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sabato 21 dicembre 2013

Raffaello e le Vie Lauretane - Un autoritratto inedito del pittore

Sono grato ad un bellissimo e pressoché ignorato affresco che vidi per la prima volta nel lontano 1984 in una antica chiesa di proprietà privata, non più officiata da secoli, lungo un percorso lauretano nelle Crete senesi. Un’opera fino ad allora considerata minore nel complesso panorama della pittura senese fra fine ‘400 ed inizi ‘500. Il dipinto, dovuto alla mano di almeno quattro artisti della scuola umbra, mi apparve subito di grande qualità, come hanno confermato poi gli studi che ho fatto, che mi hanno portato a collocarne l’esecuzione nell’anno del Grande Giubileo di Mezzo Millennio, il 1500. Il fatto poi che vi fossero raffigurati, ai lati della Madonna col Bambino, i santi Pietro e Paolo, mi fece pensare ad una committenza partita da Roma, da dove si gestiva il decoro delle Vie Lauretane, da inserire nel quadro delle varie iniziative di abbellimento e arricchimento dei luoghi sacri intraprese per il Giubileo. Inoltre notai che nella figura che rappresentava uno degli altri sei santi dell’affresco si celava l’autoritratto, inconfondibile, del pittore stesso che l’aveva eseguito, che mi fece pensare subito ad un giovanissimo Raffaello. L’impressione venne poi confermata, ad una visione ravvicinata della superficie pittorica, dalla firma “RAPH.V.” che si legge, anche se ormai lievissima, sul colletto del giovane santo guerriero.
Naturalmente anche questo poteva non bastare a fugare i dubbi che si trattasse davvero di opera dello straordinario magister, allora diciassettenne. Le conferme, abbondanti, dovevano arrivare dallo studio che intrapresi su argomenti di cui allora sapevo poco o niente, come le Vie Lauretane, le relazioni dei pellegrinaggi, l’iconografia della Madonna di Loreto e da una attenta e inedita rilettura in chiave “lauretana” della produzione artistica del grande pittore urbinate. In anni di lavoro su questi temi, che sono a questo punto ben lieto di aver dovuto fare, ho potuto andare anche oltre a quanto potesse servire a confermare la mia attribuzione, arrivando a scoprire un Raffaello intimamente devoto della Madonna di Loreto, come ci dicono vari intimi e nascosti accenni iconografici visibili in numerosi suoi dipinti, come il boschetto di allori con la chiesetta in cima e il Monte Conero sullo sfondo, le ricorrenti immagini della Sacra Famiglia, interi tratti di percorsi lauretani e varie toccanti raffigurazioni della Fuga in Egitto, tutti segni di cui la rivista Il Messaggio della Santa Casa-Loreto gentilmente più volte ha dato notizia. Rimane da dire della firma, infine, l’unica che il pittore abbia apposto sui suoi autoritratti. Vedo allora, dalle relazioni di pellegrinaggio del tempo, che fra i vari impegni del buon pellegrino lauretano c’era quello di dedicarsi, alla vigilia della partenza per un gioioso ma anche faticoso e pericoloso percorso penitenziale, a Dio. Cosa c’era di meglio, allora, per un grande giovane artista, la cui forte, pressante personalità creativa stava per esplodere, che debuttare ufficialmente in un percorso lauretano sotto la protezione della Madonna, esprimendo oltre che interiormente anche visivamente questa sua dedica con tanto di immagine e firma, una volta per sempre, quale entusiasta artefice e devoto pellegrino, nell’anno del fastoso Giubileo di Mezzo Millennio? La conoscenza inattesa di un “patrono” artistico così grande può contribuire a dare slancio alla riscoperta delle Vie Lauretane in Toscana e non solo, a lungo localmente dimenticate e sulle quali si registra ora una ricca, crescente fioritura di studi.

venerdì 5 luglio 2013

Restituzioni 2013 Tesori d'arte restaurati


Marsilio Editori mette online, e scaricabile, questo interessante testo d'arte che riguarda i restauri eseguiti nel 2013. Ci sono le relazioni di restauro e le schede di diverse opere d'arte sparse sul territorio italiano, fra cui anche il polittico in alabastro di XV secolo realizzato dalla Bottega di Nottingham e conservato presso il Museo Nazionale di Capodimonte, (gemello al polittico in alabastro di Venafro), il cui restauro è terminato un paio di mesi fa; c'è il crocifisso ligneo di San Clemente a Casauria. Da reperti archeologici a cose Sette e Ottocentesche.

lunedì 1 luglio 2013

Caravaggio - L'incredulità di San Tommaso


La tela fu dipinta da Caravaggio intorno al 1601 per il Marchese Vincenzo Giustiniani per la galleria di dipinti del suo Palazzo, secondo quanto si può desumere da Le vite de’pittori scultori et architetti moderni di Giovan Pietro Bellori pubblicato nel 1672 a Roma, e dai numerosi documenti d’inventario che la riguardano. Nell’inventario della collezione Giustiniani del 1638 si legge «Nella stanza grande de quadri antichi. Un quadro sopra porta di mezze figure con l’historia di S. Tommaso che tocca il costato di Christo col dito dipinto in tela alta palmi 5. Larga 6,5 incirca, di mano di Michelangelo da Caravaggio con cornice nera profilata e rabescata d’oro».

La tela, dunque, fa parte della collezione Giustiniani ed è unsopraporta, dipinto cioé in orizzontale a mezze figure di circa cm 150 di larghezza e cm 100 di altezza. La tela poi fu venduta varie volte nel corso dei secoli, ed infine, dopo ulteriori vicissitudini legate agli eventi della Seconda Guerra Mondiale, pervenne nell’attuale collezione della Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam. Nel 2001 a Roma è stata proposta al pubblico italiano in una bellissima mostra dedicata alla ricostruzione dell’antica collezione Giustiniani.

Caravaggio costruisce il dipinto attraverso una struttura semplice che nell’essenzialità della scena punta diritto verso il cuore della narrazione evangelica. Cristo è attorniato da tre apostoli, tra i quali riconosciamo Pietro, dietro agli altri due in posizione più alta, e Tommaso, che sbigottito si vede prendere la mano dallo stesso Cristo e inserirla nella ferita del costato. Gesù è rappresentato con un incarnato più chiaro rispetto al gruppo degli apostoli, creando così una forte contrapposizione cromatica tale da determinare un doppio risultato narrativo; quello di portare il fedele ad un coinvolgimento diretto nell’azione, rendendolo presente e partecipe di quanto accade sotto i suoi occhi, e di evidenziare la corporeità del Risorto come il testo evangelico la descrive.

I tre apostoli hanno le fronti aggrottate, sono curvi in un inchino spontaneo di fronte al mistero della Risurrezione, i loro occhi sono attenti e le bocche aperte senza proferire parola, sono impietriti, ritratti nel momento che li vede colti da stupore; si differenzia l’atteggiamento psicologico di Tommaso che ha gli occhi sbarrati e si perde con lo sguardo attonito nell’abisso di ciò che gli si manifesta di fronte. Gesù, reclinando il capo, con la mano destra delicatamente scosta il mantello, mostrando la ferita sul costato ancora aperta e con la sinistra guida quella dell’apostolo, introducendo il dito tremante di Tommaso nella ferita del costato; il suo volto sembra accennare una impercettibile smorfia di dolore mentre accompagna con lo sguardo il gesto che compie con la mano di Tommaso. In questo dipinto non c’è altro, tutto è avvolto dalla penombra della stanza nel quale accade il fatto, davanti ai nostri occhi ci sono solo quattro figure colpite dalla luce che giunge dall’alto, tutto è reso attraverso un’abile descrizione psicologica degli apostoli, e poi null’altro.

Nel Vangelo di Giovanni leggiamo: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il Sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il costato e i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20, 19-20) «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: Abbiamo visto il Signore! Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel costato, non crederò. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettile nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 24-29)

Giovanni descrive minuziosamente quanto accaduto e pone in evidenza l’atteggiamento umano di Tommaso, che si dichiara scettico su quanto gli viene raccontato dagli altri e pone delle condizioni alla Fede, come facciamo noi ogni giorno della nostra vita posti di fronte alle difficoltà del mondo. Caravaggio dipinge questo turbamento, che anche è il nostro, e in modo sapiente traspone l’incredulo per eccellenza non soltanto nella ovvia figura di Tommaso, ma anche in quella degli altri due apostoli presenti nel dipinto.

Infatti lo scopo del dipinto non è solo quello di narrare i fatti così come ci vengono descritti da Giovanni, quanto piuttosto di porci di fronte al mistero della Risurrezione nella sua evidente corporeità. Cristo è risorto, è vivo; il dipinto di Caravaggio ci pone di fronte alla domanda dell’angelo alle donne: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? » (Lc. 24,5). Il dito di Tommaso affonda nella carne di Gesù; quella mano rozza, con le unghie sporche del proprio lavoro quotidiano, è la mano di tutti coloro che sono chiamati nella Fede a credere in Cristo. Lo scetticismo si scioglie nello stupore; gli occhi si spalancano davanti a quelle ferite, e la bocca tremante si apre balbettando, con un filo di voce « Mio Signore e mio Dio!».

L’arte di Caravaggio, come quella di moltissimi altri nel corso dei secoli, ha teso a rappresentare, attraverso la tecnica e gli strumenti propri della pittura, la corporeità del mistero dell’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Cristo, il mistero di Gesù, che è totalmente uomo e totalmente Dio, per fugare quei dubbi che persino gli apostoli, secondo la narrazione di Luca, ebbero: «Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma» ( Lc. 23,37). L’arte ci invita a vedere con gli occhi e a meditare nel cuore le parole di Cristo: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 23, 38-39).

Al riguardo sant’Agostino dice: «Cristo avrebbe potuto risanare le ferite della sua carne al punto da non fare apparire neppure le impronte delle cicatrici. Aveva il potere di non mantenere nelle sue membra il segno dei chiodi, di non mantenere la ferita del costato.(...) Lui, che lasciò fissi sul suo corpo i segni dei chiodi e della lancia, sapeva che in futuro ci sarebbero stati eretici tanto empi e distorti da affermare che il Signore Nostro Gesù Cristo simulò di avere carne e che avrebbe detto menzogne ai suoi discepoli e ai nostri Evangelisti quando disse: Tocca e vedi.(...) Supponiamo che ci sia qui un manicheo. Che cosa direbbe? Che Tommaso vide, toccò, palpò le impronte dei chiodi, ma che era una carne falsa.» Si comprende qual’è stato –è quale è tuttora- il compito dell’arte, e cioè affermare che Cristo è veramente risorto, vero uomo e vero Dio. Come scrive ancora sant’Agostino:« La Verità risuscitò carne vera. La Verità mostrò ai discepoli carne vera dopo la risurrezione. La Verità mostrò cicatrici di carne vera alle mani che le palpavano. Arrossisca dunque la falsità, poiché ha vinto la Verità».

*
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it  Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com  e.mail: rodolfo_papa@infinito.it  

"Il Mistero Svelato", le ultime interpretazioni de "L'Annunciata" di Antonello da Messina


Una nuova ed inedita interpretazione dell’Annunciata di Antonello da Messina è stata presentata nel mese di giugno presso l’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles.
Per anni quest’opera è stata oggetto d’indagine e di approfondimento di varia natura. Forse proprio perché considerata “misteriosa” l’interesse verso questo capolavoro assoluto del Rinascimento, uno dei dipinti più enigmatici e rappresentativi della storia dell’arte, è sempre stato molto forte.
Oltre all’inedita interpretazione del quadro proposta da Giovanni Taormina, esperto e restauratore di dipinti, ha introdotto la conferenza lo storico dell'arte Mauro Lucco, successivamente sono stati illustrati dal prof Franco Fazzio, dalla dott.ssa Maria Francesca Alberghina, dal dott. Salvatore Schiavone i risultati delle ricerche condotte negli anni, a partire dal 2006. Le indagini diagnostiche sono state realizzate, oltre che dai ricercatori presenti, dall’arch. Ermanno Cacciatore, dalla dott.ssa Fernanda Prestileo e dal dott. Giovanni Bruno, già Laboratorio di Fisica e Ambientalistica degli Interni del Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro della Regione Siciliana (CRPR) – Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana, sotto l’allora direttore arch. Guido Meli, da Giuseppe Salerno, radiologo, e dalla dott.ssa Lidia Perrone, chirurgo estetico.Inoltre, per l’approfondimento teologico, sono stati consultati gli studi del Ministro di Culto Cristiana Perrone.
Gli studi condotti hanno fornito numerose risposte agli interrogativi che da secoli sono stati legati a questo dipinto risalente al 1475/76 e oggi conservato nella Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di Palermo.
Da qui il titolo dello studio presentato all’IIC di Bruxelles “Il mistero svelato”.
L’autorevole storico dell’arte Mauro Lucco, già curatore di numerose mostre tra cui proprio quella su Antonello da Messina alle Scuderie del Quirinale, che ha introdotto la presentazione di questi studi ieri a Bruxelles, per il valore che egli stesso ha pubblicamente attributo a “il mistero svelato” di Giovanni Taormina, ha proposto di continuare insieme allo stesso Taormina e ai suoi colleghi queste ricerche.

Ecco i principali nodi sciolti da questo studio interpretativo dell’opera:
Maria ha dinanzi un Magnificat
Per anni si è cercato di capire cosa rappresentassero i segni posti dall’artista messinese sul libro dinanzi alla Madonna. Analizzando i punti in rosso cinabro sono emersi significativi risultati. In particolare il simbolo più evidente rappresenta un carattere onciale e cioè un tipo di scrittura adoperata in codici vergati per i titoli, le rubriche, gli incipit o gli explicit impiegati solitamente nei manoscritti dell’epoca come capolettera di un capitolo o di un paragrafo. Si è riusciti ad individuare in quel segno una “M”, in particolare una M di Magnificat.
Le scritte in nero sul foglio, inoltre, evidenziano residui di alcune lettere che dovevano comporre alcune frasi iniziali del Magnificat “anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo”.
Una nuova rappresentazione dello Spirito Santo sotto forma di vento
E’ la prima volta che si parla della presenza dello Spirito Santo nell’opera dell’Annunciata. Un argomento che non era mai stato trattato e che per primo Giovanni Taormina ha portato alla luce. Lo stesso Prof Mauro Lucco ha voluto valorizzare questa scoperta pubblicamente, complimentandosi con l’autore nel corso della serata evento organizzata all’IIC di Bruxelles. In sostanza nell’Annunciata di Palermo si puo’ notare che le pagine del libro dinanzi alla vergine sono come sollevate da un soffio di vento. Secondo Giovanni Taormina e il gruppo interdisciplinare che ha compiuto questi studi, quel vento rappresenta il soffio generante e ispiratrice dello Spirito Santo. Tra le varie spiegazioni c’è quella etimologica. La parola spirito in ebraico si traduce ruach, che nel suo senso primario significa soffio, aria, vento, respiro. 
Dal greco traduce pneuma (da pneo) e cioè soffiare, respirare, ricevere vita. (Theopneostos tradotto letteralmente soffiato da Dio, emessa dal respiro di Dio).
Chi è l’Annunciata di Palermo? Smentita la raffigurazione di Smeralda Calafato
Secondo alcune ipotesi la giovane ritratta da Antonello sia Santa Eustochia Calafato (al secolo Smeralda), nata a Messina nella stessa epoca di Antonello. Il gruppo interdisciplinare di studi coordinato da Giovanni Taormina ha, quindi, provveduto a identificare i resti mummificati, che si attestano essere di Smerala. Si è valutata quindi la possibilità di ricostruirne il volto e tentare il confronto, attraverso una serie di indagini comparate tra la mummia ed il dipinto dell’Annunciata. Per la mancanza di alcune autorizzazioni, pero’, tali approfondimenti non sono stati ancora eseguiti.
Grazie ad alcune analisi svolte da uno specialista in chirurgia estetica, comunque, è stato possibile asserire che l’ipotesi che vuole Smeralda Calafato come colei che avrebbe posato per la realizzazione dell’Annunciata, non trovi conferma il confronto tra l’Annunciata di Palermo e l’Annunciata di Monaco: la prima ha già Gesù in grembo
Le due opere sono state confrontate con l’obiettivo di far emergere nuovi indizi a supporto di una migliore comprensione del significato dell’Annunciata di Palermo. Da questo confronto è emerso che l’Annunciata di Monaco è stata rappresentata da Antonello in un momento in cui non si è ancora svolta l’azione di concepimento da parte dello Spirito di Dio, mentre in quella di Palermo è già avvenuta. A questa interpretazione è stato possibile risalire attraverso lo studio di piccoli particolari come il volto delle due Madonne: in quella di Palermo il viso di Maria evidenzia una leggera piega dell’angolo labiale che rappresenta un sereno sorriso mentre nella Maria di Monaco la bocca è aperta, come se la vergine fosse colta da stupore improvviso mentre l’angelo le annuncia che lei è la prescelta. Anche la posizione delle mani delle due vergini confermano questa ipotesi. “In un dipinto di Antonello, nulla è stato dipinto a caso, ogni pennellata è importante ed ha una sua spiegazione logica” si puo’ leggere nello studio presentato all’IIC di Bruxelles a pag 10.
“Ho fortemente voluto ospitare nel nostro Istituto Italiano di Cultura la presentazione di questo studio inedito su L’Annunciata di Antonello da Messina – ha dichiarato la prof.ssa Federiga Bindi, direttore dell’IIC di Bruxelles – non soltanto perché Antonello è uno degli artisti più significativi del Rinascimento italiano e mondiale, ma anche perché questa interessante analisi rappresenta un’eccellenza della ricerca italiana che va valorizzata e promossa anche all’estero”.

(Dott.ssa Federiga Bindi, Direttore I.I.C.B.)


martedì 15 gennaio 2013

Il ciclo dei mesi di Schifanoia - Il numero monografico di Engramma


Il ciclo dei Mesi di Schifanoia a Ferrara è uno dei cicli più interessanti ed enigmatici del rinascimento italiano, tanto studiato ed analizzato da Aby Warburg che proprio cento anni fa in occasione del X Congresso internazionale di Storia dell'Arte di Roma, avanzava per la prima volta l'ipotesi interpretativa della fascia mediana con i tre decani, ed è l'argomento trattato dall'ultimo numero di Engramma. Engramma è una delle riviste più belle, interessanti e scientificamente valide riguardo alla storia dell'arte e all'iconologia che si possono trovare in rete e che vale la pena di seguire.

I tre decani del mese di Luglio
L'editoriale di Marco Bertozzi e Alessandra Pedersoli


Il numero 102 di Engramma, dedicato al "cielo di Schifanoia," raccoglie saggi e contributi riguardanti la decorazione del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara e la complessa storia interpretativa dei soggetti raffigurati nei registri superiori dei comparti dei dodici mesi. Con questo numero celebriamo anche due anniversari: nel 1912 Aby Warburg, in occasione del X Congresso internazionale di Storia dell'Arte di Roma, avanzava per la prima volta l'ipotesi interpretativa della fascia mediana con i tre decani del segno per ciascun mese; nel 1992, nel Salone del Palazzo, Maurizio Bonora allestiva le sue tavole ricostruttive dei cinque registri mediani per i mesi del ciclo perduti. Come lo studioso amburghese in Tavola 27 dell'Atlante di Mnemosyne orienta i suoi studi sui registri superiori (il 'cielo' di Schifanoia), anche il cuore delle ricerche sul tema in engramma sono rivolte all'approfondimento del complesso meccanismo di tradizione dell'antico che ha condotto gli artisti di Borso a tradurre per immagini nel palazzo ferrarese.

Il saggio di Marco Bertozzi introduce al tema, ripercorrendo la storia interpretativa dei decani, mentre il Diario di lavoro di Maurizio Bonora ripercorre l'iter metodologico di studio e ricostruzione dei decani. Il complesso lavoro di ricerca e ricostruzione, messo in campo dall'artista ferrarese, si è basato sia sulle fonti letterarie antiche e coeve al ciclo astrologico, ma anche sulle fonti iconografiche coeve, presenti nello stesso Salone, sia sull'opera degli artisti ferraresi del tempo.

Viene quindi presentato 'Mese per Mese' l'intero ciclo iconografico nei suoi registri superiori – il "cielo di Schifanoia" a cui intitoliamo questo numero monografico – con le divinità in trionfo che sovrintendono al segno zodiacale e i decani, le personificazioni celesti che Warburg aveva ricondotto alla complessa cultura astrologica di Pellegrino Prisciani, ibridatisi nel passaggio dalla cultura egizia a quella romana, da quella araba e alla raffinata e criptica erudizione cortese europea.

Il tema dell'astrologia cortese, che Warburg approfondisce e riprende in alcune tavole dell'Atlante della memoria, ha rilevato la necessità di organizzare una Bibliografia ragionata dei contributi più significativi e aggiornati riguardanti i cicli astrologici di Padova (il Salone del Palazzo della Ragione), Rimini (la Cappella dei Pianeti nel Tempio Malatestiano di Rimini) e Ferrara (il salone dei Mesi di Schifanoia), per cui ci è sembrato opportuno inserire nel numero un regesto bibliografico aggiornabile, che possa essere di aiuto agli studiosi. Infine sono presentati i materiali aggiornati per Tavola 27 dell'Atlante Mnemosyne, dedicata da Warburg al Cosmo di Schifanoia.

Il numero 102 che Engramma dedica a Schifanoia intende anche richiamare l'attenzione sul difficile momento che l'intera città di Ferrara vive a seguito del sisma che la scorsa primavera ha compromesso gran parte degli edifici storici, compreso Palazzo Schifanoia, a tutt'oggi ancora chiuso al pubblico. I curatori e la redazione di Engramma invitano i propri lettori a contribuire alla campagna di raccolta fondi destinata al restauro e alla messa in sicurezza del Palazzo che ospita anche il Museo, in vista della riapertura nella primavera 2013.

Mediante un versamento mediante bonifico intestato al Comune di Ferrara, indicando nella causale "Palazzo Schifanoia – ricostruzione post sismica" (IBAN: IT 26 K 06155 13015 000003204201), è possibile contribuire per restituire alla città, e ai visitatori e agli studiosi di tutto il mondo, questo prezioso luogo di arte e di memoria.

Del Cossa, Aprile

venerdì 19 ottobre 2012

Lost Art

La storia dell'arte purtroppo è fatta anche dalle storie delle tante distruzioni avvenute nel corso dei secoli. A riguardo due segnalazioni. La prima è Gallery of Lost Art. Si tratta di una mostra online che racconta le storie di opere d'arte scomparse, distrutte, rubate, rifiutate, o cancellate e che non possono più essere viste. "The Gallery of Lost Art" è un sito web visivamente strutturato come un magazzino open con vista dall'alto, con vere e proprie scritte in gesso che delimitano le zona dove si trovano le opere d’arte, facendolo somigliare ad una vera e propria scena del crimine. La seconda è il sito Necrologi dell'Arte che racconta le storie di opere distrutte, disperse, degradate. Tra queste quelle che riguardano il celebre e disastroso Incendio della Flakturm Friedrichshain  che è stato il più grande disastro artistico della storia moderna, dopo la distruzione del Palazzo dell'Alcazar di Madrid, avvenuta nel 1734.


venerdì 21 settembre 2012

La crocifissione di San Giovanni della Croce e Dalì

San Giovanni della Croce non è stato solo uno dei più grandi mistici cristiani ma anche un sommo artista sia come poeta che come disegnatore. Un giorno, siamo nel 1575, nella chiesa dell'Incarnazione Giovanni ha una visione. Mentre è appartato in preghiera, in un'angolo che da sul transetto, Cristo gli appare sulla Croce. Ha la testa reclinata sul petto, le braccia sostenute da pesanti chiodi, le gambe piegate sotto il peso del corpo, con un'espressione di assenso totale al sacrificio. Cessata la visione prende carta e penna e riproduce quanto ha visto. E' l'unico disegno di Giovanni che si conserva (ma non è improbabile che dovette farne altri) e unica è l'impressione che si ha guardandolo poiché il mistico prevale sul tragico. E' violento ma percorso da una grande dolcezza, la densità dei tratti, l'anatomia del corpo in contorsione, la nervosità delle linee hanno fatto credere ad un disegno miracoloso ma è normale che Giovanni abbia studiato disegno e pertanto la carica mistica aumenta la forza evocativa. Cristo è contemplato di lato e dall'alto, con uno scorcio di incredibile realismo, ed emana il senso supremo del sacrificio e della costrizione. Non è un caso che secoli dopo Dalì nel 1951, durante la sua fase di recupero della pittura rinascimentale e dell'iconografia cristiana, eseguirà un crocifisso ispirandosi proprio allo schizzo del santo accentuando la prospettiva e lo scorcio impossibile.

S. Giovanni della Croce - crocifissione

Dalì - Il Cristo di San Giovanni della Croce
L’opera fa parte della copiosa produzione pittorica di Salvador Dalì dopo il suo drammatico distacco dal movimento surrealista, voluto nel 1934 da André Breton. La grande tela è oggi conservata all’Art Gallery di Glasgow in Scozia. Ai margini della composizione un desolato paesaggio lacustre disegnato con grande precisione è popolato solo da tre figure, rese sommariamente, occupate nella poro attività di pescatori. I netti profili delle basse montagne che si stagliano contro l’orizzonte sono segnati da una luce vitrea emessa dal sole ormai al tramonto. Come una visione il cielo si apre e appare una crocifissione, colta dall’alto, che occupa la parte più ampia dello spazio, forse a ricordare che l’umanità deve necessariamente rispondere del sacrificio di Nostro Signore. La luce divina colpisce con violenza la parte superiore della grande croce e sfiora il corpo senza vita di Cristo mettendone in risalto la muscolatura; il gioco chiaroscurale è determinante sia per rendere più palpabile il miracolo che per aumentare la drammaticità consona alla scena. Salvador Dalì lo dipinse in un momento di rimeditazione del mondo cattolico, contemporaneamente alla pubblicazione del “Manifesto Mistico”, a cui l’artista affida le sue riflessioni sul delicato tema e a una serie di opere a soggetto sacro fra le quali voglio qui ricordare la crocifissione del Metropolitan di New York, datata 1954, che però propone un modulo ammanierato che rende opaca la composizione. Nonostante l’attualizzazione del tema sacro, in questo quadro Salvador Dalì mantenne rapporti con la pittura del passato: la figura vicina alla barca è desunta da “Le Nain”, mentre quella a sinistra è tratta da un disegno preparatorio di Velàzquez per la Resa di Brera.

E' questa l'opera di un artista geniale che, dopo aver vagato errante in cerca d'assoluto, alla fine confida: "Il Cielo non si trova nè in alto nè in basso, nè a destra nè a sinistra, il Cielo si trova esattamente al centro dell'uomo che ha Fede...Ora io non ho ancora la Fede e temo di morire senza Cielo".

sabato 5 maggio 2012

Tiziano ha perso la testa

Sembra proprio che in questo dipinto sia rappresentata una storia d'amore. La testa di Giovanni Battista ha una notevole somiglianza con la fisionomia del maestro di Pieve di Cadore. Il naso aquilino e i capelli morbidamente sparsi sul piatto d'argento. La fanciulla è il ritratto di Viola, o Violante, figlia di Palma il Vecchio e amata dal maestro che la raffigurò anche nell'Amor sacro e profano in veste di Venere. Come dire: ho perso la testa per te!

Tiziano, Giuditta con la testa di Oloferne, 1570
La ricerca è stata compiuta dalla rivista di Stile Arte, dalla quale sono tratte queste note introduttive: "in queste settimane, un particolare di notevole rilievo semantico che, per quanto appaia estremamente accessorio sotto il profilo della composizione dell’opera, consente di individuare un piano allegorico nell’ambito del dipinto Giuditta con la testa di Oloferne di Tiziano, recuperando a pieno titolo il significato amoroso del quadro, un significato privato che si sovrappone alla scena biblica: quello relativo alla passione - e alla dichiarazione dell’assoluta dipendenza sentimentale - del pittore per la giovane e splendida Viola - detta anche Violante - colei la quale si ritiene fosse figlia di Palma il Vecchio. 
Già si era stabilito che il volto del Battista - i capelli lunghi scarmigliati, la barba vaporosa, la fronte bombata ed evidente, le tempie scavate, il naso lievemente aquilino - presenta somiglianze strettissime con il maestro di Pieve di Cadore. E crediamo che, a questo proposito, non vi siano dubbi, come dimostra l’assoluta sovrapponibilità della mappa facciale dell’uomo decollato con il volto di Tiziano, sia quelli inseriti con il valore di firma in alcuni dipinti che nei due autoritratti, per quanto siano stati realizzati nella maturità o nella vecchiaia, giacché la struttura del volto resta invariata.
Ora due elementi fondamentali entrano in gioco in Giuditta con la testa di Oloferne, al punto da testimoniare la presenza di un piano semantico che allude alla presenza di un livello di comunicazione privata, in un gioco emotivo che proietta su un evento storico, senza che ciò sia palesemente evidente - così come accade spesso nel gioco della pittura antica, che opera, in diversi casi, su più strati, nel continuo interloquire tra evidenza e significato - la dichiarazione di un rapimento amoroso".


Nell'Allegoria della prudenza (o le Tre età dell'uomo) è possibile individuare un ritratto di Tiziano a quell'età.

domenica 16 ottobre 2011

Un (auto?)ritratto sconosciuto di Michelangelo

Rimarrà esposto al Castello nella città di nascita di Michelangelo Buonarroti, Caprese Michelangelo, sino al 30 ottobre un tondo di marmo, mai mostrato, se si esclude una giornata del 2005 al Museo Ideale di Vinci, perché conservato nella collezione privata di una nobile famiglia toscana, assegnato al maestro da James Beck (4 anni fa) e da Claudio Strinati (oggi). La piccola scultura ad altorilievo di 36 centimetri di diametro secondo questi studiosi sarebbe un autoritratto di Michelangelo: la tecnica e gli strumenti utilizzati per realizzare l'opera, secondo Strinati, non lascerebbero dubbi. Il marmo raffigura un uomo barbuto e anziano e secondo gli studiosi potrebbe essere assegnato al 1545 circa e provenire dal complesso funerario della tomba di papa Giulio II realizzata da Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli di Roma. Spiega Strinati, già soprintendente di Roma e oggi dirigente del Mibac: «La prima testimonianza documentata su questa scultura compare in una guida turistica del '700 relativa a Pisa, dove si parla di un possibile autoritratto di Michelangelo in una collezione della città. Ma ci sono altri indizi: la composizione chimica del marmo è la stessa del materiale delle cave di Polvaccio, sulle Apuane, dove si riforniva abitualmente Buonarroti. Infine il ritratto potrebbe esser stato fatto con scalpelli a lame larghe e con un trapano, lavorazione compatibile con le metodologie di Michelangelo». (Il Giornale dell'Arte)

Tondo con ritratto di Michelangelo
ames Beck, professore di storia dell'arte alla Columbia University di New York, sembra esserne certo: ''Quel tondo di circa 35 centimetri raffigurante un uomo con la barba, sarebbe un autoritratto scolpito su marmo di Carrara dalla mano di Michelangelo''. E se così fosse, l'autoritratto scolpito dal Maestro fiorentino quando aveva circa 70 anni, avrebbe un valore intorno ai 100 milioni di dollari. 
La convinzione dello studioso americano non è recente, già 1999 James Beck pubblicò un saggio sul Buonarroti dal titolo ''Tre parole su Michelangelo'' in cui per la prima volta il professore attribuì il tondo al genio della Cappella Sistina. 

''È un'opera eccezionale, di grandissimo pregio, a mio parere di Michelangelo'', dice il professor Beck che basa la sua tesi su caratteristiche del tondo sia artistiche sia in parte scientifiche. Innanzi tutto l'espressione. La mano che ha scolpito il tondo è riuscita a rendere al contempo lo sguardo verso l'infinito e l'ideale e un occhio di disprezzo per la mortalità della vita terrena. Pensiero, questo, tipico della visione neo platonica michelangiolesca. Un'espressione molto simile a quella del Nicodemo della Pietà, conservata al museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze a cui Michelangelo lavorò dal 1547 al 1555. James Beck data il tondo nel periodo che va dal 1545 al 1555, il che però non è confermato né nella celeberrima biografia di Michelangelo di Giorgio Vasari, né in quella dell'assistente e biografo del genio fiorentino Ascanio Condivi. 

A dare forza alla tesi del professore della Columbia e a distinguere quest'opera da tutte la altre che con superficialità nella storia sono state attribuite a Michelangelo sarebbero la qualità e la raffinatezza della scultura. Le caratteristiche del viso, rese così bene nel marmo, ricordano in modo impressionante quelle del ritratto del maestro fiorentino dipinto da Jacopo del Conte, quando Michelangelo era ancora vivo. Da un punto di vista scientifico è praticamente impossibile datare il momento della scultura. I test che si possono applicare ci parlano solo dell'età geologica di quel marmo, un'età che non ha nulla a che vedere con la sua lavorazione. 
Ma il professor Corrado Graziu dell'Università di Pisa ha scoperto il luogo di origine del marmo utilizzato per il tondo. Non solo si tratta di Carrara, ma proprio della cava del Polvaccio, il sito noto anche come la 'Cava di Michelangelo', perché Michelangelo lavorava principalmente il marmo estratto da li'. 
Infine un ultimo dato interessante scoperto dal professore Graziu e considerato fondamentale dal professore della Columbia: il tondo è stato esposto per 150 anni ad agenti atmosferici e poi ripulito con degli acidi le cui tracce sono ancora presenti sul tondo. Questo spiegherebbe come mai la superficie dell'opera sia così liscia. ''La questione della superficie della scultura mi aveva sempre preoccupato - ha raccontato il professor Beck al quotidiano newyorkese 'New York Sun' - perché Michelangelo nel periodo in cui ho datato il tondo, aveva elaborato lo stile del 'non finito''' quello, per esempio, della Pietà Rondanini. (Guidasicilia)

Pietà Bandini - part. Nicodemo

martedì 21 dicembre 2010

Ah, che rebus!


Segnalo questo celebre ritratto di Lorenzo Lotto ("Ritratto di Lucina Brembati" 1518) poiché, oltre ad essere un superbo notturn,o riserva una curiosità. Se si nota bene la falce di luna sullo sfondo presenta due lettere "CI". Risolvendo il facile rebus esce fuori, appunto, il nome di Lucina. Nel Cinquecento i letterati chiedevano l’ausilio dei pittori per tramutare le parole in “ieroglifici”. Si sviluppò così da una forma di crittografia la pratica del rebus, che in qualche caso veniva utilizzata anche nei quadri. 


Col suo piccolo enigma Lotto presuppone uno spettatore "amante dei giochi a chiave e degli esercizi di intelligenza", suggerisce il critico Mauro Lucco che ha curato la mostra "Ah, che rebus! Cinque secoli di enigmi fra arte e gioco in Italia" aperta a Roma a Palazzo Poli (fino al prossimo 8 marzo). E in verità simili giochi erano nel Cinquecento diffusi, e ben più ricchi e vasti del rebus lucinesco. Basta guardare il Libro d’arme & d’amore di Andrea Baiardo, per esempio, che è una specie di rebusistica graphic novelrinascimentale, per farsene un’idea. Anche se, va detto, fino all’Ottocento il rebus, e la mostra lo illustra con abbondanza d’esempi, era più un’esibita capacità di tradurre parti delle parole di un testo in immagini costruendo così testi misti facilmente intelligibili che l’elaborazione di una vignetta misteriosa fregiata di lettere qua e là, del tutto impenetrabile a prima vista. (L'articolo su La Stampa).



E che dire di questo particolare dal San Girolamo del Dossi?Si tratta dell'unica opera firmata dell'artista ferrarese, pittore ironico e brillante. Curiosamente, il nome non è reso in modo diretto ma sottoforma di rebus: in basso a destra e in primo piano compare una D maiuscola attraversata da un OSSO.


Vi lascio a risolvere, invece, questo bellissimo rebus di Stefano Della Bella, sulla fortuna. 

sabato 18 dicembre 2010

Una ricostruzione degli intermezzi per "La Pellegrina"

Questo post è dedicato agli appassionati di iconografia, una vera chicca di filologia che ricostruisce nientemeno che i celeberrimi intermezzi organizzati da Giovanni de’ Bardi per la rappresentazione della commedia “La Pellegrina”, con i costumi e le scenografie disegnate e realizzate da Bernardo Buontalenti e le musiche composte da Emilio De' Cavalieri. Aby Warburg compì a riguardo uno studio magistrale che, partendo dai disegni dei costumi, indagava in profondità l'ambiente di corte mediceo e la realtà storica della committenza, poiché, come illustrato anche da Burchkardt "le feste italiane nella loro forma più elevata furono un vero passaggio dalla vita all'arte". L'impressione, dato l'eccessivo uso del tecnicolor e qualche effetto speciale di troppo, può risultare sgradevole, forse a volte kitsch, ma le scene, i costumi e le musiche sono originali e il colpo d'occhio è veramente suggestivo.
I sei Intermezzi si caratterizzano come pantomime di gusto antico, accompagnati da madrigali, incentrati sul potere della musica e modellati sulle indicazioni di scrittori antichi. 
Tre di queste rappresentazioni si configurano come allegorie platoniche sulla musica mondana (I-“L’Armonia delle sfere”, IV-“La Regione de’ Demoni”, VI-“La discesa di Apollo e Bacco insieme col Ritmo e l’Armonia”), mentre le restanti come allegorie della musica humana (II-“La gara fra Muse e Pieridi”, III-“Il combattimento pitico d’Apollo”, V-“Il canto d’Arione”).

Alcuni bozzetti del Buontalenti.







La registrazione di questa riproposizione-riadattamento è del 1986 ad opera della Taverner Consort, condotta da Andrew Parrot. Tra gli interpreti si segnalano Emma Kirkby, Tessa Bonner, Emily Van Evera, Evelyn Tubb (sopranos), Mary Nichols, Terry Anderson, Catherine Woolf (altos), Nigel Rogers, Andrew King, Mark Padmore, Charles Daniels, Rogers Covey-Crump (tenors), Alan Ewing, John Milne, Richard Wistreich (basses).
(I filmati vanno dall'1 all'8, proponiamo in basso l'inizio)

sabato 23 ottobre 2010

Il giardino di Polifilo in 3D

Interessante testo, più che altro un gioco, che ricostruisce i mitici scenari, allegorici, del giardino di Polifilo così come ripresi dalle bellissime xilografie di Aldo Manuzio a commento del testo di Francesco Colonna Hypnerotomachia Poliphili. Da questo link lo scan completo del testo.
"Il volume presenta la ricostruzione virtuale del giardino ideale illustrato nella "Hypnerotomachia Poliphili" di Francesco Colonna, il più celebre incunabolo stampato da Aldo Manuzio a Venezia nel 1499. Fra i libri del Rinascimento, l'Hypnerotomachia è quello che ha influenzato maggiormente le scelte architettoniche, ma soprattutto simboliche e ideologiche del giardino cinquecentesco" (link).



mercoledì 20 ottobre 2010

I Bentvueghels

S. Maria in Aquiro - flagellazione
Soffermandomi sulla notizia del restauro delle tre importanti tele della cappella della Passione di S. Maria in Aquiro a Roma, significative in quanto rappresentano l’ultima committenza pubblica affidata alla scuola di Caravaggio, leggendo degli eventuali realizzatori (si parla del francese Trophime Bigot per due tele e del cosiddetto “Master of candle” per la terza) ho trovato anche il nome dei Bentvogels (o banda degli Uccelli; scritto anche Bentvueghels). Questa, poco conosciuta col suo vero nome e dalla storia affascinante anche per capire il variegato ambiente romano dell'epoca, era un'associazione di pittori ("Schilderbend" gilda dei pittori), in larga parte olandesi e fiamminghi, in opposizione all'Accademia di San Luca. Fondata nel 1623 da Breenbergh e Poelenburgh  aveva sede in via Margutta, nei pressi di Piazza di Spagan, garantiva assistenza ai soci e perseguiva una pittura di genere (scene di strada e di vita quotidiana, vedute con rovine). In seguito parte dei pittori di questa gilda furono conosciuti anche col nome di Bamboccianti (usato per la prima volta da Salvator Rosa), e del resto molti dei soprannomi derivano proprio da qui.
L'associazione era famosa anche per un'altro motivo: come riporta questa esauriente nota di wikipedia "altra caratteristica della Schildersbent, che richiamava scarso apprezzamento, erano i rituali e pratiche bacchici dei suoi associati. Anche se l'organizzazione non aveva uno statuto o un qualsivoglia regolamento, era comunque previsto un rituale di iniziazione a cui doveva sottoporsi ogni nuovo adepto e che ci è noto da varie testimonianze lasciate da Bentvueghels, come disegni, incisioni e racconti. Si trattava di una parodia di antiche feste, in cui i vari membri, vestiti con toghe e con la corona d'alloro, onoravano Bacco. Il novizio aveva il privilegio di giocare il ruolo del dio. La cerimonia iniziava con uno pseudo-battesimo in chiave sempre di parodia, in cui il nuovo adepto veniva innaffiato di vino. Seguivano lauti banchetti e la visita alla tomba di Bacco, ovvero al Sarcofago di Costantina in porfido rosso, recante scolpite scene di vendemmie con tralci di vite e putti. Questo sarcofago si trovava nella Chiesa di Santa Costanza, che si suppone sia stata costruita su un tempio dedicato a Bacco. Oltre all'iniziazione, era usanza che ogni membro avesse un soprannome: in una nicchia vicino al sarcofago, si trovano centinaia di nomi di Bentvueghels con i relativi soprannomi".

Tali cerimonie sono ricordate dal Passeri, dal Sandrart e piú dettagliatamente da Cornelis de Bruyn, a Roma nel 1675, e documentate da disegni e incisioni. In basso alcune immagini:





“Vi e poi talun, che col pennel trascore
A dipinger faldoni e guitterie,
E facchini, e monelli, e tagliaborse:
Vignate, carri, calcare, osterie,
Stuolo d’imbriaconi, e genti ghiotti,
Tignosi, tabaccari, e barberie;
Niregnacche, bracon, trentapagnotte:
Chi si cerca pidocchi, e chi si gratta,
E chi vende ai baron le pere cotte;
Un che piscia, un che caca, un che alla gatta
Vende la trippa, Gimignan che suona,
Chi rattopa un boccal, chi la ciabatta...”
"...Da l'atlantico mare a l'eritreo
il decoro non ha dove ricoveri,
ch'ognun s'è dato ad imitar Pirreo:
sol bambocciate in ogni parte annoveri,
né vengono a i pittori altri concetti
che pinger sempre accattatozzi e poveri".


domenica 18 luglio 2010

L'ennesimo Caravaggio. Il Martirio di San Lorenzo e qualche chiarimento



Scoperto un nuovo Caravaggio. Ormai le sue tele escono fuori come i funghi e, guarda caso, proprio nell'anno delle sue celebrazioni. L'annuncio l'ha dato ieri l'Osservatore Romano, pur con molti dubbi; la tela raffigura il Martirio di San Lorenzo ed è stata ritrovata tra le proprietà della Compagnia di Gesù di Roma.  
"Saranno ulteriori indagini diagnostiche e un circostanziato approfondimento documentario, stilistico e critico - scrive - a fornire le risposte". Il giornale vaticano non si sbilancia ma ammette che si tratta almeno di "un caravaggesco della primissima ora". "San Lorenzo - rileva l'articolo - e' raffigurato sulla graticola con le braccia in avanti, quasi a cercare la salvezza e il suo volto giovane, sofferente e disperato mostra quell'umanita' presente nel profondo significato teologico del martirio". Davanti al quadro, aggiunge l'Osservatore, si ha "la stessa sensazione che si percepisce osservando le opere di Caravaggioper la cappella Cerasi a Santa Maria del Popolo". L'Osservatore sottolinea anche che "il Martirio di San Lorenzo costituisce un chiaro riferimento ai dettami iconografici di evidente matrice gesuitica. Di certo è un dipinto stilisticamente impeccabile, bellissimo: notevole è la luce che dal fondo scuro sferza e modella con bagliori improvvisi la superficie dei volumi. Non si può fare a meno di riandare col pensiero a opere come la Conversione di san Paolo, il Martirio di san Matteo o Giuditta e Oloferne".

"Il Martirio di san Lorenzo costituisce - secondo Insolera - un chiaro riferimento ai dettami iconografici di evidente matrice gesuitica". Il realismo era voluto dai gesuiti per facilitare nei novizi, destinati alle terre di missione, la comprensione del momento del martirio, trasformando la paura in accettazione del proprio stato, per il tramite della grazia, proprio come avviene in san Lorenzo. Non è chiaro quale cappella avrebbe dovuto ospitare l’opera, ma è noto che Caravaggio ebbe a che fare con Salustia Cerrini, moglie di Ottavio Crescenzi, della nobile famiglia romana collegata alle vicende della committenza a Caravaggio della cappella Contarelli. La certificazione ancora non c’è, ma i critici - riferisce il giornale vaticano - sono affascinati dall’opera che «sembra avere i crismi per un’attribuzione che, va detto, aspetta ancora la garanzia dell’ufficialità».




Ed ecco, di seguito, alcune considerazioni che ridimensionano l'attribuzione.
Per il giovane studioso Mauro Di Vito, allievo di Mina Gregori, "Dalle foto non mi sembra un Caravaggio. A occhio guardando la foto, da conoscitore di Caravaggio, il 'Martirio di San Lorenzo' dei Gesuiti di cui parla l'Osservatore Romano non mi sembra della qualità sufficiente per considerarlo anche solo una tra le opere meno belle del pittore lombardo". Di Vito mette in guardia dalla "caravaggiomania": "Si vuole a tutti i costi trovare Caravaggio dovunque, mentre - conclude - si cerca di accantonare attribuzioni che sono frutto di lunghi studi, come il 'Cavadenti' attribuito dalla Gregori al Merisi".

Per Vittorio Sgarbi"La notizia sarebbe se si scoprisse un Caravaggio in Lombardia. Noi conosciamo Caravaggio -aggiunge Sgarbi- solo dalle sue opere romane, napoletane, siciliane e maltesi. Scoprire una sua tela in Lombardia significherebbe conoscere la sua pittura prima del suo arrivo a Roma".Quanto all'attribuzione al Merisi del 'Martirio di San Lorenzo' dei Gesuiti, Sgarbi è possibilista e, con la sua solita leggerezza distante da studi specifici afferma: "Non sarebbe impossibile la scoperta di un nuovo Caravaggio a Roma. Non aveva alcuna regola quindi non sappiamo se tra i suoi soggetti ci fosse un martirio di San Lorenzo. Può anche darsi - conclude - ma bisogna verificare attentamente l'opera". (Fonte).

Anche Alfred Breitman e il Gruppo Watching The Sky intervengono sulla scoperta.

"L'opera segue senza dubbio la visione gesuitica dell'arte," spiega l'artista e studioso, "che prevede la rappresentazione di scene realistiche, capaci di infervorare lo spirito del credente, immedesimandolo nel quadro. La crudezza del martirio e la fede del giovane Lorenzo, che si avvale della forza della fede per sopportare la sofferenza, sono elementi esemplari ed educativi, nell'ottica religiosa, specie per i giovani missionari, soggetti a gravi pericoli di persecuzione. Secondo Roberto Bellarmino," continua Breitman, "santo teologo vissuto fra il XVI e il XVII secolo, chi osserva un'opera d'arte e riconosce in essa l'oggetto venerato, si infiamma di passione e più la guarda, più si accende. Il San Lorenzo appena scoperto possiede queste caratteristiche e in esso è evidente l'influsso caravaggesco". Alfred Breitman nota però alcuni aspetti stilistici e iconografici che distinguono l'immagine del martire rispetto alla produzione nota del Caravaggio. "L'opera, nonostante stia ricevendo da ogni parte lodi sublimi, è evidentemente di buona, ma non eccelsa qualità. La pittura del g non è solo 'realistica', ma anche venata di un sottile e sensuale narcisismo, caratteristica che la allontanava dai dettami iconografici stabiliti dalla Compagnia del Gesù. Il genio lombardo prestava un'attenzione assoluta ai particolari della figura umana e in particolar modo a quella dei giovani uomini. La sua arte li mostrava in una vivente, vibrante carnalità, da cui trasudava come un insaziabile anelito lo spirito. Il San Lorenzo, al contrario, è greve, molle e scomposto. In lui non si agitano né la violenza della pena né quella della fede: è già più intenso e viene da più lontano il grido del caravaggesco Ragazzo morso da un ramarro! E' strano come nessuno si sia accorto di quanto siano sgraziati i rapporti fra le membra del giovane, sottolineati da una luce impietosa, e delle sue orecchie brutte ed enormi, quando le orecchie dipinte nelle opere certe del maestro sono armoniose e belle come conchiglie di mare". Fra tante voci fuori dal coro che inneggia al capolavoro ritrovato, oltre a quella di Breitman vi è quella della criticata soprintendente del polo romano Rossella Vodret (consigliata da Gianni Letta al posto di Strinati e gradita alla Presidenza del Consiglio, chiamata in causa ultimamente per la controversa mostra "Il Potere e la Grazia". Fonte), che ha detto: "Mi sembra un quadro bello e interessante, ma l'attribuzione al Merisi è da approfondire. Sono stata chiamata nei giorni scorsi dal rettore della Chiesa del Gesù per vedere il quadro, ma purtroppo non ho avuto tempo: ci andrò sicuramente lunedi». «Per ora - sottolinea ancora - ho visto l'opera solo su Internet e direi, a freddo, che non mi sembra un Caravaggio, pur essendo un lavoro che ha sicuramente legami con l'artista e con la sua cerchia. Ma vale la pena di andare a fondo, anche grazie agli ottimi strumenti che abbiamo a disposizione e che ci consentono risposte precise. Trovo strano che si tratti di un originale non documentato, non citato dalle fonti. Ma tutto può succedere". (Fonte).
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Se l'autore non è il Caravaggio, quale firma potrebbe celarsi dietro al San Lorenzo? "Un artista vicino alla Compagnia del Gesù," spiega Breitman, "caravaggista della prima ora e dotato di buona maestria tecnica, ma non del dono del genio. Dovrei analizzare l'opera da vicino, ma a prima vista, direi che potrebbe essere un lavoro di Giovanni Baglione, il 'nemico' giurato del Caravaggio, che lo apostrofò come plagiatore e fu da lui citato in giudizio per diffamazione. Il Baglione realizzò diverse opere per i gesuiti e in particolare una grande Resurrezione per la Chiesa del Gesù. Il Caravaggio espresse questo giudizio, sull'arte del rivale: 'Quella pittura a me non piace, perché è goffa'. Le stesse imprecisioni anatomiche riscontrabili nel San Lorenzo, sono presenti in opere del Baglione come L'amore divino e l'amore profano o il San Sebastiano curato da un angelo". (Fonte)

Concordo con questa analisi; dalla scarsissima immagine la posa del santo appare troppo affettata e le membra non del tutto proporzionate col corpo (tozzo e quasi goffo il braccio sinistro); e poi c'è quel panneggio sul corpo che, forse un'aggiunta successiva, ma sa tanto di Novecento (Zeri, forse ci avrebbe visto un Guttuso).

Intanto, più di ventimila persone hanno partecipato a “La notte di Caravaggio”, propaggine della tanto lodata mostra-Blockbusterconclusasi stamani. La rassegna ha ripercorso idealmente la maturazione artistica del genio di Michelangelo Merisi, con opere esposte in chiese e nei maggiori poli museali romani, tra cui la Galleria Borghese. A riguardo di tutta questa vuota celebrazione che sa tanto di consumo, un bel post, che condivido pienamente, dall'interessantissimo blog Almanacco Romano. Segue:

~ UNA STRANA FESTA PER IL CARAVAGGIO ~
San Michelangelo da Caravaggio, canonizzato dai sottosegretari, dai sovraintendenti e dagli assessori, hanno cercato le tue ossa come si fa per i santi e, una volta trovatele, le hanno esposte come reliquie, tra poco ci costruiranno pure un santuario. Quando mai i cadaveri dei pittori interessano qualcuno? Ma di te raccontano una specie di passione, la tua morte diventa un martirio. Stanotte ti celebrano per Roma, nelle chiese ornate dalle tue opere, scegliendo per data della festa, come si fa per chi sale alla gloria degli altari, il giorno della tua morte, il dies mortis, che corrisponde per gli eletti della Chiesa romana al dies natalis in Cielo. Noi non sappiamo se dopo la morte di febbre nella selvaggia Maremma tu sia immediatamente rinato in Paradiso, senza un giorno di Purgatorio, a noi ci sembri comunque un buon cristiano, e cristianissima, anzi cattolica controriformista, appare l’arte tua. Ma gli organizzatori della festa son gente un po’ ipocrita, di quel genere che avrebbe suscitato la tua rabbia irruenta e forse anche la violenza di cui raccontano i biografi. Siamo certi che non ci avresti messo molto a malmenare chi ti chiama «intrattenitore» o i feticisti del culturame che scrivono lo slogan della serata: «rinfrescarsi con l’arte all’ombra del Caravaggio». Al ministero dei Beni culturali ti trattano come un ventilatore o un pinguino dell’aria condizionata. Con te ci hanno preso gusto perché attiri le folle attaccate alle figure, alle storie, alla verosimiglianza, alla fisicità, alla somiglianza miracolosa con il creato. Sì, son quelli i tuoi miracoli da pittore. E con te è sempre successo grande, i soldi si fanno facilmente: basta il tuo nome per smuovere chi è nauseato dai concettualismi e vuol vedere la carne dipinta, la carne peccaminosa e redenta. Così hanno incassato molto con la mostra alle Scuderie, la cui notte finale sorprese anche i più ottimisti, e ci riprovano subito, con scarsa fantasia e molta ingordigia. C’è, soprattutto tra i gazzettieri, chi ti invoca come una rockstar e chi ti considera un succedaneo delle notti bianche, in ogni caso una trovata per richiamare i turisti annoiati o per movimentare l’estate romana. Una parte degli incassi che ricavano con questa pittura realistica saranno dirottati per nutrire la bestialità del ‘contemporaneo’, cosicché servirai ad arricchire gli iconoclasti con la sceneggiata in tuo onore. Del resto i burocrati e i mercanti dell’arte sanno bene che non si vive di incerti sperimentalismi e che ci vuole la vecchia pittura, magari anche per allontanarsene a menar scandalo. Siccome poi, quando ti hanno accostato all’isterico Bacon, le cose non sono andate troppo bene, adesso la nuova sovraintendente sta attenta a non mescolarti più con chi vive di luce riflessa, non conviene. Noi abbiamo la tua opera sparsa per le chiese romane, grazie a committenti – preti, cardinali, confraternite e nobili papalini – ben più abili di quelli attuali – pubblici, laici, modaioli – , che comprano a carissimo prezzo delle inutilità che si dimenticano in un battibaleno. Ma alla fine saranno loro a cantare vittoria confondendo i numeri dei tuoi pellegrini notturni con quelli del Maxxi e del Macro, facendo come al solito d’ogni erba un fascio, cercando in ogni modo di gabbare il santo.



News:


C'è da aggiungere oggi, 26 luglio, il parere di Paolucci, direttore dei Musei Vaticani e grande studioso di Caravaggio, il quale, dalle pagine dello stesso Osservatore Romano che aveva dato la notizia, stronca il dipinto: un caravaggesco di qualità, negli anni fra i Venti e i Trenta del XVII secolo, ha voluto dare al Martirio di san Lorenzo la smagliante evidenza del Vero, il valore esemplare in certo senso catechetico del martirio. La memoria di un dipinto che deve essere stato comunque notevole e che per qualche ragione è andato perduto, è oggi consegnata alla tela, oggettivamente modesta, che sta al Gesù di Roma.
Magie della caravaggiomania.






Di poche ore fa, invece, dal sito dell'ANSA, il parere di altri illustri esperti.
ROMA - Non e' di Caravaggio e non c'e' nemmeno la mano del grande maestro lombardo nel Martirio di San Lorenzo, di proprieta' dei Gesuiti. Dopo il direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci, che ha negato ieri dalle pagine dell'Osservatore Romano una possibile attribuzione, anche altri autorevoli esperti, convocati a Roma dalla soprintendente del Polo museale Rossella Vodret, non hanno dubbi e si uniscono alla smentita.

La tela ritrovata, concordano pur dopo un'analisi all'impronta la Vodret, Gianni Papi, Marco Bona Castellotti, Sybille Ebert Schifferer, Beatrice De Ruggeri, sarebbe piuttosto opera di un caravaggesco, ovvero di un pittore seguace del Caravaggio, quasi certamente meridionale, di area campana o forse ancora piu' a sud, verso la Sicilia e Malta.

Di piu' potranno dire le indagini diagnostiche, annunciate per settembre dalla soprintendenza e finanziate dall'Abi, sponsor per i gesuiti anche del primo restauro della tela. Mentre il direttore della Chiesa del Gesu', padre Daniele Libanori, rivela che i gesuiti ''sono stati sorpresi e spaesati'' dalla decisione dell'Osservatore Romano di pubblicare in prima pagina nel giorno dell'anniversario della morte di Caravaggio, e con un titolo strillato, l'articolo della studiosa Salvucci Insolera, che con ogni prudenza ne proponeva l'attribuzione prestigiosa. ''Tutto questo interesse che poi ne e' derivato ci ha stupito e ci e' sembrato improprio'', commenta, ''anche per questo abbiamo poi voluto consultare sempre la soprintendenza e abbiamo deciso di esporlo agli studiosi''. Tra questi, il toscano Gianni Papi, che e' il curatore della grande mostra in corso a Firenze sui Caravaggeschi, fa i nomi di Michele Cassarino e di Marco Minniti: ''potrebbe trattarsi di un quadro realizzato tra la Sicilia e Malta'', dice.

Un'ipotesi che convince la soprintendente Vodret, per la quale si tratta comunque di un quadro ''molto interessante'' con alcune ''parti di grande qualita''', come l'idea di ritrarre il santo prono sulla graticola, e ''cadute importanti''. Per la soprintendente potrebbe avere un senso l'attribuzione al siciliano Minniti, amico del Caravaggio, e la tela potrebbe risalire al secondo decennio del Seicento, quanto il genio lombardo era morto da poco. Non crede ad una attribuzione a Minniti, invece, Sybille Ebert Schifferer, che pensa piuttosto ad un pittore della cerchia meridionale tra Napoli e la Calabria. Pensa a ''certi aspetti della pittura maltese'' Marco Bona Castellotti.

Delle indagini diagnostiche si occupera' Beatrice De Ruggeri, anche lei convinta che la tela non sia di Caravaggio. Gli esami, che costeranno tra i 2.500 ed i 3.000 euro, richiederanno, spiega, qualche settimana di lavoro. Ancora da indagare anche la provenienza del quadro, che e' di proprieta' dei gesuiti. L'ultima collocazione nota, precisa padre Libanori, e' del 1927. ''Era molto sporco e scuro - dice - abbiamo pensato di restaurarlo in omaggio ai 400 anni dalla morte di Caravaggio''. Nessun particolare stupore per il ritrovamento: ''Nelle nostre case - aggiunge accanto a lui un altro gesuita - ci sono stati e ci sono tesori che nemmeno noi conosciamo, solo negli ultimi tempi ci siamo impegnati in un inventario''.


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