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domenica 1 giugno 2014

Lo storico dell'arte per Claudio Strinati


Lo storico dell'arte non è un dilettante, un parassita della società, un esteta, ma è un professionista dotato di competenze specifiche che nulla ha a che fare con la figura del critico più o meno dannunziano o simili (figura peraltro assai rispettabile e interessante) e che molto ha a che fare con la funzione del ricercatore, nel senso più normale e noto del termine.
I ricercatori, di qualsivoglia disciplina, sono scienziati che lavorano per disinteressato amore verso il sapere e come tali forniscono alla società ai suoi diversi livelli cognizioni sovente utili se non indispensabili per la produzione, il lavoro, la convivenza civile, il corretto esercizio dell'attività politica, il progresso della cultura, del benessere generale e della dignità e attendibilità della nazione. Non sono sciocchezze e ognuno può verificare se quel che dico è un' idiozia o è vero. Fermo restando che, filosoficamente parlando, la verità non esiste e non esiste neanche la realtà (nondimeno una vivace discussione filosofica sul concetto dell'esistere mette facilmente in dubbio tale assioma apparente), possiamo provare a suggerire che avesse ragione Parmenide quando disse che l' essere è.
Visto che almeno questo può essere detto se non altro dal punto di vista grammaticale (e la grammatica come ben sapevano gli uomini del medioevo e i linguisti strutturali è una scienza molto fondata) deduciamo che lo storico dell'arte è legittimato alla qualifica di ricercatore. Egli, infatti, può compiere quale diligente adepto almeno della grammatica (vedremo in seguito il perchè di tale affermazione) esperimenti e validarne il risultato in un ambito di pensiero in cui quel che conta non è l'attingimento di una verità presunta, che sempre potrà e dovrà essere messa in discussione. Gli esperimenti che compie, invece, sono inerenti ai meccanismi della conoscenza in sé e per sé e all'attivazione conseguente di comportamenti volti a incrementare lavoro e interessi concreti scaturenti per l'appunto dal corretto esame di specifici meccanismi della conoscenza, comuni ovviamente a tutti ma degni di essere studiati e compresi attraverso precipui esperimenti dettati proprio dalla disciplina storico-artistica, pena la più totale incomprensione di una cospicua gamma di fenomeni che ci circondano e da cui nessuno può prescindere.
Non saranno reali questi fenomeni ma tutti li percepiscono. E' opportuno occuparsene in sede scientifica. Ho esemplificato questi complessi concetti con due esempi, più volte proposti alla altrui valutazione con dedica ideale a Achille Campanile. Quindi ve li propongo. Sono, per ora, due brevi episodi emblematici inerenti all'attività primaria e fondamentale dello storico dell' arte: si tratta dell'attitudine al riconoscimento, una scienza cioè, che permea tutta la nostra vita. E' la capacità non tanto di conoscere, su cui già indagarono Aristotele, Kant, la Gestalttheorie, la Fenomenologia, il Cognitivismo, ma la capacità di riconoscere le cose che ci circondano, le persone, la storia e le forme della civilizzazione. Scusate se è poco. Lo storico dell' arte lavora con particolare cura in questo ambito, certo non da solo ma insieme con altri storici esperti di discipline collaterali".
Claudio Strinati

mercoledì 22 gennaio 2014

Morte dell'arte come morte di una nazione - Fallito anche l’ultimo tentativo di reintrodurre le discipline storico-artistiche

Roma. Speranze deluse e nessuna resurrezione per la Storia dell’arte nelle scuole, uccisa dall’ex ministro Maria Stella Gelmini con la sua legge di riforma del sistema scolastico (nn. 133 e 169/2008) che ne ha cancellato o drasticamente ridotto l’insegnamento. Dagli anni 2009 e 2010, oltre all’abolizione degli Istituti d’arte, la riforma Gelmini ha imposto la riduzione delle discipline artistiche nei «nuovi» Licei artistici, la cancellazione di «Storia dell’arte» dai bienni dei Licei classici e linguistici, dagli indirizzi Turismo e Grafica degli Istituti tecnici e dei professionali; zero ore per i geometri; cancellazione di «Disegno e Storia dell’arte» dai bienni dei Licei scienze umane e linguistici; cancellazione di «Disegno e Storia dell’arte» dal «nuovo» Liceo sportivo; eliminazione del «Disegno» nei trienni di questi ultimi «ambiti formativi» (cfr. n. 321, giu. ’12, p. 10). Non è scomparsa soltanto la conoscenza di Giotto, Leonardo, Michelangelo, si stanno perdendo i saperi del grande artigianato, proprio quelle arti applicate come il design, la moda, la grafica, da sempre gloria della nostra eccellenza creativa e base del nostro export. Un documento di ISAlife, l’associazione degli ex Istituti d’arte aboliti, ricorda che «proprio in quelle scuole professionali si sono formati gli artigiani che hanno creato e tengono in vita la tradizione del made in Italy nel mondo».
Negli ultimi due anni si sono moltiplicati i tentativi di far rinascere la disciplina e tutto il sapere perduto. Appelli incessanti tra 2012 e 2013 non sono serviti.
La recente raccolta di 15mila firme sostenuta dallo stesso ministro dei Beni culturali Massimo Bray (tra i primi firmatari Adriano La Regina, Antonio Natali, Salvatore Settis, Claudio Strinati, Fai, Italia Nostra, Cesare De Seta, Associazione insegnanti di Storia dell’arte) sembrava poter avere successo: il 31 ottobre 2013 era finalmente arrivato in Commissione Cultura Scienze e Istruzione della Camera l’emendamento «C 1574-A» presentato da Celeste Costantino, deputata di Sel, per il «Ripristino della Storia dell’arte nella Scuola secondaria». Il sì sembrava scontato ma alla fine l’emendamento «non ha trovato ascolto», bocciato perché, dice la motivazione della maggioranza della Commissione, reintrodurre la materia «significherebbe aumentare una spesa che è stata tagliata perché il Paese non è in grado di sostenerla». Uno schiaffo proprio mentre il Governo sembra impegnato nella difesa della cultura e del suo valore, etico ed economico. In Commissione alla Camera, Celeste Costantino lo aveva presentato così: «Cancellare la formazione artistica è l’ennesimo paradosso di una politica che negli ultimi venti anni ha colpito a morte beni culturali, paesaggi e patrimoni culturali unici al mondo. Aver cancellato la Storia dell’arte per i giovani studenti significa ridurre il loro senso critico, la conoscenza, il sapere, fino a costringerli a dimenticare la grandezza del nostro patrimonio storico artistico». La scuola italiana di Storia dell’arte era da sempre un modello in Europa, introdotta dalla riforma Gentile del 1923. Oggi i dati Ocse descrivono la nostra scuola «ignorante», precipitata agli ultimi posti, vicina al Montenegro e alla Tunisia. Questo mentre altri Paesi, come Francia, Austria e Portogallo, si ispirano alle discipline della Storia dell’arte e del Disegno secondo le linee pre riforma Gelmini, e la introducono anche nelle classi elementari. Perché, scriveva lo storico Andrè Chastel, alla fine degli anni ’80, nei suoi inascoltati appelli al Governo francese (recepiti poi da Sarkozy nel 2008, che ha reso obbligatorio l’insegnamento dell’arte anche alle elementari): «Il fronte più importante nella battaglia per la salvezza del patrimonio storico e artistico europeo è quello che passa nella scuola, come fanno benissimo in Italia».
Per mantenere viva la richiesta di una rinascita, da poco è nata una nuova associazione, Artem Docere (Associazione nazionale Docenti Disegno e Storia dell’arte) che si batte assieme alle altre associazioni «storiche» come l’Anisa. «Non vengono più preparati gli insegnanti di domani, li stiamo cancellando insieme con la Storia dell’arte, dice Marinella Galletti, presidente di Artem Docere, che annuncia nuovi appelli e azioni. La battaglia culturale per la restituzione di Disegno e Storia dell’arte, ricomincia da adesso».
La riforma Gelmini è riuscita anche a dividere gli insegnanti: da una parte 2mila precari, storici dell’arte vincitori di concorsi espulsi insieme alle loro discipline, dall’altra quelli di ruolo: «Una operazione barbarica, la definisce Marinella Galletti, che produce ignoranza e che fa tacere i professori rimasti nella scuola, protetti dal posto sicuro. Fuori i dannati, dentro i “fortunati” che preparano classi di allievi e futuri insegnanti del nulla».
L’ultimo tentativo fallito, che per ora mette fine alle speranze di una rinascita della «Storia negata», è stato il 7 novembre 2013. Il Parlamento approva il decreto «L’Istruzione riparte» presentato, «con soddisfazione e orgoglio» dal ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza. Contiene tra l’altro, dice il comunicato del Miur, «borse per il trasporto studentesco, fondi per il wireless in aula e il comodato d’uso di libri e strumenti digitali per la didattica». Reintroduce anche una materia soppressa, la Geografia. Silenzio tombale sulla Storia dell’arte: petizioni, comunicati, elenchi interminabili di firme per la sua rivitalizzazione restano nei cassetti. Inapplicato l’art. 9 della Costituzione, tradito il pensiero di Roberto Longhi che si batteva per «quella Storia dell’arte che ogni italiano dovrebbe imparar da bambino come una lingua viva, se vuole avere coscienza intera della propria nazione». Si domanda Salvatore Settis: «A che cosa serve la Storia dell’arte? È semplice: come tutte le scienze (e in particolare quelle storiche) serve per capire. Serve per capire un mondo come il nostro inondato da immagini senza subirle passivamente, sapendone smontare e ricostruire i meccanismi di persuasione. Perché se rinunciamo a capire, faremo come i ciechi della parabola illustrata da Brueghel nel quadro conservato a Capodimonte: quando un cieco guida l’altro, tutti cadono nella fossa».

martedì 19 febbraio 2013

L'altra lingua degli italiani

Il programma di RaiEducational, in collaborazione con Fondazione Napoli Novantanove Onlus, è dedicato alla storia dell'arte e si propone di discutere il ruolo epistemologico ed euristico della disciplina attraverso otto lezioni magistrali di maestri come Salvatore Settis, Antonio Pinelli, Chiara Frugoni, Francesco Caglioti, Tomaso Montanari, Vittorio Gregotti, Michele Mariotti e Vincenzo De Vivo.



Un gran­dis­simo sto­rico dell’arte ita­liano, Ro­berto Lon­ghi, ha scritto che «ogni ita­liano do­vrebbe im­pa­rare da bam­bino la sto­ria dell’arte come lin­gua viva, se vuole aver co­no­scenza in­tera della pro­pria na­zione». Eb­bene, agli sto­rici dell’arte spetta pro­prio que­sto com­pito: far sì che ogni ita­liano, di ogni re­gione e li­vello so­ciale e cul­tu­rale, torni a sen­tire pro­prio il pa­tri­mo­nio ere­di­tato dai pa­dri. Se vo­gliamo che gli ita­liani tor­nino a eser­ci­tare dav­vero la loro piena so­vra­nità di cit­ta­dini, dob­biamo aiu­tarli a riap­pro­priarsi delle loro chiese, delle loro piazze, delle loro cam­pa­gne: di un Paese la cui uni­cità con­si­ste nelle den­sità di un pa­tri­mo­nio ar­ti­stico dif­fuso in di­stri­ca­bile dal pae­sag­gio ur­bano e na­tu­rale in cui è an­dato in­fi­ni­ta­mente stra­ti­fi­can­dosi in mil­lenni di sto­ria glo­riosa» (Il programma dei Martedi dell'Arte).

I Martedì dell’arte, 8 lezioni napoletane sono state organizzate dal Prof. Tomaso Montanari e dalla Fondazione Napoli Novantanove e si sono svolte a Napoli nei mesi di ottobre e novembre 2012 nel Teatrino di Corte di Palazzo Reale. Tra i relatori: Salvatore Settis, Antonio Pinelli, Chiara Frugoni, Francesco Caglioti, Vittorio Gregotti, Michele Mariotti e Vincenzo De Vivo, nonché lo stesso Tomaso Montanari, hanno incantato, con “L’altra lingua”, quella della storia dell’arte, il pubblico numeroso di studiosi, studenti, docenti, e semplici curiosi e appassionati accorsi ad ascoltare relatori provenienti da ogni parte del Paese (Corriere.it).

A questo ciclo di lezioni era associato un Concorso per le scuole per l’anno scolastico 2012-2013: «Il Concorso Nazionale L’altra lingua degli italiani, l’arte figurativa, il paesaggio e l’identità nazionale si rivolge a tutte le scuole primarie e secondarie di primo e secondo grado. Gli studenti e docenti partecipanti, sono invitati a svolgere un lavoro di ricerca di gruppo che illustri, con immagini, musica e un parlato, un monumento individuato (artistico o naturale: una chiesa, un palazzo, una piazza, una via, un tratto di costa o un ‘brano’ di campagna) particolarmente legato all’identità storica e civile della loro comunità, e dovranno comunicare (anche nell’accezione etimologica di ‘render comune’, cioè di far sentire come un bene comune) le ragioni e la forza della loro scelta» (Corriere del Mezzogiorno).

Le 8 lezioni su L’altra lingua degli italiani andranno in onda televisiva da sabato 16 febbraio a sabato 6 aprile su RAI SCUOLA canale 146 del digitale terrestre (Canale 806 di SKY e Canale 33 di TIVU'SAT e in diretta streaming on line su www​.scuola​.rai​.it). Ogni le­zione verrà re­pli­cata nella gior­nata de­di­cata in base ai se­guenti orari: 11:30/ 15:30/ 19:30/ 23:30.

Di se­guito il ca­len­da­rio della pro­gram­ma­zione televisiva:
  • Sal­va­tore Set­tis: Per­ché nac­que la sto­ria dell’arte (da Po­li­cleto a Va­sari)
    16 feb­braio 2013
  • An­to­nio Pi­nelli: Chiese e mo­schee, cro­ciati e pel­le­grini, mi­granti e mer­canti: la no­stra iden­tità me­tic­cia nel ‘mel­ting pot’ me­di­ter­ra­neo
    23 feb­braio 2013
  • Chiara Fru­goni: La prima rap­pre­sen­ta­zione del Buon Go­verno e la fon­da­zione dell’identità ar­ti­stica e spi­ri­tuale ita­liana
    2 marzo 2013
  • Fran­ce­sco Ca­glioti: ‘La Te­sta Ca­rafa’ e il mito del poeta Vir­gi­lio, mago e pro­tet­tore di Na­poli
    9 marzo 2013
  • To­maso Mon­ta­nari: Arte di Stato e li­bertà dell’artista: Las Me­ni­nas di Ve­la­z­quez
    16 marzo 2013
  • Vit­to­rio Gre­gotti: Lin­guag­gio e so­cietà ci­vile nell’architettura ita­liana dell’ultimo mezzo se­colo
    23 marzo 2013
  • Vin­cenzo De Vivo e Mi­chele Ma­riotti: La fun­zione ci­vile della mu­sica clas­sica e dei suoi luo­ghi. La Tra­viata
    30 marzo 2013
  • To­maso Mon­ta­nari: La glo­ria e la fama ita­liana. Arte fi­gu­ra­tiva e iden­tità na­zio­nale
    6 aprile 2013

 

sabato 16 febbraio 2013

Milo Manara - Il pittore e la modella

Probabilmente è tra i libri più belli disegnati da Milo Manara, quello che palesa il suo amore e la grande conoscenza della storia dell'arte e ci mostra l'arte come una lunga storia segnata da quest'intimo e segreto legame tra il pittore e la sua modella. Manara ci mostra il desiderio, l'aspetto gioioso e vitale della pittura, l'impulso naturale e l'aspetto perturbante nel nudo nei sogni personali dell'artista che interpreta e segna, amando e compomettendo la propria mano nella delineazione della figura. Da Prassitele all'arte pompeiana fino ad arrivare al Novecento una lunga carrellata di volti e di forme.

Il pittore e la modella (intervista Rai di Vincenzo Mollica)
Ecco come nasce Milo Manara e, soprattutto, la sua passione. Il ricordo della sua prima modella - ai tempi del liceo artistico - e la voglia di saperne di più della personalità e delle vicende che hanno visto protagoniste le muse ispiratrici dei pittori. Guarda il video

Milo Manara. “Il pittore e la modella” è un libro che si può considerare anche una sorta di storia dell’arte dalla parte delle modelle. Cioè, per la prima volta si racconta la storia di queste ragazze che hanno ispirato tanti pittori. Le racconti scrivendo la loro storia ma anche disegnandole.

Soprattutto disegnandole, ma voglio precisare che non ho mai tentato di scimmiottare gli stili dei maestri a cui sono riferite le modelle, ho sempre cercato di mettere le mie ‘ragazzine’ dentro questi contesti sacri cercando anche una specie, non di ironia, ma di umanizzazione di queste figure enormi; mettendo delle figurine tratte dai fumetti al posto delle classiche modelle, proprio per una specie di ringraziamento e anche di attualizzazione della figura della modella, delle ragazze normali a cui noi dobbiamo moltissimo, almeno altrettanto di quanto dobbiamo ai maestri che le hanno ritratte.

Qual è la ‘scintilla’? Qual è la modella che ha fatto partire tutto?

Credo la mia modella, la modella che ho avuto al liceo artistico: una cara ragazza – magrolina – Susi si chiamava. Rossa di capelli, rossa anche nel pelo pubico: così c’era questa fiamma rossa in questa figurina rosa, sempre appiccicata ad una stufa di mattoni, quindi di colore arancione. Bisogna raffigurarsi visivamente l’immagine in questi stanzoni grandi di questi palazzi vecchi dove c’erano le aule del liceo artistico, con soffitti altissimi grigi e questa figurina in mezzo. Poi io ero l’unico maschio in una classe tutta femminile, c’erano sedici ragazze. Quindi la situazione era abbastanza divertente, curiosa: io ero l’unico ragazzo con sedici compagne e questa ragazza nuda…

Mi sa che da lì sono nati molti fumetti dopo!

Mi sa che sono nato io, proprio, con tutti i miei fumetti dietro.

La storia di Frine è sempre quella che ti piace in assoluto di più.

La storia di Frine è paradigmatica per tanti versi. Questa ragazza – la modella di Prassitele – probabilmente una delle più belle ragazze che siano mai esistite se guardiamo a chi l’ha ritratta, era stata accusata di prostituzione e quindi era stata portata davanti all’areopago, al giudizio, e rischiava una grossa condanna, addirittura la pena capitale. L’avvocato ha pensato bene, anziché di difenderla tradizionalmente con arringhe, di non pronunciare neanche una parola ma di spogliare questa ragazza al cospetto dei giudici, anche di veneranda età. I giudici l’hanno assolta ed hanno così stabilito che la bellezza è una virtù in sé in grado di bilanciare le eventuali mancanze di altre virtù: cioè una ragazza bella è come se fosse onesta, l’onestà non è superiore alla bellezza. E’ una sentenza molto importante che vale ancora adesso, specialmente alla televisione quando noi vediamo le ‘vallette’ – non si sa bene come chiamarle perché non sono cantanti, non sono presentatrici, non ballano, non giocano a scacchi – semplicemente si presentano con la loro bellezza e con questo si riafferma che la bellezza è una virtù sufficiente per farsi apprezzare, e per farsi assolvere.

E di seguito una lunga carrellata di modelle e pittori; evito di segnare da quale opere derivano per lasciare ai lettori il gusto della scoperta.













Splendide tavole che mostrano l'amore per la storia dell'arte sono anche quelle tratte da I Borgia con testi di Jodorowsky; in basso vediamo gli appartamenti dipinti dal Pinturicchio in Vaticano.


Continua invece l'alacre lavoro di Milo Manara al progetto, curato dalla Panini Comics, di una graphic novel in due volumi sulla vita di Caravaggio, al secolo Michelangelo Merisi, genio ribelle del ‘500. Il primo volume avrà come focus la vita dell'artista, trasfigurato negli sguardi delle donne della sua vita. Le tavole, di una bellezza intensamente vivida, prendono il via aRoma, quando il pittore vi giunse lasciando Milano e si conclude con la sua condanna a morte. Il secondo racconta le oscure circostanze che portarono alla sua morte. L'originale sarò in bianco e nero inizialmente, seguito dalla colorazione in digitale. Non è l'unica novità: i dialoghi verranno aggiunti in un secondo momento, curati sempre da Manara. La distribuzione in Italia è prevista per il 2013. 


Su questo link, invece, un'esauriente carrellata di dipinti che mostrano gli artisti con le loro modelle:
http://catherinelarose.blogspot.com/2012/12/artist-and-model.html 

giovedì 11 ottobre 2012

I manuali di storia dell'arte e la banalizzazione del sapere

Sono un ormai anziano insegnante di Liceo, che da oltre venti anni cerca di fare il proprio dovere davanti agli studenti senza doversene troppo vergognare. Vi scrivo perché so che siete una brigata, forse anche allegra, di giovani studiosi di storia dell’arte, ben più aggiornati di me sulle trasformazioni in atto nella società, specie sotto il profilo culturale, e che dunque potrete forse chiarirmi il recente destino della nostra disciplina.

Da insegnante ogni anno devo fare i conti con una messe assai cospicua di libri di testo, che i rappresentanti di case editrici grandi e piccole, gloriose e sfrontate, ci rifilano in numero sempre maggiore affinché si possano adottare per i prossimi sei anni scolastici (la nostra disciplina è, pare, immobile come i monumenti di piazza, e dunque i testi si possono tenere invariati per così tanto tempo, perché che cosa mai volete che succeda di nuovo?).
Ultimamente poi la concorrenza si è fatta davvero fitta, al punto che tutti coloro che in casa avevano uno storico dell’arte si sono fatti scrivere un manuale, e il panorama che si presenta all'avventurato docente è davvero completo circa le offerte editoriali e per quello che in Italia ora s’intende per manualistica, dunque per la didattica della nostra disciplina.
Sfogliando i manuali, se ne ricava l’idea di una progressiva banalizzazione della materia. I contenuti sono sempre gli stessi, quelli assolutamente canonici, ma affrontati con una lingua piatta e talvolta scialba, con illustrazioni oramai bellissime ma che sembrano galleggiare nel vuoto. Ogni insegnante di una certa età, lo sappiamo, rimpiange fieramente il vecchio Argan, e la circostanza tiene qualcosa del patetico apprezzamento dei vestiti di organza e dei bicchierini di rosolio in salotti sul far della sera. Tuttavia, al netto della nostalgia dei tempi andati che come è noto sono sempre i migliori, il rimpianto ha qualcosa di autentico, perché quello fu un testo che aveva un forte impianto ideologico, dunque un punto di vista in qualche modo onnicomprensivo, ma capace di sfidare gli studenti, perché faceva dell’arte un vero e proprio problema culturale. L’arte come accadimento storico e linguistico, che necessitava di un’attenzione non casuale e di altrettanta pazienza.
Oggi invece i manuali divulgano un sapere talvolta sciatto, assolutamente anodino, dove i fatti storici si susseguono in una striscia temporale meccanica ed denemenziale… C’è un prima e un dopo, e quello giustifica sempre questo… Le schede a corredo dell’impianto centrale (sulle tecniche, sui termini di particolare pregnanza semantica etc), non offrono esiti per possibili diversioni, ma sono anch’esse l’approfondimento di un impianto storico visto come monolitico e inscalfibile… Come se, lo dico per gioco, la teleologia vasariana esistesse ancora: qui si comincia, e siamo agli inizi; qui si finisce e, ci credereste, quello che è avvenuto è un vero progresso!!
Pochissimo poi sopravvive dei pur ricchi accertamenti di certa storiografia – neppure recentissima – sui rapporti tra arti figurative e letteratura. Niente resta dei problematici e attualissimi rapporti tra arti figurative e potere politico (e dunque sulla funzione politica delle arti). Ancora meno sopravvive della convinzione che il fare storia sia esso stesso un racconto, dunque una particolare forma di letteratura che esprime un punto di vista. Che insomma il passato non sia una ‘cosa’ (in qualsiasi modo lo vogliamo chiamare) compatta e stereometrica, ma brulicante di contraddizioni e di tensioni. In un bel romanzo francese del 1885, si accennava al quadro di un artista che stava riscuotendo un successo straordinario: ma non era egli un impressionista, come ci saremmo aspettati, bensì un pittore accademico, di quelli noiosi e per niente d’avanguardia. Bisognerebbe ricordarselo. La storia raramente è rassicurante, e pur concedendo, come sosteneva quel signore, che possieda una propria razionalità, questa non è in genere identificabile con la facilità. Lo sanno i nostri manuali?
E’ una storiografia giocata al risparmio – quando va bene -, o consolatoria, quando va male. E siccome mi hanno insegnato che i mezzi vanno d’accordo con i fini, è forse un caso che questo accada ora, in un momento in cui è sempre più evidente come il crollo delle vecchie ideologie renda ridicola ogni pretesa volontà di dare un senso alla Storia?
Poi esiste un secondo aspetto. Negli ultimi anni i manuali sono sempre accompagnati da due sussidi didattici. Il quaderno degli esercizi per gli alunni; la guida per l’insegnante.
Vediamo il primo. Il tipo di esercizi proposti da tutte le case editrici è agghiacciante! Riducono la complessità della storia a pura nozione, la ricchezza dei cambiamenti storici a fastidioso orpello… Cosa ha fatto Donatello? Il David (quale poi non sappiamo!), la Centauromachia o Ilaria del Carretto? Chi era Renoir, un pittore impressionista (che poi ci sarebbe da discuterne), accademico (perché no? Anche!!!), o astratto? Ecco, rispondere con le crocette giuste a queste domande: per il ministero, gli ispettori e le case editrici, significa sapere la storia dell’arte!!!
Quanto poi alla guida per l’insegnante siamo al delirio autentico. Ci sono i vari argomenti e la foto delle opere più importanti. La guida ti dice quali sono le cose che bisogna sapere di quell’argomento e di quella foto, che cosa bisogna sentirsi dire dagli studenti, dunque il nucleo di conoscenze essenziali. Caravaggio? Era un pittore naturalista, ovvio … Un Crocifisso di Giunta Pisano? L’importanza del Cristo morto, il corpo piegato, il superamento dei moduli bizantini … Picasso? Che era cubista, che aveva riflettuto su Cézanne etc… L’idea che sta in fondo a questi suggerimenti è piuttosto semplice: rammentiamo agli insegnanti quello che loro non hanno più nessuna idea di poter o dover chiedere… Ignoranti? Addormentati? Frustrati? Chissà, ma forte è la tentazione di pensare che la risposta giusta sia la prima.
Ora, di fronte a una cosa del genere che bisogna fare? Attraverso la manualistica scolastica mi sembra che emerga una trasformazione potente della nostra disciplina e forse, più in generale, una modificazione pericolosa del fare storia e di divulgarne i contenuti. Un’arte senza la storia, e l’immagine ridotta a puro corredo, a illustrazione.
Anni fa a Firenze si tenne un convegno molto paludato sull’insegnamento della disciplina… Come ogni convegno accademico che si rispetti, vennero invitate a parlare molte di quelle persone che non avevano la più pallida idea della didattica scolastica, perché il nobiluomo deve tenere i cattivi odori a distanza. Che ne dite se cominciassimo a riparlarne?
La Storia, come diceva un bel signore qualche anno fa, è sempre storia contemporanea. A parer mio è evidente allora che la condizione dello studio della Storia dell’Arte non sia da intendersi come bega accademica, come ennesima e compiaciuta attività erudita, ma come occasione per riflettere un poco su questi anni avventurati, su come raccontarli e su come leggerli. E per sapere quando spengere la luce sul comodino.

Grazie,
Stefano Renzoni

Lettera pubblicata sul numero 30 (agosto 2012) dell su Predella, rivista di arti visive dell’Università di Pisa: http://predella.arte.unipi.it/index.php?option=com_content&view=article&id=241&catid=85&Itemid=112

lunedì 21 maggio 2012

Roma - Lezioni di storia dell'arte all'Auditorium

Roma. La storia dell’arte, organizzata dalla Fondazione Musica per Roma in collaborazione con Electa, è una rassegna di lezioni, giunta al secondo ciclo, che è stata inaugurata il 4 dicembre scorso dalla lezione del professor Claudio Strinati, sovrintendente speciale al Polo Museale Romano. In sei lezioni meraviglie e segreti della Città Eterna sono trattati presso la sala Sinopoli dell'Auditorium di Roma.

"A Roma le meraviglie dei luoghi svelano un universo di stili unico al mondo; passeggiare per le sue vie e le sue piazze è come sfogliare il più ricco manuale della storia dell'arte occidentale: archi e scalinate, colonne e obelischi, ville e giardini, palazzi e chiese, fontane e monumenti, riflessi della gloria di imperatori, principi e papi, testimoni del genio di artisti raccontano in filigrana storie e avventure di una Capitale. Sarebbe troppo pretendere così di imprigionare la città eterna in un unico ritratto, per esauriente e acuto che sia, se non in un insieme di segni che offrono sempre nuove possibilità di lettura. Sì è preferito dunque proporre una serie di percorsi di approfondimento, attraverso un ventaglio di lezioni affidate a studiosi italiani importanti, noti in ambito internazionale e impegnati in diversi campi della ricerca, a comporre uno straordinario mosaico di cultura: perché i cittadini siano messi nella condizione di aspirare alla bellezza, invitati ancora al piacere della scoperta, alla dolcezza del vivere. Il volto inedito della città antica e di quella moderna, espressione dell'ideologia della vittoria e del potere, appare in testimonianze di un passato remoto e prossimo. Le forme classiche di ineguagliata purezza, gli incanti e le sensuali armonie rinascimentali, il tormento e l'estasi di Michelangelo, il precipitare verso l'alto nella vertiginosa stagione del barocco ne fanno cogliere la vera anima. Di questa città perduta, inventata, risorta si sono nutriti anche gli spiriti del Novecento in provocatorie e immaginarie metamorfosi per il futuro".

Tutte le lezioni, interessantissime e aggiornate, sono disponibili anche in podcast. Di seguito vi inserisco i link di quelle che ho trovato più interessanti.

Claudio Strinati "Il secolo del Rinascimento"

Claudio Strinati "L'isola dei Gesuiti"

Antonio Paolucci - La cappella paolina dei palazzi apostolici

Anna Ottani Cavina "Villa Albani nel Settecento"

Francesco Dal Co "Vedute di Roma"

mercoledì 11 gennaio 2012

Iconografia della Croce dipinta

Un interessante articolo dello storico dell'arte Marco Bona Castellotti sul tema della Croce dipinta che ho accompagnato con una selezione di opere. Un percorso di secoli: dal Cristo vivo e trionfante a quello morto e patiens. Alla scoperta del soggetto iconografico che condensa in sé la natura umana e quella divina del Figlio di Dio.

croce 432 Uffizi
Perché il tema della croce dipinta e del suo mistero? Se mi si ponesse la domanda di quale espressione d'arte riflette più intensamente il senso del Mistero di Dio, non potrei che rispondere: una croce dipinta italiana del XII secolo. Ma un altro mistero soggiace al tema della croce dipinta ed è un mistero di carattere culturale: quali sono le ragioni che dettano il passaggio dell'iconografia del Cristo vivo e trionfante sulla croce a quella del Cristo morto e patiens sulla croce in Oriente e in Occidente. Il volto di Cristo della Croce 432 degli Uffizi, che si data intorno alla metà del XII secolo, di autore anonimo, a mio parere rappresenta una vetta assoluta nella storia dell'arte, nella sua apparente mancanza di espressione di dolore e nella sua evidente espressione di mestizia e di lontananza. Nella crocifissione che compare su un codice della Biblioteca Laurenziana di Firenze, detto codice di Ràbula, nome dell'autore delle miniature, probabilmente di origine siriaca, possiamo vedere una raffigurazione del tema già molto progredita nella densità degli elementi che la compongono: Cristo, i due ladroni, a sinistra la Vergine e san Giovanni, Stefanato e Longino (Longino è quello che raccoglie il sangue sgorgato dal costato di Cristo in un calice e lo porta a Mantova, infatti il calice del sangue di Cristo per tradizione è ancora conservato a Mantova e ivi venerato), i tre soldati che giocano sotto la croce e il gruppo delle pie donne sulla destra estrema.

È probabile che il codice sia di origine siriaca, in quanto la raffigurazione di Cristo e di tutti i personaggi che compongono la scena è molto realistica; ad esempio il Cristo veste una specie di gonnellone, il colobium di origine siriaca, porta la barba, diversamente dall'iconografia del Cristo di origine ellenistica che è imberbe. La cultura ellenistica è una cultura più estetizzante, quindi era più probabile che si raffigurasse un volto glabro, imberbe piuttosto che questo, realista, come è realista tutto quanto il cristianesimo di origine orientale. Il sole e la luna compaiono spesso nelle raffigurazioni della crocifissione e hanno una precisa allusione al Vangelo di Luca, che dice che «obscuratus est sol» nel momento della morte di Cristo, ma potrebbero anche stringere un nesso con certe iconografie più antiche, pagane, proprio di area siriaca, che accompagnano la raffigurazione di alcune divinità, come Serapide o Iupiter Heliopolitanus o Mitra, divinità legate al culto del sole, culto dal quale il cristianesimo recupera molti elementi, vedi il concetto di Cristo come Sol invictus.

Arte aniconica

Santa Maria Antiqua, crocifissione
Nei primi tre secoli l'arte cristiana è completamente aniconica, si basa unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo. Con l'avvento di Costantino avviene il trionfo della croce, e Costantino aveva usato come vessillo della sua vittoria la croce stessa. Nel monogramma di Cristo comincia a comparire la croce con l'alfa e l'omega e il monogramma continua anche molto dopo l'epoca costantiniana. Intorno al 340 si colloca anche la leggenda del ritrovamento della vera croce operata dalla madre di Costantino, sant'Elena. Quindi la croce comincia il suo cammino trionfale, ma non un cammino iconografico perché la croce, specialmente la crocifissione col corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell'iconografia, in quanto la crocifissione è un supplizio pagano. Nel 340 il supplizio della croce viene abolito. La croce, come si vede nel grande mosaico absidale di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna del VI secolo, ha ancora una valenza simbolica. L'unico elemento che richiama Cristo è quel medaglione che sta al centro ma tutto il resto invece è ricondotto a pura geometrizzazione. Quali sono le ragioni? Qui cominciano a infittirsi i misteri collegati all'iconografia della croce, e bisogna sconfinare finché è possibile nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle eresie a esso connesse. Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del IV secolo è quella di Eutichio il quale negava la natura umana di Cristo, lasciando in vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato. Si mette ordine nel problema piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si tiene un Concilio detto "in Trullo" nel quale un comma, l'undicesimo, esprime chiaramente il problema: «È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla memoria di Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo». Quindi finalmente si poteva lasciare assoluto spazio alla figurazione anche di Cristo in croce; ma a quali condizioni? A condizione che fosse rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte e anche a questo punto il problema, il mistero, si infittisce e molti hanno cercato di capire perché Cristo è trionfante, non bastando le scritture soltanto a giustificare la vita di Cristo in croce, da morto. Nello straordinario affresco di Santa Maria Antiqua a Roma, dell'VIII secolo, Cristo è vivo, inespressivo, non venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti e incantati, trionfante per la sua solenne calma oltre la morte. È probabile che la spiegazione di Cristo oltre la morte si ritrovi nella risposta alla teoria eutichiana che venne promulgata durante il Concilio di Calcedonia, nel V secolo, nel quale si affermò che nell'unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la natura umana. La compresenza di queste due nature doveva superare il problema del dolore di Cristo morto e anche superare, in forma onnicomprensiva e sintetica, il concetto della passione.

Movimento iconoclasta

L'iconografia di Cristo vivo in croce, trionfante, dura in Oriente fino all'XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII secolo. L'affresco di Santa Maria Antiqua probabilmente appartiene a un anonimo maestro costantinopolitano, lo si data di solito verso la fine dell'VIII secolo, perché a Roma potevano confluire maestri di area orientale in quel momento, per una ragione storica molto semplice, storicamente individuabile, ed è costituita dal grande movimento iconoclasta che si colloca fra il 730 e l'840 all'incirca, che aveva dato vita a una vera e propria guerra di religione, contro tutto ciò che potesse essere immagine del Redentore. Da che cosa nasceva questo movimento iconoclasta, appoggiato fondamentalmente dal Basileo e da gli ambienti intellettuali che si muovevano intorno alla corte? Dal fatto che il realismo di una certa pittura popolare era considerato peccaminoso. Nacque, il movimento iconoclasta, da un giudizio morale che immediatamente si convertì in un giudizio culturale di portata inaudita; fu una rivoluzione che portò a eccidi. Alle origini del movimento iconoclasta ci fu un'influenza islamica. L'arte islamica è aniconica, è pura decorazione; ma furono proprio la base di elementi popolari e gli ambienti monastici, ancora una volta dell'Oriente cristiano, a conservare e custodire una iconografia sacra realistica, perché gli ambienti popolari volevano una immagine davanti a sé, non un'idea.

Mentre in Occidente la raffigurazione di Cristo vivo in croce perdura fino al XIII secolo, quanto invece accade in Oriente due secoli prima è ancora avvolto dal mistero. Per quale ragione nei primi due decenni del Mille, intorno al 1020, compare un codice, miniato nel monastero di Stoudios a Costantinopoli, in una delle cui miniature Cristo viene raffigurato in croce morto? Per quale ragione nel mosaico, stupefacente, di Dafnì, Cristo ha reclinato il capo, il suo corpo si è arcuato, ha perso la fermezza, il tipo di ieraticità, di fissità come invece era fino a quel momento, e il capo si appoggia sulla spalla? Perché gli occhi sono quasi completamente chiusi e Cristo è morto - benché non sia una morte totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno, è una morte quasi disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena che una morte -, gli occhi sono chiusi e qualcosa di nuovo è accaduto nel frattempo? Fra le miriadi di ipotesi che si sono susseguite negli studi moderni, e contemporanei, ce n'è una che è da considerarsi la più attendibile. Proprio nel monastero di Stoudios, verso la fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di mettere ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi: come giustificare che Dio potesse morire in croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la sua divinità pur da morto. Ed era arrivato a questa soluzione teologica: morì, sì, in croce, il suo corpo morì, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, sì che pur morto viveva nello Spirito. Ciò toglieva ormai tutti gli ostacoli alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a confidare nella vita di Dio. Ma perché potesse il fedele essere ancora più certo che in un corpo morto, nel corpo morto di Cristo, la vita ancora proseguisse, venne raffigurato per la prima volta il fiotto di sangue che sgorga dal costato.

Vivo e trionfante

Croce di Rosano
Il grande crocefisso di avorio che proveniva in origine dalla cattedrale di Leon, ora conservato nel Museo Archeologico di Madrid, la croce di Ferdinando I di Castiglia del 1160, dimostra come la tradizione iconografica del Cristo vivo in croce non solo dura, ma anche si diffonde in ambiente latino, in Spagna e specialmente in Italia. Cristo ha un'aria quasi spettrale dovuta al fatto che i grandi occhi spalancati, perché è vivo e trionfante, sono di porcellana, porcellana azzurra, quindi tutto quanto cerca di puntare sul tema della sospensione pur essendo straordinariamente concreto nella sua forza d'urto.
Il fenomeno della fioritura delle croci dipinte è italiano, ma non si sa se la prima croce dipinta fosse italiana. La cosa strana e curiosa è che, comunque, dopo Dafnì, dopo il pensiero che si esprime nel monastero di Stoudios, dopo Nichetas Sthetatos, dopo che Cristo muore o comunque si abbandona in qualcosa di molto simile alla morte in Oriente, in Occidente - che dovrebbe essere così aggiornato culturalmente - Cristo continua a trionfare fino agli inizi del 1200.
In un'altra delle straordinarie croci dipinte italiane, quella di Rosano, conservata agli Uffizi, la croce è mozza nel capocroce, ma è completa in tutti gli altri elementi e cominciano a comparire intorno alla figura di Cristo anche i tabelloni che di solito illustrano in dettaglio tutti i momenti della passione di Cristo, ma Cristo è vivo.
È piuttosto sconvolgente il particolare del volto. Certo l'influenza bizantina è ancora molto forte, ma questa influenza bizantina si deve adattare, entrare nel vivo di una forza di concretezza di immagine che è italiana; ed è vero che Cristo è raffigurato quasi impassibile, non colpito e non espressivamente segnato dal dolore, ma è anche evidente che in questo sguardo così incantato c'è un senso di lontananza, di tristezza, di mestizia che ha come bisogno di espandersi e di trovare una forma nuova per esprimersi e diventare sempre più vero, lasciare la sua condizione totemica che, nella sua inafferrabilità è insufficiente ad appagare anche la pietas di chi vuole invece essere sempre più vicino alla figura di Cristo.
La croce di Pisa mantiene ancora la struttura con i tabelloni ai fianchi di Cristo, che in qualche modo sono il segno di una tradizione antica; inoltre c'è come un eccesso di linearismo: Cristo non è più con gli occhi spalancati, non è più vivo ma è morto, ma questa morte, a ben guardare, ha ancora i caratteri del Cristo morto di Dafnì, il che fa supporre - per la tripartizione della chioma, l'eccesso di linearismo, con cui viene segnata la curva del naso, le palpebre, ma soprattutto l'abbandono incorporeo, quasi lievitante, quasi sognante -, che l'autore è orientale. È certamente la prima croce di area italiana nella quale Cristo muore. E allora è da pensare che l'autore fosse già soggetto a quel fatto assolutamente rivoluzionario nella cultura europea, che rappresenta la ragione certa della svolta di proporzioni colossali, soprattutto di una svolta senza confini che portò anche come riflesso figurativo la morte di Cristo in croce? Questo fatto non è altro che l'avvento di san Francesco e del suo pensiero, della sua predicazione.

L'avvento di San Francesco.

Giunta Pisano, Crocifissione, San Domenico
La meravigliosa croce di Giunta Pisano, databile poco dopo il 1220, oggi si trova nella chiesa di San Domenico a Bologna. Cosa è successo? Quanto è lontano questo volto di Cristo - oramai affondato dalla sofferenza, assolutamente morto, senza ombra di esitazione, e così capace anche di coinvolgere lo spettatore, il devoto, di portarlo con sé - dalla croce di Dafnì. È qualcosa di dirompente quello che è accaduto. Perché nel pensiero e nella predicazione di san Francesco l'identificazione con Cristo morto è diventata uno dei cardini così di tutta quanta la sua spiritualità, così della pietà, e da ciò ne è scaturito tutto quanto ne è conseguito poi sul piano figurativo. Non c'è nulla di più efficace, di più eloquente, utile, a spiegare cos'è accaduto, delle parole di Jacopone da Todi, che in clima francescano a un certo punto canta: «Voglio me stesso renegare e la croce voglio portare». Quasi in un crescendo di dolore terreno Giunta dipinge intorno a quegli anni anche la croce di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Si è abbandonata la linearità ascensionale, tutto quanto è diventato come più concreto, perché il cammino poi continua per quello a cui in fondo si doveva arrivare e si arriverà soltanto con Giotto: portare fino all'estremo della sua verità l'umanizzazione del sacro e quindi anche della figura di Cristo.
La croce dipinta di Coppo di Marcovaldo, nel museo di San Gimignano, è del 1274. Certe resistenze antiche permangono, vedi appunto ancora l'illustrazione episodica dei tabelloni, con le storie di Cristo, e poi l'alleggerimento della figura del Cristo morto che in qualche modo richiama al fatto, alla possibilità di lasciarlo come parzialmente, impalpabilmente in vita. Quanto c'è di nuovo in un pittore come Coppo di Marcovaldo è da attribuirsi a un suo immediato predecessore benché più giovane di lui, che aveva effettivamente fatto un passo anche ulteriore rispetto a Giunta: Cimabue. Allora c'è qualcosa di nuovo, innanzitutto c'è un alleggerimento di certe parti, però non da intendersi come retroattivo, come una volontà di tornare al passato, nell'impalpabilità della figura, ma invece è da intendersi come una volontà faticosa di arrivare a quella umanizzazione del sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato. Per arrivare a questo ci vuole un'altra rivoluzione: consimile a quella di san Francesco anche se proiettata su un altro piano. Proprio in funzione della umanità dichiarata di Cristo, nella sua morte (ma questa volta è una morte fisica, umana fino in fondo e come tale può essere anche attraversata da un fremito di vita, perché nel crocefisso del Tempio Malatestiano Cristo è morto ma è umano e divino), mai ci si è totalmente spinti in una corsa verso la modernità, e la sua concentrazione di umano e divino è definitivamente decretata.

Marco Bona Castellotti

E per terminare questo articolo, mostrando come l'iconografia è sempre viva e un'immagine può evolversi nella storia avendo come saldi punti di riferimento la dottrina cristiana ecco una croce realizzata dall'artista Rodolfo Papa che segna una novità: Cristo è morto ma è come se fosse già in gloria, risorto in quanto stagliato su un cielo luminoso.


sabato 1 ottobre 2011

Storia dell'arte e trippa per gatti. Gli articoli di Tomaso Montanari


Il culto dell'arte non è mai stato tanto diffuso quanto oggi, ma quale storia dell'arte è stata innalzata sugli altari? In un clima di sempre più acceso relativismo l'endemica mancanza di fondi per la cultura e la tutela unita a nuove tendenze di marketing che riguardano i beni culturali nella speranza, illusoria, di far cassa stanno completamente svilendo il nostro patrimonio. La storia dell'arte come disciplina scientifica con una sua specifica metodologia, molto diversa dalla soggettività della critica d'arte e dalla spettacolarizzazione del mercato, appare sempre più in crisi e con essa il ruolo degli storici dell'arte. A riguardo vorrei proporre quattro articoli usciti su Il fatto Quotidiano scritti da Tomaso Montanari, docente presso la facoltà Federico II di Napoli ed autore del bellissimo pamphlet A cosa serve Michelangelo? (qui si può leggere la premessa). Tra queste righe tutta la deriva "mercantile" della storia dell'arte, l'indifferenza verso il patrimonio dello Stato, la mancanza di studi scientifici, gli interessi commerciali, l'assenza degli storici, la crisi di un sistema di tutela che è stato da sempre il nostro fiore all'occhiello.





e come ciliegina sulla torna mettiamoci anche Salvatore Settis

mercoledì 25 marzo 2009

San Paolo e l'Apocalisse

Giudizio finale-da Les Très Riches Heures du duc de Berry


Il centre culturel saint Louise de France organizzerà per il giorni 27 e 28 marzo a Roma un convegno sul tema San Paolo: Apocalisse e Rivelazione.

Interessante il secondo giorno di lavori che accoglierà gli storici dell'arte presso la splendida sede dell'Accademia di Francia a Villa Medici; "poiché il processo paoliniano della rivelazione ha interessato molto gli artisti: si trattava, attraverso la caduta, di suggerirne l’abbagliamento. Aldilà di questa conversione, gli artisti hanno studiato in quale modo lo spettatore viene trasformato dall’opera facendogli credito". Le teologie cristiane presentano vari insegnamenti sul giudizio universale. Nella chiesa latina l’accento viene posto sul giudizio divino alla fine dei tempi, quando avverrà la resurrezione dei morti che, insieme ai viventi, saranno giudicati e inviati in paradiso o all’inferno. Nell’oriente cristiano il giudizio viene emesso dalla propria coscienza e l’esperienza della separazione da Dio o dell’unione con Dio si esprime nelle metafore dell’inferno e del paradiso.

Da non perdere l'intervento del grande storico dell'arte e iconologo Victor Stoichita dall'Université de Fribourg, che relazionerà sul tema "La peau de Michel-Ange".

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