mercoledì 28 settembre 2011

Paleofuturismo

Cinghiale dalle grotte di Altamira
Balla - Dinamismo di un cane al guinzaglio

sabato 17 settembre 2011

Pippin Barr - The artist is present

Per chi non ha avuto la possibilità di sedersi con Marina Abramovic nel corso della sua performance al Moma ci ha pensato Pippin Barr con un videogame in 8-bit. Ha anche aggiornato il biglietto che costa 25 dollari mentre la fila per arrivare all'artista è lunga da scorrere.


venerdì 16 settembre 2011

Cosa resta del Louvre?

the Louvre during the Second World War.

Il giallo del rosso pompeiano

In questo clima di perdita delle certezze è la volta del mitico colore rosso pompeiano che, secondo recenti studi, sarebbe un giallo modificato dai gas del Vesuvio.

Il famoso "rosso pompeiano" in realtà era un colore giallo, modificato dai gas dell'eruzione del Vesuvio. Gran parte del colore che caratterizza le pareti delle ville di Ercolano e di Pompei in origine era un giallo ocra e a dirlo è una ricerca condotta da Sergio Omarini dell'Istituto nazionale di Ottica del Consiglio nazionale delle ricerche di Firenze. 

«Grazie ad alcune indagini abbiamo potuto accertare che il colore simbolo dei siti archeologici campani, in realtà, è frutto dell'azione del gas ad alta temperatura la cui fuoriuscita precedette l'eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 dopo Cristo - spiega Omarini - Il fenomeno di questa mutazione cromatica era già noto agli esperti, ma lo studio realizzato dall'Ino-Cnr e promosso dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei ha finalmente permesso di quantificarne la portata, almeno ad Ercolano». 

L'immaginario delle due antiche città va insomma ribaltato. «Le pareti attualmente percepite come rosse sono 246 e le gialle 57, ma stando ai risultati in origine dovevano essere rispettivamente 165 e 138, per un'area di sicura trasformazione di oltre 150 metri quadrati di parete - prosegue Omarini - Questa scoperta permette di reimpostare gli aspetti originari della città in modo completamente diverso da quello conosciuto, dove prevale il rosso chiamato appunto "pompeiano"». 

Il risultato viene presentato in occasione della VII Conferenza nazionale del colore oggi e domani a Roma nell'Università La Sapienza (Facoltà di ingegneria). «Il rosso anticamente si otteneva con il cinabro, composto di mercurio, e dal minio, composto di piombo, pigmenti più rari e costosi, utilizzati soprattutto nei dipinti, oppure scaldando l'ocra gialla, una terra di facile reperibilità - conclude il ricercatore - Quest'ultimo effetto, descritto anticamente da Plinio e Vitruvio, si può percepire anche ad occhio nudo nelle fenditure che solcano le pareti rosse di Ercolano e Pompei». Le indagini, sono state condotte con strumenti non invasivi: lo spettrofotocolorimetro per misurare il colore e la fluorescenza X che ha consentito di rivelare la presenza di elementi chimici per escludere il minio e cinabro. (Il messaggero)

martedì 13 settembre 2011

Giovan Battista Villari detto Il Caparra

Giovan Battista Villari detto Il Caparra, grande pittore romano dimenticato. Altro che quello scarparo di Caravaggio. La situazione presa dal film Fantasmi a Roma è così simpatica e plausibile che ho voluto pubblicarla; e tra l'altro esiste un artista detto Il Caparra, era fiorentino, del Quattrocento, citato anche dal Vasari per essere un maestro del ferro.

lunedì 12 settembre 2011

L'apocalisse secondo Martin

La fama di John Martin (1789–1854) è legata soprattutto alla sua straordinaria abilità nel ritrarre scene drammatiche di distruzioni apocalittiche e disastri biblici. La mostra organizzata a Londra al Tate Britain dal 21 settembre al 15 gennaio raccoglie sia le sue opere più celebri, sia i lavori realizzati in gioventù. Il focus dell’esibizione è sul modo in cui la sua ricerca artistica e il suo populismo si congiungono alla cultura contemporanea. Dal suo quadro più famoso e spettacolare, "Apocalisse", la Tate, per il lancio della mostra, ha ricavato un promo che alla fine mostra come sarebbe se tutto ciò accadesse.


giovedì 1 settembre 2011

Jean Clair - L'inverno della cultura


Non ne potete più di Biennali invase da installazioni simili a discariche, di gallerie occupate da esercizi concettuali incomprensibili? Non ne potete più di animali in formaldeide, di sculture fumettistiche, di pontefici abbattuti da meteoriti? Provate un profondo fastidio di fronte alle mostre blockbuster e al degrado di molti musei, trasformati in supermarket? Non vi resta che leggere gli scritti di Jean Clair, il cui ultimo pamphlet, L' hiver de la culture , è uscito in Francia da Flammarion (in Italia lo pubblicherà Skira a novembre). Diario di sconfitte, taccuino di indignazioni, è il quarto momento di un percorso avviato nel 1989 con Critica della modernità , e proseguito nel 2004 con De Immundo e nel 2007 con La crisi dei musei . Sono i tasselli di un polittico coerente, che rivela una forte tensione etica. Paragrafi di un discorso teorico d' impronta conservatrice. «L' atteggiamento reazionario è più utile di ogni illusione di progresso», ci dice Clair. Già direttore del Musée Picasso di Parigi e conservatore del Patrimonio di Francia, direttore della Biennale di Venezia del centenario (nel 1995), dal 2008 membro dell' Académie française, Clair è un raffinato intellettuale che non ha niente in comune con la maggior parte dei critici militanti di oggi, attenti soprattutto ad assecondare le mode e il gusto. Immune da questo vizio, riesce a essere saggista e polemista: si abbandona a un' affabulazione ricca di seduzioni. Nelle sue analisi, tende a iscrivere le diffidenze sempre più diffuse nei confronti delle degenerazioni dell' arte contemporanea dentro una cornice sofisticata, densa di riferimenti storico-letterari. Da moderno-antimoderno, sceglie di interpretare le esperienze del nostro tempo senza mai aderirvi: si mette di lato, cercando di salvaguardare l' aristocrazia dello sguardo. Per comprendere il senso della sua «azione», potremmo richiamarci al Pasolini degli Scritti corsari - insofferente di fronte a ogni omologazione - e a Il tramonto dell' Occidente , monumentale affresco della nostra civiltà. Riprendendo motivi della filosofia di Spengler, in sintonia con il Fumaroli di Paris-New York et retour , Clair parla di «hiver de la culture». Nel «nostro» inverno, la cultura non è più spazio di una religiosità laica, né strumento per «rendere il mondo abitabile», conducendo verso «una trascendenza al di là delle parole». A prevalere è una logica mercantile. Clair spiega: «Siamo stati riportati a terra, tra paesi desertificati». Dunque, addio cultura. «Resta solo il culturale: che è simulacro, imbroglio, scarto, parola di riflessi condizionati, dispersione, vaporizzazione». Stiamo assistendo al crollo di un edificio millenario. Si pensi alla situazione in cui versano i musei. Grandi magazzini: «Depositi di civilizzazioni defunte» - ripete - dove si allineano i dipinti secondo criteri cronologici. Lì si stipano individui solitari, che trovano nel «culto dell' arte la loro ultima avventura collettiva». Vanno al Louvre o agli Uffizi come una volta ci si recava nei templi. Si spostano in gruppo: «Più la gente è sola, più va al museo». Chiassosi pellegrini postmoderni, vanno all' assalto di mostre-evento, che esercitano uno straordinario potere attrattivo. Di fronte alle miserie del presente, scelgono di rifugiarsi nel passato, in un «miscuglio di timida e paurosa reverenza». Preferiscono un quadro a un libro, perché l' immagine possiede un' imperiosa immediatezza, che si concede «senza fatica, in una profusione di significati possibili». Andare in un museo, per loro, è solo un modo per distrarsi. Da più parti, si insegue la risposta del pubblico di massa, dimenticando che, come ripeteva Georges-Henri Rivière, «il successo di un museo non si misura dal numero dei visitatori che riceve, ma dal numero dei visitatori cui insegna qualcosa». La medesima deriva si può ritrovare in molte sperimentazioni delle post-avanguardie, esaminate da Clair anche in un piccolo libro-intervista, Breve storia dell' arte moderna (Skira). Gli scenari attuali sono caratterizzati da due indirizzi. Da un lato, un soggettivismo narcisistico, basato sull' esibizione degli scarti del corpo. Artisti come Serrano, Orlan e Sherman fanno l' elogio della spontaneità e della violenza. Pensano l' opera come «mostruosità, rifiuto, cosa abietta, informe e senza vita». Testimoni di un' estetica del disgusto, esaltano l' ego onnipotente. Trascrivono pulsioni irrefrenabili. Sfidano ogni morale, con un «gesto portato all' estremo limite, e finalmente alla performance». Dall' altro lato, ecco gli eredi di Duchamp: Cattelan, Hirst, Koons, Murakami, i fratelli Chapman. Sostenitori di uno stile non supportato da conoscenze tecniche, i post-dadaisti non frequentano più botteghe. Privi di mestiere, studiano solo le strategie del marketing. Si comportano come nuotatori che, per non affogare, compiono esclusivamente atti disperati. «Poveri noi, a volte, con i loro gingilli senza talento, vengono ospitati in musei prestigiosi o in siti storici come Versailles. Siamo proprio ridotti male...». Dal dopoguerra, dice Clair, è iniziato un drammatico declino, segnato da scandali, da rivoluzioni permanenti, dalla tirannia di un «nuovo» senza origine. Siamo nella geografia del negativo. In un teatro di pantomime burlesche: un teatro «festivo e funebre, venale e mortificante», contagiato da blasfemie. L' artista del nostro tempo non è più un profeta. «Somiglia all' assassino di cui aveva scritto Thomas de Quincey: pratica la dissacrazione, la profanazione, il furore omicida». Come uscire da questo abisso? Clair non ha dubbi. In un' epoca che tende a trasformare tutto in intrattenimento, bisogna riaffermare la grandeur ; sottolineare l' importanza di quello che Robert Hughes ha definito l' «inestimabile», evitando ogni confusione tra prezzo e valore dell' opera. Ritornare alla figurazione; riscoprire sobrietà, equilibrio, sapienza. «L' arte deve darsi di nuovo, come tessuto di continuità, immobilità e silenzio; costruzione che si vede, si dà nel tempo e nel tempo si ritrova». Universo di bellezza e di purezza. Emozione, colpo al cuore. Esperienza mistica, fondata su segrete ragioni spirituali. Artificio per dare voce - è quanto hanno fatto personalità solitarie come Lucian Freud e Zoran Music - a «temi sociali o addirittura politici», a interrogazioni assolute e drammatiche. «Senza questo dramma l' opera non vale niente, non dice niente, è irresponsabile», osserva Clair. In L' hiver de la culture Clair oscilla tra pessimismo e nostalgia. Per un verso, descrive gli esiti di una catastrofe: i contorni di un' apocalisse. Per un altro verso, auspica il recupero di regole classiche. Il suo è un racconto critico radicale, spietato, volto a smascherare falsi miti e fragili leggende. Un racconto che, tuttavia, tende a proporre gerarchie forse desuete tra arti maggiori e arti minori. Per Clair, infatti, esistono frontiere che non bisogna mai valicare tra la cultura alta - fatta di sculture e quadri - e la cultura pop, fatta di cartoon, graffiti, video. «La discesa dall' high culture alla low culture è una discesa agli inferi», ci dice. Un esempio: i fumetti di Art Spiegelman sul nazismo non hanno lo stesso valore dei disegni su Dachau e Buchenwald di Music, Taslitzky e Colville, i quali hanno saputo dare di quegli orrori un «equivalente plastico di incontestabile bellezza». È davvero così? Difendere la specificità «storica» di pittura e scultura suona come un ritorno all' ordine troppo anacronistico. Impedisce di misurarsi con il paesaggio in divenire delle poetiche attuali. Lo sforzo sta non nel rifiutare «tutto» il presente, ma nel riconoscere ciò che, in esso, ha autentica forza. Inutile invocare la ripresa di categorie tradizionali. Meglio confrontarsi con artisti - come Kentridge, Viola, Kiefer o Paladino - impegnati nella riflessione sulle proprietà tecniche del linguaggio di cui, di volta in volta, si servono. Clair coglie solo le opacità del nostro tempo. Sembra dimenticare che, anche nel cuore della notte, esistono improvvisi sprazzi di luce. Proprio nel buio, è necessario aprire gli occhi, in cerca di quelle lucciole di cui aveva parlato Pasolini sul «Corriere della Sera». Commentando quell' intervento, Georges Didi-Huberman ha ricordato, in un recente pamphlet ( Contro le lucciole , Bollati Boringhieri), quanto è bello «rifuggire la luce dei riflettori per andare a cercare, nella notte, dove ancora sopravvivono - e si amano - le lucciole». Forse, anche nell' «inverno della cultura», ci sono significative sacche di resistenza. Non crede che sia così? «No - risponde Jean Clair - di fronte a me vedo solo un inaccettabile imbarbarimento estetico. Mi creda, non ci resta che essere reazionari».

Festa di paese

Condivisibile osservazione di Philippe Daverio circa il Padiglione Italia della Biennale, tratta da questa interessante intervista pubblicata da artapartofculture.

“È la Controriforma: il padiglione di Sgarbi è la più bella spiegazione possibile dell’ Italia, perché è la festa del patrono, quando il prevosto fa la pesca di beneficenza. Si sa che, nella pesca di beneficenza, tutti sono uguali, tutti si equivalgono. Perché sono tutte anime pronte ad andare in paradiso.  L’ unica cosa che poi contraddistingue questa sua scelta è che per esserci bisogna essere raccomandati. Che è la cosa più italiana del mondo. Quindi, ricapitolando: c’ è il concetto della raccomandazione, c’è il concetto dell’abolizione del talento, perchè il talento genererebbe delle disparità intollerabili davanti a Dio, e c’è il parroco che raccoglie ognuno… Il tutto però si condisce nello spirito di questa grande festa patronale in cui c’è tanta gente molto, molto felice: la famiglia degli artisti.”.

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