nel Salone del Palazzo, Maurizio Bonora allestiva le sue tavole ricostruttive dei cinque registri mediani per i mesi del ciclo perduti. Come lo studioso amburghese in Tavola 27 dell'Atlante di Mnemosyne orienta i suoi studi sui registri superiori (il 'cielo' di Schifanoia), anche il cuore delle ricerche sul tema in engramma sono rivolte all'approfondimento del complesso meccanismo di tradizione dell'antico che ha condotto gli artisti di Borso a tradurre per immagini nel palazzo ferrarese.

Il saggio di Marco Bertozzi introduce al tema, ripercorrendo la storia interpretativa dei decani, mentre il Diario di lavoro di Maurizio Bonora ripercorre l'iter metodologico di studio e ricostruzione dei decani. Il complesso lavoro di ricerca e ricostruzione, messo in campo dall'artista ferrarese, si è basato sia sulle fonti letterarie antiche e coeve al ciclo astrologico, ma anche sulle fonti iconografiche coeve, presenti nello stesso Salone, sia sull'opera degli artisti ferraresi del tempo.

Viene quindi presentato 'Mese per Mese' l'intero ciclo iconografico nei suoi registri superiori – il "cielo di Schifanoia" a cui intitoliamo questo numero monografico – con le divinità in trionfo che sovrintendono al segno zodiacale e i decani, le personificazioni celesti che Warburg aveva ricondotto alla complessa cultura astrologica di Pellegrino Prisciani, ibridatisi nel passaggio dalla cultura egizia a quella romana, da quella araba e alla raffinata e criptica erudizione cortese europea.

Il tema dell'astrologia cortese, che Warburg approfondisce e riprende in alcune tavole dell'Atlante della memoria, ha rilevato la necessità di organizzare una Bibliografia ragionata dei contributi più significativi e aggiornati riguardanti i cicli astrologici di Padova (il Salone del Palazzo della Ragione), Rimini (la Cappella dei Pianeti nel Tempio Malatestiano di Rimini) e Ferrara (il salone dei Mesi di Schifanoia), per cui ci è sembrato opportuno inserire nel numero un regesto bibliografico aggiornabile, che possa essere di aiuto agli studiosi. Infine sono presentati i materiali aggiornati per Tavola 27 dell'Atlante Mnemosyne, dedicata da Warburg al Cosmo di Schifanoia.

Il numero 102 che Engramma dedica a Schifanoia intende anche richiamare l'attenzione sul difficile momento che l'intera città di Ferrara vive a seguito del sisma che la scorsa primavera ha compromesso gran parte degli edifici storici, compreso Palazzo Schifanoia, a tutt'oggi ancora chiuso al pubblico. I curatori e la redazione di Engramma invitano i propri lettori a contribuire alla campagna di raccolta fondi destinata al restauro e alla messa in sicurezza del Palazzo che ospita anche il Museo, in vista della riapertura nella primavera 2013.

Mediante un versamento mediante bonifico intestato al Comune di Ferrara, indicando nella causale "Palazzo Schifanoia – ricostruzione post sismica" (IBAN: IT 26 K 06155 13015 000003204201), è possibile contribuire per restituire alla città, e ai visitatori e agli studiosi di tutto il mondo, questo prezioso luogo di arte e di memoria.

Del Cossa, Aprile

sabato 5 maggio 2012

Tiziano ha perso la testa

Sembra proprio che in questo dipinto sia rappresentata una storia d'amore. La testa di Giovanni Battista ha una notevole somiglianza con la fisionomia del maestro di Pieve di Cadore. Il naso aquilino e i capelli morbidamente sparsi sul piatto d'argento. La fanciulla è il ritratto di Viola, o Violante, figlia di Palma il Vecchio e amata dal maestro che la raffigurò anche nell'Amor sacro e profano in veste di Venere. Come dire: ho perso la testa per te!

Tiziano, Giuditta con la testa di Oloferne, 1570
La ricerca è stata compiuta dalla rivista di Stile Arte, dalla quale sono tratte queste note introduttive: "in queste settimane, un particolare di notevole rilievo semantico che, per quanto appaia estremamente accessorio sotto il profilo della composizione dell’opera, consente di individuare un piano allegorico nell’ambito del dipinto Giuditta con la testa di Oloferne di Tiziano, recuperando a pieno titolo il significato amoroso del quadro, un significato privato che si sovrappone alla scena biblica: quello relativo alla passione - e alla dichiarazione dell’assoluta dipendenza sentimentale - del pittore per la giovane e splendida Viola - detta anche Violante - colei la quale si ritiene fosse figlia di Palma il Vecchio. 
Già si era stabilito che il volto del Battista - i capelli lunghi scarmigliati, la barba vaporosa, la fronte bombata ed evidente, le tempie scavate, il naso lievemente aquilino - presenta somiglianze strettissime con il maestro di Pieve di Cadore. E crediamo che, a questo proposito, non vi siano dubbi, come dimostra l’assoluta sovrapponibilità della mappa facciale dell’uomo decollato con il volto di Tiziano, sia quelli inseriti con il valore di firma in alcuni dipinti che nei due autoritratti, per quanto siano stati realizzati nella maturità o nella vecchiaia, giacché la struttura del volto resta invariata.
Ora due elementi fondamentali entrano in gioco in Giuditta con la testa di Oloferne, al punto da testimoniare la presenza di un piano semantico che allude alla presenza di un livello di comunicazione privata, in un gioco emotivo che proietta su un evento storico, senza che ciò sia palesemente evidente - così come accade spesso nel gioco della pittura antica, che opera, in diversi casi, su più strati, nel continuo interloquire tra evidenza e significato - la dichiarazione di un rapimento amoroso".


Nell'Allegoria della prudenza (o le Tre età dell'uomo) è possibile individuare un ritratto di Tiziano a quell'età.

martedì 27 marzo 2012

Piero della Francesca - L'annunciazione di Perugia



Interessante lettura del prof. Rodolfo Papa sull'Annunciazione di Piero della Francesca, che chiarisce i vari momenti dell'evento divino e il ruolo della prospettiva nella storia sacra, prospettiva nata appunto per conferire veridicità allo spazio raffigurato e quindi dare autorevolezza al racconto. (Su Zenit).

L’Annunciazione è un mistero della gioia, particolarmente caro agli artisti italiani del Rinascimento, che in innumerevoli prospettive lo hanno rappresentato, sottolineando in modo mirabile il Fiat di Maria e lo stravolgente evento in cui Verbum caro factum est.

Piero della Francesca dipinse l’Annunciazione su una tavola dipinta a tempera nel 1470, nella cimasa del cosiddetto Polittico di Perugia, per il Convento delle Monache Francescane di Sant’Antonio da Padova (dove fu conservato fino al 1810, anno in cui fu spostato nella Galleria Nazionale di Perugia, dove è tuttora esposto). Giorgio Vasari nelle sue Vite descrive l’opera in questi termini: «una Nunziata bellissima, con un angelo che par proprio che venga dal cielo; e che è più, una prospettiva di colonne che diminuiscono»1.

Piero, con una struttura apparentemente semplice, racconta il Mistero dell’Incarnazione attraverso uno strumento che egli conosceva molto bene: la prospettiva. Dopo i passi iniziali compiuti dai pittori del primo Quattrocento, ( Brunelleschi, Masaccio e Donatello) egli compie studi che assieme a quelli di Leonardo e di Leon Battista Alberti oltre ad alcuni matematici porterà questa disciplina a livelli altissimi di perfezione. Ricordiamo che la prospettiva nasce proprio nella storia dell’arte per realizzare l’esigenza di rappresentare la realtà e la presenza delle Sacre Storie. La prospettiva diventa lo strumento privilegiato per aiutare la contemplazione.

Piero della Francesca rappresenta l’Arcangelo Gabriele in ginocchio con un abito azzurro, le ali di colomba ancora aperte dopo aver planato nel suo volo di messaggero, porta le braccia incrociate al petto e guarda Maria, che dall’altra parte della tavola in piedi con il capo un poco chino ha gli occhi bassi, muovendo un piccolo passo come per accennare un inchino, tenendo il libro delle preghiere nella mano sinistra con l’indice a mò di segnalibro, porta le braccia incrociate al petto come l’Arcangelo. Le due figure sono separate da uno spazio architettonico che in un gioco di prospettive riempie completamente la superfice dipinta. Una colomba che plana dall’alto, in una aureola di luce dorata procede verso Maria. Fin qui niente di sostanzialmente diverso da tante altre annunciazioni del passato e contemporanee. Ma la narrazione evangelica che meditiamo il giorno dell’Annunciazione del Signore, tratta dal Vangelo di Luca, ci offre alcuni spunti di riflessione per comprendere meglio questo dipinto: « Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: “Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te”. A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse quel saluto» (Lc 1,26-29).

Per tutto il Trecento ed il Quattrocento si moltiplicano piccoli trattati spirituali che aiutano la contemplazione della narrazione evangelica e che divengono strumenti utilissimi per i predicatori, come il Zardino de oration, o il Catolicon o ancora lo Specchio di fede, che sono i più famosi e diffusi alla fine del Quattrocento. Questa tradizione elenca cinque stati d’animo che Maria vive nella angelica confabulazione2: il primo si chiama conturbatione, il secondocogitatione, il terzo interrogatione, il quarto humiliatione, e l’ultimo meritatione . Piero nella sua opera sottolinea il penultimo stato d’animo che pian piano scivola nell’ultimo, ovvero il momento nel quale Maria dice: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto”. E l’angelo partì da lei. Allora guardando l’angelo comprendiamo che non è stato dipinto nell’atto di giungere, ma piuttosto stende le ali ed è pronto a partire, mentre subito dall’alto lo spirito Santo in forma di colomba discende su Maria per compiere quel mistero gaudioso che è centro della storia della salvezza e centro reale del dipinto di Piero. Infatti tutta la tessitura del racconto pittorico è organizzata spiritualmente attraverso la prospettiva. La prospettiva è in grado di rappresentare quel particolare mistero. Tra lo spazio angelico di Gabriele e quello umano di Maria c’è una separazione, un cono prospettico, come un terzo spazio che è momentaneamente riempito da una assenza, un vuoto incolmabile: lo spazio divino è separato nettamente da quello umano dopo il peccato originale. Ma ecco che con Maria i tempi si compiono, il centro della storia è nella sua struttura architettonica costruito per accogliere il Salvatore, e nel momento in cui risuona nella storia il suo Fiat,lo spazio si ricolma di Spirito Santo e diviene il grembo di Maria.

La prospettiva pittorica si impegna nel proclamare il grande mistero della Incarnazione.

«Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18).

Alla fine del XVII secolo, il grande artista Andrea Pozzo dirà a proposito della prospettiva: “tirar tutte le linee...al vero punto dell’occhio che è la Gloria di Dio”3.
*
1 Giorgio Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori, et scultori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino, 1991, p. 342, (nota 20).
2 Fra Roberto Caracciolo, Specchio di fede, Venezia 1492.
3 Fratel Andrea Pozzo, Perspectiva pictorum et Architectorum, Roma 1693-1702.

martedì 14 febbraio 2012

Iconos - viaggio interattivo nelle metamorfosi d'Ovidio

Se in questa giornata di S. Valentino avete voglia di storie d'amore vi consiglio questo sito: ICONOS. E' un progetto curato dalla cattedra di Iconografia e Iconologia della prof. Claudia Cieri Via del Dipartimento di Storia dell'Arte della Facoltà di Scienze Umanistiche dell'Università di ROMA "La Sapienza" ed è stato progettato per giungere alla costituzione di un repertorio mitologico online relativo sia alle immagini - per l'arco temporale che va dall'antichità al XVIII secolo - che ai testi: classici, medioevali e rinascimentali. Alla base del progetto ICONOS vi è una ricerca che prende le mosse dall'analisi delleMetamorfosi di Ovidio, opera come si sa fondamentale per la produzione iconografica (considerando che circa un 80% della materia mitologica ispira la produzione artistica), specie in età umanistica e rinascimentale, la cui struttura narrativa, organizzata per episodi mitologici spesso tra loro connessi, è incentrata sul topos della trasformazione. Un immenso archivio dove sono analizzate le singole storie tratte dai libri, catalogate e ritrovate in tutte quelle opere che si sono susseguite dall'antichità al rinascimento. Un lavoro altamente scientifico, utile come repertorio ma anche per una consultazione veloce. Il tema di questo mese è il Ratto d'Europa, l'immagine in basso, invece, raffigura Polifemo e Galatea in un sensualissimo bacio. Il "quadretto" oggi esposto nella sezione del Gabinetto Segreto del MANN, venne staccato dalla parete sud di un'esedra che affacciava sul peristilio della Casa della Caccia Antica a Pompei. Le bianche, morbide carni della ninfa spiccano sul corpo "brunastro" di Polifemo che cinge "animalescamente" la preda tanto desiderata. Da notare che siamo in presenza di una versione piuttosto rara del mito in quanto Galatea, nella versione "ufficiale", non si "offrì" mai al ciclope poiché perdutamente innamorata del bellissimo pastorello Aci, ucciso per gelosia dallo stesso Polifemo con un masso e dal cui sangue scaturì appunto il fiume Aci che ancora oggi scorre presso le pendici dell'Etna.


mercoledì 11 gennaio 2012

Iconografia della Croce dipinta

Un interessante articolo dello storico dell'arte Marco Bona Castellotti sul tema della Croce dipinta che ho accompagnato con una selezione di opere. Un percorso di secoli: dal Cristo vivo e trionfante a quello morto e patiens. Alla scoperta del soggetto iconografico che condensa in sé la natura umana e quella divina del Figlio di Dio.

croce 432 Uffizi
Perché il tema della croce dipinta e del suo mistero? Se mi si ponesse la domanda di quale espressione d'arte riflette più intensamente il senso del Mistero di Dio, non potrei che rispondere: una croce dipinta italiana del XII secolo. Ma un altro mistero soggiace al tema della croce dipinta ed è un mistero di carattere culturale: quali sono le ragioni che dettano il passaggio dell'iconografia del Cristo vivo e trionfante sulla croce a quella del Cristo morto e patiens sulla croce in Oriente e in Occidente. Il volto di Cristo della Croce 432 degli Uffizi, che si data intorno alla metà del XII secolo, di autore anonimo, a mio parere rappresenta una vetta assoluta nella storia dell'arte, nella sua apparente mancanza di espressione di dolore e nella sua evidente espressione di mestizia e di lontananza. Nella crocifissione che compare su un codice della Biblioteca Laurenziana di Firenze, detto codice di Ràbula, nome dell'autore delle miniature, probabilmente di origine siriaca, possiamo vedere una raffigurazione del tema già molto progredita nella densità degli elementi che la compongono: Cristo, i due ladroni, a sinistra la Vergine e san Giovanni, Stefanato e Longino (Longino è quello che raccoglie il sangue sgorgato dal costato di Cristo in un calice e lo porta a Mantova, infatti il calice del sangue di Cristo per tradizione è ancora conservato a Mantova e ivi venerato), i tre soldati che giocano sotto la croce e il gruppo delle pie donne sulla destra estrema.

È probabile che il codice sia di origine siriaca, in quanto la raffigurazione di Cristo e di tutti i personaggi che compongono la scena è molto realistica; ad esempio il Cristo veste una specie di gonnellone, il colobium di origine siriaca, porta la barba, diversamente dall'iconografia del Cristo di origine ellenistica che è imberbe. La cultura ellenistica è una cultura più estetizzante, quindi era più probabile che si raffigurasse un volto glabro, imberbe piuttosto che questo, realista, come è realista tutto quanto il cristianesimo di origine orientale. Il sole e la luna compaiono spesso nelle raffigurazioni della crocifissione e hanno una precisa allusione al Vangelo di Luca, che dice che «obscuratus est sol» nel momento della morte di Cristo, ma potrebbero anche stringere un nesso con certe iconografie più antiche, pagane, proprio di area siriaca, che accompagnano la raffigurazione di alcune divinità, come Serapide o Iupiter Heliopolitanus o Mitra, divinità legate al culto del sole, culto dal quale il cristianesimo recupera molti elementi, vedi il concetto di Cristo come Sol invictus.

Arte aniconica

Santa Maria Antiqua, crocifissione
Nei primi tre secoli l'arte cristiana è completamente aniconica, si basa unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo. Con l'avvento di Costantino avviene il trionfo della croce, e Costantino aveva usato come vessillo della sua vittoria la croce stessa. Nel monogramma di Cristo comincia a comparire la croce con l'alfa e l'omega e il monogramma continua anche molto dopo l'epoca costantiniana. Intorno al 340 si colloca anche la leggenda del ritrovamento della vera croce operata dalla madre di Costantino, sant'Elena. Quindi la croce comincia il suo cammino trionfale, ma non un cammino iconografico perché la croce, specialmente la crocifissione col corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell'iconografia, in quanto la crocifissione è un supplizio pagano. Nel 340 il supplizio della croce viene abolito. La croce, come si vede nel grande mosaico absidale di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna del VI secolo, ha ancora una valenza simbolica. L'unico elemento che richiama Cristo è quel medaglione che sta al centro ma tutto il resto invece è ricondotto a pura geometrizzazione. Quali sono le ragioni? Qui cominciano a infittirsi i misteri collegati all'iconografia della croce, e bisogna sconfinare finché è possibile nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle eresie a esso connesse. Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del IV secolo è quella di Eutichio il quale negava la natura umana di Cristo, lasciando in vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato. Si mette ordine nel problema piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si tiene un Concilio detto "in Trullo" nel quale un comma, l'undicesimo, esprime chiaramente il problema: «È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla memoria di Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo». Quindi finalmente si poteva lasciare assoluto spazio alla figurazione anche di Cristo in croce; ma a quali condizioni? A condizione che fosse rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte e anche a questo punto il problema, il mistero, si infittisce e molti hanno cercato di capire perché Cristo è trionfante, non bastando le scritture soltanto a giustificare la vita di Cristo in croce, da morto. Nello straordinario affresco di Santa Maria Antiqua a Roma, dell'VIII secolo, Cristo è vivo, inespressivo, non venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti e incantati, trionfante per la sua solenne calma oltre la morte. È probabile che la spiegazione di Cristo oltre la morte si ritrovi nella risposta alla teoria eutichiana che venne promulgata durante il Concilio di Calcedonia, nel V secolo, nel quale si affermò che nell'unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la natura umana. La compresenza di queste due nature doveva superare il problema del dolore di Cristo morto e anche superare, in forma onnicomprensiva e sintetica, il concetto della passione.

Movimento iconoclasta

L'iconografia di Cristo vivo in croce, trionfante, dura in Oriente fino all'XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII secolo. L'affresco di Santa Maria Antiqua probabilmente appartiene a un anonimo maestro costantinopolitano, lo si data di solito verso la fine dell'VIII secolo, perché a Roma potevano confluire maestri di area orientale in quel momento, per una ragione storica molto semplice, storicamente individuabile, ed è costituita dal grande movimento iconoclasta che si colloca fra il 730 e l'840 all'incirca, che aveva dato vita a una vera e propria guerra di religione, contro tutto ciò che potesse essere immagine del Redentore. Da che cosa nasceva questo movimento iconoclasta, appoggiato fondamentalmente dal Basileo e da gli ambienti intellettuali che si muovevano intorno alla corte? Dal fatto che il realismo di una certa pittura popolare era considerato peccaminoso. Nacque, il movimento iconoclasta, da un giudizio morale che immediatamente si convertì in un giudizio culturale di portata inaudita; fu una rivoluzione che portò a eccidi. Alle origini del movimento iconoclasta ci fu un'influenza islamica. L'arte islamica è aniconica, è pura decorazione; ma furono proprio la base di elementi popolari e gli ambienti monastici, ancora una volta dell'Oriente cristiano, a conservare e custodire una iconografia sacra realistica, perché gli ambienti popolari volevano una immagine davanti a sé, non un'idea.

Mentre in Occidente la raffigurazione di Cristo vivo in croce perdura fino al XIII secolo, quanto invece accade in Oriente due secoli prima è ancora avvolto dal mistero. Per quale ragione nei primi due decenni del Mille, intorno al 1020, compare un codice, miniato nel monastero di Stoudios a Costantinopoli, in una delle cui miniature Cristo viene raffigurato in croce morto? Per quale ragione nel mosaico, stupefacente, di Dafnì, Cristo ha reclinato il capo, il suo corpo si è arcuato, ha perso la fermezza, il tipo di ieraticità, di fissità come invece era fino a quel momento, e il capo si appoggia sulla spalla? Perché gli occhi sono quasi completamente chiusi e Cristo è morto - benché non sia una morte totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno, è una morte quasi disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena che una morte -, gli occhi sono chiusi e qualcosa di nuovo è accaduto nel frattempo? Fra le miriadi di ipotesi che si sono susseguite negli studi moderni, e contemporanei, ce n'è una che è da considerarsi la più attendibile. Proprio nel monastero di Stoudios, verso la fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di mettere ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi: come giustificare che Dio potesse morire in croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la sua divinità pur da morto. Ed era arrivato a questa soluzione teologica: morì, sì, in croce, il suo corpo morì, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, sì che pur morto viveva nello Spirito. Ciò toglieva ormai tutti gli ostacoli alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a confidare nella vita di Dio. Ma perché potesse il fedele essere ancora più certo che in un corpo morto, nel corpo morto di Cristo, la vita ancora proseguisse, venne raffigurato per la prima volta il fiotto di sangue che sgorga dal costato.

Vivo e trionfante

Croce di Rosano
Il grande crocefisso di avorio che proveniva in origine dalla cattedrale di Leon, ora conservato nel Museo Archeologico di Madrid, la croce di Ferdinando I di Castiglia del 1160, dimostra come la tradizione iconografica del Cristo vivo in croce non solo dura, ma anche si diffonde in ambiente latino, in Spagna e specialmente in Italia. Cristo ha un'aria quasi spettrale dovuta al fatto che i grandi occhi spalancati, perché è vivo e trionfante, sono di porcellana, porcellana azzurra, quindi tutto quanto cerca di puntare sul tema della sospensione pur essendo straordinariamente concreto nella sua forza d'urto.
Il fenomeno della fioritura delle croci dipinte è italiano, ma non si sa se la prima croce dipinta fosse italiana. La cosa strana e curiosa è che, comunque, dopo Dafnì, dopo il pensiero che si esprime nel monastero di Stoudios, dopo Nichetas Sthetatos, dopo che Cristo muore o comunque si abbandona in qualcosa di molto simile alla morte in Oriente, in Occidente - che dovrebbe essere così aggiornato culturalmente - Cristo continua a trionfare fino agli inizi del 1200.
In un'altra delle straordinarie croci dipinte italiane, quella di Rosano, conservata agli Uffizi, la croce è mozza nel capocroce, ma è completa in tutti gli altri elementi e cominciano a comparire intorno alla figura di Cristo anche i tabelloni che di solito illustrano in dettaglio tutti i momenti della passione di Cristo, ma Cristo è vivo.
È piuttosto sconvolgente il particolare del volto. Certo l'influenza bizantina è ancora molto forte, ma questa influenza bizantina si deve adattare, entrare nel vivo di una forza di concretezza di immagine che è italiana; ed è vero che Cristo è raffigurato quasi impassibile, non colpito e non espressivamente segnato dal dolore, ma è anche evidente che in questo sguardo così incantato c'è un senso di lontananza, di tristezza, di mestizia che ha come bisogno di espandersi e di trovare una forma nuova per esprimersi e diventare sempre più vero, lasciare la sua condizione totemica che, nella sua inafferrabilità è insufficiente ad appagare anche la pietas di chi vuole invece essere sempre più vicino alla figura di Cristo.
La croce di Pisa mantiene ancora la struttura con i tabelloni ai fianchi di Cristo, che in qualche modo sono il segno di una tradizione antica; inoltre c'è come un eccesso di linearismo: Cristo non è più con gli occhi spalancati, non è più vivo ma è morto, ma questa morte, a ben guardare, ha ancora i caratteri del Cristo morto di Dafnì, il che fa supporre - per la tripartizione della chioma, l'eccesso di linearismo, con cui viene segnata la curva del naso, le palpebre, ma soprattutto l'abbandono incorporeo, quasi lievitante, quasi sognante -, che l'autore è orientale. È certamente la prima croce di area italiana nella quale Cristo muore. E allora è da pensare che l'autore fosse già soggetto a quel fatto assolutamente rivoluzionario nella cultura europea, che rappresenta la ragione certa della svolta di proporzioni colossali, soprattutto di una svolta senza confini che portò anche come riflesso figurativo la morte di Cristo in croce? Questo fatto non è altro che l'avvento di san Francesco e del suo pensiero, della sua predicazione.

L'avvento di San Francesco.

Giunta Pisano, Crocifissione, San Domenico
La meravigliosa croce di Giunta Pisano, databile poco dopo il 1220, oggi si trova nella chiesa di San Domenico a Bologna. Cosa è successo? Quanto è lontano questo volto di Cristo - oramai affondato dalla sofferenza, assolutamente morto, senza ombra di esitazione, e così capace anche di coinvolgere lo spettatore, il devoto, di portarlo con sé - dalla croce di Dafnì. È qualcosa di dirompente quello che è accaduto. Perché nel pensiero e nella predicazione di san Francesco l'identificazione con Cristo morto è diventata uno dei cardini così di tutta quanta la sua spiritualità, così della pietà, e da ciò ne è scaturito tutto quanto ne è conseguito poi sul piano figurativo. Non c'è nulla di più efficace, di più eloquente, utile, a spiegare cos'è accaduto, delle parole di Jacopone da Todi, che in clima francescano a un certo punto canta: «Voglio me stesso renegare e la croce voglio portare». Quasi in un crescendo di dolore terreno Giunta dipinge intorno a quegli anni anche la croce di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Si è abbandonata la linearità ascensionale, tutto quanto è diventato come più concreto, perché il cammino poi continua per quello a cui in fondo si doveva arrivare e si arriverà soltanto con Giotto: portare fino all'estremo della sua verità l'umanizzazione del sacro e quindi anche della figura di Cristo.
La croce dipinta di Coppo di Marcovaldo, nel museo di San Gimignano, è del 1274. Certe resistenze antiche permangono, vedi appunto ancora l'illustrazione episodica dei tabelloni, con le storie di Cristo, e poi l'alleggerimento della figura del Cristo morto che in qualche modo richiama al fatto, alla possibilità di lasciarlo come parzialmente, impalpabilmente in vita. Quanto c'è di nuovo in un pittore come Coppo di Marcovaldo è da attribuirsi a un suo immediato predecessore benché più giovane di lui, che aveva effettivamente fatto un passo anche ulteriore rispetto a Giunta: Cimabue. Allora c'è qualcosa di nuovo, innanzitutto c'è un alleggerimento di certe parti, però non da intendersi come retroattivo, come una volontà di tornare al passato, nell'impalpabilità della figura, ma invece è da intendersi come una volontà faticosa di arrivare a quella umanizzazione del sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato. Per arrivare a questo ci vuole un'altra rivoluzione: consimile a quella di san Francesco anche se proiettata su un altro piano. Proprio in funzione della umanità dichiarata di Cristo, nella sua morte (ma questa volta è una morte fisica, umana fino in fondo e come tale può essere anche attraversata da un fremito di vita, perché nel crocefisso del Tempio Malatestiano Cristo è morto ma è umano e divino), mai ci si è totalmente spinti in una corsa verso la modernità, e la sua concentrazione di umano e divino è definitivamente decretata.

Marco Bona Castellotti

E per terminare questo articolo, mostrando come l'iconografia è sempre viva e un'immagine può evolversi nella storia avendo come saldi punti di riferimento la dottrina cristiana ecco una croce realizzata dall'artista Rodolfo Papa che segna una novità: Cristo è morto ma è come se fosse già in gloria, risorto in quanto stagliato su un cielo luminoso.


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