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domenica 2 marzo 2014

La Grande Bellezza di Sorrentino e l'arte

Un interessante proposta per leggere la Grande Bellezza di Sorrentino sotto lo sguardo della storia dell'arte con influenze e ispirazioni. Il film vive in effetti di questo perenne scambio osmotico tra bellezza, struttura e forma, e disordine (sopratutto interno e mentale) e decadenza. Uno sguardo disincantato e trasognato tra le pieghe di una città eterna per nome e per questo quasi indifferente, o superiore, agli sviluppi della microstoria. Ma il tempo che passa, e segna i passi dei protagonisti, è forse l'elemento che più di tutti concorre a trasfigurare l'esistenza singola e collettiva. Allora la città appare come un'infinito elogio alla vanità e alla bellezza delle cose.

"L’invito a scorrere mentalmente i fotogrammi de La Grande Bellezza chiedendo loro se riescono a vedere nella filigrana di quest’opera alcune grandi opere della storia dell’arte del nostro Paese, anzi del nostro continente. Nella galleria qui acclusa vengono infatti proposte della ‘diadi’: un frammento del film di Sorrentino e un’opera della storia dell’arte (l’intero o un dettaglio), l’uno come codice cifrato dell’altra, in un gioco di riflessi che meriterebbe, forse, un’analisi sistematica e dettagliata. Chi ha condotto questa ricerca – che proponiamo come atto di informazione realizzato davvero gratis et amore da tutti coloro che vi hanno preso parte – ha pensato e trovato decine di diadi: quelle della galleria di PEM, che l’Istituto italiano di cultura di Los Angeles ha accolto per offrirle in visione a chi passa in quelle sale all’approssimarsi della notte degli Oscar, sono solo alcune, citate qui come fossero il campionario di una mostra ancora da fare e di un libro da scrivere". (Fonte: Treccani)


Rembrandt, attribuito, Testa di Cristo, XVII sec. Filadelfia, Philadelphia Museum 


Georges Seurat, Studio per Une dimanche après midi à l’Île de la Grande Jatte, 1884-1885. New York, Metropolitan Museum of Art


Umberto Boccioni, La risata, 1911 New York, Museum of Modern Art (MoMA)


Amedeo Modigliani, Nudo disteso, 1917 New York, Metropolitan Museum of Art


Luis Tristán de Escamilla, Santa Monica, 1616. Madrid, Prado

lunedì 10 dicembre 2012

Il film sull'arte e altri ebook

Dall'archivio online dell'Università Ca' Foscari di Venezia segnalo una serie di tesi di dottorato in storia dell'arte scaricabili in pdf. 


Tra i tanti Paolo Veronese: dall'immagine al silenzio,  Gli oggetti e la loro simbologia in Arancia Meccanica e Shining di Stanley Kubrick, tra individuo e l'universo del cinema. , Arte e contestazione - Arte in Italia tra gli anni Sessanta e Settanta , Riflessione sul senso tattile nell'arte contemporanea , Dall'iconoclastia all'iconoclash ricerche sulle strategie iconoclaste contemporanee.

Mentre metto in evidenza questo

Immagini dal film Dreams that Money can Buy di Hans Richter, 1947.
Il film sull'arte e la Mostra internazionale del cinema di Venezia

La tesi affronta il dibattito nato attorno al film sull'arte dal dopoguerra alla fine degli anni Cinquanta attraverso la ricostruzione della storia e delle iniziative delle istituzioni internazionali create al fine di una sua regolamentazione, utilizzo e circolazione. Una volta individuato e contestualizzato il ruolo dell'Unesco, la prima parte della tesi segue la nascita della Fédération Internationale du Film sur l'Art nel 1948, i protagonisti e i successivi congressi che ne stabilirono obiettivi e politiche d'intervento, per poi passare ad altre istituzioni e all'osservazione dei differenti cataloghi prodotti a livello mondiale. La seconda parte si focalizza sul contesto dei festival internazionali e, in particolare, sulla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia. Vengono così affrontati tanto la produzione dei film stessi quanto il dibattito critico e metodologico che intorno al genere andava definendosi.

E tra gli ebook segnalo anche l'ultima pubblicazione del Centro Internazionale Studi di Estetica: Elisabetta Di Stefano, Iperestetica: Arte, natura, vita quotidiana e nuove tecnologie.

mercoledì 4 luglio 2012

Mimmo Rotella...un americano a Roma

Inediti legami tra Mimmo Rotella e la nascita del personaggio di un Americano a Roma in questo interessante e suggestivo articolo di Andrea Bruni.

DUCHAMP… M’HAI PROVOCATO… E IO ME TE MAGNO!

Prime delle Contesse Scalze, degli spogliarelli proibiti di Aichè Nanà, della suburra catacombale fotografata dall’entomologo Marcello Rubini (La dolce vita) ci fu una Roma sotterranea e vitalissima che non guardava solo ai salottini di Via Veneto o alle serate con Chet Baker alla Rupe Tarpea. No, guardava oltralpe, con voraci antenne, senza fermarsi ai diktat del “Politecnico” di Vittorini, o ai furibondi scorci proletari di Sfrenato Guttuso, come lo chiamava l’amico Marino Mazzacurati. Se Tommaso Landolfi, più bello di Errol Flynn, navigava- fiero e solitario- verso il Mar delle Blatte, altri cercavano diversamente un Altrove. Magari a Saint Tropez. Con un frustino in mano, e con due bionde ignude accovacciate sui sedili della propria Spider, come Mimmo Rotella, guascone delle Avanguardie. Roma-Saint Tropez- Parigi- Kansas City- New York- e poi di nuovo Roma, magari per dirigere, con piglio squisitamente Dada, la sua Suoneria Epistaltica, assieme ad una certa Ursula Andress (a cui Rotella aveva assegnato una “macchina da scrivere con forchetta sincronizzata”), e ad un certo Lucio Fulci, giovane appena uscito dal Centro Sperimentale, che seguiva l’amico artista con un tamburo, nella speranza di recuperare un bel Picchiapò fumante ed una compagnia femminile per la notte…Tutto vero: siamo fra il 1952 ed il 1953, Mimmo Rotella ha già tenuto due personali alla Rockhill Nelson Gallery, e l’Università della città lo ha nominato “Artist in Residence”… Ma lui niente; ogni volta che gli era possibile, eccolo tornare alla adorata Roma, con i suoi giubbotti in pelle da “teddy boy”, le camicie floreali, i cappelloni texani, l’inimitabile accento calabro-roman-americano…Un bel giorno (di quelli magici che capitavano solo a Roma, dagli studi di Cinecittà, sino al Teatrino della Barafonda) il giovane Fulci- nel frattempo divenuto aiuto-regista di Stefano Vanzina, nome d’arte Steno, ovvero il Sommo Artigiano- incontra Rotella reduce dall’America che gli dice: “Sono appena tornato da Kansas City, dove ho insegnato poesia…Ho anche dei danzatori che potrebbero lavorare per la nostra “Suoneria Epistaltica”…Ma là, però, perché qui in Italia è tutto difficile…Come lo dite in Italiano…have relationship…”; e Fulci: “Si dice amicizie…”, e l’artista post-Dada: “Ma io parlo un ottimo americano!”… “Cos’è il genio?”, si domandava il Perozzi in Amici miei…Ecco Fulci che, nel giro di un nanosecondo crea Nando Moriconi- pensando ai tic esterofili di Mimmo Rotella- per la nascente star Alberto Sordi. Nando Moriconi, coatto romano con ossessioni a “stelle e strisce”, fa la sua prima apparizione in Un giorno in pretura (1953), nel celebre episodio del bagno nella “Marrana”. A ruota, nel 1964, esce Un americano a Roma, e qui siam già nella leggenda. Ma della strana amicizia fra Fulci e il tonitruante artista che “vuo fa l’americano” non se ne ricorda più nessuno. 

di Andrea Bruni su Satisfiction



venerdì 6 aprile 2012

I colori della Passione (The Mill and Cross) - Un film su Pieter Bruegel

Tra le sorprese cinematografiche di quest'ultimo periodo, per rimanere anche in tema col Venerdì Santo, segnalo questo film che dal trailer e dalle foto si dimostra assolutamente incredibile e visionario.  Lo svedese Lech Majewski si è misurato in un’opera ambiziosa, I colori della Passione, con l’intento di entrare nel mondo complesso e misterioso dell’arte di Pieter Bruegel. The Mill and Cross (questo il titolo originale) è “ambientato” all’interno del quadro La Salita al Calvario di Bruegel il Vecchio, ed è un film che assottiglia in modo sorprendente la distanza tra realtà e sfera artistica. Tra le diverse recensioni voglio inserire questa uscita su Cineblog inserendo delle immagini, tratte dal film, veramente suggestive. 



Prendete un dipinto, uno dei più famosi di sempre. Poi prendete un'idea, quella di dargli vita. Il risultato è quanto vediamo ne I colori della Passione di Majewski. Chi conosce il regista polacco sa in qualche modo a cosa va incontro dandosi ad un suo film. Majewski tratta il cinema con la stessa riverenza con la quale si approccia all’Arte, perché lui, è bene dirlo, è anche un pittore. Lui che fa parte di quell’arte moderna e contemporanea che mal digerisce, pur rientrando nella categoria. Un personaggio che vive di Arte, respira Arte e si interroga sull’Arte. Non si spiegherebbe diversamente questo suo ritorno alla metà del XVI secolo, quando il pittore fiammingo Pieter Bruegel completa una delle sue più importanti opere: Salita al Calvario. A riguardo eccovi due interessanti retroscena a bruciapelo. Il primo riguarda il rapporto tra Majewski ed il dipinto in questione. Quando era piccolo, il futuro regista era solito passare le vacanze estive a Venezia. Muovendosi in treno, gli capitava sistematicamente di fermarsi a Vienna, dove il Kunsthistorisches Museum rappresentava una tappa fissa di questo suo breve soggiorno. Si dà il caso che il quadro di Bruegel sia esposto in un’ala interna a quel museo. Ebbene, il diretto interessato racconta che già all’epoca si instaurò un particolare rapporto tra lui e quel dipinto che rivisita il Calvario di Nostro Signore. Osservandolo, creava storie inerenti a tutti quei protagonisti inconsapevoli. In nuce, I colori della passione era già lì.


Per la seconda curiosità, ci tocca fare un salto temporale di parecchi anni, al 2005. Quell’anno lo scrittore e critico d’arte Michael Francis Gibson ebbe modo di vedere Angelus. Colpito dalla sensibilità pittorica manifestata in sede di regia da Majewski, decise di consegnare a quest’ultimo una copia del suo libro The Mill and The Cross (Il mulino e la croce). Fu allora che lo stesso regista, a sua volta affascinato dalle formulazioni presenti in quell’opera, ebbe a coltivare un’ambizione: raccontare la Salita al Calvario di Bruegel mediante il mezzo cinematografico. Il contesto storico è importante, seppur non essenziale, per comprendere il messaggio. Il pittore di Breda, evidentemente sensibile a quanto stava avvenendo a suo tempo in terra fiamminga, vedeva nei tumulti dell’epoca qualcosa di molto vicino alla persecuzione. In ottica protestante è agevole comprendere a cosa alludesse Bruegel: così come i primi cristiani furono perseguitati dal Sinedrio negli anni in cui Cristo ancora predicava, al medesimo modo nel ‘500 era la Chiesa Cattolica a perseguitare i seguaci di Lutero. Con non poco estro e fantasia, quindi, decise di portare a termine una tela che descrivesse tutto ciò. Tale aspetto si scorge durante la visione del film, con un Bruegel (Rutger Hauer) in costante apprensione riguardo all’esito di questa sua missione per certi aspetti autoimposta. In una pellicola in cui a farla da padrone sono e devono essere le immagini, c’è davvero poco spazio per la parola. Basti pensare che per il primo dialogo dobbiamo attendere il trascorrere della prima mezz’ora. E’ bene evidenziare quanto appena rilevato, perché in relazione a quanto attiene agli intenti di Majewski, I colori della passione riesce pienamente. L’utilizzo della computer grafica non ha rappresentato un semplice vezzo artistico, bensì una condizione indispensabile per farci letteralmente entrare nel dipinto. Chissà quanti artisti nei secoli passati avranno almeno una volta fantasticato sulla possibilità di dar vita alle proprie opere. Senza ricorrere ad arzigogolate teorie sugli albori del cinema, in fondo lo stesso nacque alla luce di questa pressante esigenza, quasi un’ossessione, circa il movimento.


Ebbene, Majewski ed il suo team imprimono su pellicola quanto solo l’immaginazione è in grado di partorire. E’ uno di quei non moltissimi esempi in cui davvero la tecnologia al cinema dei nostri giorni non rema contro la creatività, bensì si pone al suo servizio. L’autore ci ha brevemente accennato qualcosa in merito al dispendioso iter che ha condotto alla realizzazione del film. Tre anni passati a lavorare su ogni singolo aspetto, cercando di risolvere veri e propri enigmi come quello del cielo che fa da sfondo al dipinto. 
Ripreso in Nuova Zelanda, non si riusciva a farlo combaciare con quanto stava sotto. I più tecnici avranno un’idea di quanto appena riportato, ma quale che sia il grado di comprensione, sappiate che si è trattato di un lavoro immane. Certo, qualche rischio bisogna pur correrlo quando si punta così in alto. Ed infatti I colori della passione è come un carro trainato da cavalli in piena corsa: non è lui a fermarsi per lasciarvi salire, ma dovete essere voi abbastanza “abili” da saltare a bordo. Con questo, non pensate che il limite del film sia da ricercare nel frenetico svolgersi degli eventi, anzi! Come già accennato, passano più o meno trenta minuti per udire il suono di una frase di senso compiuto, ed in generale il film scorre con una certa lentezza. E’ il dazio che la pellicola di Majewski deve necessariamente pagare per arrivare a raggiungere il suo scopo. Anziché prediligere l’articolazione e la foga di una qualunque manifesto scritto, I colori della passione opta, giustamente, per i lunghi e martellanti silenzi di immagini che si susseguono in maniera nient’affatto casuale. Non a caso è difficile uscire dalla sala con un’idea ben precisa. Questo perché si tratta di una di quelle opere che pretendono di essere metabolizzate, e che non cedono a compromessi pur di chinarsi verso lo spettatore. Non un cinema artisticamente autoreferenziale, ma uno di quelli che tratta lo spettatore con un rispetto tale da esigere un piccolo sforzo per essere pienamente apprezzato. Fugaci ma intense le interpretazioni di Rutger Hauer, Michael York e Charlotte Rampling, ben integrati in un contesto da cui molto si desume e poco si può inequivocabilmente connotare. E’ questo il bello dell’Arte, quando lascia spazio alla libertà di chi ne partecipa in maniera tutt’altro che passiva. Quando si instaura quel gioco che ci spinge a ricercarne il senso, che non è mai banale e che brama di essere colto.


E se qualche perplessità permane è per la palese ammirazione manifestata nel film nei confronti di Bruegel. Così come il pittore fiammingo non volle protagonisti nel proprio quadro - nemmeno Gesù stesso - così Majewski non ha voluto che le storie da lui immaginate quando era un pargoletto ledessero a questa ferma volontà del pittore. Sì perché le storie di cui ci parla il regista, davvero brevi e tutt’altro che approfondite, non hanno in sé nulla di eccezionale. Potremmo semmai dire che sono eccezionalmente ordinarie. Ma ricordiamoci che il film non verte su una persona, un periodo storico o chi per loro. I colori della passione racconta di una tela, un dipinto che è il solo, vero e unico protagonista. Tutto ciò che troviamo al suo interno deve la sua esistenza alla presenza stessa del quadro entro cui si muove. Fuori da esso esiste, è vero, ma solo in funzione della “parte” che deve inconsapevolmente recitare in quell’eterno ed irripetibile istante.
Probabilmente non è poi così lontano il giorno in cui sarà possibile letteralmente vedere ciò che vedono gli altri quando si aggrappano alla propria immaginazione. Bene o male che sia, quindi, restiamo in sospeso all’idea di come sarebbe stato assistere a questo film così come Majewski lo ha esattamente immaginato. Ma poiché quel giorno ancora non è oggi, prendiamo atto di un lavoro encomiabile seppur tutt’altro che perfetto. Ed è proprio per questo che molti lo apprezzeranno visceralmente, mentre altri rimarranno tiepidi, ai limiti dell’indifferenza. Nonostante ciò, l’impatto visivo trascende qualsivoglia presa di posizione: tecnologia a servizio dell’Arte e non viceversa. Ci pare un ottimo punto d’approdo da cui immediatamente ripartire.





Inserisco i link ad altri articoli: 


e suggerisco questa bellissima pagina da wikipedia che elenca tutti i film realizzati sugli artisti e sul mondo dell'arte. Per tutti gli appassionati di storia dell'arte e cinema una vera chicca.


martedì 13 settembre 2011

Giovan Battista Villari detto Il Caparra

Giovan Battista Villari detto Il Caparra, grande pittore romano dimenticato. Altro che quello scarparo di Caravaggio. La situazione presa dal film Fantasmi a Roma è così simpatica e plausibile che ho voluto pubblicarla; e tra l'altro esiste un artista detto Il Caparra, era fiorentino, del Quattrocento, citato anche dal Vasari per essere un maestro del ferro.

martedì 29 settembre 2009

La religione delle cose-Pasolini, il cinema e la pittura

“La mia pittura è dialettale: un dialetto come ‘lingua per la poesia’. Squisito,
misterioso: materiale da tabernacoli. Sento ancora -
quando dipingo - la religione delle cose”.

Questa la dichiarazione di poetica del regista ed intellettuale del ‘900 italiano più legato alla storia dell’arte (a cominciare dalla sua tesi di laurea sulla pittura italiana del Novecento). Diceva “A Roberto Longhi sono debitore della mia ‘fulgurazione figurativa’” e nessuna figura più di quella del grande critico poteva accostarsi alla sua vena creativa; continuava “Il mio ricordo personale di quel corso […] è, in sintesi, il ricordo di una contrapposizione o netto confronto di forme. Sullo schermo venivano infatti proiettate delle diapositive. I totali e i dettagli dei lavori, coevi ed eseguiti nello stesso luogo, di Masolino e di Masaccio. Il cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una ‘inquadratura’ rappresentante un campione del mondo masoliniano – in quella continuità che è appunto tipica del cinema – si ‘opponeva’ drammaticamente a una ‘inquadratura’ rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco”.

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Fu un valente pittore dilettante ma al cinema riservò tutta la sua vena creativa squisitamente pittorica “La mia macchina da presa si muove su fondi e figure sentiti sostanzialmente come immobili e profondamente chiaroscurati. […] Non si può concepire una pala d’altare con le figure in movimento. Detesto il fatto che le figure si muovano.”

Fu attratto dai pittori della realtà: Caravaggio per esempio fornì i modelli per la rappresentazione del sottoproletariato romano ma se il Merisi raffigurava i Santi come popolani, lui ambiva a raffigurare i popolani come Santi. Per non parlare dell’affresco tracciato col Vangelo secondo Matteo. Attraverso però l’uso della pittura come artificio caricaturale (il film nel film, il quadro nel quadro, tableau vivant) raggiunse la massima rappresentatività pittorica. Sul colore dell’episodio La Ricotta riferiva “Intendo il colore esattamente come la musica, cioè come qualcosa che riguarda il cinema non nella sua sostanza semiologica o grammaticale, almeno per ora, cioè fino a quando la riproduzione dei colori non sarà oggettivamente perfetta, ma riguarda la sostanza estetica: è quasi un’aggiunta, appunto come la musica. Per questi motivi un regista è costretto a comportarsi, con il colore, in maniera un po’ estetizzante e formalistica, e questo è successo anche a me, benché in principio mi ribellassi”.

“I passi ‘pittorici’ del film sono citazioni con una funzione abbastanza precisa: sono citazioni di due pittori, due manieristi: Rosso Fiorentino e Pontormo. Ho ricostruito perfettamente i loro quadri, non perché rappresentino la mia visione delle cose, né perché mi piacciano: non ho proceduto ad alcuna ricostruzione in prima persona, ma semplicemente per rappresentare lo stato di spirito nel quale il regista, protagonista della Ricotta, concepisce un film sulla Passione. Concetto del tutto opposto al mio quando ho fatto il Vangelo. Queste citazioni rientrano così nel campo dell’esorcismo: ricostruzione esattissima, molto raffinata, molto formalista, proprio ciò che non avrei voluto fare nel Vangelo.”

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La dissacrazione della realtà della sua ultima terribile opera, Salò, richiama invece l’arte contemporanea in quanto dissacrazione del reale della quotidianità, del perbenismo, della tradizione; nel processo terroristico di privazione del senso vengono coinvolte infatti le avanguardie (Dadaismo, Surrealismo) che con le loro ossessioni sul sesso, sul non senso, sulla “crudeltà” diventano non modelli di composizione ma sottese esperienze di creazione artistica, delirio di un’umanità lucidamente degradata.

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E di seguito alcuni suoi autoritratti:

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giovedì 17 settembre 2009

Io e…Luciano Emmer (l’amore per l’arte si racconta con una torcia)

Questo post è un omaggio ad un grande regista da poco scomparso, Luciano Emmer, che tra i grandi registi italiani è stato quello che più di altri si è avvicinato, è rimasto attratto ed ha raccontato la grande arte con uno stile unico, tanto rispettoso della tradizione quanto elegante e sensibile al “bello”.

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Già nel 1938 realizza Racconto di un affresco, il suo primo documentario d'arte, dedicato agli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni. Nel 1940 ripete l'esperienza affrontando i quadri di H. Bosch in Paradiso terrestre, avviando così una fortunata carriera di documentarista che troverà momenti topici con Goya (1950), Leonardo da Vinci (1952) e Picasso, una straordinaria analisi dell’artista (1954). Il regista di Le ragazze di Piazza di Spagna e di Una domenica d' agosto, tra i primi ad inaugurare la “commedia all’italiana” e tra i più attenti narratori dell'Italia del primo boom economico, inventore della sigla di Carosello e dello stile dei siparietti pubblicitari, riguardo l’opera d’arte si dimostra un silenzioso spettatore, attento al particolare, alle sensazioni, ai luoghi ed al loro contesto; le sue riprese potrebbero formare un ricco manuale tanto sono rispettose del manufatto lasciato a comunicare direttamente con lo spettatore. Poche frasi, poche voci fuori campo di chi l’arte la vive intimamente come esperienza. Il resto sono solo immagini filmiche, mute ed eloquenti, come di chi, così affascinato dalla misteriosa bellezza dei capolavori, si limita a registrare e mai ad interpretare. Un moderno viaggiatore del grand tour che al consueto taccuino di disegni sostituisce la macchina da presa. Una vasta cultura pittorica che va dalle pitture rupestri di Lescaux, dove il cadavere del cacciatore ucciso dal bufalo rappresenta in assoluto la prima storia mai raccontata, e lui lo racconta immergendosi nelle profondità delle grotte, alle tentazioni dell’umanità così minuziosamente descritte ne Il giardino delle delizie di Bosch fino a Degas, Van Gogh, Picasso.

La pittura viene nuovamente trattata nel 1972 con il programma televisivo per la Rai "Io e..."; in 14 puntate il regista lascia dialogare celebri intellettuali, artisti, scrittori, direttamente con l’arte; ognuno di loro, scelto un tema, un’opera, un luogo, lo affronta dal proprio punto di vista; il regista si limita a riprendere. Le opere non vengono mai tradite ma, seguendo i commenti degli intervistati, acquistano valenze e sfumature nuove, del tutto personali. E’ una muta dichiarazione di appartenenza al bello. Le puntate, anche per lo spessore degli intervistati, sarebbero tutte da vedere. Tra di loro sottolineo:

Io e l'Adorazione dei magi del Sassetta” intervista a Severino Gazzelloni, vero equilibrio tra arte e musica,

Io e la morte di Marat” intervista a Guttuso, bellissima analisi del grande pittore,

“Io e l’Eur” intervista a Federico Fellini, metafisica riflessione sul quartiere,

“Io e il battesimo di Cristo di Giovanni Bellini” intervista a Guido Piovene, pregnante discorso sul capolavoro,

“Io e il campo di grano con corvi di Van Gogh” intervista a Cesare Zavattini, intimamente vissuta,

“Io e la Cortigiana romana di Scipione” intervista ad Alberto Moravia, lucida analisi dell’intima anima di Roma,

“Io e Piazza san Marco” intervista a Goffredo Parise, poetica e sentita impressione del luogo,

“Io e la Colonna Traiana” intervista a Bianchi Bandinelli. Forse la puntata più bella e suggestiva nella quale il grande storico dell’arte antica viene portato, attraverso una scala mobile, letteralmente intorno al fregio della colonna, raccontandocene la storia, lo stile, le sue impressioni. Emmer, anche lui sulla scala, filma il tutto da dietro, indugiando sui bassorilievi tanto vivi quando inaccessibili per lo spettatore da terra. La colonna, finalmente, è nuda sotto i nostri occhi; non più celata dall’altezza mostra l’incredibile intreccio degli avvenimenti. Il tutto nella luce di un notturno.

Nel 1974 la serie venne ripresa, curata da un altro regista, e ci regalò la splendida analisi di Pasolini sulla “forma della città”.

Nel 1988 il regista torna al documentario d'arte con La bellezza del diavolo - Viaggio nei castelli trentini, mentre al 1997 risale il suo capolavoro Bella di Notte.

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Un visitatore notturno si muove tra capolavori armato di una lampadina tascabile, emozionato davanti ai dipinti che appaiono quasi all' improvviso, dal buio, felice di raccontare il suo amore per l' arte. Per cinque notti, Emmer filma le sale restaurate della Galleria Borghese di Roma; scorrono davanti ai suoi e ai nostri occhi capolavori di Canova e Bernini, Rubens e Tiziano, i Caravaggio e i Raffaello, statue e dipinti di cui il regista rivela segreti e magie, facendo annotazioni curiose, costruendo un dialogo immaginario con Scipione Borghese, che raccolse in quella che era la villa della famiglia, un patrimonio di valore inestimabile. Un itinerario solitario, un ritratto personale, lontano da critiche estetiche e da nozionismi storici, che segue solamente il filo della suggestione. Il risultato è straordinario.

"Mi avevano chiesto di realizzare un documentario sul restauro della Galleria Borghese" spiegherà Emmer "ma ho risposto che ci sono giornalisti Rai più bravi di me. Così ho realizzato un' opera di cinema partendo da un punto di vista personale, immaginando di essere un visitatore che si trova di notte a scoprire le meraviglie di questo posto".

Il suo ultimo film Trilogia: il pensiero, lo sguardo, la parola non è che una lucida riflessione sulla vita e sull’arte.

“D’altronde, quella torcia che si aggira all’interno di Villa Borghese è il simbolo più concreto del mestiere d’autore, dell’umanità e del calore di uno sguardo, di un faro che illumina e racconta l’arte non come materia immobile e distante, ma come elemenoi che influenza la nostra vita, la nostra stessa essenza di uomini. E fare emergere dall’oblio e dal buio l’arte (intesa come pensiero, come materia) dei nostri tempi è forse uno dei compiti più concreti che il cinema stesso può darsi”. (fonte).

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domenica 31 maggio 2009

Hopper e il cinema

Gli ambienti americani ritratti da Hopper sono stati da sempre associati alle scene di importanti film hollywoodiani. L’ufficio, il bar, la camera di un motel e il teatro, sono resi da Hopper attraverso lo sguardo della cinepresa in un realismo crudo e metafisico che sa molto di sospensione e di suspense.

E’ l’America la protagonista della pittura di Hopper, col suo messaggio iniziatico, quasi fideistico di promozione individuale, di felicità possibile per tutti; l’America ordinaria del XX secolo, sintetizzata in chiave anti-drammatica di pacatezza atemporale, coi suoi silenzi monumentali, con le americanissime location, dove il quotidiano si sublima in esperienza real-pop, dove l’aspettativa, semplice frammento di un racconto di cui non è dato conoscere la trama, non prevede necessariamente un esito. Una realtà ottimistica che facilmente esclude. (Stefano Roffi)

Lui fu molto affascinato dal cinema, ma anche diversi registi hanno preso spunto proprio dai suoi quadri per poter realizzare le scene dei film più rappresentativi dell’America di quel periodo. Basta citare i nomi di Alfred Hitchcock, Chantal Akerman e Wim Wenders. Il quadro di Hopper House by the Railroad del 1925 ha ispirato la casa sulla collina sopra il Bates Motel di Hitchcock in Psycho, girato nel 1960; poichè vi era una vecchia ferrovia di paese poco distante, nel film si nota a malapena.

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Ci sono comunque altri esempi lampanti: la donna seduta sulla poltrona che scruta la finestra in una stanza è Marnie (1964) altra nota pellicola di Hitchcock; la grande vetrata del bar che dà sulla strada la si trova nel film Delitto Perfetto e Uccelli, rispettivamente del '54 e del '64; La Finestra sul cortile, invece, si rispecchia nell’opera Night Windows del ‘28.

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E come non vedere inquadrature cinematografiche in quest’altre opere del pittore?

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mercoledì 27 maggio 2009

I Sogni di Kurosawa-Van Gogh

Entrambi si sono dedicati alla bellezza, (quella della natura è la più somma ed utopica), e nel senso tragico dell’esistenza l’hanno cercata attraverso visioni e mancanze; l’uno con pennelli densi come la pece, l’altro con una macchina da presa priva di retorica; sono Vincent van Gogh e Akira Kurosawa, accumunati, oltre che dall’amore per il dato naturale fine a se stesso, in quanto bellezza, da questo episodio, girato dal grande regista giapponese ed inserito nel film “Sogni” del 1990.




L’episodio in questione si intitola “Corvi”; il protagonista (alter-ego del regista), osservando le opere dell’artista si ritrova nel suo mondo e nei suoi dipinti e lo cerca (il “Ponte levatoio” è ricostruito infatti com’è nel quadro, e non com’è nella realtà); lo troverà intendo a dipingere sotto un sole a picco: “Questo luogo trascende la realtà – dirà Van Gogh (interpretato da Martin Scorsese) – il paesaggio pittoresco non fa mai un dipinto; se ti concentri ed osservi tutto nella natura ha una sua Bellezza…e in quella bellezza naturale io mi perdo dentro…e poi, come in un sogno, il paesaggio si dipinge da solo, per me…io mi nutro di questo scenario naturale, lo divoro tutto, totalmente…e quando ho finito il quadro è davanti a me, completo…dopodiché ho dentro di me il vuoto assoluto” (del resto l’artista fu molto attratto dall’arte giapponese così attenta alla Natura e capace di raffigurarla con una poetica unica e intimistica). Dopo una corsa materiale nelle sue opere, lo ritrova mentre si incammina per un campo di grano (quello del suo ultimo dipinto completo). Un folle volo di corvi annuncia visivamente il suo suicidio. Il protagonista, ritornato nella realtà, non può che togliersi il cappello con rispetto, ammirazione e venerazione per un uomo arrivato così vicino al Sole da bruciarsi e cadere. (qui il doppiaggio in Italiano).

La Natura, immensa e insondabile, indagata con gli occhi del regista-pittore, non può che essere rivelazione dell’assoluto ma, in quanto negazione di senso e di scopo, meccanicisticamente annichilire chi si avvicina alla sua essenza. L’unica strada, per il regista, sarà rivelata nell’ultimo episodio “Villaggio dei mulini” dove un vecchio centenario (quasi un invecchiato Van Gogh) spiega in modo assai semplice come amare la Natura significa rispettarla, vivere in semplicità e in umiltà godendo l’attimo del qui e ora, senza sovrastrutture e senza egoismi. Accettare e considerare la “morte” come il naturale passaggio che conduce al mondo degli dei e soprattutto usare l’acqua per far girare le ruote dei mulini e far scorrere la vita.

Kurosawa-van gogh
Resta alla fine, oltre che la magia della splendida regia (visivamente molto poetica), in episodi costruiti come sogni notturni di ricordi, desideri, rimorsi, timori, regole introiettate, materiale quotidiano, pensieri, ma anche incubi ed angosce, un senso di singolare Bellezza: come dice anche Kurosawa, infatti, “Ho un culto spiccato per la bellezza. Penso che un bel film deve avere questa qualità misteriosa che è la bellezza cinematografica, un misto di perfezione e di emozione profonda che spinge la gente ad andare al cinema e la tiene inchiodata alla sedia”.

Episodio di grande fascino, anche solo prettamente estetico, riprende un desiderio inconscio che non so a quanti di voi sia mai venuto: essere in un quadro di Van Gogh, o meglio, vedere il mondo col filtro della sua mente capace di trasfigurarlo in un’onda di linee e colori. A me, che spesso ho immaginato questo motivo, ha molto colpito. Aspetto con curiosità i vostri commenti e giudizi. Nel farlo, vi lascio con quest’altro spezzone dal film “Al di la dei sogni” (segue dalla parte 3; min. 8) che chiarisce perfettamente e visivamente cosa significherebbe abitare nel mondo della mente di Vincent.



martedì 5 maggio 2009

Ultime Cene (Leonardo ed il cinema)

ferdinand Zecca-passion 1902Christus-Giulio antamoro 1916Viridiana-bunuelmamma roma - ultima cena mash-directed by Robert Altman (1972).Jesus Christ Superstar-Ultima cena Simpsons-Thank God It’s Doomsday (2005).

Icona per l’arte, icona per il cinema; il Cenacolo di Leonardo, come spiega K. Clark, nella sintesi tra la creazione di “un’immagine memorabile” e “una soddisfacente combinazione di forme” si pone quale modello insuperabile e perfetto, paradigma ideale attraverso il quale fissare per immagini il motivo dell’ultima cena (e per traslato una “cena” in generale) fino a diventare imprescindibile formula iconografica. Dal quadro all’inquadratura, come si vede in questa selezione di fotogrammi, la forma non cambia e l’immagine diventa una sorta di tableaux vivants incredibilmente efficace ed eloquente.

In ordine cronologico:

La vie et la Passion de Jesus Christ di Ferdinand Zecca (1902)

Christus di Giulio Antamoro (1916)

Viridiana di Luis Bunuel (1961)

Mamma Roma di Pasolini (1962)

M.A.S.H. di Robert Altman (1970)

Jesus Christ Superstar di Norman Jewison (1973)

Simpson ep. del 2005

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