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venerdì 20 dicembre 2013

Ritorno alla forma - La linea figurativa e realistica nell’arte molisana del Novecento

Amedeo Trivisonno, Natività 

Ritorno alla forma
La linea figurativa e realistica nell’arte molisana del Novecento

A cura di
Francesca Della Ventura
Tommaso Evangelista

Col patrocinio di
PROVINCIA DI CAMPOBASSO

21 dicembre 2013 / 12 febbraio 2014

Inaugurazione sabato 21 dicembre ore 18.00

Galleria Artes Contemporanea
Viale Elena, 60, Campobasso

Artisti:
Antonio D’Attellis
Antonio Di Toro
Walter Genua
Giovanni Manocchio
Giulio Oriente
Leo Paglione
Gilda Pansiotti D’Amico
Rodolfo Papa
Antonio Pettinicchi
Marcello Scarano
Amedeo Trivisonno
Vincenzo Ucciferri

Una delle peculiarità dell’arte molisana contemporanea è stata quella di non aver mai smarrito una spiccata linea figurativa. Fuori dalle correnti più significative, lambita solo superficialmente dalle tensioni del Futurismo, lontananel dopoguerra dai dibattiti sull’astrattismo, la regione ha mantenuto intatta un modo di saper dipingere e scolpire che affonda molte radici nella tradizione più nobile dell’arte italiana. Il merito principale del perdurare di tale tendenza è da ascrivere soprattutto a Amedeo Trivisonno e Marcello Scarano. Mentre il primo, Trivisonno, ha creato una vera e propria “scuola” formando diversi validi artisti in relazione, in particolare, all’arte sacra autentica, Scarano ha ispirato una ricerca sempre sulla forma ma letta in chiave maggiormente espressiva e intimista. I dibattiti sorti agli inizi degli anni Sessanta, di rottura e tensione, e liberazione di un’arte non più legata alla forma ma al concetto, andavano contro gli epigoni e gli esponenti meno innovativi della pittura, i cosiddetti “pittori della domenica”, ma mai contro i grandi maestri. Una collettiva sulla linea figurativa e realistica nell’arte molisana è un atto dovuto alla storia della regione per fissare alcuni punti certi, per riscoprire maestri dimenticati e soprattutto per mostrare un’arte sempre attuale e mai anacronistica, fatta di sapere tecnico e progettuale ma anche di spiccate doti creative; è anche un’occasione di studio e di approfondimento su artisti significativi del Novecento. Oltre alle opere di artisti storici si sono voluti esporre anche i lavori di pittori che, pur nel perdurare delle correnti e degli “ismi”, non hanno mai abbandonato il pennello e la forma. La collettiva ha diversi pregi. Ha la pretesa di concentrare su poche pareti un secolo di arte molisana seguendo la linea della forma; vuol presentare una rassegna quanto più completa ed esplicativa degli artisti figurativi molisani, ovvero di quei pittori che maggiormente hanno indagato la raffigurazione, mostrando legami, derivazioni e ispirazioni; cerca di rivalutare contesti poco indagati dalla critica, mostrando un ambiente estremamente vitale e di forte spessore tecnico e qualitativo. Parlare della forma significa indagare l’intima natura dell’arte, capace di schiudere, nel gesto personale del rappresentare, la visione concreta e spirituale dell’artista chiamato a farsi carico del reale per comunicarlo all’esterno. Se l’astratto è tensione emotiva e riconfigurazione in chiave sintetica dell’idea, la costruzione sulla e intorno alla figura comporta un perenne agire sulla struttura interna del dipinto per veicolare, nello scontro tra immagine e percezione, una personale osservazione sull’unicità del mondo.



venerdì 20 settembre 2013

Immagine del Vespro - Arte sacra al Santuario dell'Addolorata

La mostra Immagine del Vespro, organizzata da Don Massimo Muccillo, Vicario Espiscopale per il Santuario, e curata dallo storico dell’arte Tommaso Evangelista, prende il titolo dalle cosiddette Vesperbild, le piccole sculture in legno, nate in area tedesca nel 1300, che rappresentano la Pietà e il cui nome si riferisce all’uso, all’ora dei Vespri del Venerdì Santo, di meditare sulle cinque piaghe di Cristo morto che giace sulle ginocchia della Madre. Il legame, naturalmente, è con l’immagine dell’Addolorata come si è mostrata tante volte durante le apparizioni promuovendo anche un’iconografia del tutto nuova nell’emblematico gesto “sacerdotale” di offerta. Tale rappresentazione fu fissata sulla tela, per la prima volta, nel 1889 dal pittore romano Giovanni Battista Gagliardi e questa immagine, oggi in mostra, è diventata la riproduzione canonica degli eventi di Castelpetroso. Nell’esposizione si è voluto affrontare, allora, proprio il problema legato all’origine della prima immagine presentando tutte le opere presenti in Santuario che potessero ricostruire il percorso dell’icona. Parimenti si è voluto dare all’evento un taglio storico allestendo, per la prima volta, un percorso documentario sull’arte nel Santuario. Le opere di Amedeo Trivisonno (verrà presentata anche una pala d’altare, la Deposizione, tolta da una cappella per essere fruita in maniera più ravvicinata), di Marcello Scarano, di Alessandro Caetani (bozzetti della via Matris), della Famiglia Marinelli (calchi delle formelle del portale di sinistra), spesso bozzetti o studi preparatori o lavori fruiti per la prima volta lontano dal contesto liturgico, ci aiutano a ricostruire l’intera vicenda artistica del complesso monumentale che è stato l’ultima costruzione in stile neo-gotico ad essere completata in Italia. Anche i bozzetti della famiglia Chiocchio, di Oratino, che si occupò della lavorazione di tutte le decorazioni in pietra della chiesa, ci aiutano a focalizzare l’attenzione sull’importanza e la difficoltà dell’impresa, aprendo una parentesi su un settore, quello artigianale, spesse volte ignorato dalla critica. Unitamente alle opere legate al Santuario si è voluta arricchire l’esposizione presentando altri lavori dei maggiori artisti che vi hanno lavorato. Di Scarano, autore della Via Crucis del Santuario (in esposizione anch’essa), è stato esposto un inedito polittico con le storie di Cristo e altri soggetti sacri, tra i quali una splendida Deposizione; di Trivisonno, autore delle otto pale d’altare, è presentato invece un pregevole quadro sulla Sacra Famiglia e un’inedita opera giovanile, proveniente dalla chiesa di San Rocco di Carpinone, del 1927, probabilmente tra i primi lavori a tema sacro su tela e recentemente attribuita al pittore da Evangelista. Le opere di Rodolfo Papa, infine, oltre a testimoniare la continuità, in territorio molisano, della linea figurativa a soggetto sacro portata avanti prima da Trivisonno e poi dal suo allievo Leo Paglione, anch’egli in mostra, segnano un’apertura al futuro sia nell’iconografia (si veda la tela con l’Addolorata) sia nel patrimonio artistico della chiesa dato che lo splendido bozzetto per la decorazione della cupola va proprio nella direzione di un arricchimento, di bellezza e di teologia, del complesso. Infine, poiché deve rimanere sempre forte il legame tra la storia e il presente, si è dedicata una sezione alla collettiva d’arte. Una selezione dei migliori artisti molisani, pittori, scultori, ebanisti, che si sono confrontati con tematiche religiose o con la stessa immagine dell’Addolorata, ci aiuta a comprendere come il legame con le forme e la rappresentazione non deve essere mai smarrito se si vuol comunicare i messaggi dell’arte sacra autentica. Proprio la presenza di opere di grandi maestri locali, favorendo un interessante confronto di carattere storico e formale, conferisce autorevolezza e senso alle opere presenti in collettiva. I lavori selezionati, degni per l’indagine di un senso intimo che coinvolge la stessa idea del ruolo dell’artista nella società, ci raccontano del tentativo, con tutte le difficoltà legate al collasso del sistema artistico, di riappropriazione della struttura e del senso e, in linea generale, del “corpo” della pittura e dell’arte. L’esposizione di fotografie delle Officine Cromatiche, inoltre, dimostra come l’immagine del Santuario non perda mai il suo fascino e continui sempre, con la sua forma significante e le sue bellezze artistiche, a ispirare chi, per propria inclinazione, è alla perenne ricerca dell’aspetto, della luce e del colore. Lo studio nato in preparazione della mostra ha tentato di legare gli eventi delle apparizioni all’idea stessa di forma, analizzando l’iconografia (con i suoi modelli) e la fortuna critica dell’immagine dell’Addolorata; parimenti è stata fatta una ricerca mirata di fonti e documenti per ricostruire la storia artistica del Santuario, le tante testimonianze presenti nella chiesa e i diversi artisti che vi hanno operato, per dare una visione quanto più possibile organica dell’arte sacra in Molise come sintetizzata in questo luogo di fede. A conclusione l’idea di fondo dell’intera mostra, e degli studi, è stata quella di aver voluto creare, visivamente e concettualmente, una linea di continuità tra tutte le esperienze artistiche legate al Santuario per restituire una volta per tutte, alla critica e al fruitore, un fondamentale e purtroppo poco conosciuto frammento di storia artistica molisana.






venerdì 4 febbraio 2011

L'artefiera a Bologna. Un esempio da seguire


Si è da poco conclusa a Bologna la Fiera internazionale d’arte contemporanea, Artefiera, la più importante rassegna d’arte in Italia, diretta da Silvia Evangelisti, che vede ogni anno le più importanti gallerie italiane e straniere presentare le loro collezioni e gli artisti di punta. Anche in tale occasione si sono visti grandi nomi sia nazionali (Cattelan, Pistoletto, Beecroft, Pomodoro, Merz) che internazionali (Kounellis, Hirst, Kosuth, Hartung, Christo), oltre ad un nutrito numero di opere storiche (Fontana, Afro, Morandi, De Chirico, Burri, Baj) per la soddisfazione sia dei semplici visitatori che hanno avuto l’opportunità di girare in un enorme museo d’arte contemporanea, che dei collezionisti e mercanti alla ricerca della novità e dell’affare. Il numero dei visitatori quest’anno è stato superiore agli anni precedenti, circa 40mila, e anche il mercato, dopo il crollo dell’ultimo periodo, è sembrato dare segnali di ripresa, e se tra i padiglioni non si registrano evidenti azzardi e innovazioni, il livello è stato comunque alto. L’intera manifestazione, inoltre, è stata arricchita da eventi nel centro storico e l’arte è stata la protagonista indiscussa in tutta la città dimostrando come la cultura possa veramente far girare il turismo e l’economia. Bologna, oltre i padiglioni della fiera, ha visto gallerie private e pubbliche aperte con mostre specifiche, musei gratuiti e installazioni da arredo urbano disseminate ovunque nei palazzi storici e nelle piazze (“Se una notte d’inverno un viaggiatore” a cura di Julia Draganovic), in un vero e proprio percorso che ha reso la Notte Bianca di sabato 28 gennaio un evento unico e di spessore. Tra gli eventi collaterali il progetto Bologna si rivela curato Philippe Daverio, il quale ha realizzato un percorso culturale, artistico e museale nei più significativi luoghi d’arte della città: Casa Saraceni, Santa Maria della Vita, Palazzo Fava, la mostra Happy Tech – Macchine dal volto umano, a Palazzo Re Enzo, che ha esplorato il rapporto arte, scienza e nuove tecnologie, e le novità del Premio Furla. In fiera, invece, su circa 15mila metri quadrati espositivi hanno fatto da padrone le 200 gallerie presentando un panorama aggiornato di tutta l’arte mondiale; tra i vari appuntamenti le tavole rotonde sull’arte (Art Talks), presentazioni di libri, convegni e dibattiti. Il Molise è stato rappresentato in fiera da due artisti che stanno ricevendo unanimi consensi a livello nazionale: il termolese Ettore Frani e Luigi Mastrangelo di Santa Croce di Magliano. Il primo è fautore di una pittura minimale e frammentaria, fatta di impressioni e materia, il secondo è concentrato su uno stile immaginifico e lontanamente pop. C’è da dire che la nostra regione, a fronte di importanti collezionisti privati, non vanta purtroppo gallerie d’arte di livello nazionale; si nota del resto la mancanza anche di istituzioni culturali che lavorino con le giovani leve stimolando e valorizzando la scuola locale. Ci sono iniziative lodevoli come quelle della galleria Officina Solare di Termoli, della galleria Limiti Inchiusi di Campobasso e del’Aratro, archivio delle arti elettroniche e laboratorio per l’arte contemporanea dell’Università degli studi del Molise; significativa l’esperienza di Kalenarte a Casacalenda e del Premio Termoli, giunto alla sua 55° edizione, mentre il MACI, Museo d’Arte contemporanea di Isernia, sotto la cura di Luca Beatrice, pur realizzando eventi dal respiro internazionale si rivela inutile in assenza di una politica culturale rivolta in primo luogo al territorio, da intendere quale indispensabile base di partenza. Girando e discutendo tra i padiglioni della fiera con quattro artisti locali, Walter Giancola, Ermelindo Faralli, Michele Peri, artisti storici della regione, e Luca “Pop” Pontarelli, giovane e promettente pittore, si nota in effetti questo senso di frustrazione per una regione che non ha saputo valorizzare i propri talenti i quali, se fossero nati in altre realtà, sicuramente avrebbero avuto miglior sorte. Penso in particolare a Michele Peri, grande installatore nel recupero di materiali poveri, che sperimentava, forse tra i primi in Italia, la Land Art nel territorio di Rocchetta al Volturno agli inizi degli anni ’70. Ma i riferimenti possono spaziare su tante altre situazioni che, seppur di grande livello, non hanno ricevuto eco nazionale. Chi conosce per esempio l’attività artistica del Gruppo Solare, il primo laboratorio di arti visive del Molise e primo movimento in regione con un preciso programma culturale e teorico? Forse un museo o una fondazione permanente e una maggior attenzione delle istituzioni verso il locale avrebbe evitato la dispersione del sapere e quel senso di impotenza che riscontro oggi in molti artisti, scettici verso gli enti e disillusi verso il proprio lavoro. In questo senso l’esperienza dell’Artefiera di Bologna dovrebbe far riflettere tutti sulle enormi possibilità che si aprirebbero investendo sull’arte e sulla cultura. E per una volta la politica dovrebbe restarne fuori.

Tommaso Evangelista su Il Quotidiano del Molise del 4 febbraio

mercoledì 26 gennaio 2011

Il Gruppo Solare. Appunti per una storia delle arti visive in Molise.


Trovo che il Molise sia una realtà, dal punto di vista artistico, interessantissima anche perché poco analizzata e storicizzata a livello nazionale sebbene abbia prodotto eventi e movimenti di indubbio valore che, pur ricevendo poca eco sulle pagine delle grandi riviste d’arte, hanno avuto il merito di smuovere un ambiente da un certo punto di vista ancora chiuso e arretrato. Mi riferisco alle annuali mostre Fuoriluogo nella galleria Limiti Inchiusi a Campobasso, all’esperienza di Kalenarte a Casacalenda (CB), alla rassegna d’arte contemporanea di Macchia d’Isernia (IS) o al recente progetto portato avanti da Lorenzo Canova  con l’Aratro, archivio delle arti elettroniche e laboratorio per l’arte contemporanea dell’Università degli studi del Molise. Interessanti le attività del MACI, Museo d’Arte contemporanea di Isernia, sotto la guida di Luca Beatrice, con eventi dal respiro internazionale che però si rivelano inutili in assenza di una politica culturale rivolta in primo luogo al territorio, da intendere quale indispensabile base di partenza. Significativo, infine, il Premio Termoli, l’unica esperienza artistica di valenza internazionale operante in regione, giunto alla sua 55° edizione e quest’anno curato da Miriam Mirolla con il progetto IMAGO. Proprio Termoli si segnala quale il centro che più di altri ha prodotto in Molise esperienze rilevanti circa l’arte contemporanea. Nel 1985 viene fondato da Nino Barone, Ernesto Saquella, Michele Peri ed Elio Cavone, il Gruppo di Orientamento mentre nel 1998 vi nasce il movimento d’arte internazionale Archetyp’art. Ideatore, insieme all’artista Nino Barone, è Antonio Picariello, critico d’arte militante e tra i più significativi studiosi del contemporaneo in Molise[1]. Da sottolineare, infine, sempre a Termoli la manifestazione Tracker Art, ovvero il convegno della nuova critica d’arte italiana giunto alla sua 6° edizione e che ha accolto, negli anni, interventi di importanti critici quali Omar Calabrese, Giuseppe Siano, Silvia Bordini, Antonio Gasbarrini, Paola Ferraris. Alle origini di tutto ciò si colloca l’attività artistica del Gruppo Solare, il primo laboratorio di arti visive del Molise e primo movimento in regione con un preciso programma culturale e teorico. Dopo aver ritrovato forse l’unico libro pubblicato sull’argomento[2], superati ormai i vent’anni dallo scioglimento del gruppo, ritengo opportuno tracciare le linee di una storia affascinante e nascosta che, spero, venga maggiormente studiata.
La prima manifestazione che vede attivo il gruppo risale al 1976 a Termoli; l’intenzione è quella di denunciare la poca attenzione del comune per la valorizzazione e il turismo. Parteciparono Nicola di Pardo, Mimmo di Domenico, Nino Barone, Salvatore Martinucci, Nicola di Pietrantonio e Rocco Ragni. Le motivazioni che spinsero a questa azione sono da ricercare nel confronto dialettico di due culture diverse e quasi antitetiche che si sono trovate ad agire sul territorio: da una parte quella settentrionale giunta in relazione all’insediamento industriale della FIAT nel Molise, dall’altra la cultura locale. Già da questo primo evento si nota lo stretto legame del gruppo col territorio e il tentativo, tramite forme d’arte estemporanea, di scuotere l’opinione pubblica.


Nel mese di agosto del 1977, sempre a Termoli, il Gruppo da vita ad un evento che prevede la realizzazione, in piazza, di grandi pannelli raffiguranti l’uomo nella società in relazione all’ambiente, alla religione, allo stato. Lo stile adottato è un realismo di stampo espressionista, con l’uso di colori contrastanti e segni induriti, forti linee di contorno e una struttura della scena intesa quale palinsesto di memorie e impressioni; i riferimenti possono andare da espressionisti ante-litteram quali Goya (con le pitture dalla Quinta del Sordo) e Daumier a Ensor e Rouault fino a giungere ai muralisti messicani, Orozco su tutti. C’è però ben altro in queste pitture e lo sottolinea bene Jolanda Covre nella nota introduttiva al testo: “Ecco allora che la vostra gioia di dipingere, la dimensione narrativa che non abbandonate mai, l’improvvisazione del lavorare in pubblico con un’aria tra la festa e la protesta, sono, a modo loro, gesto e comportamento. Ma non per programma, che significherebbe essere nuovi, bensì per istinto”[3].


Da queste prime manifestazioni si nota come il Gruppo mira a ridefinire il ruolo dell’artista nella società in cui opera, ponendosi quale elemento di rottura e di presa di coscienza. La sua è un’azione “politica” nel senso che è indirizzata alla polis. Gli artisti cercano il contatto e il dialogo con le masse, coinvolgendo il popolo nell’azione e nella struttura delle tele; fanno dell’arte una vera e propria esperienza comunicabile e trasmettibile, non abbandonando mai la “tradizione” e non cadendo mai nell’originalità a tutti i costi. “Noi non crediamo nell’artista inteso nella maniera tradizionale, cioè un uomo al di fuori della realtà umana, estroso, esaltato, traviato, ma in un uomo con i limiti, i difetti e i pregi di tutti, che trasmette attraverso le proprie opere la sua esperienza e cerca il confronto con gli altri per ritrovare la sua vera dimensione”[4]. Il discorso portato avanti dal Gruppo è antico: come moderni saltimbanchi gli artisti scelgono la piazza come luogo deputato alle loro azioni e rifiutano il fruitore “tipo” poiché il pubblico è dato dalle persone comuni coinvolte nella scena, persone alienate da simili esperienze culturali. La formula è a metà strada tra la performance e l’estemporanea, i murales realizzati sono invece anti-prodotti artistici in quanto frutto di azione spontanea e non di logiche di mercato. La loro arte, allora, è veramente arte pubblica intrisa di una forte componente etica.
Dopo la realizzazione dei pannelli sul tema “L’Uomo” nel 1978 il Gruppo torna a riunirsi per la manifestazione antinucleare in Piazza Principe di Piemonte a Termoli. Realizzano allora la loro “azione” più incisiva dipingendo carcasse metalliche di oggetti di consumo (automobili, frigoriferi, lavatrici, televisori). Chiamano le loro decorazioni “Tributi in natura” e le considerano un’affermazione della creatività e della vita sul progresso più becero volto al consumo.


Sempre nel 1978 il Gruppo, volendo dimostrarsi ancor più legato al territorio, comincia ad interessarsi alle tradizioni delle diverse civiltà presenti nel Molise e alla “storia vissuta” delle civiltà contadine. Cominciano allora una serie di eventi che hanno come idea di fondo la riscoperta, attraverso i segni e la pittura (e quindi ancora una volta il linguaggio del passato), delle più importanti sagre regionali, contro la civiltà contemporanea sorda verso il locale. L’idea è quella di un intervento diretto nel territorio molisano durante le più importanti manifestazioni religiose. La formula adottata è quella della realizzazione in estemporanea di grandi pannelli che sintetizzino i temi (antropologici, religiosi, sociali, storici) dell’evento. Il linguaggio, ancora una volta, non abbandona la forma e, pur cercando la sintesi e la bidimensionalità, evita la dispersione delle idee nell’informale. Si ha quindi una sovrapposizione di prospettive, di scorci autonomi, di volti ma mai la perdita della figurazione. Nel 1978 il Gruppo agisce e opera nella festa di San Pardo a Larino, nella festa di Sant’Antonio a Montecilfone, a Santa Cristina a Campomarino e durante la Carrese a Portocannone. Sempre nel 1978 gli artisti, legati all’idea di arte per tutti, fondano una scuola di pittura aperta a bambini e ragazzi: la Scuola Solare.
Nel 1980, infine, il Gruppo si scioglie per divergenze culturali e stilistiche tra i componenti in quanto gli artisti più giovani spingevano verso un’interpretazione astratto-concreta della realtà, mentre i membri più anziani insistevano sul linguaggio della tradizione e sulle tematiche a sfondo sociale.
Rimane però il segno di un’esperienza artistica unica, in Molise e forse in Italia, che ha lasciato i suoi frutti anche solo per aver smosso le acque di un ambiente culturale ancora poco aggiornato[5].

Tommaso EVANGELISTA




[1] Cfr. A. Picariello, Molise Mon Amour. Diario di un critico d’arte, Ferrazzano 2000.
[2] N. Barone, Gruppo Solare, Termoli 1999.
[3] N. Barone, op. cit., p. 8
[4] N. Barone, op. cit., p. 25
[5] Le immagini fotografiche sono state realizzate da Antonio Landolfi, Gino Giancristoforo e Salvatore Marinucci.

giovedì 9 dicembre 2010

La famiglia in vetrina




LA FAMIGLIA IN VETRINA 
Impressioni contemporanee sul concetto di unione 
A cura di Tommaso Evangelista

COMUNE DI PESCHE 

PRO LOCO DI PESCHE (Pro-Pesche)

Coordinatore sul territorio Valentina di Gabriele

Direttore artistico Antonio Tramontano

Curatore Tommaso Evangelista

Con al partecipazione della Galleria d’Arte Officina Solare, Termoli 

Progetto grafico Luca Pop Pontarelli 

Nell'ambito della XI edizione della mostra concorso “I Presepi nel Presepe” il paese di Pesche (IS) ospiterà la mostra La Famiglia in Vetrina, dall’11 dicembre 2010 al 6 gennaio 2011. L’inaugurazione è prevista per sabato 11 dicembre alle ore 17

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La mostra riflette sulla possibilità della raffigurazione del nucleo familiare nel XXI secolo, in contrapposizione e confronto con la classica iconografia religiosa del presepe. Si è chiesto agli artisti di analizzare queste tematiche, con i mezzi più disparati (pittura, fotografia, elaborazione grafica), per comprendere se l’arte contemporanea abbia i mezzi e la voglia per un’indagine sulla famiglia sempre più, oggi, depauperata dei suoi valori e collocata in false e ingannevoli vetrine (la televisione, i giornali, la pubblicità). La famiglia moderna, come noi ancora la percepiamo, si fonda su qualcosa di ben più forte del tradimento operato dalle dinamiche di modernizzazione sulla sua millenaria tradizione. Il senso, allora, sta altrove, fuori dalla politica e dal consumo. Abbiamo chiesto aiuto all’arte e non saprei dire se per trarne giovamento o per criticizzare il problema; fatto sta che le risposte date dagli artisti, mai comuni e scontate, sono da cogliere come spunti di riflessione e di ricerca. Con la formula dell’esporre le opere non in originale ma in riproduzioni, inoltre, si è voluta marcare maggiormente l’idea, evitando il disturbo della materia, per permettere che si cogliesse meglio la forma e il messaggio non fermandosi all’aspetto tecnico recuperabile, d’altra parte, nella fruizione dei presepi in concorso. La scelta di esporre all’esterno le riproduzioni, inoltre, è voluta essere il tentativo di creare una sorta di galleria all’aperto, permettendo che le opere interagiscano con l’ambiente circostante. 

I 36 artisti partecipanti: 

Alessandra Antinucci 
Nino Barone
Arturo Beltrante
Lino Cianchetta
Luciano Cristicini
Lucia Di Miceli
Ferdinando Fedele
Elena Maglione
Antonella Peluso
Alessandra Peri
S&M
Pop
Nazzareno Serricchio
Antonio Tramontano
Cristina Valerio
Walter Giancola
Michele Carafa
Sara Pellegrini
Rodolfo Papa
Giancarlo Cianchetta
Fabrizio Di Salvio
Donatella Di Lallo
Valeria Acciaro
Enza Acciaro
Stefano Pavone
Roberto Melfi
Salvatore Costa
Adolfo Pretorino
Alessandro Marinelli
Valentino Robbio
Benvenuto Succi
Nicola Dusi Gobbetti
Alessio Martella
Dante Gentile Lorusso
Valentina Fortunato
Alberto Burgo 


martedì 5 ottobre 2010

Ebbrezze - XXIX edizione della mostra d'arte contemporanea - Macchia d'Isernia


In occasione della XXXVII della mostra mercato vino pentro, con il patrocinio del Comune di Macchia d’Isernia, Associazione Macchi Domani, Pro-Loco Macchia d’Isernia, Melfi Solare, dal 9 al 10 ottobre 2010 la palestra comunale ospiterà la mostra EBBREZZE, curata da Tommaso Evangelista (l'evento su facebook). Esporranno gli artisti:

>> Enza Acciaro
>> Valeria Acciaro
>> Alessandra Antinucci
>> Michelino Altieri
>> Nino Barone
>> Arturo Beltrante
>> Michele Carafa
>> Cleofino Casolino
>> Lino Cianchetta
>> Salvatore Costa
>> Luciano Cristicini
>> Marcello Di Donato
>> Lucia Di Miceli
>> Fabrizio Di Salvio
>> Ferdinando Fedele
>> Walter Giancola
>> Dante Gentile Lorusso
>> Nicola Macolino
>> Antonio Marcovicchio
>> Elena Maglione
>> Antonio Pallotta
>> Sara Pellegrini
>> Antonella Peluso
>> Alessandra Peri
>> Michele Peri
>> Luca Pop Pontarelli
>> Adolfo Pretorino
>> Nazzareno Serricchio
>> Danilo Susi
>> Antonio Tramontano
>> Cristina Valerio
>> Lucio Valletta

Ebbrezze d’arte 


L’arte e il vino da sempre hanno costituito un binomio fecondo nella storia della cultura. Le civiltà del Mediterraneo, quella greca prima e romana poi, si possono giustamente definire civiltà del vino in quanto culle della tecnica della viticoltura; la bevanda, inoltre, è stata sempre carica di implicazioni religiose e culturali che, sin dalle epoche più remote, hanno portarono a una vastissima serie di raffigurazioni che raccontano di divinità, riti e feste. La mitologia ascrive a Dioniso (Libero o Bacco per i romani) la scoperta del vino mentre il suo culto, proveniente forse dalla Tracia, si afferma nell’Attica tra il VI e IV secolo a.C.; cambierà, col tempo, anche l’aspetto della stessa divinità, prima efebica e glabra, successivamente virile e barbuta in quanto connessa al culto rustico del dio, la cui presenza era evocata durante i baccanali. Nella vita quotidiana, invece, il vino è stato protagonista nei precisi rituali che scandivano le diverse fasi del banchetto –dal syndeipnon al sympoton al symposion- in quanto nel bere, rituale ma equilibrato, l’uomo di spirito esercitava la volontà alla moderazione. Se dall’ambiente classico passiamo alle Sacre Scritture notiamo come la vite abbia avuto, fra tutte le piante, un posto privilegiato mentre il vino è stato l’espressione tangibile della Divina Provvidenza; dall’Antico Testamento desumiamo inoltre come sia da ascrivere a Noè l’invenzione della viticoltura. Il patriarca, cessato il Diluvio universale, aveva piantato una vigna e, scopertone il prodotto, ne aveva bevuto tanto da ubriacarsi e giacere a terra nudo; per questo motivo era stato deriso dal figlio Cam ma coperto dagli altri figli Sem e Iafet; risvegliatosi Noè aveva maledetto Cam e la sua stirpe. Gli episodi veterotestamentali che riguardo il vino sono molteplici, dall’incontro fra Abramo e Melchisedec all’incesto delle figlie di Lot, ma è nel Nuovo Testamento che questo prodotto assume connotati completamente diversi, caricandosi di simbolismo mistico quando, durante l’Ultima Cena, il calice benedetto diventa vero sangue di Cristo, versato in remissione dei peccati, bevanda di salvezza e immagine della nuova alleanza. La storia dell’arte è piena di opere riguardanti il vino e le storie ad esso connesse, basti pensare alle molteplici raffigurazioni dell’Ultima Cena, alle raffigurazione dei miti legati a Bacco (es. Gli andrii di Tiziano) per arrivare sino alle rappresentazioni allegoriche. Nelle raffigurazioni medioevali l’uva e gli strumenti vinicoli appartengono all’Autunno, nelle nature morte dal ‘600 in poi il bicchiere di vino può rimandare all’Eucarestia, nelle scene di genere rinviare al senso del gusto, alle pericolosità del vizio e della lussuria o all’Ars amatoria (in quanto Orazio sosteneva che il vino fosse un prezioso aiuto per risolvere le situazioni nelle quali i sentimenti non fossero ancora dichiarati); il vino entra di buon diritto anche nella rappresentazione della Temperanza (diluire il vino con acqua equivale a stemperare le passioni) e della Fede (col calice liturgico). 

Conseguenza del vino, naturalmente, è l’ebbrezza, la perdita di lucidità che porta ad “uscire da se stessi”; questo stato mistico, corredato da danze sfrenate ed estatiche, fu inteso dai Greci come la possessione del dio, Dioniso. Dopo i baccanali romani, feste orgiastiche propiziatorie, sarà il codice etico del Medioevo a considerare l’ebbrezza all’origine di non pochi fra i vizi capitali, dalla lussuria all’ira alla gola, anche se già Sant’Ambrogio, nella sua opera esegetica De Noe, argomentava sulla differenza tra la cattiva e la buona ebbrezza. Se l’ubriachezza appanna la coscienza, l’ebbrezza (la sobria ebrietas) dello spirito fa aprire gli occhi alla contemplazione del Vero. Il Rinascimento riscopre la vitalità delle divinità pagane (compreso Dioniso), con i loro risvolti allegorici e morali, e anche storie bibliche assumono sfumature diverse: ecco come l’esegeta Sante Pagani, nel ‘500, vede nel denudarsi di Noè nell’ebbrezza la liberazione dell’anima dal corpo per giungere all’unione col divino. I tempi moderni hanno scoperto nuove vie, sempre più “sintetiche”, per l’ebbrezza; per quello che interessa a noi, invece, rimane la lezione di Nietzsche che ne La volontà di potenza afferma come l’arte sia il “grande stimolante della vita” e come il principio cardine di ogni fare e contemplare estetico sia l’ebbrezza, che diventa lo stato estetico fondamentale: “Perché vi sia arte, perché vi sia un qualche contemplare o agire estetico, a tal fine è indispensabile un presupposto fisiologico: l’ebbrezza. L’ebbrezza deve anzitutto aver potenziato l’eccitabilità dell’intera macchina: prima di ciò non si giunge a nessun arte”. Il passaggio dalla fisiologia dell’arte alla volontà di potenza, però, sarà breve, come il passaggio dall”altro da sé” all”oltre da sé”, con tutte le nefaste conseguenze connesse; ci è piaciuto però concludere questa breve e densa digressione rinvenendo nell’ebbrezza una condizione propizia per l’arte e nel vino un ricco e variegato elemento ispiratore. 

Prima della conclusione, però, volevo soffermarmi un attimo sull’allestimento. L’idea di esporre al posto delle opere dei grandi manifesti è nata dalla constatazione della grandezza dello spazio della palestra, grandezza che avrebbe portato ad una dispersione e svilimento dei lavori (in particolare i più piccoli). L’aver riprodotto le opere (sculture, tele, fotografie, performance) su grandi supporti ha consentito, invece, di conferire importanza, per una volta, all’immagine, relegando in secondo piano l’aspetto materiale. Se da una parte questa operazione comporta la perdita dell’aspetto tecnico dei manufatti, non più valutabile e verificabile pienamente, dall’altro privilegia l’imago, ovvero l’idea dell’artista. Il fruitore, spesse volte attratto più dalla consistenza (preziosità, maestria, pregevolezza) che dal messaggio dell’opera, in questo caso si troverà di fronte unicamente a forme e colori sovradimensionati. Questa operazione, di certo criticabile e rea di molte limitazioni, è voluta essere una sorta di sperimentazione sul concetto classico di mostra, una grande installazione a sua volta artistica. Non ce ne voglia il pubblico.

sabato 26 giugno 2010

La poetica e lo sguardo. Sara Pellegrini e Giuseppe Zupa



Luogo: Officina Solare Gallery Via Marconi, 2 Termoli
Data: 26 giugno / 8 luglio 2010
Orario di apertura: 19.30 /21.30  tutti i giorni compreso festivi
Organizzazione: Nino Barone
A cura di: Tommaso Evangelista
Inaugurazione: sabato 26 giugno 2010, ore 19.00
Info: 329.4217383


 Lo spazio, nell’assenza di una narrazione, può diventare segno sulla tela; questa, percorsa da epopee materiche e minimali, evoca sensazioni che si frantumano sulla soglia della comprensione. Si può pensare di cogliere un orizzonte, il greto arso di un fiume, una successione di colline, le porte d’acciaio d’una fortezza inespugnabile ma non si sta che contemplando la materia in tutte le sue epifanie. Con le opere di Sara Pellegrini siamo sul confine della Storia, nella purezza del dettato astratto e informale, e, parafrasando un testo di Giovanni Pozzi, sull’orlo di un’invisibile parlare poiché l’artista comunica attraverso un silenzioso gioco di tracce. Questi lavori, lontani dalla tragicità e dall’inquietudine di Burri, non accolgono tensioni e contrasti di forze ne tantomeno riordinano impulsi psichici che vengono dal profondo, bensì pervasi da una pacata monumentalità si giovano di un lento accumulo di segni, come se ogni impronta, ogni tacca, ogni brano di terra o di colore fosse il risultato di una diversa era geologica. Il tempo stempera le tensioni e questo senso di serenità dato dal segno puro e dalla materia inerme priva le tele di qualsivoglia drammaticità e ci restituisce una superficie estremamente poetica, da contemplare e non da percepire come forza contraria. In questo caso il critico, o il semplice osservatore, diventa un paleografo alla scoperta di segni di una lontanissima rottura o di orme che rivelino una scrittura dimenticata ancora da tradurre. Dalla materia che avvolge tutta la superficie della tela emergono tracce naturali (le crettature delle terre) o tracce realizzate dall’uomo (incisioni, solchi, tessiture di mosaici immaginari), segni archetipici legati ad una sacralità dispersa. Affiorano parimenti elementi cruciformi tra le vene delle terre, rivelazioni o dimenticanze, impronte liturgiche che il fare artistico propone come tracce sedimentate. La tela diventa un palinsesto materico sul quale noi percepiamo solo lontanamente lo stridio di dissonanze e tensioni; ogni traccia di violenza del gesto, infatti, è annullata da una liricità tutta personale che fa si che emerga un mondo pacificato, forse in lenta decadenza. Dove in Burri si assiste alla degradazione della pittura in materia, a oscura e confusa testimonianza organica, Pellegrini cerca la strada dell’incanto, trasfigurando la materia in poesia. E il tempo? Nell’opera che potrebbe rimandare ai celebri tagli di Fontana, infatti, si rinviene una concezione diversa. Fontana con i suoi tagli ci voleva trasmettere l’idea di una dimensione altra dietro la tela, rompendo l’illusione del supporto; in questo caso, invece, i due tagli sono solchi profondi incisi nella materia che, semmai, rimandano ad un tempo immobile e immutabile. Spostandoci sulle foto, invece, Giuseppe Zupa, abile nella resa dei particolari, ci aiuta a penetrare nelle opere mostrandoci i segni, i grumi, il trattamento della materia e del colore. Accostandoci ai lavori ci nasconde i confini fisici della cornice; questa visione ravvicinata ci aiuta a riflettere sul mezzo e sulla tecnica oppure a vagheggiare su improbabili e fantastici paesaggi, immagini di un mondo dismesso (poiché la mente cerca sempre la forma nell’informe). Le foto aiutano a focalizzarci sui particolari e al tempo stesso ci mostrano una realtà diversa; duplicando una parte dell’opera ne ruba un pizzico di autenticità. Assistiamo in questo modo ad un intelligente gioco di rimandi: abbiamo le opere dal vero e dettagli fotografati, nelle foto osserviamo ciò che potremmo vedere da vicino mentre sulle opere siamo alla ricerca del particolare fotografato. Dov’è allora il reale? Nelle foto che ci svelano il particolare o nelle tele che ci mostrano l’universale? E l’immagine fa parte della stessa opera o è qualcosa di diverso? Tornando al suggestivo e impegnativo titolo della mostra, la poetica è quella dell’artista che lavora col segno e con la materia, a volte con la gestualità della pennellata, altre con un rigoroso ordine estetico; lo sguardo, analitico e indagatore, è quello del fotografo che ragiona sull’immagine e riflette sul dettaglio. Riuscito connubio di due anime alla ricerca.






venerdì 11 giugno 2010

Performance O-Dio



Interessante riflessione su cosa sia l'odio; naturalmente non ci sono risposte ma solo la trasfigurazione del sentire delle singole persone in arte. Ognuno può inserire ciò che odia di più nella vita e partecipare a questa performance collettiva poichè l'opera prenderà forma attraverso un'investigazione che gli artisti condurranno intorno a ciò che la parola odio evoca in un individuo. Il tema è proposta dalla "Noc z performance" e partecipano, su invito, artisti provenienti da tutta Europa.Tra gli artisti italiani invitati, il duo Nicola Macolino - Azzurra De Gregorio.

PROGETTO/PERFORMANCE:
O - DIO

Odiare è semplice. Nel nascosto del proprio inconscio, il sentimento vive, come un batterio indisturbato, si nutre divorando pezzo a pezzo, in silenzio e nel buio. Per questo odiare è semplice, ma molto più difficile è capire cosa si odia sul serio. Si odia quella persona o la nostra inadeguatezza nei suoi confronti? Si odia quel determinato sentimento o la nostra paura di viverlo?
Sta di fatto che se si riesce a comprendere per un solo attimo ciò che si odia veramente, se si riesce ad esplicitarlo, in quel preciso istante l'odio cambia.
La parola il pensiero uscito dalla stanza buia del nostro inconscio acquisisce un anelito di luce e già cambia natura intraprendendo il suo dissolvimento.
Il progetto/performance che gli artisti propongono, segue questo percorso psicologico, ma anche antropologico, che idealmente la mostra stessa incomincia, l'odio quando è esplicitato è già sulla strada della propria illuminazione, e quindi della propria fine.
L'opera infatti, prenderà forma attraverso un'investigazione che gli artisti condurranno intorno a ciò che la parola odio evoca in un individuo. Verranno interrogate quindi (attraverso vari mezzi: social networks, posta elettronica, interviste dirette, fogli di carta etc.) diverse persone, un numero non definito. A tutti verrà rivolta una domanda semplice, e a bruciapelo, "Cosa Odi?" L'importante è che rimanga una traccia tangibile delle opinioni di ciascun "partecipante".
La stessa cosa proseguirà nei giorni di permanenza in Polonia fino alla fase finale del progetto, nella Galleria d'Arte.
Qui tutti i concetti raccolti rivivranno esteticamente (attraverso l'uso di luci e proiezioni) negli spazi della Galleria incrociandosi e intrecciandosi tra di loro, creando nuove frasi, nuovi significati.
L'attore li raccoglierà, si farà carico sciamanicamente del messaggio e lo condurrà in alto. Col fuoco, con l'aria. (Tutto il materiale raccolto e storicizzato artisticamente in Galleria, volerà con un enorme pallone nel cielo)
L'odio viene accompagnato dal basso all'alto. Dal terrigno all'etereo, dal buio all'atmosfera. E questo rito psicomagico interpreterà l'essenza stessa dell'odio: un sentimento che vive nell'essere recondito, che nella sua pesantezza si lega alla terra (e spesso alle cose terrene) ma che ha la potenza di poter bruciare, infiammarsi, quindi volare, quindi creare. Come diceva Karl Kraus : "L'odio deve rendere produttivi. Altrimenti è più intelligente amare."Il tutto con la consapevolezza della esistenza di una complementarietà degli opposti, della compresenza di due principi che mai possono essere considerati definitivi, ma sono sempre in continua trasformazione. Il progetto è una sorta di work in progress che ricaverà la sua forza dalla relazione diretta ed immediata con il pubblico che parteciperà all'evento, sarà inoltre un atto performativo creato grazie all'energia degli artisti e a quella dei fruitori della loro opera. (Fonte).

Si può scrivere ciò che più si odia su questo link: http://www.nicolamacolino.org/messaggi/index.asp

giovedì 10 giugno 2010

Cleofino Casolino - Tra Provele e Talaragne...


I lari di Cleofino. 

Il titolo della mostra di Cleofino Casolino, Tra polvere e ragnatele, rimanda con vividezza all’idea di un viaggio tra i ricordi di un passato divenuto luogo d’elezione d’una sacralità tutta personale. Impressioni momentanee fermate nella terracotta e oggetti comuni (telai, ruote, un pezzo di muro spatolato) dialogano con curiosa e semplice armonia in quello che si può definire quasi un flusso di coscienza reso visibile e tangibile. La nostalgia di minimali momenti d’esistenza, di certo più innocenti della nostra condizione presente, viene suggerita da un percorso emozionale, ludico ed antiquario allo stesso tempo, dove le sculture sono solo la parte d’un discorso interiore ben più profondo. Quali sono le vere opere d’arte? Ogni elemento è la tessera di un cammino nella memoria dove la rappresentazione delle cose assume contorni vaghi e gli oggetti diventano enti carichi di suggestioni. Ogni elemento è un manufatto dell’uomo, che vi sia o meno intenzionalità estetica, e deve essere valutato innanzitutto come esperienza; ed è proprio all’esperienza personale dell’artista che dobbiamo guardare per decifrare il rebus che l’installazione ci presenta. Come illustra Dewey nel suo fondamentale testo Art as Experience “Attraverso l'arte significati di oggetti che altrimenti sono muti, indeterminati, ristretti e contrastanti, si chiariscono e si concentrano; e non mediante un laborioso affaccendarsi del pensiero intorno ad essi, non mediante il rifugio in un mondo di mera sensazione, ma attraverso la creazione di una nuova esperienza”. Un altro passo ci aiuta a comprendere l’importanza di questi oggetti del vissuto: “quando la struttura dell’oggetto è tale da far sì che la sua forza in teragisca felicemente (ma non con semplicità) con le energie che si sprigionano dall’esperienza stessa; quando le loro reciproche affinità e i muti antagonismi operano insieme per determinare una sostanza che si sviluppa progressivamente e costantemente (ma non in maniera troppo rigida) verso la soddisfazione di impulsi e tensioni, solo allora c’è un’opera d’arte”. 

E poi ci sono le sculture. Probabilmente, decifrando le intenzioni dell’artista, non andrebbero analizzate singolarmente, al di fuori di quest’unica e vitale installazione, parimenti però riescono a comunicare anche singolarmente. Se gli oggetti comuni rimandano al tempo, queste si giovano dello spazio che occupano e della materia trasformata in figura. Sarebbe riduttivo vedere nel loro stile tracce di un realismo magico o, per inverso, di un primitivismo concreto. Certo, colpisce trovare nell’Attesa la nobile ieraticità del celebre busto di Eleonora d’Aragona di Palazzo Abatellis o rinvenire nell’Austerità le movenze, ormai infrante, della Nike di Samotracia o ancora scorgere nei visi la dolce severità di Uta di Naumburg e, in generale, della statuaria tardo gotica. Sarebbe interessante un paragone con il trattamento impressionistico della materia di Medardo Rosso o con la linea pura e primitiva di Modigliani, però ogni tentativo di classificare queste figure sarebbe un’inutile tassonomia che non porterebbe al cuore dell’esperienza artistica e personale di Cleofino. Ritengo che queste sculture debbano essere intese semplicemente come oggetti, frammenti di un discorso che parte da lontano, nei meandri dei ricordi, e che, solo per un “accidente” del destino, assume forme che noi riconosciamo come artistiche; sono figure “che accadono” e che proprio nella spontaneità custodiscono la loro forza. Le sagome, a volte armoniche a volte incredibilmente in tensione ma sempre pervase da un’inconscia sostenutezza formale, sono sopravvivenze, archetipi immersi nel sacro. Nel periodo analizzato da Belting ne Il culto delle immagini, le icone non erano considerate "arte" ma oggetti di venerazione che recavano in sé una tangibile presenza del sacro; parimenti i Lari, le statuette di legno, cera o terracotta che nella società romana raffiguravano gli spiriti protettori degli antenati defunti, raramente presentavano spiccate qualità estetiche a fronte di una consistente valenza affettiva e devozionale. In quanto effigi di ricordi, allora, perché non considerare le sculture di Casolino come lari moderni? Del resto quando le memorie diventano segno, quando gli spiriti –interiori- diventano immagine e l’esperienza modella la materia è sempre l’arte a parlarci.
Il servizio televisivo sulla mostra di TeleMolise. La galleria fotografica.


L'inserzione sul numero di giugno della celebre rivista d'arte Juliette. Dentro/Fuori dal Segno, a cura di Tommaso Evangelista.

mercoledì 28 aprile 2010

Charles Moulin

Charles Moulin (Lille, 6 gennaio 1869 – Isernia, 21 marzo 1960).

Charles Moulin venne per la prima volta in Italia nel 1896 con la borsa di studio dell’Accademia di Francia, il famoso “Prix de Rome”, il più ambito riconoscimento per un artista dell’epoca che dava diritto ad un soggiorno gratuito nell’Urbe presso la sede dell’accademia, Villa Medici, per perfezionare gli studi pittorici. Vi aveva partecipato col suo amico Henri Matisse ma quest’ultimo, poco accademico, non aveva ricevuto neanche una menzione. Moulin si trasferì a Roma l’anno successivo e rimase catturato dalla luce e dal sole mediterraneo, ossessionato dalla possibilità di tradurre la luce in pastello. Nel 1901 tornò a Parigi e qui dipinse Orfeo ed Euridice. Conobbe una ragazza di nome Emilia e se ne innamorò, ma non la poté sposare perché già promessa a un ricco signore. Nel 1904 il pittore tornò in Italia e si fermò per alcuni mesi ad Anticoli Corrado, il paese delle modelle, nei pressi di Roma. In seguito giunse a Castelnuovo al Volturno, nel 1911 con l’intenzione di rimanerci solo alcuni giorni, per far visita ad uno zampognaro, tal Vincenzo Tommasone, che a Parigi era stato suo modello e che, durante le sedute di posa, soleva raccontare con toni poetici le bellezze dei suoi monti d’origine.
L’artista rimase così incantato dai paesaggi del luogo che decise di stabilirsi nel piccolo paese molisano per il resto della sua vita, rapito dal paesaggio e dalla natura prorompente dei monti e dei boschi delle Mainarde. Si allontanò dal paese solamente per brevi periodi: durante la prima guerra mondiale e in occasione di esposizioni a New York e alla Mostra del Salone di Parigi. Visse da eremita in una capanna sul Monte Marrone detestando il denaro (rifiutò persino un assegno vitalizio accordatogli dall’Accademia di Francia) e regalava i suoi pastelli ai pastori e ai contadini in cambio di una minestra o di una fascina di legna da ardere. Condusse un’esistenza libera, a contatto con la natura primitiva che egli cercò di comprendere e interpretare in ogni espressione. Affermava che “per fare il bello occorre vederlo” ma che per vederlo occorre conoscerlo (diceva ancora “Vorrei rendere il pensiero attraverso la natura, esprimermi secondo quanto mi detta, dentro lo scenario meraviglioso che mi circonda e nel quale io trovo la pace dello spirito”).
Viveva di decotti (corteccia d’alberi, foglie, erbe) che cucinava nella capanna che aveva costruito con le sue mani e che fungeva anche da suo studio. Solo rare volte scendeva in paese per un piatto caldo e in cambio donava i suoi quadri. Era gioviale e spiritoso e dalla vita estremamente frugale, per non dire eremitica: nella sua capanna possedeva poche cose tra cui una bambola di pezza che egli presentava come “la sua signora”. La gente del posto conserva di lui un’immagine leggendaria che lo vuole intento ad impastare erbe per procurarsi i colori o in atteggiamenti di familiarità con gli orsi. Nella bocca di chi lo ha conosciuto, Moulin (o meglio Mussiè Mulà, come soleva chiamarlo la gente del posto) era un mago che abitava tra i monti, parlava con gli orsi, realizzava pozioni miracolose e viveva con un serpente.
Non seguì per la forma alcuna corrente artistica, né per il contenuto sposò correnti di pensiero ma tradusse in pittura quello che in piena libertà vedeva e sentiva: l’arte, per lui, era la traduzione, con forme materiali, dell’immateriale, “il suo scopo è di commuovere e di incantare”. “Un neoclassico, un romantico, un purista, un impressionista? Né l’una né le altre di queste cose o tutte insieme, forse. Una creatura solare, certamente, che nella luce del meraviglioso paesaggio molisano trovò motivi sublimi per la sua vita e per la sua arte” (Sabino d’Acunto).
Alcuni dei suoi lavori sono oggi conservati nei musei di Versailles e di Lille ma la maggior parte appartengono a collezioni private; a Rocchetta a Volturno se ne possono ammirare diversi tra cui gli splendidi paesaggi presentati in questa sede e raffiguranti Castelnuovo bombardata dagli americani nel 1944. Ci piace immaginare che le vite di questi due singolari personaggi, Charles e Giaime, si siano incontrate tra i sentieri di Monte Marrone; in questo senso abbiamo riservato il giusto spazio a questi tre significativi dipinti.

Il rifugio su monte Marrone


Castelnuovo dopo il bombardamento conservata presso il comune di Rocchetta


giovedì 21 gennaio 2010

Graffi, Vetro e Quotidianità

Paolo 1 Sebastiano 2

"Graffi, Vetro e Quotidianità"

Mostra d'Arte Contemporanea di due artisti giovanissimi

Sebastiano Bucci e Paolo Soriano

Luogo: Archetyp'Art Gallery Via Marconi, 2 Termoli

Data: 16 /28 gennaio 2010

Orario di apertura: 19.00 /20.30 tutti i giorni compreso festivi

A cura di: Tommaso Evangelista

Organizzazione: Nino Barone

Inaugurazione: sabato 16 gennaio 2010, ore 19.00

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