Visualizzazione post con etichetta anacronismi. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta anacronismi. Mostra tutti i post

martedì 4 ottobre 2016

venerdì 23 settembre 2016

mercoledì 18 febbraio 2015

Il più bel Silmarillion miniato

Silmarillion
L’opera è il frutto di un anno di fatiche di uno studente tedesco, Benjamin Harff, che per l’esame finale all'Accademia di belle Arti, ha voluto creare una edizione di lusso, la Edel Silmarillion.(Fonte)

Book of Kells


mercoledì 4 giugno 2014

domenica 2 marzo 2014

La Grande Bellezza di Sorrentino e l'arte

Un interessante proposta per leggere la Grande Bellezza di Sorrentino sotto lo sguardo della storia dell'arte con influenze e ispirazioni. Il film vive in effetti di questo perenne scambio osmotico tra bellezza, struttura e forma, e disordine (sopratutto interno e mentale) e decadenza. Uno sguardo disincantato e trasognato tra le pieghe di una città eterna per nome e per questo quasi indifferente, o superiore, agli sviluppi della microstoria. Ma il tempo che passa, e segna i passi dei protagonisti, è forse l'elemento che più di tutti concorre a trasfigurare l'esistenza singola e collettiva. Allora la città appare come un'infinito elogio alla vanità e alla bellezza delle cose.

"L’invito a scorrere mentalmente i fotogrammi de La Grande Bellezza chiedendo loro se riescono a vedere nella filigrana di quest’opera alcune grandi opere della storia dell’arte del nostro Paese, anzi del nostro continente. Nella galleria qui acclusa vengono infatti proposte della ‘diadi’: un frammento del film di Sorrentino e un’opera della storia dell’arte (l’intero o un dettaglio), l’uno come codice cifrato dell’altra, in un gioco di riflessi che meriterebbe, forse, un’analisi sistematica e dettagliata. Chi ha condotto questa ricerca – che proponiamo come atto di informazione realizzato davvero gratis et amore da tutti coloro che vi hanno preso parte – ha pensato e trovato decine di diadi: quelle della galleria di PEM, che l’Istituto italiano di cultura di Los Angeles ha accolto per offrirle in visione a chi passa in quelle sale all’approssimarsi della notte degli Oscar, sono solo alcune, citate qui come fossero il campionario di una mostra ancora da fare e di un libro da scrivere". (Fonte: Treccani)


Rembrandt, attribuito, Testa di Cristo, XVII sec. Filadelfia, Philadelphia Museum 


Georges Seurat, Studio per Une dimanche après midi à l’Île de la Grande Jatte, 1884-1885. New York, Metropolitan Museum of Art


Umberto Boccioni, La risata, 1911 New York, Museum of Modern Art (MoMA)


Amedeo Modigliani, Nudo disteso, 1917 New York, Metropolitan Museum of Art


Luis Tristán de Escamilla, Santa Monica, 1616. Madrid, Prado

giovedì 28 febbraio 2013

Dalì e Bosch

Sull'ultimo numero di Art e dossier Marco Bussagli propone questo interessante confronto tra Dalì e Bosch, già proposto in Arte ed erotismo, in cui nota alcune affinità tra la testa con l'occhio chiuso de Il grande masturbatore e un particolare dal Trittico delle delizie dell'artista fiammingo. Ecco il confronto.



sabato 17 novembre 2012

L'utopia dell'isola di Hashima

Con questo post voglio inaugurare una nuova tag, le città invisibili, che trattano di quelle che chiamo città dello spirito dove lo spazio a misura o meno d'uomo ispira il sublime. La buona architettura è quella che sa invecchiare. Probabilmente è l'utopia della costruzione ad aver formato quest'isola che pesca la sua forma nei nostri sogni ma che, resa scheletrica dall'abbandono, ci mostra un'immagine sorprendentemente affascinante. E' in fondo il fascino della rovina, di una nuova acropoli moderna e industriale, ma anche l'angoscia dell'horror vacui, la struttura labirintica, il gioco di prospettive, come si ci trovassimo di fronte ad una costruzione della mente che sa tanto delle carceri piranesiane quanto di rovine antiche. E' forse questa è la sua contraddizione.



L'isola di Hashima sperduta tra le 505 isole disabitate della prefettura di Nagasaki, in Giappone, è un luogo spettrale e affascinante, meta di un insolito turismo. L'isola è chiamata ancheGunkanjima, che significa "nave da guerra", per via dell'aspetto che assume il suo profilo sul letto dell'Oceano: un'isola grigia e decadente, circondata da un grande muro di cemento e i cui edifici prossimi al collasso vanno a delineare la forma di una specie di grande nave da guerra. Questa misteriosa isola fu costruita sopra un'importante miniera di carbone che, nel periodo compreso tra il 1887 ed il 1974, contribuiva notevolmente a rifornire di energia la città di Nagasaki, che si trovava ad un'ora di navigazione. Era un polo minerario talmente importante che decisero di costruire centinaia di appartamenti per i minatori, con scuole, ospedali, palestre, cinema, bar, ristoranti e negozi per le rispettive famiglie. Furono costruiti anche i primi edifici in cemento armato della storia del Giappone, per difendersi dai frequenti tifoni che si abbattono su quelle zone. Nel 1959 l'isola di Hashima arrivò ad avere la più alta densità di popolazione mai registrata in tutto il mondo: ben 3.450 abitanti per km². Gli appartamenti erano come delle celle per monaci, piccoli e soffocanti, e gli abitanti erano suddivisi in "caste": minatori non sposati, minatori sposati e con famiglia, e dirigenti della Mitsubishi e insegnati, che potevano persino godere del lusso di avere una cucina e un bagno privato. La sopravvivenza di Hashima dipendeva interamente dai rifornimenti via terra e se un tifone si abbatteva sull'isola, i suoi abitanti dovevano cercare di sopravvivere per giorni in attesa della prossima nave cargo.

Nel periodo di massima attività l'isola produceva 410.000 tonnellate di carbone all'anno. L'isola di Hashima fu abbandonata dopo che il petrolio iniziò a sostituire il carbone come fonte di energia. Dal 1974 Gunkanjima è una città fantasma. Nonostante sia stato un luogo di sofferenza, di stenti e di morte, Hashima rappresenta un importante pezzo di storia per il Giappone e il suo sviluppo industriale post-bellico. Oggi l'isola è un cimitero di edifici decadenti e destinati al crollo ma, proprio per il suo fascino spettrale, è meta di appassionati di esplorazione urbana e di cineasti. Nel 2005 fu concesso ad alcuni giornalisti di accedere all'isola e da allora tutto il mondo è venuto a conoscenza dell'esistenza di questo luogo incredibile. Fino al 2009 si rischiava il carcere se si provava a mettere piede nella città fantasma ma, nell'aprile di quell'anno, una parte dell'isola è stata riaperta per le visite, anche se, a causa delle condizioni del mare, è possibile accedervi solo per 160 giorni l'anno.








venerdì 21 settembre 2012

La crocifissione di San Giovanni della Croce e Dalì

San Giovanni della Croce non è stato solo uno dei più grandi mistici cristiani ma anche un sommo artista sia come poeta che come disegnatore. Un giorno, siamo nel 1575, nella chiesa dell'Incarnazione Giovanni ha una visione. Mentre è appartato in preghiera, in un'angolo che da sul transetto, Cristo gli appare sulla Croce. Ha la testa reclinata sul petto, le braccia sostenute da pesanti chiodi, le gambe piegate sotto il peso del corpo, con un'espressione di assenso totale al sacrificio. Cessata la visione prende carta e penna e riproduce quanto ha visto. E' l'unico disegno di Giovanni che si conserva (ma non è improbabile che dovette farne altri) e unica è l'impressione che si ha guardandolo poiché il mistico prevale sul tragico. E' violento ma percorso da una grande dolcezza, la densità dei tratti, l'anatomia del corpo in contorsione, la nervosità delle linee hanno fatto credere ad un disegno miracoloso ma è normale che Giovanni abbia studiato disegno e pertanto la carica mistica aumenta la forza evocativa. Cristo è contemplato di lato e dall'alto, con uno scorcio di incredibile realismo, ed emana il senso supremo del sacrificio e della costrizione. Non è un caso che secoli dopo Dalì nel 1951, durante la sua fase di recupero della pittura rinascimentale e dell'iconografia cristiana, eseguirà un crocifisso ispirandosi proprio allo schizzo del santo accentuando la prospettiva e lo scorcio impossibile.

S. Giovanni della Croce - crocifissione

Dalì - Il Cristo di San Giovanni della Croce
L’opera fa parte della copiosa produzione pittorica di Salvador Dalì dopo il suo drammatico distacco dal movimento surrealista, voluto nel 1934 da André Breton. La grande tela è oggi conservata all’Art Gallery di Glasgow in Scozia. Ai margini della composizione un desolato paesaggio lacustre disegnato con grande precisione è popolato solo da tre figure, rese sommariamente, occupate nella poro attività di pescatori. I netti profili delle basse montagne che si stagliano contro l’orizzonte sono segnati da una luce vitrea emessa dal sole ormai al tramonto. Come una visione il cielo si apre e appare una crocifissione, colta dall’alto, che occupa la parte più ampia dello spazio, forse a ricordare che l’umanità deve necessariamente rispondere del sacrificio di Nostro Signore. La luce divina colpisce con violenza la parte superiore della grande croce e sfiora il corpo senza vita di Cristo mettendone in risalto la muscolatura; il gioco chiaroscurale è determinante sia per rendere più palpabile il miracolo che per aumentare la drammaticità consona alla scena. Salvador Dalì lo dipinse in un momento di rimeditazione del mondo cattolico, contemporaneamente alla pubblicazione del “Manifesto Mistico”, a cui l’artista affida le sue riflessioni sul delicato tema e a una serie di opere a soggetto sacro fra le quali voglio qui ricordare la crocifissione del Metropolitan di New York, datata 1954, che però propone un modulo ammanierato che rende opaca la composizione. Nonostante l’attualizzazione del tema sacro, in questo quadro Salvador Dalì mantenne rapporti con la pittura del passato: la figura vicina alla barca è desunta da “Le Nain”, mentre quella a sinistra è tratta da un disegno preparatorio di Velàzquez per la Resa di Brera.

E' questa l'opera di un artista geniale che, dopo aver vagato errante in cerca d'assoluto, alla fine confida: "Il Cielo non si trova nè in alto nè in basso, nè a destra nè a sinistra, il Cielo si trova esattamente al centro dell'uomo che ha Fede...Ora io non ho ancora la Fede e temo di morire senza Cielo".

lunedì 14 maggio 2012

Dall'opera alla foto. Bansky e Balthus

Due casi di fotografi che reinterpretano opere d'arte. Nel primo caso il  fotografo di Los Angeles Nick Stern ha realizzato degli scatti che vanno a riprodurre le opere d'arte di Banksy trasformando così in scene di vita reale i suoi celebri stencil. Nel secondo caso sondando il labile confine tra luce e oscurità, innocenza e malizia, fantasticherie dell’infanzia e ossessioni adulte, Hisaji Hara ha puntato il suo obiettivo sul Giappone e le lolite in uniforme scolastica, recuperando soggetti, oggetti di scena e le pose morbosamente conturbanti di alcuni quadri di Balthus.









giovedì 16 febbraio 2012

Le ceramiche di Giò Ponti


amore per l'antichità
Tra le opere più affascinanti del Novecento italiano annovero di certo le ceramiche di Giò Ponti. Ponti, architetto e designer italiano, proprio in questi oggetti decorativi ha dato il meglio di sè per la freschezza dell'inventiva, la genuinità del disegno sintetico e l'unione di tante e svariate influenze in un'unico stile ecclettico e ricercato. I decori ispirati all’arte greca, romana, etrusca e all’architettura palladiana ma anche alle recenti conquiste del cubismo (analitico e sintetico) e dell'astrattismo sono quanto di più studiato e spontaneo allo stesso tempo. Mai una linea di troppo o un contorno che sfiora la retorica delle forme, mai un tentennamento nel segno o nella struttura. Tutto è calibrato e armonico col colore, mai invasivo, che costruisce la struttura più che decorarla. Inizialmente nelle ceramiche il suo disegno riflette la Secessione viennese e sostiene che decorazione tradizionale e arte moderna non sono incompatibili. In seguito riscopre i valori del passato, il razionalismo e il realismo magico tanto che trova sostenitori nel regime fascista incline alla salvaguardia dell’identità italiana e al recupero degli ideali della “romanità” che si esprimerà poi compiutamente in architettura con il neoclassicismo semplificato del Piacentini. Bellissimo l'originale e vitale recupero dell'antichità. "Non è il cemento, non è il legno, non è la pietra, non è l’acciaio, non è il vetro l’elemento più resistente. Il materiale più resistente nell’edilizia è l’arte" soleva ripetere l'artista e allora si comprende come queste ricerche di designer non tentavano tanto ad estetizzare l'oggetto comune quanto riscoprivano tutta la prassi della bottega che creava, anche l'accessorio più inutile con la stessa perizia e attenzione adoperate ad esempio per una tela. La serie più significativa è stata quella realizzata dalla manifattura Richard Ginori, di cui Gio Ponti fu direttore artistico negli anni Venti, con la produzione che si colloca tra il 1923 e il 1930 destinata alla ricca borghesia milanese. 

"Le opere rivelano l’originalità e la straordinaria modernità di questo “neoclassico a Milano”, come fu definito da un critico d’eccezione quale Carlo Carrà, che recensì la primaMostra internazionale di arti decorative a Monza nel 1923, elogiando il giovane architetto per le sue prime ceramiche. E si può tranquillamente affermare che il grande pittore aveva visto giusto, dato che due anni dopo Ponti presentò le sue opere alla Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes a Parigi, vincendo il “Gran Prix”. Le immagini su vasi, centritavola e maioliche traggono ispirazione dall’antichità classica per le figure mitologiche, ma non mancano vedute prospettiche di chiaro stampo rinascimentale o ancora, sfondi teatrali e personaggi Déco, fusi in uno stile nuovo e inconfondibile che sembra quasi surrealista. Il tutto è sospeso, infatti, in una dimensione quasi metafisica, come sospesi sono i personaggi e gli oggetti raffigurati: donne formose avvolte tra le nuvole, animali, clown, barche. Il richiamo all’antico è facilmente riconoscibile: ogni opera presenta forme e decorazioni che si rifanno all’arte vascolare greca, etrusca e romana, come coppe e cisti (c’è anche quella che Ponti dedicò al più temuto critico di allora, Ugo Ojetti).Ad introdurre la mostra, una decina di grandi foto che riproducono particolari del Pirellone: buona l’idea di riutilizzare proprio il 'contenitore' della mostra per confrontare spazi e linee con le ceramiche (e questo fa la differenza rispetto alle tante altre mostre analoghe sul Ponti ceramista, recenti e lontane). Peccato che manchino le informazioni sulle architetture; e comunque si sarebbero potuti aggiungere altri scatti nel percorso, ad esempio in fondo nell’ultimo angolo rimasto 'sguarnito'" (fonte).

Per approfondire consiglio questo libro: Giò Ponti. Il fascino della ceramica.
prospettiva



putti con serpente




le attività gentili

passeggiata archeologica

allegoria dell'architettura

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...