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mercoledì 5 giugno 2013

L'architettura sacra oggi

E' recente la polemica di Paolucci contro le nuove chiese delle periferie romane che "sembrano magazzini". La Chiesa ha perso la capacità di cercare “la bellezza” negli edifici di culto? E ancora, cosa è successo dal Concilio Vaticano II in poi? Si parte da queste domande per esplorare in una nuova puntata di hang-out su Aleteia le tendenze culturali odierne e i rapporti tra architettura e pittura contemporanee. Ospiti per l'occasione: il prof. Antonio Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e sovrintendente dei Beni Artistici della Santa Sede; Rodolfo Papa, pittore e storico dell’arte; e l'architetto Ciro Lomonte. Conduce la giornalista di Radio Vaticana e presentatrice RAI, Benedetta Rinaldi.

mercoledì 13 febbraio 2013

L'Immacolata Concezione: alcuni elementi di iconologia

Il prof. Rodolfo Papa ha inaugurato su Zenit una nuova rubrica di letture iconologiche che usciranno a scadenza quindicinale. La prima è stata sulla cappella Carafa a Santa Maria sopra Minerva mentre quella che proponiamo oggi riguarda l'iconografia dell'Immacolata concezione. 


L’11 febbraio 1858 la Vergine Maria appare alla giovanissima Maria Bernarda Soubirous nella grotta di Massabielle, sui Pirenei. Nelle sue apparizioni, la Madonna si manifesta a Bernadette dicendo “Io sono l’Immacolata Concezione”.

Solo quattro anni prima, con la bolla Ineffabilis Deus (8 dicembre 1854), Pio IX aveva definito il dogma dell’immacolato concepimento di Maria, ponendo in evidenza che la Vergine fu preservata dal peccato originale. Veniva così definita, dopo secoli di approfondimento teologico, una importante questione relativa alla persona ed al ruolo della Vergine Maria nel piano provvidenziale della Redenzione.

Nel 1870, Pio IX commissionò al pittore Cocchetti un dipinto raffigurante l’Immacolata, per l’arcosolio del presbiterio di Santa Maria in Trastevere: questo potrebbe essere considerato il primo dipinto legato al dogma dell’Immacolata Concezione, ma in realtà la pittura, tanto quanto la riflessione teologica, nel corso dei secoli era già stata chiamata a meditare questo tema. Già i Padri della Chiesa avevano accostato Eva e Maria, proprio per sottolineare che la Vergine era stata concepita senza il peccato, e con il passare del tempo l’assunto Semper Virgo. Dei Genitrix. Inmaculata era stato abbracciato da un numero sempre crescente di fedeli e difeso dai pontefici, fino a giungere alle celebri costituzioni di Sisto IV (Cum praeexcelsa, 1477, Grave nimis, 1483), confermate nella quinta sessione del Concilio di Trento nel Decretum de peccato originali (1546), su proposta soprattutto del card. Pietro Pacheco di Jaen. Questo cammino della Chiesa, coronato dalla definizione dogmatica di Pio IX, si specchia nel percorso dell’arte.

Il tema pittorico dell’Immacolata trova nascita nell’Italia meridionale e particolare diffusione in Spagna. Si definisce dal punto di vista iconografico intorno alla fine del Quattrocento[1], come dimostrano alcuni dipinti conservati in Italia, in Francia ed in alcune regioni della Penisola Iberica, e tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento gode di grande popolarità in Italia e, in modo speciale, in Spagna.

Fu per l’appunto uno spagnolo, Francisco Pacheco, che nel suo trattato Arte de la Pintura del 1638 ha fornito una guida chiara per raffigurare in maniera corretta l’Immacolata, riassumendo senza dubbio gli elementi comuni alle immagini che aveva visto e che giudicava affidabili; fra queste vi erano le immagini riprodotte sulle medaglie che Leone X aveva benedetto agli inizi del Cinquecento su istanza dell’ordine francescano, fedele difensore del privilegio di Maria (anche Sisto IV era dell’ordine dei frati minori): “ Si deve...dipingere...questa Signora nel fiore della sua età, da dodici a tredici anni, bellissima bambina con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance, i bellissimi capelli lisci, color oro... deve dipingersi con tonaca bianca e manto blu vestita del sole, un sole ovale ocra e bianco, che circundi tutta l’immagine, unito dolcemente con il cielo; coronato di stelle; dodici stelle distribuite nel circolo chiaro fra splendori, servendo di punto alla sacra fronte; le stelle su alcune macchie chiare formate a secco di purissimo bianco, che esca sopra tutti i raggi... Una corona imperiale deve adornare la sua testa ma che non copra le stelle; sotto i piedi, la luna che benché sia un globo solido, prese licenza per renderlo chiaro, trasparente sui paesi; nella parte di sopra, più chiara e visibile la mezza luna con le punte verso il basso...I tributi di terra si accomoderanno, convenientemente, per paese, e quelli del cielo, se vogliono fra le nubi. Adornasi con serafini e con angeli interi che hanno alcuni degli attributi... il dragone... al quale la Vergine spaccò la testa trionfando dal peccato originale...se potessi lo eliminerei per non disturrbare il quadro”. Queste indicazioni normative del Pacheco non solo traducono la visione della Apocalisse, ma sembrano anche descrivere la tela che Zurbarán aveva dipinto per il collegio religioso di Nuestra Señora del Carmen de Jadraque, nel 1632.[2] 

In questa tela, infatti, troviamo magistralmente raffigurata l’Immacolata, con tutti i suoi attributi iconografici. Il primo dei simboli, il sole, non è presente come astro, ma come luce che si irradia da dietro la figura della Vergine, facendo sì che questa si presenti come una “donna vestita di sole” (Ap 12,1). Le dodici stelle ornano simbolicamente l’aureola, la quale si tramuta in una vera apoteosi di teste di cherubini, che aprono il cielo fisico verso lo spazio delle sfere celesti. L’immagine quasi statuaria della Vergine si colloca in uno spazio assolutamente ideale, che sta a metà tra cielo e terra. Il suo alone di luce irradia un caldo ammasso di nuvole, in cui spiccano quattro attributi mariani; tra squarci di nubi a sinistra si vede la Porta del Cielo, Porta coeli (Gen 28,17) e la Scala di Giacobbe o del cielo, Scala coeli (Gen 28,12) a destra la Stella del Mare, Stella maris (Himn. Lit.) e lo Specchio senza macchia, Speculum sine Macula (Sap 7,26).

Nella parte inferiore del dipinto un paesaggio che si stende come una marina, a ricordare l’etimo poetico del nome della Vergine, riunisce una infinità di attributi mariani in un luogo reale e al tempo stesso simbolico, concepito appositamente per la contemplazione del fedele raccolto in preghiera, davanti al creato posto ai piedi di Maria. Ecco che, a saperlo guardare, il paesaggio si tramuta nell’Orto Sacro, Hortus Conclusus (Ct 4, 12), nel quale crescono fiori di campo rossi e bianchi, Flos campi, e dove si ergono la Torre di Davide, Turris David (Ct 4,4), il cipresso, Cypressus in monte Sion (Sir 24,17), il Tempio dello Spirito Santo, Templum Spiritus sancti (I Cor 6,19), la palma, Palma exaltata in Cades (Sir 24,18), i cedri, Cedrus exaltata in Libano (Sir 24,17), e gli ulivi, Oliva Speciosa (Sir 24,19). Al centro, il pozzo delle acque vive, Puteus aquarum viventium (Ct 4,15), e la fonte della grazia o dell’orto, Fons hortorum (Ct 4,15).

Zurbarán dipinge questa tela come una visione; mostra ai nostri occhi tutta la bellezza, lo splendore e la fragranza della natura immacolata di Maria e ci invita a rimanere con lei nel luogo delizioso che ha accolto il Verbo incarnato in un tripudio di colori e di forme belle. In casi come questo, l’arte stessa si rivela come un dono magnifico che Dio ha offerto all’umanità per contemplare, in un modo del tutto particolare, la bellezza dei suoi doni e del suo amore. Carlo Chenis scrisse a tal riguardo che «l’Immacolata sprigiona bellezza originale ed escatologica, così che la visione estetica di quanto la ravvisa conduce alla visione estatica di quanto la glorifica» e «lo splendore artistico rivela il reale nella sua totalità complessa» in quanto è « svelamento dei fondamenti ultimi, è metafora della gloria divina, è impronta della divina sostanza. Gli attributi che lo descrivono sono l’intergrità, in quanto occorre compiutezza intrinseca, e la conoscenza, poiché nihil est ordinatum quod non sit pulchrum»[3]

Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. 

*

NOTE

[1] Riguardo alcuni sviluppi del tema iconografico dell’Immacolata tra Cinquecento e Seicento Cfr. Rodolfo Papa, Leonardo teologo. L’artista «nipote di Dio», Ancora Milano 2006, pp. 86-148; Rodolfo Papa, Caravaggio pittore di Maria, Ancora, Milano 2005, pp. 67-76.

[2] Cfr. Rodolfo Papa, I colori dello Spirito. Capolavori dell’arte cristiana tra il XIV e il XVII secolo, Ed. Paoline, Milano 2005, pp. 15-22.

[3] Carlo Chenis, Tota pulchra, perché tutta pura. Paradigmi estetico spirituali dell’Immacolata, in Una donna vestita di sole. L’Immacolata Concezione nelle opere dei grandi maestri, catalogo mostra a cura di G. Morello, V. Francia, R. Fusco, 11 febbraio-13 maggio 2005, Braccio di Carlo Magno, Città del Vaticano, F.M.Editore, Milano, 2005, pp. 14-17.

(su Zenit)

venerdì 21 settembre 2012

La crocifissione di San Giovanni della Croce e Dalì

San Giovanni della Croce non è stato solo uno dei più grandi mistici cristiani ma anche un sommo artista sia come poeta che come disegnatore. Un giorno, siamo nel 1575, nella chiesa dell'Incarnazione Giovanni ha una visione. Mentre è appartato in preghiera, in un'angolo che da sul transetto, Cristo gli appare sulla Croce. Ha la testa reclinata sul petto, le braccia sostenute da pesanti chiodi, le gambe piegate sotto il peso del corpo, con un'espressione di assenso totale al sacrificio. Cessata la visione prende carta e penna e riproduce quanto ha visto. E' l'unico disegno di Giovanni che si conserva (ma non è improbabile che dovette farne altri) e unica è l'impressione che si ha guardandolo poiché il mistico prevale sul tragico. E' violento ma percorso da una grande dolcezza, la densità dei tratti, l'anatomia del corpo in contorsione, la nervosità delle linee hanno fatto credere ad un disegno miracoloso ma è normale che Giovanni abbia studiato disegno e pertanto la carica mistica aumenta la forza evocativa. Cristo è contemplato di lato e dall'alto, con uno scorcio di incredibile realismo, ed emana il senso supremo del sacrificio e della costrizione. Non è un caso che secoli dopo Dalì nel 1951, durante la sua fase di recupero della pittura rinascimentale e dell'iconografia cristiana, eseguirà un crocifisso ispirandosi proprio allo schizzo del santo accentuando la prospettiva e lo scorcio impossibile.

S. Giovanni della Croce - crocifissione

Dalì - Il Cristo di San Giovanni della Croce
L’opera fa parte della copiosa produzione pittorica di Salvador Dalì dopo il suo drammatico distacco dal movimento surrealista, voluto nel 1934 da André Breton. La grande tela è oggi conservata all’Art Gallery di Glasgow in Scozia. Ai margini della composizione un desolato paesaggio lacustre disegnato con grande precisione è popolato solo da tre figure, rese sommariamente, occupate nella poro attività di pescatori. I netti profili delle basse montagne che si stagliano contro l’orizzonte sono segnati da una luce vitrea emessa dal sole ormai al tramonto. Come una visione il cielo si apre e appare una crocifissione, colta dall’alto, che occupa la parte più ampia dello spazio, forse a ricordare che l’umanità deve necessariamente rispondere del sacrificio di Nostro Signore. La luce divina colpisce con violenza la parte superiore della grande croce e sfiora il corpo senza vita di Cristo mettendone in risalto la muscolatura; il gioco chiaroscurale è determinante sia per rendere più palpabile il miracolo che per aumentare la drammaticità consona alla scena. Salvador Dalì lo dipinse in un momento di rimeditazione del mondo cattolico, contemporaneamente alla pubblicazione del “Manifesto Mistico”, a cui l’artista affida le sue riflessioni sul delicato tema e a una serie di opere a soggetto sacro fra le quali voglio qui ricordare la crocifissione del Metropolitan di New York, datata 1954, che però propone un modulo ammanierato che rende opaca la composizione. Nonostante l’attualizzazione del tema sacro, in questo quadro Salvador Dalì mantenne rapporti con la pittura del passato: la figura vicina alla barca è desunta da “Le Nain”, mentre quella a sinistra è tratta da un disegno preparatorio di Velàzquez per la Resa di Brera.

E' questa l'opera di un artista geniale che, dopo aver vagato errante in cerca d'assoluto, alla fine confida: "Il Cielo non si trova nè in alto nè in basso, nè a destra nè a sinistra, il Cielo si trova esattamente al centro dell'uomo che ha Fede...Ora io non ho ancora la Fede e temo di morire senza Cielo".

lunedì 14 maggio 2012

L'arte sacra tra «FIDES ET RATIO». Riflessioni sull'ultimo libro di Rodolfo Papa

La lettura dell’inscindibile rapporto tra arte e fede e l’analisi delle dinamiche contemporanee getta nuova luce sull’odierno sistema dell’arte e sull’essenza più profonda della pittura proponendo una via d’uscita e un aiuto alla liturgia. 

Ci sono persone che passano una vita a mettere libri in una biblioteca ed altre che mettono un’intera biblioteca in un libro. Discorsi sull’arte sacra (edizioni Cantagalli 2012) di Rodolfo Papa si colloca in questa seconda categoria ed è effettivamente una summa del sistema dell’arte posta al servizio dell’arte sacra autentica. Papa mettendo a frutto la ricca esperienza ventennale maturata in qualità sia di storico dell’arte che di artista e spaziando tra filosofia, storia, teologia, critica d’arte e trattatistica artistica, avendo sempre come saldi punti di riferimento i testi magisteriali, compie uno studio tanto singolare quanto indispensabile. Singolare poiché difficilmente, nell’odierna letteratura sull’arte, si rinviene un volume che fonde con lucidità una lettura della condizione corrente con una riscoperta, e attualizzazione, degli scritti del passato; indispensabile poiché, evitando la strada delle ormai infinite ridefinizioni dell’arte approntate a partire da saperi particolari, evitando quindi ulteriori frammentazioni teoriche, cerca di uscire dal relativismo presente per proporre stabili e logici modelli di riferimento. La struttura scelta per analizzare tale complesso sistema è quella del discorso, come genere letterario e forma espressiva, che permette la focalizzazione su diversi punti e contemporaneamente l’avanzamento verso un obiettivo finale che è quello della definizione dei fondamenti dell’arte sacra. I vari capitoli affrontano diverse questioni particolari e comprendono riflessioni teoretiche ed exempla tratti dalla storia dell’arte e che aiutano a contestualizzare e definire i ragionamenti. Grande attenzione è riservata al chiarimento dei termini linguistici, indispensabili nell’economia dell’analisi, mentre l’uso abbondante della citazione, mai semplice riferimento bensì indicazione funzionale al testo, permette da una parte di seguire il rapporto tra scrittura e immagine nella storia del cristianesimo e dall’altra di conoscere testi contemporanei di studiosi che, pur lontani dal cristianesimo, arrivano ad intuire la soluzione del problema. 

Lo scopo del testo è quello di giungere a definire l’arte sacra e la sue proprietà intrinseche in un’epoca che non solo ha smarrito il concetto di arte, divenuto liquido e soggettivo, ma anche la nozione di sacro, una vera e propria apostasia per la quale Papa individua origini e conseguenze. Così ragionando l’autore arriva a proporre una definizione generale, tratta dai testi classici, che non presenta come dogma ma la innesta nell’odierna speculazione dimostrando come sia possibile ancora riflettere in termini positivi sullo statuto epistemologico dell’arte: ars est racta ratio factibilium. Questa enunciazione è la premessa per l’individuazione di almeno quattro caratteri fondamentali propri dell’arte sacra (e in special modo dell’arte della pittura): universalità, bellezza, figuratività e narratività. 

Il problema di fondo dell’odierna confusione circa lo statuto dell’arte risiede nell’impossibilità di giungere ad una definizione univoca capace di comprendere le diverse forme espressive sorte nel Novecento. Se un tempo c’era uno “stile”, inteso come modo di fare, maniera, che identificava l’artista o un gruppo di artisti accumunati da una stessa visione del mondo, nel contesto dell’attuale crisi dei valori è inevitabile parlare di “poetiche”. La “poetica”, che va a sostituirsi allo “stile”, caratterizza la scelta tecnica, soggettiva, materica e di gesto di un artista, secondo le sue capacità creative e culturali (parliamo infatti dei “sacchi di Burri”, dei “tagli di Fontana”, dei “ready-made di Duchamp”). Mentre uno stile è universale e trasmissibile, poiché rappresenta la totalità dell’esperienza (in relazione alla maniera e alla schola), la “poetica” è slegata dal contesto ed è in relazione solo ed esclusivamente col singolo. L’arbitrarietà del gesto si sostituisce alla solidità delle forme. Dalla nascita dell’estetica come disciplina autonoma in seno alla filosofia gradualmente, nella difficoltà di giungere a definizioni univoche, difficoltà che nasce dal tentativo di considerare l’arte esclusivamente come frutto dello spirito slegata dal dato artigianale, si è assistito ad una progressiva liberazione dalle regole in quanto è l’unica condizione creativa che rimane come possibile strada percorribile. Se a questo aggiungiamo l’erronea lettura evoluzionistica della storia dell’arte che considera ogni scatto successivo delle forme come un progresso arriviamo da una parte all’impossibilità di definire i limiti di questa crescita (ed per contrasto all’idea de “la morte dell’arte”) e dall’altra alla perenne ricerca di cose mai dette prime. Papa nel Discorso sulle Arti, molto intelligentemente, dopo aver analizzato diversi contributi di teorici e critici attuali (Warburton, Shiner, Danto, Belting, Didi-Huberman) mostrando le difficoltà nel giungere ad enunciazioni stabili ed omnicomprensive, propone la celebre frase di San Tommaso per la quale l’arte è la corretta ragione delle cose da fare (“rectra ratio”) e declina al plurale la questione: «se il termine arte è declinato al plurale, come un genere che comprende varie specie, la questione della sua definizione appare risolvibile, anche nella situazione contemporanea». In quest’ottica le “specie” della performance o dell’installazione o ancora della body art avranno bisogno di un proprio statuto e di peculiari regole che qualcuno dovrà fornire e così garantiranno, per diversità, l’identità e la definibilità per esempio della pittura e la possibilità di affermare ciò che è arte e ciò che non lo è. Osservando il sistema da questo punto di vista, inoltre, l’arte cosiddetta “contemporanea” con i suoi rituali di produzione, fruizione e storicizzazione appare ormai cristallizzata e l’apparente multiformità si dimostra già codificata e globalizzata dal mercato che, dalla Pop Art in poi, è espressione vuota di questa apparente creatività. Naturalmente non tutti i generi possono essere al servizio della Chiesa e a riguardo Papa più volte nei vari capitoli si sofferma sulle intrinseche differenze e sui pericoli. Revivals diatopici e diacronici, utopici e ucronici, il recupero del “pensiero selvaggio” e di un primitivismo originale, istanze liberali, libertine e neo-pagane, la ricerca dell’irrazionalismo e dell’esoterismo sono tutte strade cercate dall’Illuminismo in poi con lo scopo di introdurre forme nate da diversi sistemi d’arte per scardinare la struttura dall’interno e scristianizzare l’arte. A differenza del recupero della cultura greco-romana nel Rinascimento, recupero volto a cristianizzare gli elementi pagani, l’anacronismo proprio di diverse avanguardie storiche non ha rapporti con la Chiesa ma guarda a culture arcaiche e ad una visione distorta del sacro. Interessante e originale, il Discorso sulla Luce evidenzia come nell’arte contemporanea si sia passati «da una visione metafisica ad una materialistica» anche per colpa dell’abbandono e/o dell’eccesso della luce. Se in pittura la claritas, la chiarezza e lo splendore, cede il posto al colore, ovvero alla materia che non comunica più visioni celesti ma sempre più si accosta alle bassezze dell’uomo, in architettura avviene il contrario e l’eccesso di luminosità conduce ad una smaterializzazione che rigetta la dimensione creaturale della realtà. Indispensabile, il Discorso sulle immagini e sul corpo parte da un paradosso: pur vivendo in una “società dell’immagine” l’immagine (e il corpo) risulta essere assente proprio nell’ambiente liturgico (sostituita dalla parola o dalla “moda” dell’icona) dove più che mai ne è reclamata la presenza in quanto la religione cristiana comincia proprio con l’incontro con la corporeità di Cristo, di Dio fatto uomo. L’unica immagine accettata oggi è quella tecnologica che ha fini ben meno elevati. L’immagine patinata o artefatta, tecnicamente perfetta (“photoshoppata”), ci parla di un mondo che ha smarrito la ricerca di un’esperienza interiore, che rifiuta la complessità e l’apertura che solo un’arte che cerca di superare i limiti dell’imitazione può garantire. In quest’ottica è da rifiutare la fotografia, in quanto invadenza eccessiva del reale che annulla la mediazione personale, e di conseguenza l’iperealismo: a differenza della prospettiva nata per rappresentare il mondo, e le storie sacre, quanto più vicino temporalmente e spazialmente al fruitore, educando il senso della vista, l’immagine odierna appare disincarnata e non adeguata alla devozione. Nell’arte il corpo si è smaterializzato ripiegando sui suoi umori e liberando la struttura ossea tanto che oggi l’effige del teschio è tra le forme più saccheggiate e abusate. Fondamentale risulta allora il recupero della bellezza che Papa, riprendendo la dottrina scolastico-tomistica, considera nei termini ontologici di “trascendentale”: la bellezza è compiutezza, armonia e splendore (integritas, proportio e claritas) ed è associata alla bontà e al bene. La bellezza trascende l’uomo ed è capace di rivelargli qualcosa della realtà, in questo senso comunica anche la verità; l’uomo, da parte sua, è naturalmente incline ad accoglierla e incontrarla. Anche l’arte, specie se al servizio della liturgia, non può prescinderne dato che le opere d’arte sacra devono esprimere l’infinita bellezza divina e indirizzare le anime a Dio. Sono da rifiutare così le odierne relativistiche concezioni di bellezza (bellezza come assenza, come disarmonia, come straniamento) o le estetiche del brutto poiché come non esiste un male assoluto perché il male è la mancanza di un bene dovuto così non può esistere la bruttezza assoluta che è perdita del bello o non suo perfetto sviluppo. Il Discorso sull’arte sacra è la conclusione dei discorsi precedenti poiché ribadire la centralità delle immagini sacre appare sempre più fondamentale in una società “liquida” e “neotribale” che ha smarrito ogni legame con il trascendente. Come scriveva Joseph Ratzinger la crisi dell’arte è un «sintomo della crisi esistenziale della persona» e pertanto porre alcuni punti certi in un momento tanto confuso non può che essere un fattore positivo. Il capitolo è molto complesso ed esplicativo grazie al costante riferimento ai testi magisteriali dai quali emerge chiaramente come l’arte debba celebrare l’infinita bellezza divina ponendosi al servizio della liturgia, illuminata dalla Fede, evitando l’eccessivo simbolismo e l’esagerato realismo. L’arte sacra, a differenza delle più svariate espressioni creative che sembrano durare il tempo di un’esposizione in un contesto ormai saturo di novità e provocazioni, è sempre viva e si rinnova continuamente nel solco della tradizione. Date quali caratteristiche fondamentali e imprescindibili l’universalità, la bellezza, la figuratività e la narratività la libertà dell’artista (di fede) è molto ampia; la possibilità di riflettere sul passato, inteso quale repertorio di forme e modelli, per proporre visioni e iconografia nuove e comprensibili sempre aderenti al magistero apre spiragli positivi e Papa, da buon artista al servizio della Chiesa, ci mostra con questo testo come vi siano ancora strade percorribili e di come sia irrazionale parlare di “morte dell’arte”. E anche nell’ipotetico caso che tutto questo sapere venga a cadere e che la dimensione del sentimento, dell’istinto, dell’arbitrarietà si sostituisca al proficuo rapporto tra Fides e Ratio, riprendendo il paragrafo L’arte nella spiritualità in riferimento all’episodio della fissazione dell’immagine della Divina Misericordia, è confortante sapere di come vi sia comunque un Altro, al di la di critici e teorie, che continua a comunicare per immagini.

Tommaso Evangelista

Giovedì 24 maggio 2012 ore 17,00
Pontificia Università della Santa Croce, Aula Alvaro del Portillo
Piazza di Sant’Apollinare 49 – Roma

Intervengono:
S. E. Rev.ma Card. Antonio Cañizares Llovera
Prefetto della Congregazione per il Culto divino

Prof. Marco Bussagli
Accademia di Belle Arti di Roma

Prof. Antonio Paolucci
Direttore dei Musei Vaticani

Presiede
Mons. Luis Romera
Magnifico Rettore della Pontificia Università della Santa Croce

Sarà presente l’autore

domenica 19 febbraio 2012

La cattedra di San Pietro del Bernini

Per non dimenticare la grandezza dell'arte cristiana, la profondità dei significati teologici che un'opera può contenere e la ricchezza del suo insegnamento, anche per orientare verso una giusta lettura, voglio condividere l'omelia del Santo Padre Benedetto XVI che oggi, Solennità della Cattedra di San Pietro, ha riflettuto sulle valenze e sulla simbologia della Cattedra di Pietro realizzata dal Bernini per la chiesa San Pietro. Una lettura diversa dell'opera d'arte che di certo può arricchire la sua comprensione.


Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!
 

Nella solennità della Cattedra di san Pietro Apostolo, abbiamo la gioia di radunarci intorno all’Altare del Signore insieme con i nuovi Cardinali, che ieri ho aggregato al Collegio Cardinalizio. Ad essi, innanzitutto, rivolgo il mio cordiale saluto, ringraziando il Cardinale Fernando Filoni per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti.
Estendo il mio saluto agli altri Porporati e a tutti Presuli presenti, come pure alle distinte Autorità, ai Signori Ambasciatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli, venuti da varie parti del mondo per questa lieta circostanza, che riveste uno speciale carattere di universalità.

Nella seconda Lettura poc’anzi proclamata, l’Apostolo Pietro esorta i “presbiteri” della Chiesa ad essere pastori zelanti e premurosi del gregge di Cristo (cfr 1 Pt 5,1-2). Queste parole sono anzitutto rivolte a voi, cari e venerati Fratelli, che già avete molti meriti presso il Popolo di Dio per la vostra generosa e sapiente opera svolta nel Ministero pastorale in impegnative Diocesi, o nella direzione dei Dicasteri della Curia Romana, o nel servizio ecclesiale dello studio e dell’insegnamento. La nuova dignità che vi è stata conferita vuole manifestare l’apprezzamento per il vostro fedele lavoro nella vigna del Signore, rendere onore alle Comunità e alle Nazioni da cui provenite e di cui siete degni rappresentanti nella Chiesa, investirvi di nuove e più importanti responsabilità ecclesiali, ed infine chiedervi un supplemento di disponibilità per Cristo e per l’intera Comunità cristiana. 

Questa disponibilità al servizio del Vangelo è saldamente fondata sulla certezza della fede. Sappiamo infatti che Dio è fedele alle sue promesse ed attendiamo nella speranza la realizzazione di queste parole dell’apostolo Pietro: “E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).

Il brano evangelico odierno presenta Pietro che, mosso da un’ispirazione divina, esprime la propria salda fede in Gesù, il Figlio di Dio ed il Messia promesso. In risposta a questa limpida professione di fede, fatta da Pietro anche a nome degli altri Apostoli, Cristo gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la “pietra”, la “roccia”, il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cfr Mt 16,16-19). 

Tale denominazione di “roccia-pietra” non fa riferimento al carattere della persona, ma va compresa solo a partire da un aspetto più profondo, dal mistero: attraverso l’incarico che Gesù gli conferisce, Simon Pietro diventerà ciò che egli non è attraverso «la carne e il sangue». 

L’esegeta Joachim Jeremias ha mostrato che sullo sfondo è presente il linguaggio simbolico della «roccia santa». Al riguardo può aiutarci un testo rabbinico in cui si afferma: «Il Signore disse: “Come posso creare il mondo, quando sorgeranno questi senza-Dio e mi si rivolteranno contro?”. Ma quando Dio vide che doveva nascere Abramo, disse: “Guarda, ho trovato una roccia, sulla quale posso costruire e fondare il mondo”. Perciò egli chiamò Abramo una roccia». Il profeta Isaia vi fa riferimento quando ricorda al popolo «guardate alla roccia da cui siete stati tagliati… ad Abramo vostro padre» (51,1-2). Abramo, il padre dei credenti, con la sua fede viene visto come la roccia che sostiene la creazione. Simone, che per primo ha confessato Gesù come il Cristo ed è stato il primo testimone della risurrezione, diventa ora, con la sua fede rinnovata, la roccia che si oppone alle forze distruttive del male.

Cari fratelli e sorelle! Questo episodio evangelico che abbiamo ascoltato trova una ulteriore e più eloquente spiegazione in un conosciutissimo elemento artistico che impreziosisce questa Basilica Vaticana: l’altare della Cattedra. 

Quando si percorre la grandiosa navata centrale e, oltrepassato il transetto, si giunge all’abside, ci si trova davanti a un enorme trono di bronzo, che sembra librarsi, ma che in realtà è sostenuto dalle quattro statue di grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. E sopra il trono, circondata da un trionfo di angeli sospesi nell’aria, risplende nella finestra ovale la gloria dello Spirito Santo. Che cosa ci dice questo complesso scultoreo, dovuto al genio del Bernini? Esso rappresenta una visione dell’essenza della Chiesa e, all’interno di essa, del magistero petrino.

La finestra dell’abside apre la Chiesa verso l’esterno, verso l’intera creazione, mentre l’immagine della colomba dello Spirito Santo mostra Dio come la fonte della luce. Ma c’è anche un altro aspetto da evidenziare: la Chiesa stessa è, infatti, come una finestra, il luogo in cui Dio si fa vicino, si fa incontro al nostro mondo. 

La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro - con la “A” maiuscola - da cui proviene e a cui conduce. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile.

La grande cattedra di bronzo racchiude un seggio ligneo del IX secolo, che fu a lungo ritenuto la cattedra dell’apostolo Pietro e fu collocato proprio su questo altare monumentale a motivo del suo alto valore simbolico. 

Esso, infatti, esprime la presenza permanente dell’Apostolo nel magistero dei suoi successori. Il seggio di san Pietro, possiamo dire, è il trono della verità, che trae origine dal mandato di Cristo dopo la confessione a Cesarea di Filippo. Il seggio magisteriale rinnova in noi anche la memoria delle parole rivolte dal Signore a Pietro nel Cenacolo: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).

La cattedra di Pietro evoca un altro ricordo: la celebre espressione di sant’Ignazio di Antiochia, che nella sua lettera ai Romani chiama la Chiesa di Roma “quella che presiede nella carità” (Inscr.: PG 5, 801). In effetti, il presiedere nella fede è inscindibilmente legato al presiedere nell’amore. 

Una fede senza amore non sarebbe più un’autentica fede cristiana. Ma le parole di sant’Ignazio hanno anche un altro risvolto, molto più concreto: il termine “carità”, infatti, veniva utilizzato dalla Chiesa delle origini per indicare anche l’Eucaristia. 

L’Eucaristia, infatti, è Sacramentum caritatis Christi, mediante il quale Egli continua ad attirarci tutti a sé, come fece dall’alto della croce (cfr Gv 12,32). Pertanto, “presiedere nella carità” significa attirare gli uomini in un abbraccio eucaristico - l’abbraccio di Cristo -, che supera ogni barriera e ogni estraneità, e crea la comunione dalle molteplici differenze. 

Il ministero petrino è dunque primato nell’amore in senso eucaristico, ovvero sollecitudine per la comunione universale della Chiesa in Cristo. E l’Eucaristia è forma e misura di questa comunione, e garanzia che essa si mantenga fedele al criterio della tradizione della fede.

La grande Cattedra è sostenuta dai Padri della Chiesa. 

I due maestri dell’Oriente, san Giovanni Crisostomo e sant’Atanasio, insieme con i latini, sant’Ambrogio e sant’Agostino, rappresentano la totalità della tradizione e, quindi, la ricchezza dell’espressione della vera fede dell’unica Chiesa. Questo elemento dell’altare ci dice che l’amore poggia sulla fede. Esso si sgretola se l’uomo non confida più in Dio e non obbedisce a Lui. Tutto nella Chiesa poggia sulla fede: i Sacramenti, la Liturgia, l’evangelizzazione, la carità.

Anche il diritto, anche l’autorità nella Chiesa poggiano sulla fede. La Chiesa non si auto-regola, non dà a se stessa il proprio ordine, ma lo riceve dalla Parola di Dio, che ascolta nella fede e cerca di comprendere e di vivere. I Padri della Chiesa hanno nella comunità ecclesiale la funzione di garanti della fedeltà alla Sacra Scrittura. Essi assicurano un’esegesi affidabile, solida, capace di formare con la cattedra di Pietro un complesso stabile e unitario. Le Sacre Scritture, interpretate autorevolmente dal Magistero alla luce dei Padri, illuminano il cammino della Chiesa nel tempo, assicurandole un fondamento stabile in mezzo ai mutamenti storici.

Dopo aver considerato i diversi elementi dell’altare della Cattedra, rivolgiamo ad esso uno sguardo d’insieme. E vediamo che è attraversato da un duplice movimento: di ascesa e di discesa. E’ la reciprocità tra la fede e l’amore. La Cattedra è posta in grande risalto in questo luogo, poiché qui vi è la tomba dell’apostolo Pietro, ma anch’essa tende verso l’amore di Dio. In effetti, la fede è orientata all’amore. Una fede egoistica sarebbe una fede non vera. Chi crede in Gesù Cristo ed entra nel dinamismo d’amore che nell’Eucaristia trova la sorgente, scopre la vera gioia e diventa a sua volta capace di vivere secondo la logica di questo dono. 

La vera fede è illuminata dall’amore e conduce all’amore, verso l’alto, come l’altare della Cattedra eleva verso la finestra luminosa, la gloria dello Spirito Santo, che costituisce il vero punto focale per lo sguardo del pellegrino quando varca la soglia della Basilica Vaticana. A quella finestra il trionfo degli angeli e le grandi raggiere dorate danno il massimo risalto, con un senso di pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso.

Cari fratelli e sorelle, a noi, ad ogni cristiano è affidato il dono di questo amore: un dono da donare, con la testimonianza della nostra vita. Questo è, in particolare, il vostro compito, venerati Fratelli Cardinali: testimoniare la gioia dell’amore di Cristo. Alla Vergine Maria, presente nella Comunità apostolica riunita in preghiera in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,14), affidiamo ora il vostro nuovo servizio ecclesiale. Ella, Madre del Verbo Incarnato, protegga il cammino della Chiesa, sostenga con la sua intercessione l’opera dei Pastori ed accolga sotto il suo manto l’intero Collegio cardinalizio. Amen!

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana



Per contrasto voglio mostrare un'odierna opera di arte sacra. E' la decorazione della cappella di Sant'Andrea a Ganz realizzata nel 2003 dall'artista Otto Zitko. L'artista, originale a suo modo nel declinare i moduli di una pittura gestuale e informale, in particolare in grandi spazi che rende claustrofobici e indefiniti, mostra però in questo caso tutta l'inadeguatezza verso un ambiente liturgico.



lunedì 30 gennaio 2012

La morte delle cattedrali, di Marcel Proust

In un'epoca di brutture architettoniche e relativismo etico e morale, che si traduce anche in relativismo estetico, un prezioso testo di Marcel Proust, con grazia di sintesi, ci illumina sulla bellezza delle cattedrali (e per traslato dell'arte sacra) in relazione alla funzione religiosa e ci da una serie di imput per cogliere, anche incoscientemente, la grandezza spirituale della simbologia. In basso la premessa della traduttrice Cristina Campo

"Questo studio di Marcel Proust apparve nel «Figaro» del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, l’istituzione delle cultuali pena la confisca di quegli stessi beni da parte dello Stato, la «polizia dei culti», ecc. Legge che, come è noto, fu occasione di vittoria spirituale da parte dell’episcopato francese, obbediente all’ordine di San Pio X: lasciarsi spogliare serbando, in povertà assoluta, il mandato pastorale. Oggi che senza alcuna pressione da parte di governi laici si ode parlare negli stessi ambienti ecclesiastici di «sacrificio necessario» delle cattedrali e del canto gregoriano sembra opportuno rileggere la sottile, sferzante, appassionata perorazione di Proust in difesa dell’immenso tesoro di cui s’è nutrita per secoli – con la fede cristiana – tutta la grande arte di Occidente, e che non è facile comprendere a chi o a che cosa voglia oggi essere immolato [N.d.T.]"

giovedì 12 maggio 2011

Madonna del Rosario

Maria SS. del Rosario. Tale bella e prestigiosa opera è stata eseguita, ex novo, dal maestro Ferdinando Fedele per la parrocchia Santissimo Salvatore di Passiano. Nel video le fasi di preparazione per realizzare un vero e proprio tableaux vivant che è servito poi per la tela, dallo spiccato accento barocco, per studiare la composizione e i volumi. Del resto era pratica nel '600 quella di lavorare con teatri di posa per ricreare la scena da dipingere.


"La composizione dell'opera è impostata secondo il modelo tradizionale. domina la figura della Vergine con Bambinello che si china sorridente donando la corona a S. Domenico , fondatore dell'ordine dei Domenicani o P.P.Predicatori, che diffusero la devozione al S.Rosario. "Domini Canes" ovvero Cani del Signore, è il simpatico gioco di parole che giustifica la presenza del cagnolino pezzato di bianco e nero con torcia accesa in bocca, ai piedi dello stesso Santo. Questo cagnolino che correva per il mondo, fu il sogno della mamma dello stesso santo nel mentre lo attendeva. Si distingue subito Caterina da Siena patrona D'Italia, i tratti sono quelli di Sonia Gambardella. Di spalle a questa ecco S. Rosa da Lima, anche lei terziaria domenicana e prima santa dell'America. Si scorgono inoltre, S.Vincenzo Ferrer, la fiammella sulla Sua testa testimonia il dono particolare dello Spirito Santo che fece di lui un oratore dal valore pentecostale, nel senso che i prodigi delle varie lingue si ripetettero durante le sue infiammate predicazioni per l'Europa del tempo dilaniata da lotte anche religiose. Alle Sue spalle un giovane ed insolito S.Benedetto da Norcia. questa figura è stata voluta per devozione personale del parroco D.Enzo, anche in vista del prossimo millenario della nostra Badia di Cava, che si celebrerà appunto nel 2011. S.Benedetto si caratterizza dalla vicinanza di un corvo che porta in nel becco un pane. Il Santo Patriarca , infatti, comandò un tempo al corvo di gettare lontano quel pane che era stato avvelenato. La cocolla bianca è scelta del Pittore, ma non è inusuale. La figura più sontuosa è forse il Papa che si vede in ginocchio, è la rappresentazione ideale di S.Pio V, anche Egli dell'ordine di S.Domenico. Fu questo S. Papa a chiedere al mondo cattolico di coalizzarsi e specialmente di pregare il S. Rosario, in occasione della battaglia di Lepanto il 7 Ottobre 1571. La vittoria delle armate cristiane, segnò la fine definitiva delle mire espansionistiche dell'impero Turco-Ottomano almeno verso l'Europa sud-occidentale. Bella l'espressione del Senato di Venezia che volle riassumere il tutto: "Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit", "non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori". Da quel momento in poi , e in ossequio ai Canoni del Concilio di Trento, in tutte le chiese si volle un altare dedicato al SS.Crocifisso ed uno alla B.Vergine del Rosario. La notra chiesa parrocchiale è un esempio chiarissimo di quella direttiva non solo richiesta dai canoni ma desiderata fortemente dal santo popolo di Dio. La cappella che ora finalmente costodirà un nuovo quadro del Rosario, conteneve un' opera di grande valore della stessa epoca dei fatti di Lepanto. Il tutto sparito nel nulla in una ormai lontana notte del 1988. Il pio Passianese dell'epoca volle apporre in alto quella bella iscrizione che ancora oggi si può leggere, incisa sull'artistico cartiglio marmoreo: " Salus nostra in manu tua est, respiciat nos tantum", " La nostra vita è nelle tue mani, [il Signore] continui a guardarci". Essa è tratta dal libro della Genesi cap. 47, 25. Esprime la gratitudine degli antichi al Patriarca Giuseppe nel primo testamento e qui la riconoscenza alla Gran Madre di Dio per la protezione provvidenzialmente accordata e ripetutamente offerta a noi, nuovo popolo di Dio". (Fonte)




venerdì 29 aprile 2011

Jean Clair - Il culto dell'avanguardia e la cultura di morte

Da uno dei più interessante, secondo me, storici dell'arte contemporanea, Jean Clair, una pagina di sentita analisi della situazione odierna dell'arte contemporanea in rapporto alla fede e alla religione cristiana. L'abuso degli impulsi bassi come l'esaltazione dell'orrido e dell'immondo viene messo in contrapposizione col culto della bellezza e la realizzazione di immagini sacre che da sempre hanno avuto quali regole la forma e la claritas.




Ripresa e commentata da questo post su Almanacco Romano, divenuto ormai lettura imprescindibile.



martedì 19 aprile 2011

Rodolfo Papa - Riflessioni sull'arte contemporanea - Parte III

Riflessioni sull'arte è il titolo di una rubrica quindicinale che il prof. Rodolfo Papa tiene su Zenit (il mondo visto da Roma) su questioni dell’arte e dell’arte sacra in tutte le loro diverse dimensioni: teoretica, critica, tecnica, storiografica, filosofica, teologica, liturgica, antropologica. Lo scopo, come afferma il professore,"è condurre una riflessione sulle complesse e urgenti problematiche che attorniano l’arte, tenendo conto di tutti gli aspetti che ne compongono il vasto territorio". Continua con questo post la presentazione dei suoi articoli, importanti a mio avviso per leggere l'arte contemporanea sotto un'altra ottica, più filologica e meno allineata. I testi sono accompagnati dalle immagini delle ultime tre campate della cattedrale di Bojano (IS) da poco ultimate dallo stesso professore, e che segnano la conclusione dell'importante ciclo pittorico. Per gli altri articoli:



Cacciata dal Paradiso
Per secoli nelle chiese di tutta la cristianità si è sviluppato un sistema complesso di catechesi e di spiritualità mediante le immagini. Infatti, le verità di fede sono state raffigurate nei cicli pittorici e scultorei ed espresse in forma simbolica nelle forme dell’architettura. La struttura dell’edificio sacro, infatti, non risponde solo a criteri funzionali, ma è fede espressa in tettonica, secondo una ricca e complessa simbologia, che è stata fonte viva dell’architettura sacra di ogni epoca.
La chiesa, in tutta la tradizione, è dunque un luogo sacro rappresentato e costruito come tale, ed inoltre è luogo di formazione catechetica, di annuncio kerigmatico, di preghiera, di meditazione ed ogni elemento che la costituisce è pensato in questa prospettiva.
Spesso si sottolinea che i cicli pittorici, in modo particolare di alcune epoche storiche, siano delleBiblia pauperum. Sovente questa definizione viene interpretata in modo scorretto, con conseguenze anche gravi. Infatti i cicli pittorici sacri vengono ritenuti un sistema di educazione per analfabeti e “illetterati” e di conseguenza sono giudicati superati, inutili, addirittura dannosi, giacché nel mondo occidentale l’analfabetismo è stato debellato. Ma la questione è più complessa, e merita attenzione.
Innanzitutto, se osserviamo i cicli pittorici in questione scopriamo alcuni elementi che inducono a una riflessione più profonda. Per esempio, la presenza di scritte, in latino, o in greco o più raramente in volgare, risulterebbe incomprensibile se davvero si trattasse di dipinti sostitutivi della scrittura. Parimenti, i dotti rimandi iconografici evidenziati dalle complesse letture iconologiche effettuate dagli storici dell’arte sembrerebbero inappropriati se si trattasse di narrazioni semplificate per incolti. Allora occorre prima di tutto tenere presente il contesto culturale nel quale essi nascevano e per il quale erano realizzati. Occorre inoltre chiarire che l’incapacità di leggere e scrivere non è necessariamente sinonimo di ignoranza dottrinale. Credo sia esperienza comune ai docenti di iconografia cristiana constatare che spesso quello che gli studenti universitari ignorano e devono apprendere con fatica, è invece ben conosciuto da alcune vecchiette semi analfabete, che praticano con regolarità e semplicità nella propria vita di devozione e di fede. Per esempio riconoscere una “Immacolata concezione” e distinguerla da una “Assunta”, o ancora riconoscere un “San Nicola di Mira”, o un “San Trifone” è cosa complicata per gli studenti universitari, ma semplicissima per la vecchina ancorata alla sua fede e alla tradizione.
Inoltre, la presenza delle scritte testimonia che i cicli pittorici erano realizzati per tutti i fedeli. La scrittura del nome del santo accanto alla sua immagine non aveva tanto una necessità funzionale, piuttosto rispondeva ad una esigenza teologica, indicando che il nome del santo o della santa è scritto a lettere d’oro nel cielo. Peraltro si ricollega ad una antica tradizione latina, secondo la quale il nome del console o dell’imperatore ritratto veniva riportato per iscritto non per rendere noto il nome, ma per poterlo celebrare in termini politici.
Infine, la riflessione più importante riguarda la categoria evangelica dei “pauperes”. Non si tratta semplicemente dei poveri, gli ignoranti, gli illetterati, ma di tutti i poveri in spirito. Le Biblia Pauperum sono dunque dipinte o scolpite o architettonicamente edificate per tutti coloro che umilmente si accostano alle verità di fede, ricchi o poveri, colti o incolti.
Dunque le Biblia pauperum non sono dedicate agli “analfabeti” in senso scolastico ma, paradossalmente, proprio l’assenza di Biblia pauperum, motivata scorrettamente dal pretesto della scolarizzazione generalizzata, ha avuto come effetto l’analfabetizzazione iconografica. Se un tempo le vecchine illetterate sapevano leggere le immagini, adesso i giovani scolarizzati non intendono nulla di iconografia cristiana, avendone del tutto perso la consuetudine, avendo peraltro frequentato perlopiù chiese prive di immagini sacre e progettate secondo criteri puramente funzionalisti. Allora, paradossalmente, gli unici che sanno oggi leggere le Biblia pauperum sono i “professori”, coloro che hanno un dottorato in storia dell’arte.
Ecco allora che sono le stesse chiese, se concepite globalmente come luogo liturgico e di formazione, che possono insegnare le verità di fede ed anche il linguaggio per poterle apprendere. A questo proposito possiamo guardare alla chiesa di Santa Maria Novella a Firenze che è stata nella storia una sorta di laboratorio, in cui sono state progettate soluzioni poi diffuse gradualmente ovunque, dunque un luogo di ricerca, una grande opera esemplare. In questa chiesa, di ambito domenicano, vediamo come i cicli di affreschi non siano concepiti semplicemente come sussidio per gli ignoranti, ma come vere e proprie predicazioni, parte attiva di una complessa struttura, impegnata in un’efficacia di tipo spirituale, psicologico, affettivo, nella complessa attuazione del carisma volto alla predicazione e alla evangelizzazione. Al proposito è esemplare, per esempio l’affresco di Andrea Bonaiuti, Specchio della predicazione dei domenicani, eseguito tra il 1366 e il 1367 nella Sala Capitolare del complesso conventuale di Santa Maria NovellaAl centro esatto dell’affresco, è rappresentato san Domenico, fondatore dell’Ordine dei Predicatori ed espressione dell’essenza del carisma della predicazione; la composizione propone due momenti rappresentanti due eventi cronologicamente successivi: ovvero l’ascolto della predicazione e il sacramento della riconciliazione, cioé il frutto della predicazione che matura nel cuore di chi ha saputo ascoltare. Nel volto del frate confessore, inoltre, è possibile riconoscere fra Jacopo Passavanti, contemporaneo di Buonaiuti, autore di un noto testo intitolato Specchio di penitenza.
Buonaiuti nel suo affresco rappresenta la predicazione e il suo effetto, la penitenza, realizzando in questo modo una vera predicazione pittorica, una “immagine acustica”, una immagine che predica. Con lo stesso metodo con cui Passavanti ha scritto il suo testo, Buonaiuti dipinge il suo affresco. In questo modo si crea una esplicita rispondenza tra le parole pronunciate nella predicazione dai Domenicani e le immagini conservate nella chiesa, in una straordinaria esaltazione della capacità di predicazione propria dell’arte sacra.
Tutto questo stimola fortemente anche noi oggi, spingendoci a pensare o a ripensare le nostre chiese affinché siano concepite come immagini acustiche, vive, capaci di riecheggiare nel cuore e nella mente dei fedeli. Perché ciò accada, serve un’arte capace di farsi carico della narrazionedei misteri, capace di mostrare con la composizione l’articolazione del messaggio di fede, l’intimo dinamismo finalistico che pervade ogni cosa e ogni persona, verso il vertice, che è l’Alfa e l’Omega, movente e meta di ogni conversione, inizio e compimento, capo e testata d’angolo dell’immenso corpo mistico della Chiesa.


L’ARTE COME STRUMENTO DI SPIRITUALITÀ: LA PROSPETTIVA


Adamo ed Eva nell'Eden (particolare)
La grande mistica di San Francesco, all’inizio del secolo XIII, reca un grandissimo contributo anche alla questione artistica, valorizzando in maniera forte ed originale l’esperienza della visione come vera esperienza spirituale. Questa innovazione fa parte del generale rinnovamento vissuto e recato dal santo di Assisi. Infatti, nel contesto della sobrietà austera della vita monacale, san Bernardo di Chiaravalle, a metà del secolo precedente, saggiamente esponeva la propria preoccupazione che la bellezza delle immagini scolpite nelle chiese potesse distrarre i monaci dalla meditazione sulle scritture.
San Francesco, invece, scrive e predica in volgare rivolgendosi a tutti, colti ed incolti. Egli propone una meditazione che parte dalla contemplazione del Creato per giungere alla meditazione dei dolori della Croce. Proprio entro tale meditazione, avviene la grande innovazione, artistica e spirituale, della sacra rappresentazione della Natività: il Presepe di Greccio. Proprio la proposta liturgico-spirituale del Presepe pone al centro della esperienza spirituale il senso della vista, come mezzo efficace di contemplazione. Inoltre il realismo rappresentativo diventa mezzo di partecipazione affettiva del fedele ai fatti narrati dai Vangeli. La vista viene esaltata come un senso spirituale e la rappresentazione artistica come strumento di spiritualità.
La questione delle immagini viene affrontata esplicitamente dal Capitolo generale dell’ordine francescano, presieduto da Bovanentura da Bagnoregio a Narbona nel 1260; nelle Costituzioniviene affermato che le pitture e le sculture che decorano le chiese non devono possedere elementi “superflui” o “insoliti”. L’immagine non deve, dunque, sollecitare la fantasia, o servire il sentimentalismo, ma deve essere sobrio strumento di devozione, di meditazione e di formazione. A conferma di questo, assistiamo alla fioritura, all’interno delle chiese di tutto l’ordine, di opere artistiche dal linguaggio narrativo, ricco di particolari realistici: l’immagine, così come il Presepe di Greccio, deve rendere presente l’evento evangelico e, soprattutto, deve aiutare il fedele ad essere presente egli stesso ai sacri eventi.
Un riscontro evidente di questo clima artistico, si riscontra già nel dossale d’altare rappresentante San Francesco e sei episodi della sua vita di Bonaventura Berlinghieri, realizzato nel 1235 per la chiesa di San Francesco a Pescia; vediamo, infatti, che il particolare narrativo è il centro della rappresentazione pittorica, che raffigura la natura e gli animali. Questo tipo di immagini traduce in termini artistici il “realismo” narrativo della Vita prima, scritta da Tommaso da Celano, che pervade anche le successive biografie. Il senso realistico della narrazione diventa una caratteristica della spiritualità occidentale, ed è testimoniato non solo in ambito francescano e non solo nelle arti figurative: per esempio nelle Laudi del francescano fra Jacopone da Todi o ancora nelle Meditationes Vitae Christi, testo estremamente diffuso, in cui la vista di Cristo narrata dai Vangeli, è tradotta in immagini ricche di particolari; anche la Legenda Aurea, scritta alla fine del Duecento dal vescovo domenicano Jacopo da Varazze, esprime la stessa necessità narrativa e diventa, peraltro, esso stesso strumento di realismo artistico: infatti la Legenda Aurea è indubitabilmente una delle maggiori fonti iconografiche per gli artisti, fino a tutto il XVII secolo.
L’esigenza spirituale di rappresentare la realtà corporea e di narrare gli eventi storici, in modo da servire la predicazione e la meditazione, implicano lentamente un ripensamento dell’arte a favore di una maggiore capacità mimetica. In questo contesto artistico e spirituale, il fondo a foglia d’oro, tipico delle icone bizantine, finalizzato alla rappresentazione di una dimensione spirituale atemporale, viene giudicato meno adeguato alla rappresentazione dei fatti narrati nei testi sacri. Emerge anche la volontà di rappresentare in maniera visibile l’effettiva "contemporaneità" del fedele alle narrazioni evangeliche; per questo Cristo e i santi sono rappresentati come presenti in mezzo ai fedeli e, di rimando, i fedeli vivono, attraverso una dimensione spirituale "affettiva", un maggiore coinvolgimento contemplativo.
Questa tonalità spirituale è presente anche in testi devozionali, ed è esplicitamente messa a tema in lavori teorici come per esempio il Mitrale di Sicardo, vescovo di Cremona, che, riflettendo sulla tridimensione delle sculture, conclude che queste, proprio perché ad alto rilievo, vengono percepite come presenti e familiari ai fedeli, invitandoli alle azioni virtuose, grazie alla loro naturalezza. Anche il domenicano Tommaso d’Aquino motiva l’uso delle immagini, non solo come strumento di formazione dell’incolto, ma anche per la capacità di muovere l’affetto del fedele ad una maggiore devozione. Anche nel Rationale scritto da un canonista della curia romana, Guillelme Durand vescovo di Mende, viene esplicitato che l’immagine dipinta è superiore alla scrittura perché implica il coinvolgimento della vista.
La complessità di questi elementi, nati in ambito spirituale e pastorale, vengono assorbiti dagli artisti che collaborano alla realizzazione delle nuove chiese e delle nuove cattedrali. L’esigenza di rappresentare il mondo reale con adeguata capacità mimetica si traduce in una attenzione maggiore alle luci e alle ombre, per rappresentare meglio i volumi dei corpi; questo appare, per esempio, nelle opere di Giotto e dei suoi seguaci. Soprattutto la spiritualità del Duecento implica una particolare costruzione geometrica dello spazio rappresentato, capace di rendere presente la rappresentazione, ed è da questa esigenza che nasce la prospettiva. La prova di questo evento storico si trova proprio nella Basilica superiore di Assisi, nei due affreschi che si interpongono cronologicamente tra le decorazioni più antiche e gli interventi decorativi di Giotto, ovvero gli affreschi che rappresentano Le storie di Isacco.
L’autore, noto come il Maestro di Isacco realizza infatti una mirabile rappresentazione dello spazio, dimostrando di possedere una tecnica prospettica compiuta. Poiché questo modo di concepire lo spazio si ritrova tra i contemporanei anche (e forse unicamente) nella scultura di Arnolfo di Cambio, un’ipotesi affascinante (avanzata a suo tempo da A. M. Romanini), afferma che il Maestro di Isacco sia proprio lo stesso Arnolfo, ovvero il proto-inventore della prospettiva moderna. In ogni caso, ciò che risulta patentemente è che la grande innovazione della prospettiva accade nella pittura per motivi di ordine spirituale, per rendere presenti gli eventi sacri e per rendere i fedeli contemporanei ai fatti narrati.

(Sul medesimo argomento, si rimanda a R. Papa, La prospettiva dello spirito, in “ArteDossier”, 258 (2009), pp. 68-73)

LA “BELLEZZA” CHE NON C’È


Che cos’è la bellezza? Una lunga tradizione filosofica ha riflettuto sulla bellezza, cercando di spiegare che cosa essa sia, come la conoscono gli uomini, come ne godono, approfondendo l’esperienza comune, che è il punto di partenza di ogni buona riflessione.
Dalla riflessione emerge che la fruizione della bellezza, sia essa naturale che artistica, si caratterizza per un “piacere” che coinvolge non solo i sensi, ma tutta la persona: emozioni e passioni; ragione e intelletto; si tratta di un piacere non finalizzato all’utile, dunque, un piacere disinteressato, un piacere per piacere: cioè un provare piacere di fronte a qualche cosa che si conosce, senza volerla comprare, possedere, modificare, firmare.
La bellezza intrattiene un particolare rapporto con la vista. San Tommaso con la sua celebre affermazione «Pulchrum est quod visum placet» (Summa Theologiae, I, q. 5, a. 4, ad 1um) indica che del bello conta l’apprensione e in modo speciale il godimento: il bello è “gradevole alla conoscenza” (Ibid., II-II, q. 27, a. 1, ad 3um), perché il bello richiede di essere “conosciuto”.
La bellezza, inoltre, rivela delle caratteristiche costanti, quali l’armonia e la regolarità, che lo stesso san Tommaso rinviene nella “integritas sive proportio”, ovvero compiutezza, nella “debita proportio sive consonantia”, ovvero armonia proporzionale, e nella “claritas”, ovvero splendore, corporeo e spirituale: «La bellezza del corpo consiste nell’avere le membra ben proporzionate(debita proportio), con la luminosità del colore dovuto (claritas). La bellezza spirituale consiste nel fatto che il comportamento e gli atti di una persona sono ben proporzionati (proportio) secondo la luce della ragione (claritas)» (Ibid., I, q. 39, a. 8, resp.). Questa definizione della bellezza, che pure taluni tacciano di intellettualismo, costituisce l’analisi razionale di esperienze comuni, generali; a conferma di ciò, ci sono oggi svariate ricerche di ordine psicologico e antropologico che confermano come, fin da bambini e indipendentemente dalla cultura, si tenda a riconoscere come bello e piacevole ciò che è armonioso e proporzionato.
Tuttavia, negli ultimi decenni, si è andata affermando una concezione della bellezza del tutto avulsa dalla conoscenza, sensoriale e razionale, del tutto staccata dal piacere estetico e dalla comune esperienza. Si tratta precisamente di un “concetto” di bellezza costruito da alcuni teorici senza alcun nesso con la realtà e con la visione. Sulla base di questo presupposto sono nate, nella contemporaneità, svariate tipologie di arte, accomunate da questa esoterica concezione della bellezza (bellezza come assenza, come disarmonia, come straniamento …). Di fronte a tali “oggetti” non si riesce in alcun modo a vederne la bellezza, però alcuni addetti ai lavori garantiscono che in esse la bellezza c’è.
Accadono allora sconcertanti, ed esilaranti, situazioni, che, mi sembra, possono essere ben descritte dalla favola I vestiti nuovi dell’imperatore scritta da Hans Christian Andersen, ben noto autore danese vissuto tra il 1805 e il 1875. La favola narra di un imperatore molto vanitoso che viene ingannato da due frodatori, i quali inventano di possedere una stoffa così bella che solo gli stupidi non possono vederla. E così i due imbroglioni mostrano all’imperatore una stoffa inesistente, ma egli finge di vederla e finge di ammirarne la bellezza, temendo di essere considerato stupido. Chiede ai due imbroglioni di cucirgli un vestito con quella stoffa, e tutti i dignitari di corte e poi i cittadini fingono di ammirare quel vestito, pensando di non vedere la bellezza in quanto incapaci di fruirla. Solo un bambino ha il coraggio di esclamare che l’imperatore è nudo e solo allora tutta la folla ha il coraggio di credere ai propri occhi e di riconoscere di non vedere niente.
Ebbene, sovente, passeggiando nelle sale di molti musei di arte contemporanea, accade di vedere imperatori vanitosi, cortigiani e cittadini, che fingono di ammirare una bellezza che pare essere riservata solo a menti superiori, finché qualcuno, con l’innocenza dei semplici, non ha il coraggio di dire che non c’è assolutamente niente.

L'ARTE SACRA E LA BELLEZZA


Giona
Nella Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II, Sacrosanctum Concilium, è scritto che le opere d’arte sacra «per loro natura, hanno relazione con l’infinita bellezza divina, che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo e sono tanto più orientate a Dio e all’incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nessun altro fine è stato loro assegnato se non quello di contribuire il più efficacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare religiosamente le menti degli uomini a Dio» (n122).
Le opere d’arte religiosa e sacra, dunque, devono “in qualche modo” esprimere la bellezza divina, l’infinita bellezza divina, con la quale intrattengono una relazione naturale, che è cioè propria della loro natura. Tramite l’espressione della bellezza, e in quanto si orientano verso la Bellezza infinita, esse possono esplicitare il loro “unico” fine di indirizzare “religiosamente” le anime a Dio.
Ma che cosa è la bellezza?
La tradizione – ma ancor prima di essa e a suo fondamento anche una autentica riflessione su quanto consta nella esperienza comune – lega la bellezza ad un’esperienza dei sensi che eccedegli stessi sensi. Già nella speculazione platonica, la bellezza è delineata nella sua complessità di realtà ideale visibile per gli occhi. Nel Fedro leggiamo: «Per quanto riguarda la Bellezza, poi, come abbiamo detto, splendeva fra le realtà di lassù come Essere. E noi, venuti quaggiù, l’abbiamo colta con la più chiara delle nostre sensazioni, in quanto risplende in modo luminosissimo. Infatti, la vista, per noi, è la più acuta delle sensazioni, che riceviamo mediante il corpo. Ma con essa non si vede la Saggezza, perché, giungendo alla vista susciterebbe terribili amori, se offrisse una qualche chiara immagine di sé, né si vedono tutte le altre realtà che sono degne d’amore. Ora, invece, solamente la Bellezza ricevette questa sorte di essere ciò che è più manifesto e più amabile»[1].
Anche la tradizione scolastica, legge la bellezza come un godimento che parte dalla conoscenza sensoriale ma la supera; così nel pensiero di San Tommaso, la celeberrima affermazione «Pulchrum est quod visum placet», vuole significare che del bello conta l’apprensione e in modo speciale il godimento: il bello è “gradevole alla conoscenza”[2], perché il bello richiede di essere “conosciuto” da un essere che ha l’anima razionale.
La bellezza si caratterizza per Tommaso come “integritas sive proportio”, ovvero compiutezza, come “debita proportio sive consonantia”, ovvero armonia proporzionale, e come “claritas”, ovvero splendore, corporeo e spirituale. Tutto questo significa un legame stretto tra bellezza ed ordine; già Sant’Agostino affermava che «Non vi è nulla di ordinato che non sia bello: come dice l'Apostolo, ogni ordine proviene da Dio.»[3]
Il piacere causato dalla bellezza coinvolge non solo i sensi, ma tutta la persona: emozioni e passioni; ragione e intelletto; e si tratta di un piacere non finalizzato all’utile, dunque, è un piacere disinteressato, un piacere per piacere: cioè un provare piacere di fronte a qualche cosa che si conosce, senza volerla comprare, possedere, modificare, firmare.
Il piacere che si gode nella conoscenza del bello trova ragione nel fatto che le cose belle sono anche vere e buone. Infatti, ci piacciono gli originali, non le imitazioni, ci piacciono le cose buone, non quelle cattive.
Anche per i Greci, il tema della bellezza, indagato radicalmente nel suo spessore ontologico, si trova indissolubilmente legato con il bene.
Secondo san Tommaso, il bello e il bene «si identificano nel soggetto, perché si fondano sulla medesima realtà, cioè sulla forma, e per questo ciò che è buono è lodato come bello»[4]. Il bello implica una forma che desta ammirazione e si riferisce all’intelletto, mentre il bene implica una forma che attrae e si riferisce alla volontà. Potremmo dire che il godimento della bellezza è gioia nella conoscenza del bene: unisce conoscenza e gioia, coinvolgendo tutta la persona.
La bellezza della realtà è un segno della bellezza del Creatore. Le perfezioni di Dio sono da noi conosciute a partire dalla conoscenza della realtà creata. Ogni bellezza è partecipazione della bellezza divina.
Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti ha scritto: «Per questo la bellezza delle cose create non può appagare, e suscita quell’arcana nostalgia di Dio che un innamorato del bello come sant’Agostino ha saputo interpretare con accenti ineguagliabili: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!”» (n.16).
Le arti della pittura, della scultura e dell’architettura collocate all’interno del pensiero cristiano, hanno dunque il compito di scrutare e descrivere tale bellezza, traducendola, attraverso i mezzi propri di ciascuna disciplina, in un canto di gioia che, esprimendo l’amore di Dio verso l’uomo, sia capace di essere il canto, fatto con arte, che tutta la Chiesa innalza verso il cielo, come ringraziamento.
L’artista, dunque, non solo deve conoscere la bellezza, ma deve contemplarla, per questo da sempre il primo testimone della verità della bellezza è l’artista; in più l’artista di opere d’arte sacra, per la sua particolare condizione, non può che essere un vero cristiano, che vive la propria vocazione artistica nella costante preghiera.
1) Platone, Fedro, 250 D-E
2) Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, II-II, 27, 1, ad 3um
3) « Nihil enim est ordinatum, quod non sit pulchrum. Et sicut ait apostolus: Omnìs ordo a deo est» Agostino, De vera Religione, cap. XLI (trad. it. a cura di O. Grassi, Milano 1997, pag. 136).
4) Tommaso d’Aquino, Summa theol., I, 5, 4, ad 1um.

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