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giovedì 3 ottobre 2013

"San Francesco in estasi" di Rodolfo Papa

"San Francesco in estasi" di Rodolfo PapaAnalisi e riflessioni sull'opera, che verrà benedetta domani dal cardinal Cañizares (su Zenit)

La chiesa Parrocchiale di San Giulio a Roma dopo aver accolto, lo scorso 13 aprile, la tela raffigurante San Giulio I in preghiera[1] continua l’opera di riqualificazione degli spazi liturgici presentando un nuovo dipinto realizzato dall’artista Rodolfo Papa. La volontà espressa dai committenti è quella di conferire nuova dignità alla chiesa del quartiere Gianicolense che, costruita negli anni Sessanta, era rimasta incompiuta in quanto ferma alla sola cripta e pertanto sostanzialmente spoglia di ornamenti. Il decoro che deriva dalle opere d’arte sacra autentiche, ovvero universali, belle, narrative e figurative[2], è un segno di elevazione morale e spirituale, una difesa contro le spinte nichiliste della società contemporanea, un rifugio dalla bruttezza che sempre più spesso viene esaltata dai media e dalle arti, e infine un momento prezioso di didattica della fede se recuperiamo l’antico concetto delle immagini come Biblia pauperum. La tela che raffigura San Francesco in estasi verrà inaugurata solennemente il prossimo 4 ottobre durante la cerimonia presieduta dal cardinale Antonio Canizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

L’opera sarà collocata di fianco al tabernacolo, già incastonato all’interno di una vetrata policroma e affiancato da due pannelli raffiguranti le specie eucaristiche del pane e del vino, e formerà con la precedente tela una sorta di pendant. Le due figure così disposte, San Giulio I, titolare della chiesa, e San Francesco, in omaggio all’attuale pontefice Francesco, guardano entrambe verso la custodia eucaristica guidando così lo sguardo del fedele in direzione del centro fisico e spirituale dello spazio. Nell’opera di arricchimento del patrimonio iconografico della chiesa è stato pensato inoltre di inserire, in futuro, sopra al tabernacolo, una sorta di “macchina” pittorica, ovvero un polittico comprendente diversi pannelli con la figura di Cristo risorto circondato dalla Madonna e San Giovanni Battista, dalle figure dell’Angelo e di Maria dell’Annunciazione, e sormontato dalle altre Persone della Trinità, il Padre e lo Spirito Santo. Due figure di angeli sporgerebbero poi dai due sportelli laterali mentre tutta la costruzione lignea sarebbe decorata con foglia d’oro costituendo così una vera e propria “Gloria” o macchina scenica come si usava nel Rinascimento.

La tela raffigura San Francesco in estasi, col volto rapito dalla luce divina e pertanto intento a fissare in alto, mentre poggia su alcune rocce sullo sfondo di un paesaggio naturale e di un cielo dai colori del crepuscolo. Il paesaggio, se letto come una raffigurazione compendiaria del monte della Verna, ci riporta anche al momento della stigmatizzazione. Secondo le agiografie, il 14 settembre 1224, mentre si trovava a pregare in questo luogo il santo, caduto in estasi, avrebbe visto un Serafino crocifisso e al termine della visione gli sarebbero comparse nel corpo le piaghe di Cristo sulla croce («Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo / che le sue membra due anni portarno» Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, canto XI). Per questa caratteristica, per la condivisione fisica delle pene di Cristo, San Francesco viene definito «alter Christus» e lo si intuisce bene nella tela di Papa in quanto la figura, nel momento della visione, con le braccia allargate viene ad assumere la posa di Gesù crocifisso. La pietra sulla quale poggia inoltre, a differenza delle rocce naturali che lo circondano e che sono mutuate dalle rocce leonardesche, è una pietra perfettamente regolare e deriva dalla pietra tombale, il lapis untionis, della Deposizione di Caravaggio. La citazione è molto evidente e anche in questo caso possiamo leggere il legame con la Passione di Cristo il quale dal momento della massima disperazione, ormai calato morto della croce e condotto al sepolcro, abbandonato dai discepoli e dimenticato dagli amici, risorto diventerà la pietra d’angolo delle successive generazioni e della Chiesa che su lui si fonda: «La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d’angolo» (Sal. 118). Anche San Francesco per il suo tempo, con i suoi insegnamenti e la sua predicazione, è diventato una colonna della Chiesa: come riportato nella Legenda maior Innocenzo III sognò l’umile frate che reggeva la Basilica del Laterano, a simboleggiare l’intera comunità cristiana, salvandola così dalla distruzione. Il santo è circondato dall’intera creazione, piante e animali sono il canto della natura ma anche un riferimento al suo Cantico delle creature, il testo poetico più antico della letteratura italiana composto, secondo la tradizione, proprio durante la permanenza sulla Verna. L’usignolo sulla destra, simbolo di re Davide compositore dei Salmi e quindi cantore della maestà e bellezza divina, diventa anche simbolo di Francesco che canta e scrive lodi a Dio mentre la lucertola e la rana, come nelle opere di Carpaccio, sono un’allusione alla morte. La lucertola inoltre, per la sua immobilità al sole, è anche simbolo di contemplazione della luce divina. Tra le piante mediche raffigurate in basso, tutte allusive di nuovo alla Risurrezione di Cristo dalla morte, compare vicino al piede anche il Tasso Barbasso (Verbasco) che, secondo la tradizione, aveva la capacità di conservare, di preservare dalla putrefazione e di trattenere in vita, assumendo quindi un significato salvifico.

A livello compositivo l’opera si può dividere in due parti: la zona inferiore caratterizzata dalle rocce e dagli alberi sullo sfondo allude alla morte e all’aspetto terreno della predicazione di Francesco, ma anche alla creazione divina e alla varietà della natura, la zona superiore, invece, contraddistinta esclusivamente da un cielo privo di nuvole, allude all’aspetto spirituale e mistico, alla preghiera e all’adorazione verso Dio. Il volto di Francesco, lasciato volutamente generico fuori da questioni filologiche sulla ricostruzione fisiognomica, nell’unione di grazia, dolcezza e misticismo è il vero centro del dipinto e il punto focale della scena. Con grande efficacia retorica, inoltre, Papa ha caratterizzato il cielo alle spalle in modo tale che un’aureola di luce circondasse la figura del santo patrono d’Italia e d’Europa. L’artista non è nuovo a tali ricerche sulla luce in quanto sovente adopera gli aspetti “atmosferici” del cielo come manifestazioni del divino: le sue sono delle vere e proprie teofanie, manifestazioni di Dio in forma sensibili, in questo caso nei colori del cielo. L’opera rispettando l’iconografia, anzi arricchendola con diversi spunti, e ponendosi nel solco della tradizione, ovvero della storia dell’arte sacra cristiana, dimostra ancora una volta come sia possibile proporre un’arte figurativa e allo stesso tempo non anacronistica, ovvero non fatta esclusivamente di citazioni e riferimenti al passato ma capace di offrire spunti nuovi. Recentemente Papa, nel corso del convegno Riflessioni sull’arte sacra tenuto presso il Santuario dell’Addolorata di Castelpetroso per l’inaugurazione della mostra Immagine del Vespro, chiarendo i vari aspetti dell’opera d’arte e del rapporto dell’arte con il magistero della Chiesa, considerando l’espressione artistica come una delle più importanti dichiarazioni di fede che l’uomo può produrre, ha affermato come non rispettando l’armonia e la bellezza, distorcendo la forma, allontanandosi dal volto di Cristo, eliminando il sacro, l’artista rischia di cadere nel peccato della falsa testimonianza. Le opere di Papa, e la tela con San Francesco ne è uno splendido esempio, vanno esattamente nella direzione opposta, ovvero nel recupero pieno della tradizione e nella consapevole ricerca di una bellezza non negoziabile con le logiche contemporanee della presenza[3].

Tommaso Evangelista è storico e critico d’arte

*

NOTE

[1] Sull’analisi del precedente dipinto T. Evangelista, “Giulio I in preghiera” di Rodolfo Papa. Analisi e riflessioni sull’opera, http://www.zenit.org/it/articles/giulio-i-in-preghiera-di-rodolfo-papa-analisi-e-riflessioni-sull-opera

[2] A riguardo R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Siena 2012.

[3] R. Papa, La bellezza come valore non negoziabile, http://www.zenit.org/it/articles/la-bellezza-come-valore-non-negoziabile

venerdì 20 settembre 2013

Immagine del Vespro - Arte sacra al Santuario dell'Addolorata

La mostra Immagine del Vespro, organizzata da Don Massimo Muccillo, Vicario Espiscopale per il Santuario, e curata dallo storico dell’arte Tommaso Evangelista, prende il titolo dalle cosiddette Vesperbild, le piccole sculture in legno, nate in area tedesca nel 1300, che rappresentano la Pietà e il cui nome si riferisce all’uso, all’ora dei Vespri del Venerdì Santo, di meditare sulle cinque piaghe di Cristo morto che giace sulle ginocchia della Madre. Il legame, naturalmente, è con l’immagine dell’Addolorata come si è mostrata tante volte durante le apparizioni promuovendo anche un’iconografia del tutto nuova nell’emblematico gesto “sacerdotale” di offerta. Tale rappresentazione fu fissata sulla tela, per la prima volta, nel 1889 dal pittore romano Giovanni Battista Gagliardi e questa immagine, oggi in mostra, è diventata la riproduzione canonica degli eventi di Castelpetroso. Nell’esposizione si è voluto affrontare, allora, proprio il problema legato all’origine della prima immagine presentando tutte le opere presenti in Santuario che potessero ricostruire il percorso dell’icona. Parimenti si è voluto dare all’evento un taglio storico allestendo, per la prima volta, un percorso documentario sull’arte nel Santuario. Le opere di Amedeo Trivisonno (verrà presentata anche una pala d’altare, la Deposizione, tolta da una cappella per essere fruita in maniera più ravvicinata), di Marcello Scarano, di Alessandro Caetani (bozzetti della via Matris), della Famiglia Marinelli (calchi delle formelle del portale di sinistra), spesso bozzetti o studi preparatori o lavori fruiti per la prima volta lontano dal contesto liturgico, ci aiutano a ricostruire l’intera vicenda artistica del complesso monumentale che è stato l’ultima costruzione in stile neo-gotico ad essere completata in Italia. Anche i bozzetti della famiglia Chiocchio, di Oratino, che si occupò della lavorazione di tutte le decorazioni in pietra della chiesa, ci aiutano a focalizzare l’attenzione sull’importanza e la difficoltà dell’impresa, aprendo una parentesi su un settore, quello artigianale, spesse volte ignorato dalla critica. Unitamente alle opere legate al Santuario si è voluta arricchire l’esposizione presentando altri lavori dei maggiori artisti che vi hanno lavorato. Di Scarano, autore della Via Crucis del Santuario (in esposizione anch’essa), è stato esposto un inedito polittico con le storie di Cristo e altri soggetti sacri, tra i quali una splendida Deposizione; di Trivisonno, autore delle otto pale d’altare, è presentato invece un pregevole quadro sulla Sacra Famiglia e un’inedita opera giovanile, proveniente dalla chiesa di San Rocco di Carpinone, del 1927, probabilmente tra i primi lavori a tema sacro su tela e recentemente attribuita al pittore da Evangelista. Le opere di Rodolfo Papa, infine, oltre a testimoniare la continuità, in territorio molisano, della linea figurativa a soggetto sacro portata avanti prima da Trivisonno e poi dal suo allievo Leo Paglione, anch’egli in mostra, segnano un’apertura al futuro sia nell’iconografia (si veda la tela con l’Addolorata) sia nel patrimonio artistico della chiesa dato che lo splendido bozzetto per la decorazione della cupola va proprio nella direzione di un arricchimento, di bellezza e di teologia, del complesso. Infine, poiché deve rimanere sempre forte il legame tra la storia e il presente, si è dedicata una sezione alla collettiva d’arte. Una selezione dei migliori artisti molisani, pittori, scultori, ebanisti, che si sono confrontati con tematiche religiose o con la stessa immagine dell’Addolorata, ci aiuta a comprendere come il legame con le forme e la rappresentazione non deve essere mai smarrito se si vuol comunicare i messaggi dell’arte sacra autentica. Proprio la presenza di opere di grandi maestri locali, favorendo un interessante confronto di carattere storico e formale, conferisce autorevolezza e senso alle opere presenti in collettiva. I lavori selezionati, degni per l’indagine di un senso intimo che coinvolge la stessa idea del ruolo dell’artista nella società, ci raccontano del tentativo, con tutte le difficoltà legate al collasso del sistema artistico, di riappropriazione della struttura e del senso e, in linea generale, del “corpo” della pittura e dell’arte. L’esposizione di fotografie delle Officine Cromatiche, inoltre, dimostra come l’immagine del Santuario non perda mai il suo fascino e continui sempre, con la sua forma significante e le sue bellezze artistiche, a ispirare chi, per propria inclinazione, è alla perenne ricerca dell’aspetto, della luce e del colore. Lo studio nato in preparazione della mostra ha tentato di legare gli eventi delle apparizioni all’idea stessa di forma, analizzando l’iconografia (con i suoi modelli) e la fortuna critica dell’immagine dell’Addolorata; parimenti è stata fatta una ricerca mirata di fonti e documenti per ricostruire la storia artistica del Santuario, le tante testimonianze presenti nella chiesa e i diversi artisti che vi hanno operato, per dare una visione quanto più possibile organica dell’arte sacra in Molise come sintetizzata in questo luogo di fede. A conclusione l’idea di fondo dell’intera mostra, e degli studi, è stata quella di aver voluto creare, visivamente e concettualmente, una linea di continuità tra tutte le esperienze artistiche legate al Santuario per restituire una volta per tutte, alla critica e al fruitore, un fondamentale e purtroppo poco conosciuto frammento di storia artistica molisana.






giovedì 8 novembre 2012

Una croce a Santa Croce?


Premetto che l'installazione di Palladino a Piazza Santa Croce a Firenze non mi convince per nulla. Una montagna di marmo senza senso che vista a livello stradale appare inconciliabile con l'ambiente urbanistico fiorentino mentre vista in pianta non è che un'insensata e inutile rivisitazione e trasfigurazione del segno più sacro alla cristianità. E poichè oggi da una parte, da una certa tipologia di artisti, si abusa troppo del simbolo e dall'altra, dal punto di vista dei fruitori, non si è più capaci di leggerlo e di comprenderlo trovo ancor più pericoloso trattare la croce con la superficialità della visione contemporanea che, come dimostrato in molte situazioni, è univoca ovvero non apre orizzonti di senso ma è pervasa da un nichilismo di fondo che sostanzialmente illude e confonde lo spettatore. La perdita, in questa "croce", della dimensione escatologica e staurologica non può inoltre che allontanare l'installazione dalla pur paventata idea di arte sacra attuale.

Così leggiamo sul sito della Fondazione Florens


"Una gigantesca croce di 80×50 metri realizzata disponendo davanti alla basilica francescana più di 50 blocchi di marmo estratti dalle cave di Carrara, diversi per dimensioni (dai 2 ai 4 metri di altezza), peso (alcuni fino a 38 tonnellate), forma e colore. Su ogni blocco Paladino inciderà e tratteggerà segni arcaici, volti, arti, cifre e lettere: tutti elementi che contraddistinguono il suo linguaggio figurativo e attraverso cui Paladino affronta ed esplora i simboli e le iconografie cristiane da cui trarre ispirazione. La monumentale croce entrerà in dialogo con la facciata ottocentesca di Santa Croce e sarà percepibile nella sua interezza dal sagrato e dalle finestre dei palazzi, mentre l’invaso della piazza sarà coperto con un tappeto di ciottoli bianchi dell’estensione di circa 4.000 metri quadrati: un candido manto di marmo che rifletterà la luce del sole e quella artificiale notturna trasformando piazza Santa Croce in uno specchio di spiritualità e arte, un immenso foglio bianco su cui Paladino ha immaginato di disporre i blocchi in forma di croce.

Il progetto, a cura di Pino Brugellis e Sergio Risaliti, associa l’universalità del simbolo cristiano alla contemporaneità del patrimonio artistico, che in questa occasione viene re-interpretato offrendo una nuova esperienza della piazza e restituendola ad una sua originaria identità, quella di spazio pubblico, e, insieme, di spazio sacro: le pietre impressioneranno con la loro mole lo sguardo dei cittadini, attratti all’interno della croce come in un labirinto o in un sacro recinto dei primordi" (link)

Così invece risponde Tomaso Montanari dalle pagine del Corriere

"Non parliamo poi di Mimmo Paladino: centomila euro (di questi tempi!) spesi per una sorta di trasloco di marmi, con la brillantissima idea della croce in Santa Croce. Come si può pensare che un’opera calata dall’alto per qualche giorno, un’installazione che non ha nulla a che fare col vivo tessuto degli artisti attivi a Firenze possa ‘redimere’ la socialità malata di quel quartiere? Davvero qualcuno pensa che qualcosa cambierà? E cosa dire del consumismo che esibisce tonnellate di marmo, incurante delle polemiche sull’insostenibilità del crescente fabbisogno di quella pietra? O della coazione ad occuparsi sempre e solo delle quattro o cinque piazze consacrate dal turismo di massa? E sì che l’artista ha parlato proprio di arte e spazio pubblico in una delle ‘lectio’ (sì, nel programma si usa ‘lectio’ anche al plurale: il latino non è una macchina da soldi, dunque si può benissimo usarlo senza conoscerlo)"


Per tacere poi su tutta la simbologia alchemica e sapienziale insita nell'opera e che va esattamente nella direzione opposta della spiritualità cristiana

http://fidesetforma.blogspot.com/2012/11/la-croce-di-paladino-in-santa-croce-fra.html

martedì 18 settembre 2012

Il ciclo sull'eucarestia di Rodolfo Papa

L'artista davanti al ciclo
Monumento alla santa memoria di tutte le vittime del Karlag, luogo di preghiera espiatoria e di riparazione ma anche segno visibile della fede e della dottrina cattolica, e valido strumento di evangelizzazione per mezzo della pietra, della bellezza e della cultura: questo, nelle parole della lettera pastorale dei vescovi di Kazakistan, i compiti e la missione della nuova chiesa di Karaganda. Domenica 9 settembre, infatti, è stata consacrata la Cattedrale della Diocesi di Karaganda, in Kazakistan, in una solenne celebrazione presieduta dal cardinale Angelo Sodano. La chiesa, voluta fortemente dall’allora arcivescovo della città, mons. Jan Pawel Lenga, e dal vescovo ausiliare mons. Athanasius Schneider, è sorta sulle ceneri di uno dei più grandi campi di concentramento sovietici, un Gulag (o meglio Karlag; Karaganda Lager) immenso, grande quasi come l’intera Francia, nel quale hanno lavorato, sofferto e sono morti milioni di persone di più di centro diverse etnie in nome di un’ideologia, quella comunista, fallace e antiumana. Poiché non esiste storia che non rubi alla realtà circostante ciò di cui si compone, quest’edificio, dedicato alla Beata Vergine Maria di Fatima, Madre di tutte le Nazioni, sorto dal nulla e in un territorio tanto segnato dal sacrificio e dal martirio, vuole essere un segno forte di espiazione e un segnale di speranza e di fede per tutta la regione soprattutto attraverso la missione dell’arte sacra autentica. Il progetto della struttura, elaborato dall’architetto tedesco Carl-Maria Ruf e adattato dall’architetto locale Vladimir Georgievitsch Sergeyev, prende a modello il Duomo di Colonia, in Germania, considerato tra le massime espressioni dello stile gotico, e si sviluppa pertanto in severe e slanciate forme neo-gotiche.
L’interno, a tre navate, è arricchito da vetrate, una teoria di statue di santi e da un elaborato altare ligneo policromo. In analogia con le 14 stazioni della via Crucis nella cripta è ospitato un ciclo di 14 tele sul tema dell’Eucaristia realizzate dall’artista romano Rodolfo Papa. E’ lo stesso mons. Schneider che ci chiarisce, sinteticamente, il programma iconografico: «Volevo esprimere nella Cattedrale nel modo più profondo il mistero della Santissima Eucaristia, poiché l’Eucaristia costruisce spiritualmente la Chiesa, l’Eucaristia fa vivere la Chiesa continuamente fino alla fine dei tempi. Il vero fondamento della Chiesa è l’Eucaristia. Perciò ho posto nella cripta, quasi nelle fondamenta della Cattedrale, un ciclo di 14 immagini sull’Eucaristia, in analogia con le 14 stazioni della via Crucis nella navata principale. Tutta la Sacra Scrittura ci annuncia Cristo fatto carne, fatto uomo. Ma Cristo si è fatto Eucaristia, ci ha lasciato Sua carne realmente, veramente e sostanzialmente presente nel mistero eucaristico. In un certo senso possiamo dire: tutta la Sacra Scrittura ci annuncia Cristo nel mistero dell’Eucaristia»1.

Il ciclo è complesso e si presta a diversi gradi di analisi che possono andare dalla semplice lettura didattica delle immagini a ragionamenti più complessi di ordine teologico, con tanto di rimandi e richiami tra le diverse storie raffigurate. Le immagini scelte sono tratte tutte dalla Sacra Scrittura, 7 dall’Antico e 7 dal Nuovo Testamento, e hanno per tema la simbologia eucaristica, chi esplicitamente chi come prefigurazione; ecco quindi in ordine temporale il sacrificio di Abele, il sacrificio di Melchisedec, il sacrificio di Abramo, l’agnello pasquale, la manna nel deserto, il cibo del profeta Elia nel cammino verso il monte di Dio, il tempio di Gerusalemme, Betlemme come “casa del pane”, il miracolo delle nozze di Cana, la moltiplicazione dei pani, il discorso eucaristico nel vangelo di Giovanni, l’Ultima Cena, Emmaus, l’Agnello nella Gerusalemme Celeste. Un discorso complesso e completo, quindi, che comincia col sacrificio di Abele per terminare con l’adorazione dell’Agnello mistico, dalle origini del racconto biblico fino alla gloriosa conclusione escatologica, per soffermarsi su episodi fondamentali dove attraverso figure, simboli, gesti e parole ci è stata rivelata la grandezza del mistero dell’eucaristia.
Papa, in questo senso, si è dimostrato un sapiente narratore capace di creare un ciclo unitario e solenne, comprensibile e limpido nella chiarezza delle storie e delle figure, con i singoli racconti che si focalizzano sull’evento evitando dispersioni descrittive. Ad una ripresa puntuale dei passi scritturistici si unisce una raffigurazione quanto più possibile attenta agli elementi storici (usanze e costumi) e alla più ampia tradizione figurativa dell’arte occidentale, anche con puntuali citazioni funzionali all’episodio come possono essere l’Agnello desunto dal polittico di Gand, alcune finte architetture riprese dall’arte fiamminga rinascimentale e poi naturalmente riferimenti a Caravaggio e alla grande arte rinascimentale italiana.

Natività 
Tra le diverse tele ci si voleva soffermare su alcune in particolare. La scena col sacrificio di Isacco, impostata sulle quattro figure principali del racconto (Abramo, Isacco, l’Angelo, l’ariete) disposte quasi a chiasmo, riprende e rielabora la stessa raffigurazione che l’artista ha dipinto per la Cattedrale di Bojano, in Molise, dove ha realizzato un intero ciclo pittorico. Il pittore, in questo modo, vuole sottolineare una sorta di continuità della composizione, e se vogliamo immutabilità, in opere tanto distanti tra loro spiegandoci come l’arte sia capace di parlare attraverso il registro del figurativo a fedeli differenti per usi e costumi ma accumunati dalla stessa fede. E’, se vogliamo, il compito principale dell’arte sacra al servizio della liturgia quello di insegnare ovunque la Parola di Dio con le immagini intese quali una sorta di Biblia pauperum. Fondamentale, nell’economia del ciclo, è la tela che raffigura la Natività a Betlemme (nome che significa appunto “casa del pane”); in questa scena, ambientata in una grotta come nella migliore tradizione leonardesca, Gesù bambino indica contemporaneamente se stesso e un cesto di pane comprovando appunto come Lui sia il vero pane di vita eterna. Il tutto è incorniciato da un finto portale gotico dove sono raffigurati, ai lati, due statue di profeti, Melchisedec ed Elia, che hanno prefigurato l’istituzione dell’eucaristia e che l’artista ha già raffigurato in altre due tele, mentre in alto l’alfa e l’omega, e la sigla IHS, sottolineano la natura divina e umana di Gesù Cristo. La tela quindi sottolinea il passaggio dalla Legge antica alla nuova in un rimando di simboli e personaggi che permette diversi livelli di lettura.
Interessanti sono le novità iconografiche con la rappresentazione ex novo di episodi mai trattati nella storia dell’arte come il rito dell’incenso nel Tempio di Salomone o la scena di Cristo come pane di vita, mentre in altre tele l’artista è andato oltre la classica immagine insistendo maggiormente sul mistero dell’eucaristia tanto che Mosè, nel miracolo della manna, distribuisce delle ostie come anche Gesù nella moltiplicazione dei pani e dei pesci. Dettagli affascinanti che svelano un intero sistema teologico e rendono attuale la storia della salvezza, tele che sostanziano il mistero attraverso la raffigurazione del corpo e aprono alla contemplazione in virtù dello splendore delle forme e dei colori.
Come lo stesso artista ha avuto a scrivere, infatti, «il sistema dell’arte cristiano appare dotato di almeno quattro caratteri fondamentali, universalità, bellezza, figuratività e narratività»2 e questo ciclo non fa che confermare l’impegno a superare quel «neotribalismo postcontemporaneo» per proporre un’arte capace di comunicare a tutti. In una terra tanto segnata dall’orrore e dai crimini dell’uomo sull’uomo un artista “contemporaneo” avrebbe risposto con la propria arte negando qualsiasi prospettiva di salvezza e redenzione e, nell’impossibilità di riscatto, avrebbe confidato nell’annichilimento delle forme come tentativo di liberazione; l’artista cristiano, invece, non abbandona la bellezza convinto della possibilità di salvezza. [Pubblicato venerdì, 14 settembre 2012 su ZENIT.org]

*
NOTE
1 “Un silenzioso ma anche potente segno e mezzo di evangelizzazione”. Intervista con monsignore Athanasius Schneider, su Zenit (http://www.zenit.org/article-32292?l=italian).
2 R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Siena 2012, p. 235.

E' possibile vedere l'intero ciclo su questo link da Picasa

Tommaso Evangelista

lunedì 14 maggio 2012

L'arte sacra tra «FIDES ET RATIO». Riflessioni sull'ultimo libro di Rodolfo Papa

La lettura dell’inscindibile rapporto tra arte e fede e l’analisi delle dinamiche contemporanee getta nuova luce sull’odierno sistema dell’arte e sull’essenza più profonda della pittura proponendo una via d’uscita e un aiuto alla liturgia. 

Ci sono persone che passano una vita a mettere libri in una biblioteca ed altre che mettono un’intera biblioteca in un libro. Discorsi sull’arte sacra (edizioni Cantagalli 2012) di Rodolfo Papa si colloca in questa seconda categoria ed è effettivamente una summa del sistema dell’arte posta al servizio dell’arte sacra autentica. Papa mettendo a frutto la ricca esperienza ventennale maturata in qualità sia di storico dell’arte che di artista e spaziando tra filosofia, storia, teologia, critica d’arte e trattatistica artistica, avendo sempre come saldi punti di riferimento i testi magisteriali, compie uno studio tanto singolare quanto indispensabile. Singolare poiché difficilmente, nell’odierna letteratura sull’arte, si rinviene un volume che fonde con lucidità una lettura della condizione corrente con una riscoperta, e attualizzazione, degli scritti del passato; indispensabile poiché, evitando la strada delle ormai infinite ridefinizioni dell’arte approntate a partire da saperi particolari, evitando quindi ulteriori frammentazioni teoriche, cerca di uscire dal relativismo presente per proporre stabili e logici modelli di riferimento. La struttura scelta per analizzare tale complesso sistema è quella del discorso, come genere letterario e forma espressiva, che permette la focalizzazione su diversi punti e contemporaneamente l’avanzamento verso un obiettivo finale che è quello della definizione dei fondamenti dell’arte sacra. I vari capitoli affrontano diverse questioni particolari e comprendono riflessioni teoretiche ed exempla tratti dalla storia dell’arte e che aiutano a contestualizzare e definire i ragionamenti. Grande attenzione è riservata al chiarimento dei termini linguistici, indispensabili nell’economia dell’analisi, mentre l’uso abbondante della citazione, mai semplice riferimento bensì indicazione funzionale al testo, permette da una parte di seguire il rapporto tra scrittura e immagine nella storia del cristianesimo e dall’altra di conoscere testi contemporanei di studiosi che, pur lontani dal cristianesimo, arrivano ad intuire la soluzione del problema. 

Lo scopo del testo è quello di giungere a definire l’arte sacra e la sue proprietà intrinseche in un’epoca che non solo ha smarrito il concetto di arte, divenuto liquido e soggettivo, ma anche la nozione di sacro, una vera e propria apostasia per la quale Papa individua origini e conseguenze. Così ragionando l’autore arriva a proporre una definizione generale, tratta dai testi classici, che non presenta come dogma ma la innesta nell’odierna speculazione dimostrando come sia possibile ancora riflettere in termini positivi sullo statuto epistemologico dell’arte: ars est racta ratio factibilium. Questa enunciazione è la premessa per l’individuazione di almeno quattro caratteri fondamentali propri dell’arte sacra (e in special modo dell’arte della pittura): universalità, bellezza, figuratività e narratività. 

Il problema di fondo dell’odierna confusione circa lo statuto dell’arte risiede nell’impossibilità di giungere ad una definizione univoca capace di comprendere le diverse forme espressive sorte nel Novecento. Se un tempo c’era uno “stile”, inteso come modo di fare, maniera, che identificava l’artista o un gruppo di artisti accumunati da una stessa visione del mondo, nel contesto dell’attuale crisi dei valori è inevitabile parlare di “poetiche”. La “poetica”, che va a sostituirsi allo “stile”, caratterizza la scelta tecnica, soggettiva, materica e di gesto di un artista, secondo le sue capacità creative e culturali (parliamo infatti dei “sacchi di Burri”, dei “tagli di Fontana”, dei “ready-made di Duchamp”). Mentre uno stile è universale e trasmissibile, poiché rappresenta la totalità dell’esperienza (in relazione alla maniera e alla schola), la “poetica” è slegata dal contesto ed è in relazione solo ed esclusivamente col singolo. L’arbitrarietà del gesto si sostituisce alla solidità delle forme. Dalla nascita dell’estetica come disciplina autonoma in seno alla filosofia gradualmente, nella difficoltà di giungere a definizioni univoche, difficoltà che nasce dal tentativo di considerare l’arte esclusivamente come frutto dello spirito slegata dal dato artigianale, si è assistito ad una progressiva liberazione dalle regole in quanto è l’unica condizione creativa che rimane come possibile strada percorribile. Se a questo aggiungiamo l’erronea lettura evoluzionistica della storia dell’arte che considera ogni scatto successivo delle forme come un progresso arriviamo da una parte all’impossibilità di definire i limiti di questa crescita (ed per contrasto all’idea de “la morte dell’arte”) e dall’altra alla perenne ricerca di cose mai dette prime. Papa nel Discorso sulle Arti, molto intelligentemente, dopo aver analizzato diversi contributi di teorici e critici attuali (Warburton, Shiner, Danto, Belting, Didi-Huberman) mostrando le difficoltà nel giungere ad enunciazioni stabili ed omnicomprensive, propone la celebre frase di San Tommaso per la quale l’arte è la corretta ragione delle cose da fare (“rectra ratio”) e declina al plurale la questione: «se il termine arte è declinato al plurale, come un genere che comprende varie specie, la questione della sua definizione appare risolvibile, anche nella situazione contemporanea». In quest’ottica le “specie” della performance o dell’installazione o ancora della body art avranno bisogno di un proprio statuto e di peculiari regole che qualcuno dovrà fornire e così garantiranno, per diversità, l’identità e la definibilità per esempio della pittura e la possibilità di affermare ciò che è arte e ciò che non lo è. Osservando il sistema da questo punto di vista, inoltre, l’arte cosiddetta “contemporanea” con i suoi rituali di produzione, fruizione e storicizzazione appare ormai cristallizzata e l’apparente multiformità si dimostra già codificata e globalizzata dal mercato che, dalla Pop Art in poi, è espressione vuota di questa apparente creatività. Naturalmente non tutti i generi possono essere al servizio della Chiesa e a riguardo Papa più volte nei vari capitoli si sofferma sulle intrinseche differenze e sui pericoli. Revivals diatopici e diacronici, utopici e ucronici, il recupero del “pensiero selvaggio” e di un primitivismo originale, istanze liberali, libertine e neo-pagane, la ricerca dell’irrazionalismo e dell’esoterismo sono tutte strade cercate dall’Illuminismo in poi con lo scopo di introdurre forme nate da diversi sistemi d’arte per scardinare la struttura dall’interno e scristianizzare l’arte. A differenza del recupero della cultura greco-romana nel Rinascimento, recupero volto a cristianizzare gli elementi pagani, l’anacronismo proprio di diverse avanguardie storiche non ha rapporti con la Chiesa ma guarda a culture arcaiche e ad una visione distorta del sacro. Interessante e originale, il Discorso sulla Luce evidenzia come nell’arte contemporanea si sia passati «da una visione metafisica ad una materialistica» anche per colpa dell’abbandono e/o dell’eccesso della luce. Se in pittura la claritas, la chiarezza e lo splendore, cede il posto al colore, ovvero alla materia che non comunica più visioni celesti ma sempre più si accosta alle bassezze dell’uomo, in architettura avviene il contrario e l’eccesso di luminosità conduce ad una smaterializzazione che rigetta la dimensione creaturale della realtà. Indispensabile, il Discorso sulle immagini e sul corpo parte da un paradosso: pur vivendo in una “società dell’immagine” l’immagine (e il corpo) risulta essere assente proprio nell’ambiente liturgico (sostituita dalla parola o dalla “moda” dell’icona) dove più che mai ne è reclamata la presenza in quanto la religione cristiana comincia proprio con l’incontro con la corporeità di Cristo, di Dio fatto uomo. L’unica immagine accettata oggi è quella tecnologica che ha fini ben meno elevati. L’immagine patinata o artefatta, tecnicamente perfetta (“photoshoppata”), ci parla di un mondo che ha smarrito la ricerca di un’esperienza interiore, che rifiuta la complessità e l’apertura che solo un’arte che cerca di superare i limiti dell’imitazione può garantire. In quest’ottica è da rifiutare la fotografia, in quanto invadenza eccessiva del reale che annulla la mediazione personale, e di conseguenza l’iperealismo: a differenza della prospettiva nata per rappresentare il mondo, e le storie sacre, quanto più vicino temporalmente e spazialmente al fruitore, educando il senso della vista, l’immagine odierna appare disincarnata e non adeguata alla devozione. Nell’arte il corpo si è smaterializzato ripiegando sui suoi umori e liberando la struttura ossea tanto che oggi l’effige del teschio è tra le forme più saccheggiate e abusate. Fondamentale risulta allora il recupero della bellezza che Papa, riprendendo la dottrina scolastico-tomistica, considera nei termini ontologici di “trascendentale”: la bellezza è compiutezza, armonia e splendore (integritas, proportio e claritas) ed è associata alla bontà e al bene. La bellezza trascende l’uomo ed è capace di rivelargli qualcosa della realtà, in questo senso comunica anche la verità; l’uomo, da parte sua, è naturalmente incline ad accoglierla e incontrarla. Anche l’arte, specie se al servizio della liturgia, non può prescinderne dato che le opere d’arte sacra devono esprimere l’infinita bellezza divina e indirizzare le anime a Dio. Sono da rifiutare così le odierne relativistiche concezioni di bellezza (bellezza come assenza, come disarmonia, come straniamento) o le estetiche del brutto poiché come non esiste un male assoluto perché il male è la mancanza di un bene dovuto così non può esistere la bruttezza assoluta che è perdita del bello o non suo perfetto sviluppo. Il Discorso sull’arte sacra è la conclusione dei discorsi precedenti poiché ribadire la centralità delle immagini sacre appare sempre più fondamentale in una società “liquida” e “neotribale” che ha smarrito ogni legame con il trascendente. Come scriveva Joseph Ratzinger la crisi dell’arte è un «sintomo della crisi esistenziale della persona» e pertanto porre alcuni punti certi in un momento tanto confuso non può che essere un fattore positivo. Il capitolo è molto complesso ed esplicativo grazie al costante riferimento ai testi magisteriali dai quali emerge chiaramente come l’arte debba celebrare l’infinita bellezza divina ponendosi al servizio della liturgia, illuminata dalla Fede, evitando l’eccessivo simbolismo e l’esagerato realismo. L’arte sacra, a differenza delle più svariate espressioni creative che sembrano durare il tempo di un’esposizione in un contesto ormai saturo di novità e provocazioni, è sempre viva e si rinnova continuamente nel solco della tradizione. Date quali caratteristiche fondamentali e imprescindibili l’universalità, la bellezza, la figuratività e la narratività la libertà dell’artista (di fede) è molto ampia; la possibilità di riflettere sul passato, inteso quale repertorio di forme e modelli, per proporre visioni e iconografia nuove e comprensibili sempre aderenti al magistero apre spiragli positivi e Papa, da buon artista al servizio della Chiesa, ci mostra con questo testo come vi siano ancora strade percorribili e di come sia irrazionale parlare di “morte dell’arte”. E anche nell’ipotetico caso che tutto questo sapere venga a cadere e che la dimensione del sentimento, dell’istinto, dell’arbitrarietà si sostituisca al proficuo rapporto tra Fides e Ratio, riprendendo il paragrafo L’arte nella spiritualità in riferimento all’episodio della fissazione dell’immagine della Divina Misericordia, è confortante sapere di come vi sia comunque un Altro, al di la di critici e teorie, che continua a comunicare per immagini.

Tommaso Evangelista

Giovedì 24 maggio 2012 ore 17,00
Pontificia Università della Santa Croce, Aula Alvaro del Portillo
Piazza di Sant’Apollinare 49 – Roma

Intervengono:
S. E. Rev.ma Card. Antonio Cañizares Llovera
Prefetto della Congregazione per il Culto divino

Prof. Marco Bussagli
Accademia di Belle Arti di Roma

Prof. Antonio Paolucci
Direttore dei Musei Vaticani

Presiede
Mons. Luis Romera
Magnifico Rettore della Pontificia Università della Santa Croce

Sarà presente l’autore

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