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mercoledì 22 gennaio 2014

Morte dell'arte come morte di una nazione - Fallito anche l’ultimo tentativo di reintrodurre le discipline storico-artistiche

Roma. Speranze deluse e nessuna resurrezione per la Storia dell’arte nelle scuole, uccisa dall’ex ministro Maria Stella Gelmini con la sua legge di riforma del sistema scolastico (nn. 133 e 169/2008) che ne ha cancellato o drasticamente ridotto l’insegnamento. Dagli anni 2009 e 2010, oltre all’abolizione degli Istituti d’arte, la riforma Gelmini ha imposto la riduzione delle discipline artistiche nei «nuovi» Licei artistici, la cancellazione di «Storia dell’arte» dai bienni dei Licei classici e linguistici, dagli indirizzi Turismo e Grafica degli Istituti tecnici e dei professionali; zero ore per i geometri; cancellazione di «Disegno e Storia dell’arte» dai bienni dei Licei scienze umane e linguistici; cancellazione di «Disegno e Storia dell’arte» dal «nuovo» Liceo sportivo; eliminazione del «Disegno» nei trienni di questi ultimi «ambiti formativi» (cfr. n. 321, giu. ’12, p. 10). Non è scomparsa soltanto la conoscenza di Giotto, Leonardo, Michelangelo, si stanno perdendo i saperi del grande artigianato, proprio quelle arti applicate come il design, la moda, la grafica, da sempre gloria della nostra eccellenza creativa e base del nostro export. Un documento di ISAlife, l’associazione degli ex Istituti d’arte aboliti, ricorda che «proprio in quelle scuole professionali si sono formati gli artigiani che hanno creato e tengono in vita la tradizione del made in Italy nel mondo».
Negli ultimi due anni si sono moltiplicati i tentativi di far rinascere la disciplina e tutto il sapere perduto. Appelli incessanti tra 2012 e 2013 non sono serviti.
La recente raccolta di 15mila firme sostenuta dallo stesso ministro dei Beni culturali Massimo Bray (tra i primi firmatari Adriano La Regina, Antonio Natali, Salvatore Settis, Claudio Strinati, Fai, Italia Nostra, Cesare De Seta, Associazione insegnanti di Storia dell’arte) sembrava poter avere successo: il 31 ottobre 2013 era finalmente arrivato in Commissione Cultura Scienze e Istruzione della Camera l’emendamento «C 1574-A» presentato da Celeste Costantino, deputata di Sel, per il «Ripristino della Storia dell’arte nella Scuola secondaria». Il sì sembrava scontato ma alla fine l’emendamento «non ha trovato ascolto», bocciato perché, dice la motivazione della maggioranza della Commissione, reintrodurre la materia «significherebbe aumentare una spesa che è stata tagliata perché il Paese non è in grado di sostenerla». Uno schiaffo proprio mentre il Governo sembra impegnato nella difesa della cultura e del suo valore, etico ed economico. In Commissione alla Camera, Celeste Costantino lo aveva presentato così: «Cancellare la formazione artistica è l’ennesimo paradosso di una politica che negli ultimi venti anni ha colpito a morte beni culturali, paesaggi e patrimoni culturali unici al mondo. Aver cancellato la Storia dell’arte per i giovani studenti significa ridurre il loro senso critico, la conoscenza, il sapere, fino a costringerli a dimenticare la grandezza del nostro patrimonio storico artistico». La scuola italiana di Storia dell’arte era da sempre un modello in Europa, introdotta dalla riforma Gentile del 1923. Oggi i dati Ocse descrivono la nostra scuola «ignorante», precipitata agli ultimi posti, vicina al Montenegro e alla Tunisia. Questo mentre altri Paesi, come Francia, Austria e Portogallo, si ispirano alle discipline della Storia dell’arte e del Disegno secondo le linee pre riforma Gelmini, e la introducono anche nelle classi elementari. Perché, scriveva lo storico Andrè Chastel, alla fine degli anni ’80, nei suoi inascoltati appelli al Governo francese (recepiti poi da Sarkozy nel 2008, che ha reso obbligatorio l’insegnamento dell’arte anche alle elementari): «Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico europeo è quello che passa nella scuola, come fanno benissimo in Italia».
Per mantenere viva la richiesta di una rinascita, da poco è nata una nuova associazione, Artem Docere (Associazione nazionale Docenti Disegno e Storia dell’arte) che si batte assieme alle altre associazioni «storiche» come l’Anisa. «Non vengono più preparati gli insegnanti di domani, li stiamo cancellando insieme con la Storia dell’arte, dice Marinella Galletti, presidente di Artem Docere, che annuncia nuovi appelli e azioni. La battaglia culturale per la restituzione di Disegno e Storia dell’arte, ricomincia da adesso».
La riforma Gelmini è riuscita anche a dividere gli insegnanti: da una parte 2mila precari, storici dell’arte vincitori di concorsi espulsi insieme alle loro discipline, dall’altra quelli di ruolo: «Una operazione barbarica, la definisce Marinella Galletti, che produce ignoranza e che fa tacere i professori rimasti nella scuola, protetti dal posto sicuro. Fuori i dannati, dentro i “fortunati” che preparano classi di allievi e futuri insegnanti del nulla».
L’ultimo tentativo fallito, che per ora mette fine alle speranze di una rinascita della «Storia negata», è stato il 7 novembre 2013. Il Parlamento approva il decreto «L’Istruzione riparte» presentato, «con soddisfazione e orgoglio» dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. Contiene tra l’altro, dice il comunicato del Miur, «borse per il trasporto studentesco, fondi per il wireless in aula e il comodato d’uso di libri e strumenti digitali per la didattica». Reintroduce anche una materia soppressa, la Geografia. Silenzio tombale sulla Storia dell’arte: petizioni, comunicati, elenchi interminabili di firme per la sua rivitalizzazione restano nei cassetti. Inapplicato l’art. 9 della Costituzione, tradito il pensiero di Roberto Longhi che si batteva per «quella Storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione». Si domanda Salvatore Settis: «A che cosa serve la Storia dell’arte? È semplice: come tutte le scienze (e in particolare quelle storiche) serve per capire. Serve per capire un mondo come il nostro inondato da immagini senza subirle passivamente, sapendone smontare e ricostruire i meccanismi di persuasione. Perché se rinunciamo a capire, faremo come i ciechi della parabola illustrata da Brueghel nel quadro conservato a Capodimonte: quando un cieco guida l’altro, tutti cadono nella fossa».

sabato 23 febbraio 2013

Se il giornalismo storico-artistico non esiste più

Tomaso Montanari con questo articolo che prende spunto da presunte "novità" leonardesche mette il dito nella piaga segnalando come oggi il giornalismo culturale relativo all'arte tocchi il suo punto più basso. Tanta ed eccessiva attenzione per mostre (blockbuster) o per psude-attribuzioni (Caravaggio e Leonardo su tutti) ma poca voglia di andare a fondo ai problemi artistici, di criticare con competenza collettive ed esposizioni, di svolgere quell'azione di mediazione ormai fondamentale in una società che sta sempre più smarrendo il senso della propria storia artistica veicolata da manager ed esperti di comunicazione. Di giornalisti "artistici" ospitati sulle testate nazionali ce ne sono sempre di meno, anche se qualcuno ancora si salva: tra tutti mi sento di segnalare naturalmente Fabio Isman dalle pagine del Messaggero e di Art Dossier  e Simone Verde.

«Se dichiaro di aver visto a occhio nudo il Bosone di Higgs nel mio salotto, mi portano alla neuro: ma se il primo che passa sostiene di aver scoperto un Michelangelo, un Leonardo o un Caravaggio, il circo mediatico lo porta, immediatamente, in trionfo. Quando si parla di storia dell’arte tutto è possibile: in Italia il giornalismo storico-artistico è pressoché defunto, ed è ormai talmente abituato a concepire se stesso come il megafono celebrativo dei Grandi Eventi da non essere più in grado di distinguere una notizia da una bufala. […] La prossima volta che qualcuno si presenterà all’Ansa con cento terrecotte di Leonardo o cinquanta marmi di Michelangelo verrà dunque sottoposto a una qualche verifica? Tutto lascia credere di no: per la prossima bufala storico-artistica è solo questione di giorni».

Così scrivevo, ad agosto, nella premessa a La madre dei Caravaggio è sempre incinta. Non era una profezia difficile, ma si è realizzata al punto che potrei già aggiungere una nutrita appendice al libretto.

A fine settembre è spuntata una seconda Gioconda. La notizia è stata data da Silvano Vinceti, l’ormai celebre cercatore dei resti di Caravaggio, e di quelli di Monna Lisa (in carne e, appunto, ossa) nel complesso fiorentino di Sant’Orsola (un’operazione finanziata con i nostri soldi dalla Provincia di Firenze): «Si trova a San Pietroburgo ed appartiene ad un collezionista privato - ha spiegato Vinceti - sono già in corso tutte le perizie e le ricerche del caso per certificare che l’opera è stata realizzata da Leonardo». Dove trovo bellissima questa idea da Asl: ‘Per certificare i Leonardo prendete il bigliettino e mettetevi in fila allo sportello 4. Per il Santo Graal, invece, sportello 3. Precedenza a templari e donne incinte’. Inoppugnabili, d’altra parte, gli argomenti di Vinceti: «ha le mani più scure del viso, tratto tipico dello stile del maestro, che condividerebbe con l’originale custodito al Louvre». Ma potevate dirlo subito: e che dubbio rimane?!

Di qualche giorno, fa invece, è il rilancio di un’altra Monna Lisa: se ne sentiva la mancanza, no?

La terza Monna Lisa è stata affidata dai proprietari nientemeno che ad una Fondazione (The Mona Lisa Foundation, con sede a Zurigo), senza scopo di lucro (lei). Nel board e nei consulenti non si conta nemmeno un vero storico dell’arte, ma questo non impedisce alla Fondazione di avere le idee molto chiare sull’opera. Il sito del Guardian informa (senza un filo di ironia) che la Fondazione ha fatto esaminare l’opera da un esperto di «sacred geometry» (qualunque cosa sia!), e poi ha fatto condurre un analisi al carbonio 14 per datare l’opera. In un eccesso di zelo, l’analisi ha dimostrato «that it was almost certainly manufactured between 1410 and 1455». Cosa davvero stupefacente, visto che Leonardo è nato nel 1452. Certo, se uno crede alla ‘sacra geometria’ può anche credere al fatto che Leonardo abbia dipinto il quadro svizzero a tre anni: anzi, mi pare una scoperta destinata a rifondare la storia dell’arte.

La risposta più seria a tutto questo è la meravigliosa serie satirica sui Misteri di Leonardo che andava in onda in «Non perdiamoci di vista». Ma, dopo aver seppellito tutto ciò sotto la meritata coltre di ridicolo, non si può non pensare che se il patrimonio storico e artistico italiano è nello stato in cui è, lo si deve anche alla trasformazione della storia dell’arte in un gigantesco, grottesco, circo equestre.




E per gli amanti della Monna Lisa ho trovato su Wikipedia questa interessante pagina redatta con grande competenza e con molte citazioni di fonti:

domenica 6 gennaio 2013

Le chiese (chiuse) di Napoli

Se Roma è la città dei santi Napoli è la città degli uomini dove l'arte, impastata com'è nella vita quotidiana dei vicoli, è vissuta come un elemento quotidiano tanto da essere dimenticata quando non inconsapevolmente vilipesa. Le chiese dialogano così strettamente col tessuto urbano che sono parte integrante di quel vivere comune tanto antico da sembrare rivoluzionario. Ma nell'indubbia difficoltà di curare le tantissime meraviglie del centro storico molte chiese sono condannate alla devastazione, all'incuria, alla rovina. Questo articolo ci ricorda l'importanza di questo assoluto e dimenticato patrimonio.


Il mare non ba­gna Na­poli. Ma po­trebbe farlo.

S. Maria della Speranza
Dura la vita de­gli sto­rici dell’arte. So­prat­tutto se lo siete a Na­poli. Una ri­cerca che in un po­sto qual­siasi, in cui le cose fun­zio­nano di­ciamo bene, può es­sere svolta, per esem­pio, in un mese, a Na­poli si svol­gerà me­dia­mente in sei, sette mesi o forse di più. Il mal­fun­zio­na­mento, l’apatia, la len­tezza, la di­sor­ga­niz­za­zione delle isti­tu­zioni che spesso e vo­len­tieri si sca­ri­cano le re­spon­sa­bi­lità a vi­cenda in un val­zer in­ter­mi­na­bile di com­pe­tenze ri­man­date di uf­fi­cio in uf­fi­cio, e con­ti­nua­mente rias­se­gnate in base alle cir­co­stanze, pos­sono in­durre an­che i mi­gliori a desistere.

Un pro­blema che mi col­pi­sce par­ti­co­lar­mente è l’enorme dif­fi­coltà che si in­con­tra nel mo­mento in cui si ne­ces­sita, sem­pli­ce­mente, di en­trare in una chiesa. Na­poli è no­to­ria­mente una delle città con più chiese al mondo; ne pos­siede così tante che, di al­cune, a volte, per­fino gli stessi cit­ta­dini ne per­dono me­mo­ria, e vi può ca­pi­tare che men­tre cer­cate una chiesa, ne tro­ve­rete nelle pros­si­mità al­tre cento. Si per­dono nei mean­dri dei vi­coli ri­pidi e stretti, spesso die­tro can­celli ser­rati e scro­stati dal tempo, mute die­tro i loro por­toni, di­men­ti­cate e igno­rate. Già nel 2000 la So­prin­ten­denza dei Beni ar­chi­tet­to­nici e am­bien­tali ne con­tava ben 165 chiuse. Qui chiuse coin­cide spesso con ab­ban­do­nate, non tu­te­late, tra­fu­gate. In­somma con­dan­nate a mo­rire, len­ta­mente. Nel la­voro di ri­cerca, dun­que, uno sto­rico dell’arte si scon­tra con que­sto enorme pro­blema, con la giu­ri­sdi­zione della Cu­ria, ma an­che con quella co­mu­nale, con le in­fi­nite dif­fi­coltà bu­ro­cra­ti­che e lo­gi­sti­che. Oggi le chiese ne­gate al pub­blico non si con­tano: San Mar­cel­lino e Fe­sto, Sant’Agostino de­gli Scalzi, Santa Ma­ria Don­na­ro­mita, San Se­ve­rino e Sos­sio, la Chiesa di Gesù e Ma­ria, Santa Ma­ria di Co­stan­ti­no­poli, Santa Ma­ria di Por­to­salvo, Santa Ma­ria della Vit­to­ria all’Anticaglia, San Bia­gio all’Olmo e si po­trebbe con­ti­nuare per molto.
Vi­ste da fuori sem­brano ru­deri, fac­ciate in­glo­bate nel de­grado ur­bano; cal­ci­nacci ca­denti, mura sbrec­ciate, ver­nici an­ne­rite dal tempo. Ma den­tro lo sce­na­rio è forse an­cor peg­gio. Tele, scul­ture, marmi, al­tari la­sciati a pu­tre­fare e mar­cire, cap­pelle che di­ven­tano de­po­siti di de­ter­sivi e car­toni, spor­ci­zia, pol­vere e incuria.

Santa Ma­ria della Spe­ranza, chiesa del XVI se­colo ubi­cata nei fa­mosi Quar­tieri Spa­gnoli che con­serva uno splen­dido al­tare sei­cen­te­sco, ca­po­la­voro di Co­simo Fan­zago, una tela di Ce­sare Fra­can­zano e an­cora al­tri te­sori, da anni è inac­ces­si­bile. Per riu­scire ad en­trare bi­so­gna met­tersi in con­tatto con l’Ufficio dei Beni cul­tu­rali della Dio­cesi di Na­poli e ri­chie­dere un per­messo, in­di­cando i mo­tivi pre­cisi per cui si de­si­dera en­trarci. Solo dopo aver ap­pro­vato la ri­chie­sta, l’Ufficio for­ni­sce i con­tatti di chi al mo­mento si oc­cupa della ge­stione della chiesa in que­stione. Così, dopo una lunga tra­fila (in cui i mesi sa­ranno tra­scorsi) si rie­sce a “sfon­dare” le porte della tanto so­spi­rata chiesa.

At­tra­ver­sando piazza Ca­vour ci si im­batte nella splen­dida fac­ciata della Chiesa di Santa Ma­ria del Ro­sa­rio alle Pi­gne, ca­po­la­voro di Ar­can­gelo Gu­gliel­melli. La gra­di­nata, pro­prietà or­mai di qual­che as­so­nato clo­chard, è co­perta di im­mon­di­zia, car­toni, ve­tro in fran­tumi. La chiesa, ot­timo esem­pio di ar­chi­tet­tura ba­rocca (mae­stosa la sca­li­nata in­terna a dop­pia rampa, su mo­dello delle sca­li­nate del San­fe­lice) è or­mai sede di uf­fici co­mu­nali e tutto ciò che vi era all’interno, tra cui nu­me­rose tele di Luca Gior­dano, è stato ri­mosso, qua­lora non tra­fu­gato. Re­stano po­chi marmi e l’altare, evi­den­te­mente di dif­fi­cile smer­cio. La chiesa è chiusa dal ter­re­moto del 1980 e da circa trent’anni non apre i battenti.

Chiesa di Gesù e Ma­ria. Al­tro in­cre­di­bile ol­trag­gio al pa­tri­mo­nio e al senso di etica e ci­viltà. Quella che fu una chiesa del XVI se­colo, ri­ma­neg­giata da Do­me­nico Fon­tana, è oggi un can­tiere di non me­glio de­fi­niti ma­te­riali ac­can­to­nati sul pa­vi­mento ma­io­li­cato. Ma­ce­rie, marmi, ce­mento: c’è da cre­dere che la chiesa sia stata col­pita da un fu­ne­sto ter­re­moto. Ma non può es­sere il ter­re­moto dell’80! E in­vece sì. Da trent’anni le con­di­zioni del com­plesso ar­chi­tet­to­nico sono quelle, de­plo­re­voli, che si ve­dono an­cora oggi. All’interno si tro­vano opere im­por­tanti come le de­co­ra­zioni di Gio­vanni Ber­nar­dino Az­zo­lino, gli af­fre­schi di Be­li­sa­rio Co­ren­zio e l’altare mag­giore di Dio­niso Laz­zari, quasi del tutto de­pre­dato, come pure i marmi rossi delle balaustre.

Il 23 set­tem­bre del 2009 spro­fon­dava il pa­vi­mento della chiesa di San Carlo alle Mor­telle, au­ten­tico gio­iello ba­rocco nel cuore dei Quar­tieri Spa­gnoli. Oggi la strut­tura ap­pare an­cora così per man­canza di soldi, di­cunt: buia, muta e pol­ve­rosa con un’enorme vo­ra­gine, come un ven­tre sfon­dato, en­ne­sima crepa di que­sta Na­poli che crolla poco a poco.

In oc­ca­sione del “Mag­gio dei Mo­nu­menti” sono state spa­lan­cate le porte di molte chiese, ma spesso solo per ren­derne noto il de­grado, come nel caso di San Gio­vanni Mag­giore a Pi­gna­telli, di cui già Fran­ce­sco Ca­glioti, or­di­na­rio di Sto­ria dell’Arte all’Università Fe­de­rico IIdi Na­poli, di­ceva: «È il frutto di un’incuria plu­ri­de­cen­nale. Dopo anni di furti e ab­ban­dono, ora ab­biamo un re­stauro vo­len­te­roso, co­stato dieci, cento volte più di una nor­male ma­nu­ten­zione. Ri­sul­tato: San Gio­vanni Mag­giore è un gu­scio se­mi­vuoto, manca il 90% de­gli ar­redi, ru­bati di re­cente. Ne­gli ul­timi 30 anni, rac­conto ai miei stu­denti, Na­poli ha di­strutto più di quanto ab­bia fatto nei 5 se­coli precedenti».

E pro­prio al pro­blema, ur­gen­tis­simo, delle chiese in ro­vina, è de­di­cata la mo­stra L’anima del tempo. Chiese na­po­le­tane: ro­vine e re­cu­peri ospi­tata in que­sti giorni nel chio­stro grande del com­plesso dei Gi­ro­la­mini (da poco ria­perto al pub­blico, gra­zie al la­voro e alla vo­lontà del so­prin­ten­dente Fa­bri­zio Vona e del con­ser­va­tore del mo­nu­mento, Um­berto Bile): do­dici chiese na­po­le­tane im­mor­ta­late dall’occhio di Mas­simo Li­stri, tra cui Santa Ma­ria del po­polo agli In­cu­ra­bili, Sant’Aspreno ai Cro­ci­feri, San Giu­seppe delle Scalze,Santa Ma­ria della Scor­ziata.
Scatti che do­cu­men­tano quanto in que­sti anni Na­poli ab­bia ri­nun­ciato alla pro­pria bel­lezza. Na­vate di­strutte, cap­pelle som­merse da ma­ce­rie e spaz­za­tura, pa­vi­menti e marmi tra­fu­gate alla meno peg­gio. È sin­go­lare che in molte chiese le foto siano proi­bite, non per que­stioni le­gate a norme ed au­to­riz­za­zioni ec­cle­sia­sti­che, ma «per­ché sono sem­pre più fre­quenti i furti su com­mis­sione». È quanto mi sento ri­spon­dere da un ad­detto, al che penso: «Fino a che punto di in­ci­viltà pos­siamo spingerci?».

Si po­trebbe con­ti­nuare a par­larne per giorni, ma le cose non cam­bie­reb­bero, e non cam­bie­ranno fino a quando la So­prin­ten­denza non de­ci­derà di porre fine a que­sto stra­zio per gli oc­chi e per l’anima. In­nan­zi­tutto c’è ur­gente bi­so­gno di in­di­vi­duare tutte le chiese chiuse e in de­grado, farne una map­pa­tura, un cen­si­mento che per­metta di fo­ca­liz­zare gli obiet­tivi e le prio­rità, la­voro in cui po­treb­bero es­sere coin­volti molti gio­vani lau­reati in sto­ria dell’arte. In se­conda ana­lisi si rende ne­ces­sa­rio un ag­gior­na­mento de­gli orari on line di aper­tura delle chiese (che già esi­stono, ma spesso e vo­len­tieri non sono at­ten­di­bili) così da per­met­tere a chiun­que, sto­rici o sem­plici cit­ta­dini amanti del bello, di en­trare nelle chiese senza do­versi sot­to­porre a ore di appostamenti.

E non serve a nulla pro­porre l’esclusione del cen­tro sto­rico della città dall’Unesco, pro­po­sta avan­zata pro­prio in que­sti giorni da nu­me­rose as­so­cia­zioni par­te­no­pee che pro­cla­mano a gran voce che la città non me­rita tale ono­ri­fi­cenza, per­tanto «è me­glio che si fac­cia da parte», cri­te­rio sba­glia­tis­simo di guar­dare al pro­blema, non solo per­ché lo ag­gira senza af­fron­tarlo dav­vero, ma am­mette un fal­li­mento e in­fonde un mes­sag­gio sba­gliato di di­sin­can­tata e amara ras­se­gna­zione, quando ciò che si do­vrebbe fare, con ur­genza e di­spe­ra­ta­mente, è fare in modo che la città con uno dei più grandi e ric­chi pa­tri­moni ar­ti­stici al mondo lo di­venti, de­gna e me­ri­te­vole. Cam­biare mec­ca­ni­smi e men­ta­lità in­ne­state da anni e anni di abi­tu­dine, pi­gri­zia e a volte stan­chezza non è fa­cile e troppo spesso l’abuso ozioso della for­mula ri­trita del la­scia­pas­sare ha ge­ne­rato que­sto tipo di de­grado e ab­ban­dono, ma penso spesso alle pa­role di Pa­squale Vil­lari, uno dei grandi pa­dri della que­stione meridionale:




- Ma non ve­dete che ci vuole un secolo?

- Sì, lo vedo, ma vedo an­cora che se co­min­ce­remo do­mani, ci vorrà un se­colo ed un giorno.

(Pa­squale Vil­lari, Let­tere me­ri­dio­nali, 1875).

Alessandra de Luca (Fonte Storie dell'arte)



domenica 30 settembre 2012

L'Italia dei Beni Culturali. Formazione senza lavoro, lavoro senza formazione.

Lo scorso 27 settembre l'associazione Bianchi Bandinelli ha organizzato un importante incontro. Questo il comunicato stampa seguito da un interessante articolo che mostra tutta la precarietà del lavoro nel settore dei beni culturali palesando l'idea che ormai si è arrivati al limite della sopportazione.



"L’Associazione “Ranuccio Bianchi Bandinelli” organizza il 27 settembre 2012 nella sede della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, in viale Castro Pretorio 105, una giornata di riflessione, confronto, protesta e proposta sulla situazione del lavoro nel mondo dei beni culturali. In Italia per le professioni del patrimonio culturale è vera emergenza: mentre l’Università da decenni rilascia a flusso continuo titoli di studio di primo, secondo e terzo livello, non di rado programmando percorsi formativi privi di sbocchi nel mercato del lavoro, la situazione occupazionale è caratterizzata da una drastica riduzione di personale tecnico-scientifico qualificato all’interno delle istituzioni per la conoscenza, la conservazione e la valorizzazione, a fronte di una proliferazione incontrollata di collaborazioni esterne difformi per durata, tipologia contrattuale, retribuzione. E i reiterati tagli di risorse disposti negli ultimi anni per fronteggiare la congiuntura economica tendono a spingere molti di questi lavoratori precari, senza diritti né tutele, verso la disoccupazione. Eppure formazione, qualificazione e reclutamento degli addetti costituiscono uno dei nodi cruciali del sistema della tutela, nelle strutture statali come in quelle degli enti pubblici territoriali o gestite da privati, in particolare di quanti operano per il patrimonio pubblico. Solo affrontando responsabilmente la complessità e l’insieme di questi problemi diventa possibile dare piena attuazione all’articolo 9 della Costituzione: “La Repubblica promuove la cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Come è consuetudine dell’Associazione, il convegno si propone di coniugare tre aspetti: primo, fornire un quadro generale e documentato delle questioni; secondo, ascoltare, anche con il contributo delle Associazioni professionali, le testimonianze dirette di quegli archeologi, storici dell’arte, antropologi, restauratori, architetti conservatori, archivisti, bibliotecari che lavorano in condizioni di precariato intellettuale; terzo, invitare al confronto in due tavole rotonde – sulla formazione e sull’occupazione – esperti, responsabili politici e sindacali, soggetti pubblici e privati che dovrebbero fornire risposte organizzative e legislative, ma soprattutto regole certe per un lavoro qualificato a salvaguardia del patrimonio culturale".

Beni culturali: tra l’inferno del precariato e l’arroganza della politica

Autore: Guermandi, Maria Pia

Tre giorni fa il letargico e preagonico torpore in cui versa il mondo dei beni culturali, dal Mibac agli enti locali, alle Università, ha ricevuto, finalmente, uno schiaffone: il 27 settembre si è svolta a Roma una giornata di mobilitazione, riflessione, protesta organizzata dall’Associazione Bianchi Bandinelli sul precariato giovanile nell’ambito dei beni culturali. 

L'Italia dei Beni Culturali: formazione senza lavoro e lavoro senza formazione, il titolo dell’iniziativa di grande impatto sociale, culturale, emotivo, cui anche eddyburg ha aderito e che ha finalmente acceso i riflettori su quelle migliaia di giovani laureati nell’ambito dei beni culturali, in percentuali altissime specializzati e plurispecializzati costretti a condizioni lavorative troppo spesso sotto il limite della dignità, senza diritti, nè tutele. E’ l’inferno del precariato che sta condannando una o forse due generazioni ad una qualità di vita con pochi confronti in Europa. 

Le crisi speculari di Università e Mibac (quest’ultima probabilmente irreversibile), hanno aggravato e accellerato il fenomeno: da un lato l’Università ormai persa in un loop autoreferenziale ha continuato a proporre, nel corso degli ultimi vent’anni, percorsi formativi privi di sbocchi professionali e per di più inadeguati anche sotto il profilo delle competenze richieste in ambito lavorativo: valgano per tutti i famigerati corsi o facoltà in Conservazione in beni culturali, moltiplicatisi soprattutto negli anni ’90. Dall’altro lato, un Ministero sempre più esangue, ormai incapace di mantenere i seppur minimi livelli di gestione del patrimonio culturale, sta procedendo da almeno un lustro alla dismissione delle proprie funzioni in una climax di tentativi maldestri e pasticciati: dai commissariamenti alle fondazioni, ai fantozziani esperimenti di marketing elaborati dalla Direzione alla Valorizzazione. 

Eppure, in tale convergenza di disastri, queste migliaia di ragazzi che hanno resistito nel loro impegno, nonostante retribuzioni orarie fra i 5 e i 10 euro lordi, e un reddito annuo che, nella grande maggioranza dei casi non supera i 10.000 euro lordi l’anno (la soglia di povertà secondo l’ISTAT), hanno sostanzialmente garantito, cifre alla mano, il mantenimento di un livello dignitoso alla gestione dei nostri musei, archivi, biblioteche, delle centinaia di interventi di archeologia preventiva o di emergenza. 

Il quadro articolato di questa complessa galassia è stato fornito nella giornata della Bianchi Bandinelli dagli stessi giovani precari, di gran lunga i più efficaci, da Federico De Martino a Claudio Gamba a Tsao Cevoli e Salvo Barrano, che con le loro documentatissime relazioni hanno dimostrato, geometrico more, quanto la situazione in questo settore sia da allarme rosso: siamo di fronte ad una vera e propria bomba sociale costituita da ormai decine di migliaia di giovani (e non più tanto giovani, nel frattempo). 

A completare, sotto il profilo emotivo, la crudezza dei dati numerici, un gruppo di giovani attori (a loro volta precari) ha recitato i racconti di vita dei precari dei beni culturali. 

Purtroppo, la lettura delle storie e testimonianze di lavoro precario ha subito uno spostamento rispetto al programma e per lo stesso motivo un’interessante relazione sulle forme contrattuali è stata brutalmente interrotta per lasciar spazio al sottosegretario dei beni culturali Roberto Cecchi appalesatosi nel frattempo. 

Costui, dopo un intervento più consono a chi avesse trascorso la sua vita in tutt’altre faccende affaccendato rispetto al mondo dei beni culturali e dopo aver persino pronunciato il famigerato enunciato “beni culturali come volano dello sviluppo”, con un gesto di arroganza che riuniva in sè il peggio del malcostume politico della prima e seconda repubblica assieme, al termine di un discorsetto in cui – lui, funzionario statale per oltre trent’anni e rappresentante del governo in carica - ha livorosamente ribadito il suo sdegno per tutti coloro che “demonizzano il privato”, se ne è sgattaiolato via, senza attendere un solo minuto, verso il successivo inderogabile impegno. 

Ci dica, sottosegretario Cecchi, quali appuntamenti c’erano nella sua agenda, più importanti di ascoltare le ragioni, spietate nella neutrale freddezza delle cifre, struggenti nella rivisitazione teatrale, aggiornatissime e inedite nella loro sistematicità, di coloro che in condizioni, non solo precarie economicamente, ma spesso lesive della dignità professionale e umana contribuiscono in maniera ormai determinante a reggere il sempre più pericolante sistema della tutela del nostro patrimonio culturale? 

Forse una svendita pronta cassa all’Abramovich di turno del brand pompeiano (essendo quello del Colosseo ormai indisponibile per i prossimi 15-20 anni)? 

Nessuno si aspettava da lei risposte – non le ha sapute dare in trent’anni di carriera ai vertici del Mibac che la collocano di diritto nell’olimpo dei correi dell’attuale disastrosa situazione del ministero - ma il semplice doveroso ascolto, imprescindibile in chi riveste un ruolo che dovrebbe essere di servizio all’intera comunità dei cittadini e in primo luogo di coloro che per quel ministero da lei rappresentato lavorano con una passione persino un po’ incosciente. 

Negli astanti, l’educazione ha prevalso sull’indignazione: e questo è stato forse l’unico neo di un’iniziativa che, seppur in altre forme, dovrà continuare. 

Perchè se una speranza si è affacciata, in mezzo ai racconti sconsolati, alle riflessioni desolate, ai dati drammatici, mi sembra possa essere letta soprattutto in una nuova consapevolezza di questi giovani, ormai indisponibili a farsi illudere dalle chimere del posto fisso nel Ministero o nell’Università, istituzioni ormai sature e soprattutto bisognose, urgentemente, di una radicale riforma che dovrà essere gestita “dal basso”. Non tanto per pulsioni radicaliste, ma perchè, come è stato ampiamente dimostrato anche l’altro ieri, è in questa fetta della società, ormai sempre più importante dal punto di vista anche numerico, che si trovano le idee più innovative e le energie più (forse le sole) vitali.
 

mercoledì 1 agosto 2012

Distruggiamo Venezia

VENEZIA - La distruzione di Venezia tra mega-navi e grattacieli
SALVATORE SETTIS
La Repubblica, 31 luglio 2012

C’È UNA nuova moda tra i potenti: profanare Venezia. In barba alle leggi e asservendo le istituzioni. Tre eventi in sequenza non lasciano dubbi in proposito. Atto primo: dopo l’incidente della Costa Concordia naufragata al Giglio con gravi perdite umane e disastro ambientale, da tutto il mondo venne la richiesta che si stabilissero :«Nuove regole per quei colossi».
SPECIALMENTE nel punto più prezioso e fragile, Venezia. E infatti il decreto è arrivato in marzo, e vieta “inchini” e passaggi a meno di due miglia nautiche dalla costa (quasi quattro chilometri). Con una sola eccezione: Venezia, dove enormi navi, da 40.000 tonnellate e oltre, sfiorano ogni giorno Palazzo Ducale, incombono sulla città, inquinano la laguna, oltraggiano lo skyline di Venezia e i suoi cittadini. Venezia dunque “fa eccezione”, ma non perché è più protetta, come il mondo si aspetta, bensì perché non lo è affatto (due incidenti evitati per pochi metri negli ultimi sei mesi).

Secondo atto: Benetton compra il Fondaco dei Tedeschi, prezioso edificio di primo Cinquecento ai piedi del ponte di Rialto, per farne «un megastore di forte impatto simbolico». Accettabile, vista l’antica destinazione commerciale di quella fabbrica illustre. Ma Rem Koolhaas, l’architetto incaricato della ristrutturazione, disegna un neo-Fondaco con sopraelevazione, mega-terrazza con vista su Rialto e scale mobili che violentano da lato a lato l’armonioso cortile. Dopo la denuncia di questo giornale (“Quel centro commerciale che ferisce Venezia”, 13 febbraio) e di molti altri, dopo il parere negativo della Soprintendenza, Koolhaas insiste: «Faremo il progetto, al diavolo il contesto, è quello che paralizza la nuova architettura». Profanare un edificio storico è dunque parte del “forte impatto simbolico” commissionato da Benetton.

Il terzo atto è di questi giorni: Pierre Cardin, memore delle sue origini venete, a 90 anni vuol lasciare un segno in Laguna. Costruendo a Marghera un Palais Lumière da un miliardo e mezzo, alto 250 metri, superficie totale 175mila metri quadrati. Tre torri intrecciate, 60 piani abitabili, un’università della moda e poi uffici negozi, alberghi, centri congressi, ristoranti,
megastore, impianti sportivi. Una città verticale, un’occasione unica per il recupero di un’area industriale in degrado. Ma la Torre di Babele targata Cardin, coi suoi 250 metri di altezza, sarebbe alta 140 metri in più del campanile di San Marco, e svettando su Marghera segnerebbe duramente lo skyline di Venezia, in barba a tutte le norme urbanistiche: impossibile non vederla da piazza San Marco, anzi da tutta la città. Specialmente di notte, perché il mastodonte, illuminatissimo, meriti il nome di
Palais Lumière.

Non solo: sarebbe sulla rotta degli aerei, e violerebbe di ben 110 metri i limiti di altezza imposti dall’Enac (Ente
nazionale aviazione civile). Ma se l’Enac risponde picche, Cardin non demorde: o un sì integrale al progetto, o il suo palazzo emigrerà in Cina.

Che cos’hanno in comune questi tre episodi? Sono tre occasioni per Venezia. Ma perché, se vogliamo portare turisti a Venezia per mare, va fatto con meganavi superinquinanti che s’insinuano in città come altrettanti grattacieli? Perché, se vogliamo
recuperare all’uso commerciale il Fondaco dei Tedeschi, dobbiamo violarne l’architettura? Perché Cardin non può, nei 250mila metri quadrati del parco che avrebbe a disposizione, edificare due, tre torri più basse, con la stessa superficie totale? C’è una sola risposta: in tutti questi casi, oltraggiare Venezia non è una conseguenza non prevista, ma il cuore del progetto. E’ essenziale profanare questa città gloriosa che infastidisce i sacerdoti della modernità quanto una vergine restia può irritare un dongiovanni che si crede irresistibile. 

La profanazione, anzi la visibilità della profanazione, ha una forte carica simbolica, è uno statement di iper-modernità rampante e volgare, che si vuol prendere la rivincita sul passato, umiliare Venezia guardandola dall’alto di una mega-nave o di una superterrazza a piombo su Rialto, o di un grattacielo a Marghera. Pazienza se (lo ha scritto Italia Nostra) l’Unesco dovesse cancellare Venezia dalle sue liste, dato che nel 2009 lo ha fatto con Dresda, dopo la costruzione di un ponte visibile dalla città barocca.

Ma c’è un altro denominatore comune: i soldi. 
In tutti e tre i casi, il ricatto è lo stesso: senza le mega-navi calano i turisti; per avere la mega-torre di Marghera e la mega-terrazza del Fondaco bisogna ubbidire al committente senza fiatare. 

E le istituzioni? Prone ai voleri del dio Mercato, sono pronte a tutto: nel caso del Fondaco, il Comune ha accettato da Benetton una sorta di “bonus” di 6 milioni promettendo in cambio di permettere (e far permettere) tutto; il sindaco Orsoni dichiara che «è assurdo mettersi di traverso a Cardin». 

Intanto il presidente della regione Zaia incensa lo stilista paragonandolo a Lorenzo il Magnifico (forse non ricordava il nome di nessun doge), e chiede «che il ministro Passera si metta una mano sul cuore» e induca l’Enac a chiudere un occhio: anche la sicurezza dei voli dovrà pur inchinarsi al Denaro. 

In questa squallida sceneggiata, due sono le vittime: non solo Venezia (e i veneziani), ma anche la legalità, sfrattata a suon di milioni.
E intanto Pierre Cardin ha già messo in vendita gli appartamenti del Palais Lumière, con un annuncio diffuso a Parigi, in cui lo si vede torreggiare sullo sfondo di una Venezia ridotta a miniatura. La legalità può aspettare, la Costituzione può andare in soffitta.

P.s. E che Venezia sia da sempre meta di attacchi lo dimostra questo volantino lanciato dai futuristi



Contro la Venezia passatista
27 aprile 1910
L'8 luglio 1910, 800.000 foglietti contenenti questo manifesto furono lanciati dai poeti e dai pittori futuristi della Torre dell'Orologio sulla folla che tornava dal Lido.

Contro la Venezia passatista

Noi ripudiamo l'antica Venezia estenuata e sfatta da voluttà secolari, che noi pure amammo e possedemmo in un gran sogno nostalgico.
Ripudiamo la Venezia dei forestieri, mercato di antiquari falsificatori, calamita dello snobismo e dell'imbecillità universali, letto sfondato da carovane di amanti, semicupio ingemmato per cortigiane cosmopolite, cloaca massima del passatismo.
Noi vogliamo guarire e cicatrizzare questa città putrescente, piaga magnifica di passato. Noi vogliamo rianimare e nobilitare il popolo veneziano, decaduto dalla sua antica grandezza, morfinizzato da una vigliaccheria stomachevole ed avvilita dall'abitudine dei suoi piccoli commerci loschi.
Noi vogliamo preparare la nascita di una Venezia industriale e militare che possa rovinare il mare Adriatico, gran lago Italiano.
Affrettiamoci a colmare i piccoli canali puzzolenti con le macerie dei vecchi palazzi crollanti e lebbrosi.
Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini, e innalziamo fino al cielo l'imponente geometria dei ponti metallici e degli opifici chiomati di fumo, per abolire le curve cascanti delle vecchie architetture.
Venga finalmente il regno della divina Luce Elettrica, a liberare Venezia dal suo venale chiaro di luna da camera ammobiliata.

Marinetti, Boccioni, Carrà, Russolo

Gerardo Dottori, Venezia, 1932
e anche certa cinematografia americana sempre in prima linea quando si tratta di distruggere monumenti italiani

domenica 20 maggio 2012

Perchè i morti sono di più

Guardo inerme la distruzione causata dal sisma in Emilia e mi accorgo, come anche per l'Aquila, come i morti siano molti di più. I monumenti crollano e si distruggono. Fino all'Ottocento tutto questo non sarebbe stato percepito come una mancanza. Chiese e palazzi sarebbero stati ricostruiti, sarebbero stati resi forse più belli poichè la grandezza delle città italiane sta nell'accumulo del tempo e degli strati che ogni volta lascia tracce diverse eppur in armonia con le precedenti. Oggi che si è smarrita la bellezza del costruire seguendo la natura e lo spirito dei luoghi, oggi che si costruiscono brutture architettoniche e ogni intervento appare isolato dal contesto, slegato dalla perfezione urbanistica, ogni perdita appare come un addio. Certo, forse verranno restaurati, ma ciò che si è perso rimarrà solo nella memoria e non vivrà, come memoria, nella ricostruzione. Incapaci di produrre più bellezza, edifici civili o religiosi che condensano i valori di una popolazione, percepiamo ogni danno come una ferita non più sanabile. Ogni edificio o opera d'arte è insostituibile, è vero, ma se ci fosse continuità nella storia dell'arte e delle forme ogni mancanza verrebbe sanata con altre opere, come è stato per secoli. Purtroppo oggi il pessimismo e la perdita dominano questi momenti. Un castello che crolla è allora un morto in più sulla nostra coscienza.


P.s. La nostra attuale architettura, ormai, sembra quella che un rassegnato Jay Wolke ha immortalato nel suo ultimo libro «Architettura di rassegnazione. Fotografie dal Mezzogiorno». A riguardo si legga l'articolo di Tomaso Montanari: Il Mezzogiorno rassegnato.


P.s.2 E che dire, per esempio, del Ponte Lucano e del Mausoleo dei Plauzi. Un tempo elemento pittoresco nella campagna romana, raffigurato tante volte per la sua bellezza e amenità, per il suo intimo legame col paesaggio, e oggi divenuto discarica soffocato dal traffico?



martedì 17 aprile 2012

Il caso della biblioteca dei Girolamini - Libri scomparsi e professionalità assenti


Tutto è cominciato con questo articolo di Tomaso Montanari sul Fatto Quotidiano


Segreti e bugie di Marino Massimo De Caro, neo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini.


Come mettere Nerone a capo dei vigili del fuoco: la gestione Mibac è sempre più farsesca.

La figura chiave di questa storia è il nuovo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini: il ‘professore’ Marino Massimo De Caro, che incontro assorto nel maneggio dei volumi più pregiati della collezione, tra pile di libri preziosi incongruamente poggiate sul pavimento, lattine vuote di Coca cola che troneggiano sugli antichi banconi, un’avvenente ragazza ucraina a condividerne l’alloggio conventuale. 

La biblioteca (pubblica fin dal Seicento e ora statale: 150.000 volumi, in massima parte antichi) è una delle più importanti d’Italia. Ma oggi è chiusa. Perché dev’essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco . Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca. 

Comunque stiano le cose, è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del Sottobosco esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro uscito proprio ieri. Lì De Caro è il mediatore nell’affare del petrolio venezuelano, «uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani». E se i contatti con Massimo D’Alema sono stati preparati dalla sua carriera di portaborse parlamentare in area postcomunista, all’intima amicizia con Marcello Dell’Utri De Caro arriva grazie alla sua passione vera, quella per i libri antichi. Non che si tratti di un interesse culturale, intendiamoci: la cultura, notoriamente, fattura. 

De Caro è titolare di una libreria antiquaria a Verona, ma soprattutto è assai attivo nel commercio internazionale: meglio se di alto livello e di memoria corta. In una delle sue conversazioni telefoniche con Aldo Miccichè (ex democristiano, condannato per bancarotta fraudolenta e latitante in Venezuela) intercettate dalla procura di Reggio Calabria, e pubblicate da Sansa e Gatti, De Caro si lamenta perché i carabinieri del Nucleo di tutela per il patrimonio artistico gli stanno addosso per la ricettazione di un prezioso esemplare dell’Hypnerotomachia Poliphili (un incunabolo del 1499) sottratto ad una biblioteca milanese e venduto nel marzo del 2005 alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri. L’indagine finirà nel nulla, ma solo perché la Procura di Milano è costretta a chiedere il non luogo a procedere visto che «l’incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche». 

Forte di questo curriculum immacolato, De Caro approda al Ministero dell’Agricoltura, come consigliere per le bioenergie di Giancarlo Galan. Ma la svolta surreale avviene quando questi, passando ai Beni culturali, se lo porta dietro e infine lo lascia in eredità al suo remissivo successore Lorenzo Ornaghi, che lo nomina prontamente suo consigliere diretto per l’editoria (e il suo mercato, immaginiamo). Così il ministro del patrimonio del governo supertecnico dei competentissimi professori si fa consigliare da una specie di Lavitola del libro. 

Ma quando fai notare a padre Marsano che affidare la preziosissima biblioteca della sua Congregazione a uno come De Caro sarebbe più o meno come mettere un piromane a capo della Forestale, il religioso risponde – non so se candido o diabolico –, che ben altre sono state le insidie patite dai Girolamini, visto che tra il 1960 e il 2007 sarebbero spariti ben 6000 volumi. Sparizioni che nessuno ha curiosamente mai denunciato: e la cui evocazione suona come una colossale assoluzione preventiva. Insomma: cosa succede davvero nella biblioteca dove andava a studiare Giovan Battista Vico? È tutto sotto controllo, o siamo in un film dell’orrore? Girolamini o Girolimoni? La risposta è forse negli ossi di Vico: metafora perfetta di una verità che si sdoppia, tra Pirandello e Sciascia. Vico è il nome del pastore tedesco che gira per le sale monumentali della biblioteca con un immenso osso di prosciutto nelle fauci: quasi Almodóvar. Ma le ossa di Vico sono anche quelle del grandissimo filosofo, che si dice siano state riesumate qualche mese fa nella chiesa dei Girolamini, e che ora sarebbero affidate ai Ris di Parma: per capire se se ne può fare un culto, o un business. 

A sciogliere dubbi e metafore varrà solo un’agguerrita ispezione del Ministero dei Beni culturali, o meglio un’indagine dei vecchi amici del direttore, i carabinieri del Nucleo di tutela. Ma se Ornaghi continuerà a farsi consigliare da De Caro e a far finta di non vedere, tra poco sarà davvero impossibile distinguere tra gli ossi di Vico (il cane) e le ossa di Vico (il filosofo). E Napoli morirà ancora un po’. 




a cui è seguito un articolo sul Corriere del Mezzogiorno (Girolamini, una biblioteca da cani) e questa lettera aperta al ministro Ornaghi

Al ministro per i Beni e le attività culturali, prof. Lorenzo Ornaghi

Signor Ministro,

Le scriviamo a proposito dello stranissimo e increscioso affare che riguarda l’attuale direzione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini a Napoli, una delle biblioteche storiche più gloriose d’Italia, nata dalla passione culturale della congregazione di San Filippo Neri. Per volontà di Giovan Battista Vico, in essa confluirono i libri di Giuseppe Valletta: pegno vivo di una stagione in cui Napoli era un crocevia del pensiero filosofico europeo e vera capitale della Respublica literariauniversale.

Dopo le enormi perdite e trasformazioni di altri fondi librari avutesi nell’Ottocento, Napoli possiede ormai quest’unico esempio particolare di biblioteca pubblica di origine preunitaria, magnificamente coerente nell’architettura e nelle raccolte in essa ospitate: un organismo che un tempo si affiancava perfettamente alle biblioteche universitarie e alla Nazionale, così come avveniva e avviene in altre antiche capitali italiane, dove però le analoghe biblioteche di origine conventuale, principesca o erudita sono state meno decimate, e svolgono tuttora una funzione preziosissima (si pensi all’Angelica, alla Casanatense, alla Corsiniana e alla Vallicelliana di Roma, o alla Laurenziana, alla Marucelliana e alla Moreniana di Firenze).

Purtroppo le conseguenze drammatiche, mai piante a sufficienza, del terremoto del 1980, hanno contribuito massicciamente a far uscire i Girolamini dall’orizzonte culturale, e prim’ancora dal vissuto quotidiano, della cittadinanza napoletana, con i suoi numerosissimi intellettuali, studiosi e studenti. E ciò spiega perché, nella distrazione ormai consolidatasi, sia cominciata una vicenda come quella che è adesso in corso, e che siamo qui a denunciarLe.

Le chiediamo come sia possibile che la direzione dei Girolamini sia stata affidata dai padri filippini, con l’avallo del Ministero che ne è ultimo responsabile, a un uomo (Marino Massimo De Caro) che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo. E perché questa scelta sia stata fatta in un Paese e in un’epoca affollati fino all’inverosimile di espertissimi paleografi, codicologi, filologi, storici del libro, storici dell’editoria, bibliotecari, archivisti, usciti dalle migliori scuole universitarie e ministeriali, e finiti sulle strade della disoccupazione o della sotto-occupazione (call centers, pizzerie, servizi di custodia).

Le chiediamo inoltre di spiegarci come mai Marino Massimo De Caro, sebbene del tutto estraneo al mondo della biblioteconomia e della funzione pubblica, abbia avuto e abbia comunque curiose implicazioni con i libri, che lo portano tuttavia nel mondo del commercio, facendo emergere fin qui – sempre e soltanto – episodi degni di essere vagliati non da una commissione di concorso, ma dalle autorità giudiziarie (sia pure con l’auspicio dell’innocenza).

Le chiediamo inoltre come mai una figura dai trascorsi così poco chiari e poco chiariti sia stata messa a capo di un istituto che oggi come non mai ha bisogno, tutt’al contrario, non solo di una guida ferrea e irreprensibile, ma di un rappresentante – ben facile da trovare – che respinga ad anni-luce da sé i sospetti di ogni collegamento con quelle gravissime perdite più o meno recenti del loro patrimonio librario che i padri filippini per primi denunciano in questi mesi.

Le chiediamo infine, nel riconsiderare con molta attenzione la scelta di Marino Massimo De Caro come direttore dei Gerolamini (nonché come Suo consigliere personale), di voler creare una commissione pubblica d’inchiesta sull’amministrazione passata e recente di questa biblioteca, prima che la memoria storica dei Gerolamini rimanga affidata soltanto a una maestosa architettura ferita e umiliata, tragicamente solitaria nel cuore di una rete mondiale di traffici rapaci.


Foto di Mimmo Jodice

ed è proseguito con una petizione (promossa dal prof. Francesco Caglioti) che in pochi giorni ha visto l'adesione di insigni studiosi italiani http://www.petizionepubblica.it/?pi=Gerolami per un ennesimo caso che coinvolge i beni culturali e che ha dell'incredibile (su patrimonio sos la lista completa dei firmatari). Storia emblematica dell'odierna situazione del nostro patrimonio, a tinte fosche e con inquietanti risvolti. Che fine hanno fatto migliaia di preziosi e rari libri scomparsi?


I libri spariti della biblioteca di Vico.

Affidereste una delle biblioteche più ricche d'Italia cioè del mondo, piena di tesori inestimabili, a un sedicente principe dottore che non è principe e non è laureato? È successo: il «nobiluomo» ha in mano, col benestare ministeriale, la biblioteca napoletana dei Girolamini. Quella di Giovan Battista Vico. E il giorno stesso in cui usciva sui giornali l'allarme di centinaia di studiosi si è precipitato a denunciare il furto di un sacco di libri.

Tutto è cominciato un paio di settimane fa quando Tomaso Montanari, fiorentino, docente di Storia dell'arte moderna alla «Federico II» di Napoli, autore del saggio «A che serve Michelangelo?» (zeppo di pesantissimi dubbi sul crocifisso attribuito al Buonarroti e acquistato dal governo Berlusconi per più di tre milioni di euro) ha denunciato su «Il Fatto» di avere visitato la Biblioteca dei Girolamini, che contiene oltre 150 mila manoscritti e volumi antichi, e di averla trovata in condizioni penose: disordine, polvere, pile di libri preziosi accatastate per terra, lattine vuote di Coca-cola abbandonate sugli antichi banconi... «La biblioteca oggi è chiusa - scriveva Montanari - perché dev'essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco. Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca».

Una denuncia clamorosa. Anche perché elencava una serie di perplessità sul nuovo direttore, il «professore» Marino Massimo De Caro: «Comunque stiano le cose è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del "sottobosco" esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro (appena) uscito. Lì De Caro è il mediatore nell'affare del petrolio venezuelano, "uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani"».
Console onorario del Congo, già assistente del senatore Carlo Corbinelli, già Responsabile pubbliche relazioni dell'Inpdap nel Nord-Est, già vicepresidente esecutivo dal 2007 al 2010 di Avelar energia (parchi eolici e solari) del gruppo Renova appartenente all'oligarca russo Victor Vekselberg, già titolare di una libreria antiquaria a Verona, già socio nella libreria antiquaria Buenos Aires (la «Imago Mundi») di Daniel Guido Pastore, coinvolto in Spagna in una inchiesta su una serie di furti alla Biblioteca Nazionale di Madrid e alla Biblioteca di Saragozza, è finito nel «giro» ministeriale con Giancarlo Galan. 
Lo si legge in una nota del ministero stesso: «Il Dott. Marino Massimo De Caro è stato chiamato a collaborare con il Ministero dal Ministro Giancarlo Galan in data 15 aprile 2011 in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura, dell'editoria nonché delle tematiche connesse all'attuazione della normativa concernente l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e al loro corretto inserimento nel paesaggio. Il Ministro Lorenzo Ornaghi in data 15 dicembre 2011 ha confermato l'incarico al Dott. Marino Massimo De Caro, come ha fatto con altri consiglieri del Ministro Galan, in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura e dell'editoria».

Riprendiamo un passaggio del libro «Il sottobosco» di Gatti e Sansa a proposito di una intercettazione: «Il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta di un capitano dei carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta "scocciando" per un libro acquistato in un'asta pubblica in Svizzera. È indagato per ricettazione, spiega, e la cosa ha bloccato la sua nomina a console onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non sta concedendo il nullaosta. (...) Il 17 luglio 2009 De Caro potrà finalmente rilassarsi perché il sostituto procuratore di Milano Maria Letizia Mannella, "rilevato che l'incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche", chiede il non luogo a procedere. In altre parole, visto che l'oggetto della presunta ricettazione è scomparso e che le tre persone coinvolte si accusano a vicenda, la pm finisce con l'archiviare il tutto». Ripetiamo: tutto archiviato. Ma tra tante possibili scelte non c'erano altri dal profilo assolutamente cristallino cui affidare una biblioteca di libri preziosi già molto saccheggiata nei decenni?

Offeso dai sospetti, il giorno dopo la denuncia il direttore spiega al Corriere del Mezzogiorno di avere tutte le carte in regola: «Mi sono laureato a Siena, ho insegnato Storia e tecnica dell'editoria nei master di specializzazione dell'Università di Verona». Di più: «Sono stato consulente del cardinale Mejia, bibliotecario del Vaticano, ho pubblicato un libro su Galilei, sono stato direttore della Biblioteca del Duomo di Orvieto...» Di più ancora, spiega al Mattino : «Il padrino di battesimo di mio nonno è stato Benedetto Croce. La mia famiglia, che tramandava il titolo di Principi di Lampedusa, si è unita con quella del famoso Tomasi ed è in quel momento che è diventato di Lampedusa, anche di questo andiamo fieri».

«Perdindirindina!», esclamerebbe Totò che si vantava di essere Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe Costantiniana dei Focas Angelo Flavio Ducas Commeno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia, del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso, Duca di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto e di Durazzo. «Falso», gli risponde il giorno dopo, sempre sul quotidiano partenopeo, il vero principe Gioacchino Lanza Tomasi: «Le affermazioni del bibliotecario sulla discendenza dai principi di Lampedusa sono un'impostura. Il titolo di principe di Lampedusa è stato concesso da Carlo II di Spagna a Ferdinando Tomasi nel 1667. I Caro quindi con il titolo di principe di Lampedusa non hanno nulla a che vedere. ... Il nostro eminente bibliotecario queste cose dovrebbe averle sulla punta delle dita. E consiglierei al priore dei Girolamini di vigilare su un archivista che invece di appoggiarsi alla documentazione si avvale di casi di omonimia».

Vabbé, sempre «professore» resta. Lo dice un comunicato stampa dell'Associazione nazionale «Il Buongoverno», costituita a Milano e «presieduta dal Sen. Riccardo Villari, con Marcello Dell'Utri presidente nazionale onorario. Il segretario è il senatore Salvatore Piscitelli. (...) Segretario organizzativo nazionale è il professor Marino Massimo De Caro». Perdindirindina bis!
Peccato che, a dispetto delle dichiarazioni e dei comunicati ufficiali del ministero che lo chiama ripetutamente «dottore», il nostro De Caro all'Università di Siena, dove si iscrisse a Giurisprudenza nel 1992/1993 restando iscritto fino al 2002, non si sia mai laureato. E che lo stesso cervellone centrale dell'Università di Verona non conservi traccia, manco di striscio, del passaggio da quelle parti dell'illustre «docente». 
Il dettaglio più divertente, tuttavia, è l'ultimo. Prima ancora che uscissero tutti questi ritocchi all'auto-agiografia, centinaia e centinaia di intellettuali avevano iniziato a firmare un appello per chiedere che il ministro Lorenzo Ornaghi come fosse possibile che una biblioteca importante come quella dei Girolamini fosse stata affidata a «un uomo che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo». Parole durissime, sottoscritte fino a ieri sera da poco meno di duemila personalità, tra le quali Marcello De Cecco, Ennio Di Nolfo, Dario Fo e Franca Rame, Carlo Ginzburg, Salvatore Settis, Tullio Gregory, Gustavo Zagrebelsky, Gioacchino Lanza Tomasi, Adriano La Regina, Gian Giacomo Migone, Alessandra Mottola Molfino (presidente di Italia Nostra), Lamberto Maffei (presidente dell'Accademia dei Lincei), Dacia Maraini, Stefano Parise (presidente dell'Associazione Italiana Biblioteche), Stefano Rodotà, Rosario Villari...

Bene: la mattina stessa in cui esce la notizia dei dubbi di quegli intellettuali, il «Dottor», «Principe», «Professor» Marino Massimo De Caro si presenta alla Procura della Repubblica. Vuol fare una denuncia: si è accorto che nella sua biblioteca sono spariti millecinquecento libri...




Deputati europei si mobilitano per la Biblioteca dei Girolamini

La storia della biblioteca dei Girolamini frequentata da Giambattista Vico. Su Il Mattino


con la speranza che altre biblioteche storiche non facciano questa fine


martedì 13 marzo 2012

Chi cerca (non) trova - Settis su Vasari e Leonardo

Bocciatura senz’appello dell’operazione mediatica sulla Battaglia d’Anghiari. La Repubblica, ed. Firenze, 13 marzo 2012

Il sindaco di Firenze Renzi ha annunciato magnum cum gaudio che alcuni ricercatori avrebbero dimostrato inoppugnabilmmente che dietro l’affresco del Vasari si nasconde una versione leonardesca della Battaglia d’Anghiari. Tra le riserve scientifiche all’operazione quella di Salvatore Settis 

Si è capovolta la gerarchia naturale dei valori». Salvatore Settis, storico, archeologo, ex direttore della Normale di Pisa, ha presieduto fino al 2009 il Consiglio superiore dei beni culturali. Sè anche primo firmatario dell´appello di 101 studiosi, intellettuali e storici dell´arte che nei mesi scorsi ha chiesto di interrompere le ricerche della Battaglia di Anghiari, fortemente voluta, invece, da Palazzo Vecchio. E non usa cautele nell´esprimere il suo giudizio su un´operazione che definisce «soltanto mediatica»: «Invece di salvaguardare al massimo un´opera d´arte certa quale è la Battaglia di Scannagallo del Vasari», spiega Settis, «cioè di cercare di non farle correre alcun rischio, si va alla ricerca di un´opera soltanto ipotizzata, con possibilità secondo me minime di trovarla davvero, trattando quella certa come se fosse un incomodo di cui quasi non si vede l´ora di liberarsi. Fino a giungere addirittura ad ipotizzare di poter togliere qualche pezzetto rifatto nell´Ottocento, ammesso che ci sia...». 

Professor Settis, ammetterà che anche la sola ipotesi che si possano trovare delle tracce di un´opera di Leonardo sottostante quella del Vasari, possa valere quantomeno la curiosità di una indagine... 

«Il dramma di questo paese, che si sta replicando in modo esemplare in questo caso, è che occuparsi di beni culturali sembra ormai risolversi in una continua spettacolarizzazione, mirata su singole opere d´arte, o singoli interventi di restauro. Un fatto di costume che io giudico altamente negativo, perché orienta l´attenzione soltanto su operazioni di immagine, che riguardano dieci o venti monumenti di grande richiamo, lasciando che tutto il resto vada in malora». 

D´altra parte esistono dei risultati scientifici, che Comune e Soprintendenza hanno sempre sostenuto di considerare sufficienti a procedere. 

«Ma è mai possibile che in un luogo di straordinaria importanza come il Salone dei Cinquecento in Palazzo Vecchio, e avendo a che fare con opere di un Leonardo e di un Vasari, si considerino sufficienti le analisi di un laboratorio privato di Pontedera? E´ mai possibile che non valesse la pena, in un caso del genere, di ricorrere, prima di qualsiasi dichiarazione e di qualsivoglia annuncio, quantomeno a un controllo incrociato di dati, prodotti da laboratori di altissimo livello, diversi e indipendenti, cioè che non sapessero niente l´uno dell´altro, in modo da essere supercerti di quello che si sarebbe detto? Tutto questo non è stato fatto e mi chiedo perché. Tanto più che almeno una funzionaria dell´Opificio delle pietre dure, da tutti riconosciuta come molto seria, ha chiaramente detto che i dati a disposizione non le sembravano attendibili. E´ ovvio che anche solo questi dubbi avrebbero dovuto obbligare alla massima prudenza». 

Non la convince nemmeno l´ultima novità, e cioè l´accertata «compatibilità» fra i pigmenti rilevati sotto l´affresco del Vasari, e quelli repertati e certificati dal Museo del Louvre nel 2010 e relativi alla Gioconda e al San Giovanni Battista di Leonardo? 

«Ripeto, qui si trattava di fare confronti secondo un metodo ben più rigoroso, come quello, per esempio, che abbiamo adottato in occasione degli studi sulla pendenza della Torre di Pisa. Ogni volta che abbiamo dovuto fare analisi di qualche tipo, geologico, statico, prima di prendere una decisione tecnica le abbiamo ripetute due o tre volte affidandole ogni volta a laboratori diversi, e che laboratori: dall´Università di Harvard al Politecnico di Milano, ad altri ancora sparsi per il mondo. Insisto: un Vasari e un Leonardo non avrebbero meritato altrettanto impegno? Del resto ad ammettere un errore non c´è niente di male, capita a tutti, si guardi il caso dei neutrini che sembravano più veloci della luce, un errore non a caso venuto fuori proprio grazie al controllo incrociato di dati elaborati da laboratori diversi». 

Si può sempre obiettare che l´indagine è partita con lo stimolo di uno sponsor privato, che se ne è accollato tutti gli oneri e ha anzi dotato il Comune di fondi utilissimi al suo disastrato bilancio. 

«Proprio perché si ha avuto la fortuna di trovare uno sponsor del genere, in tempi come questi, mi si deve spiegare perché non lo si sia utilizzato per la priorità delle priorità, e cioè la tutela e la conservazione del patrimonio storico artistico, che come tutti sanno sta andando in malora. E di cui, diciamo la verità, non importa davvero niente a nessuno, perché quel che importa è di fare, ogni tanto, cose spettacolari, anziché, giorno dopo giorno, investire sulla conservazione capillare di tanti beni diffusi su tutto il territorio nazionale. Ma mi meraviglio che da una regione come la Toscana, e da una città come Firenze, non solo non venga questo esempio, ma arrivi quello contrario». 

Carratù, Maria Cristina


Da questo link invece l'articolo di Tomaso Montanari dal Corriere Fiorentino: "La riprova scientifica che ancora manca".

Emerge il nero a Palazzo Vecchio! Ma no, non c’entrano i fondi di Lusi: è il colore della Gioconda. Anzi, vuoi vedere che in quell’intercapedine c’è anche qualche capello di Monna Lisa in persona? Magari ci sono perfino le ossa: e sai come schiatterebbero alla Provincia, che scava inutilmente a Sant’Orsola, se le trovasse il Renzi? E c’è già chi dice che Vasari abbia costruito una intercapedine minore per preservare un torsolo di mela morsicato da Leonardo. Se siamo fortunati, l’analisi del DNA scioglierà l’enigma, anzi il mistero: a Leonardo piacevano le mele? Meglio provare a sorridere, perché a prendere seriamente la conferenza stampa di ieri viene da piangere. Domani l’opinione pubblica globale sarà riportata, come per incanto, ad una dimensione pregalileiana della conoscenza. Tutti i media titolano infatti sulle ‘prove’ della presenza di Leonardo: ma di quali prove parliamo?

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