mercoledì 29 maggio 2013

Biennale Venezia 2013: "Palazzo Enciclopedico" e il nuovo ruolo dell'arte

Il sonno dell'arte in tempo di crisi è capace di rispolverare i mostri del passato, o meglio di quell'inconscio sopito che tante volte, dalla fine dell'Ottocento, si è tentato di liberare per destabilizzare il mondo. Arte elitaria e visione di un paleo-futuro decadente per una certa borghesia già introdotta nelle pieghe di un sapere ermetico e anti-democratico. Inutile dire che tra spiritismo, medium e satanismo di cattolicesimo, col suo ruolo di guida delle arti, non c'è rimasto nulla; neanche nel padiglione del Vaticano.



"In un occidente ossessionato dall'incapacità di trasformare il mondo, colpito processi storici che si abbattono con la violenza e l’irrimediabilità delle catastrofi naturali, il curatore di questa 55ma biennale di Venezia, l’italiano Massimiliano Gioni, propone il ripiegamento nell’antropologico. Lo fa con raffinatezza, stratificando letture decennali di Hans Belting, Paolo Rossi, Maurice Merleau-Ponty, Gilles Deleuze, Walter Benjamin e tanti altri per costruire il ritratto della ricerca artistica contemporanea in un immenso gabinetto delle curiosità, come quelli in voga nell’Europa principesca del Cinquecento.

Il suo Palazzo Enciclopedico – è il titolo della mostra -, sembra un vero e proprio labirinto tassonomico, dove nella crisi della capacità creativa, il ruolo dell’arte diventa quello di raccogliere i relitti lasciati e consumati dalla vita per organizzarli un’inchiesta estetica sulla natura umana. Lo dichiarano da subito le due sale con cui si apre il duplice percorso della Biennale, suddiviso come sempre tra le Corderie dell’Arsenale e il padiglione principale dei Giardini.

Nel primo, c’è il grande plastico dell’artista autodidatta Marino Auriti del 1955, progetto di un immenso grattacielo di 136 piani destinato a Washington e che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto racchiudere «tutto il sapere del genere umano». Appese attorno nella stessa sala, sono le fotografie di J.D. ‘Okhai Ojeikere che, volendo documentare aspetti della cultura nigeriana, negli anni Sessanta finì per creare intere mappature antropologiche come quelle esposte in mostra, dove sono ritratte le principali tipologie di acconciature tradizionali del paese. Varietà e tentativo di mettere ordine, unità e molteplicità rizomatiche che aprono anche la sezione ai Giardini con le tavole illustrate del Libro Rosso di Jung, prodotto di un lunghissimo lavoro di ricerca psicanalitica alla ricerca degli archetipi che si nascondono dietro la varietà naturale dei comportamenti mentali.

L’approccio di Gioni, il suo rifiuto di un’arte poietica e il rifugio nell’universo psichico, nell’ossessione descrittiva, nella nevrosi non creativa non sono cose nuove nel mondo dell’arte. E compaiono regolarmente a ogni passaggio di crisi. Fu così negli anni Ottanta, quando la riscoperta della pittura, di un certo espressionismo e del mondo degli spesso distruttivi nascosto dietro l’apparente perfezione della modernità, sembrò mettere in cantina per sempre movimenti come l’arte concettuale e il minimalismo che avevano puntato all’industria e alle sue capacità produttive per trasformare il mondo. Ed era stato così a inizio secolo, con la grande crisi dell’Europa industriale che apriva alla società di massa e negli anni Cinquanta, con il primo, tragico dopoguerra.

A quanto pare ci risiamo, come dimostra una museografia ispirata alle ricerche, purtroppo prematuramente interrotte di Adalgisa Lugli, che nel 1983 (non a caso) aveva pubblicato un libro (Naturalia et Mirabilia) destinato a fare storia proprio sulla storia delle Wunderkammer, i gabinetti di curiosità rinascimentali e barocchi da cui sarebbero nati i musei. Ricerche ispirate a quelle di Julius von Schlosser che nel 1908 (ancora una volta una data non a caso) aveva pubblicato la prima opera sui gabinetti di curiosità, destinata a fare epoca. Ci risiamo, quindi, come dimostra l’allestimento scelto da Gioni che sembra un vero e proprio labirinto, disordinato ma con una sua via d’uscita, come le leggi infinite, analogiche della scienza barocca a cui si ispira. Rifiuto del’organizzazione razionale del museo moderno.

Le opere in mostra, perciò, non hanno nulla a che vedere con quelle neomoderniste della Biennale di Robert Storr di sei anni fa. Somigliano, piuttosto, a ritrovamenti di un’archeologia fantastica da cui costruire ipotetici orizzonti di senso. È il caso delle istallazioni di Rosemarie Trockel, fatte di relitti di un’infanzia novecentesca – bambole, pupazzi rabberciati di tela, carta e spago – o nella distesa di dagherrotipi e foto antiche anonime, a metà visibili e a metà svanite, esposti assieme a veri ex voto popolari o altri autentici reperti. Un’altra categoria di opere, in special modo video, invece, investigano i limiti della tecnologia moderna, per dirla con le parole del curatore in riferimento al francese Laurent Montaron presente in mostra, investigano i «processi irrazionali e misteriosi delle macchine». È il caso del video di Yuri Ancarani, che racconta il lavoro di un robot chirurgico come se fosse un essere mostruoso e animato, costruito - suggerisce l’autore - secondo paradigmi antropomorfi.

Sono 150 le opere raccolte da Gioni e, che piaccia o meno, sono raccolte ed esposte con una coerenza che tiene dall’inizio alla fine. Dando vita a una mostra piuttosto intellettualistica, a dire la verità, forse lontana dai centri e dai problemi nevralgici del mondo contemporaneo e vicina all’immaginario di una borghesia occidentale che sembra compiacersi del proprio decadimento. Ma di sicuro nevrotica, ossessiva e forse anche un po’ cinica, restituendo un’immagine antropologicamente esatta dell’aria che tira in questa parte del mondo".


lunedì 27 maggio 2013

Anche la performance ha un cuore - Marina Abramovic incontra Ulay

Marina Abramovic e l'artista tedesco Ulay. Per cinque anni hanno vissuto insieme in un furgone realizzando moltissime performance artistiche. Quando hanno sentito che il loro rapporto era entrato in crisi, decisero di percorrere la Grande Muraglia Cinese in senso opposto fino ad incontrarsi nel mezzo. Dopo un lungo camminare, si incontrarono, si diedero un ultimo grande abbraccio, per non vedersi mai più. Ventitre anni più tardi, nel 2010, quando Marina Abramovic era già un artista nota e di successo, il MoMa di New York dedicò una retrospettiva al suo lavoro. In questa retrospettiva Marina, seduta ad un tavolo, condivideva un minuto di silenzio con ogni sconosciuto che si sedeva di fronte a lei. Ulay arrivò senza che lei ne fosse a conoscenza.


mercoledì 22 maggio 2013

Rodolfo Papa - La Trinità di Lotto e altre letture iconografiche

Sul suo blog lo storico dell'arte Rodolfo Papa sta inserendo una serie di articoli tratti da varie riviste e che presentano interessanti e puntuali letture iconografiche di opere d'arte sacra. Tra i tanti segnalo l'articolo sulla Trinità di Bergamo di Lorenzo Lotto.



La Santa Messa della Solennità della Santissima Trinità, che sarà celebrata domenica prossima, nella colletta recita: “O Dio Padre, che hai mandato nel mondo il tuo Figlio, Parola di verità, e lo Spirito santificatore per rivelare agli uomini il mistero della tua vita, fa' che nella professione della vera fede riconosciamo la gloria della Trinità e adoriamo l'unico Dio in tre persone”.
Gli artisti hanno cercato spesso di tradurre in immagini lo spirito di questa preghiera. Una bellissima meditazione viene offerta da Lorenzo Lotto nella Trinità di Bergamo.
Lorenzo Lotto dipinse questa splendida tela intorno al 1523 per la chiesa della Trinità a Bergamo e come ricorda la descrizione della cronaca della visita pastorale del Vescovo Corneli nel 1573, era collocata sull’altare maggiore. La chiesetta dedicata alla Trinità apparteneva alla Confraternita dei Disciplinati della Santissima Trinitàed era stata fondata nel 1506. Evidentemente poco dopo la conclusione dei lavori di edificazione, la Confraternita pensò di affidare a Lotto –uno dei più grandi artisti del Cinquecento, che in quel momento si trovava a lavorare a Bergamo– l’esecuzione di alcune tele, in quanto alcune descrizioni (Tassi 1793) testimoniano che la chiesa era dotata di almeno un’altra tela di mano di Lorenzo: un Cristo morto sulle ginocchia della Madonna, san Giuseppe e un’altra santa martire. Sconsacrata nel 1808, la chiesa venne poi distrutta nel 1919. Al momento della sconsacrazione, il dipinto della Trinità fu acquistato dal curato don Giovanni Conti ad una asta demaniale e collocato nella sacrestia della chiesa di Sant’Alessandro della Croce dove ancora oggi possiamo ammirarlo. La tela fu sicuramente rifilata negli angoli per adattarla alla nuova collocazione e forse anche leggermente ridotta nelle dimensioni, ma il suo straordinario splendore è ancora del tutto intatto.
La particolarità inventiva che l’artista mette in campo in questo dipinto è sicuramente eccezionale, come eccezionale è il risultato stilistico e l’invenzione di una iconografia totalmente nuova. Questa tela raggiunge una di quelle vette somme, per sintesi e per capacità evocativa, che raramente capita d’incontrare all’interno del cammino contemplativo che l’arte porta, per sua natura, a compiere, a tal punto che una volta vista rimane fissa nella nostra mente e nella nostra anima. Siamo abituati a immagini diverse della Trinità. Come ricorda Benedetto XIV in Sollicitudini nostrae (Bullarium Romanum, I, Roma 1746, pp. 560-571) l’iconografia della Trinità nel corso dei secoli ha mostrato la Persona di Dio Padre sotto forma di un vecchio, prendendo ispirazione da Daniele: «L’Antico dei giorni si sedette» (Dn 7,9), e nel suo seno il Figlio Unigenito, Cristo Dio e Uomo, e tra loro due lo Spirito Santo Paraclito sotto l’aspetto di colomba; oppure ha rappresentato due Persone separate da un piccolo spazio: una di queste in forma di uomo più vecchio, evidentemente il Padre, l’altra il Cristo, e in mezzo a loro lo Spirito Santo in forma di colomba, come nella tipologia precedente; oppure ancora ha mostrato la Santissima Trinità in tre Persone identiche per statura, fisionomia e lineamenti, con fondamento nel racconto dell’apparizione ad Abramo raccontata nel Genesi (Gen 18, 1): «Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno». E occorre aggiungere anche la tradizione che rappresenta la Trinità con Cristo inchiodato alla Croce, che è sorretta dal Padre in forma di vecchio, e tra di loro sta lo Spirito Santo in forma di colomba.
Lorenzo Lotto in questa tela organizza invece la rappresentazione della Trinità a partire da un’altra matrice contemplativa: Cristo è il centro, la parte visibile del mistero trinitario. Lotto si ispira non solo ai caratteri iconografici veterotestamentari, ma piuttosto alle descrizioni evangeliche più direttamente cristologiche. La figura di Cristo, che Lotto dipinge, è particolarmente complessa, in quanto racchiude in sé molti modelli iconografici diversi. Il primo da considerare presente è immediatamente legato alla positura del corpo di Cristo: appare in piedi come se camminasse sopra un arcobaleno, mostrando le piaghe ai fedeli che contemplano l’immagine, secondo la tradizione dell’Imago pietatis (in cui solitamente è sorretto da angeli o esposto solo sul sepolcro come in attesa di sepoltura). Il capo leggermente reclinato verso destra rafforza questo legame con le rappresentazioni di genere popolare: riprende la tradizione dei volti santi, diffusissimi in tutta la cristianità come copie conformi all’originale volto della Veronica. I panneggi agitati e ritorti in ampie volute, richiamano anche il momento dell’Ascensione (infatti alcuni storici dell’arte più volte si sono confusi con questo tema), e ancor più alludono alla Risurrezione: Cristo Risorto nel seno del Padre mostra ai fedeli le mani forate dai chiodi aprendo le braccia in un atteggiamento che riprende quello dell’ombra di luce che gli è alle spalle. Dio Padre è, infatti, genialmente rappresentato come una sagoma di luce dietro e sopra Cristo, mentre lo Spirito Santo, secondo la metafora evangelica, come una colomba. L’immagine della Trinità proposta da Lotto poggia le sue fondamenta teologiche in modo particolare sui brani del Nuovo Testamento, non si riferisce infatti a immagini che prefigurano la piena rivelazione in Cristo, ma pone l’accento sui caratteri centrali della Incarnazione. Dunque bisogna leggere i passi evangelici della Trasfigurazione (Mt 17, 1-9; Mc 9, 2-10; Lc 9, 28-36) per capire la scelta della nube luminosa che avvolge Cristo e che ha al suo interno una ombra di luce come in forma di persona benedicente. Per comprendere il rapporto dinamico tra la colomba e la figura di Cristo, si devono leggere i brani evangelici che riguardano il Battesimo di Cristo nel Giordano (Mt 3, 13-17; Mc 1,7-11; Lc 3, 15-22). Ma per comprendere la centralità della figura di Cristo nella rappresentazione pittorica della tela di Bergamo dobbiamo soprattutto vedere tutto attraverso le parole di Gesù: «Chi vede me, vede colui che mi ha mandato. Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (Gv 12, 45-46).
Il cuore di questa rappresentazione è dunque legato al vangelo di Giovanni: «chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna» (Gv 5, 24) e ancora «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono e non faccio nulla da me stesso, ma come mi ha insegnato il Padre, così io parlo» (Gv 8, 28).
La proposta contemplativa che Lotto propone in questo dipinto è costruita sulla visione giovannea della visibilità attraverso Cristo dell’intero mistero trinitario: ancora una volta l’arte si propone come un vero strumento di contemplazione, per il fedele che veramente voglia vedere con gli occhi le parole del Vangelo.

Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com e.mail: rodolfo_papa@infinito.it


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