Tra le opere più affascinanti del Novecento italiano annovero di certo le ceramiche di Giò Ponti. Ponti, architetto e designer italiano, proprio in questi oggetti decorativi ha dato il meglio di sè per la freschezza dell'inventiva, la genuinità del disegno sintetico e l'unione di tante e svariate influenze in un'unico stile ecclettico e ricercato. I decori ispirati all’arte greca, romana, etrusca e all’architettura palladiana ma anche alle recenti conquiste del cubismo (analitico e sintetico) e dell'astrattismo sono quanto di più studiato e spontaneo allo stesso tempo. Mai una linea di troppo o un contorno che sfiora la retorica delle forme, mai un tentennamento nel segno o nella struttura. Tutto è calibrato e armonico col colore, mai invasivo, che costruisce la struttura più che decorarla. Inizialmente nelle ceramiche il suo disegno riflette la Secessione viennese e sostiene che decorazione tradizionale e arte moderna non sono incompatibili. In seguito riscopre i valori del passato, il razionalismo e il realismo magico tanto che trova sostenitori nel regime fascista incline alla salvaguardia dell’identità italiana e al recupero degli ideali della “romanità” che si esprimerà poi compiutamente in architettura con il neoclassicismo semplificato del Piacentini. Bellissimo l'originale e vitale recupero dell'antichità. "Non è il cemento, non è il legno, non è la pietra, non è l’acciaio, non è il vetro l’elemento più resistente. Il materiale più resistente nell’edilizia è l’arte" soleva ripetere l'artista e allora si comprende come queste ricerche di designer non tentavano tanto ad estetizzare l'oggetto comune quanto riscoprivano tutta la prassi della bottega che creava, anche l'accessorio più inutile con la stessa perizia e attenzione adoperate ad esempio per una tela. La serie più significativa è stata quella realizzata dalla manifattura Richard Ginori, di cui Gio Ponti fu direttore artistico negli anni Venti, con la produzione che si colloca tra il 1923 e il 1930 destinata alla ricca borghesia milanese.
"Le opere rivelano l’originalità e la straordinaria modernità di questo “neoclassico a Milano”, come fu definito da un critico d’eccezione quale Carlo Carrà, che recensì la primaMostra internazionale di arti decorative a Monza nel 1923, elogiando il giovane architetto per le sue prime ceramiche. E si può tranquillamente affermare che il grande pittore aveva visto giusto, dato che due anni dopo Ponti presentò le sue opere alla Exposition Internationale des Arts Décoratifs et Industriels Modernes a Parigi, vincendo il “Gran Prix”. Le immagini su vasi, centritavola e maioliche traggono ispirazione dall’antichità classica per le figure mitologiche, ma non mancano vedute prospettiche di chiaro stampo rinascimentale o ancora, sfondi teatrali e personaggi Déco, fusi in uno stile nuovo e inconfondibile che sembra quasi surrealista. Il tutto è sospeso, infatti, in una dimensione quasi metafisica, come sospesi sono i personaggi e gli oggetti raffigurati: donne formose avvolte tra le nuvole, animali, clown, barche. Il richiamo all’antico è facilmente riconoscibile: ogni opera presenta forme e decorazioni che si rifanno all’arte vascolare greca, etrusca e romana, come coppe e cisti (c’è anche quella che Ponti dedicò al più temuto critico di allora, Ugo Ojetti).Ad introdurre la mostra, una decina di grandi foto che riproducono particolari del Pirellone: buona l’idea di riutilizzare proprio il 'contenitore' della mostra per confrontare spazi e linee con le ceramiche (e questo fa la differenza rispetto alle tante altre mostre analoghe sul Ponti ceramista, recenti e lontane). Peccato che manchino le informazioni sulle architetture; e comunque si sarebbero potuti aggiungere altri scatti nel percorso, ad esempio in fondo nell’ultimo angolo rimasto 'sguarnito'" (fonte).
Penso che Warburg sarebbe andato a nozze studiando il fenomeno Apple. In questo articolo interessantissimo, un vero e proprio saggio, uscito su Il Foglio e scritto da Claudio Cerasa si spiegano molte dinamiche: la merce come logo(s) e la mela mangiata come icona del nuovo secolo con slittamento di significato. Cupertino, Betlemme: costruzione simbolica della Apple come religione implicita. Steve Jobs come figura cristologica e mitica e rappresentazione divina della sua figura e della sua storia. Contrapposizione tra la "legge" divina e il "male" delle altre compagnie. Microsoft come il diavolo. I-pad come tavola della legge. E molto altro.
Riguardo alla mela, per esempio, si legge: “quella mela evidentemente è un’entità molto più simile al frutto della conoscenza del primo libro della Genesi che a qualsiasi altra mela comparsa nella storia della mitologia occidentale, ma ciò che più sorprende del significato metaforico legato a quel frutto è il modo in cui l’inventore della Apple ha completamente capovolto il senso di quel simbolo: perché, con Jobs, la Mela, da frutto del peccato che ‘non devi mangiare poiché se tu ne mangerai di certo morrai’, è diventata il simbolo della conoscenza a cui è quasi doveroso non rinunciare, il simbolo di un nuovo, e rivoluzionario, ‘prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi’.
Atlas. Interessante esposizione al museo Reina Sofia curata da George Didi-Huberman; si riflette sulle immagini, quelle contemporanee ma anche quelle sedimentate. Filo conduttore è il celeberrimo Atlante della Memoria di Warburg, generatore infinito di impressioni e rimandi e che il curatore prova a continuare. Vaso di Pandora del nostro eccesso visuale ma anche scrigno per decifrare una cultura dell'immagine sempre più opprimente, in perenne relazione con un passato inteso quale memoria quasi sempre nascosta e celata. Di seguito un bel post dal blog Rocaille di Lisa.
La memoria
Mnemosyne deriva dal greco μνήμων e significa memoria.
Era il nome di una delle figlie di Urano e Gea, una Titanessa generata all’inizio dei tempi. Dalla sua unione con Zeus nacquero le nove Muse, protettrici dell’arte. Fu così che si fissò per sempre il legame imprescindibile tra arte e memoria.
Mnemosyne è il nome del monumentale atlante di Aby Warburg dove immagini di ogni epoca e provenienza sono accostate in maniera non gerarchica ma tematica, dove nulla è più importante di altro ma tutto forma un tessuto: la trama della memoria.
L’Atlante
Il progetto di Warburg era un’impresa imponente, iniziata negli ultimi anni della sua vita dal 1925 al 1929 quando morì e la lasciò incompiuta.
Un lavoro paradossale, ma affrontato con metodo scientifico di archivista e classificatore e che può essere considerato come un grande riassunto, un documentario di tutta l’arte occidentale e non, un tentativo di dare un ordine (κόσμος) al caos (χάος) della storia e quindi della memoria.
Il suo studio si serviva di un sistema di pannelli dove raccoglieva le immagini che più lo interessavano così che, ad una sola occhiata, potesse avere uno sguardo d’insieme senza bisogno di parole.
Il suo occhio cercava le analogie, gli isomorfismi che intercorrono tra le immagini, i richiami impensabili che si muovono sottotraccia, invisibili. Una studio quasi primitivo dove non serve più l’analisi, ma solo l’intuizione, un approccio talmente nuovo da sembrare inutile.
Warburg diceva infatti “ciò di cui mi occupo è una scienza che non ha nome” e chiamava questo atlante “racconto di fate venuto dal reale” o “storia di fantasmi per adulti”.
Imago Mundi
Sin da quando l’uomo abita il mondo ha prodotto talmente tante immagini che con il tempo rischiano di andare perdute cioè dimenticate. Per evitare l’eterno ritorno bisogna combattere l’oblio così Warburg si chiede come raccogliere tutta l’arte: come racchiudere tutta la nostra memoria? Come portarsi il mondo sulle spalle?
E’ un’impresa titanica proprio come quella di Atlante, condannato da Zeus a reggere sulle spalle l’intera volta celeste. Atlante regge il mondo, ma questa è la mappa del mondo, è la sua memoria fatta dalle immagini che l’uomo ha creato dall’inizio dei tempi ad oggi e che costituiscono un fardello altrettanto pesante.
Warburg arriva ad una congiunzione astrale e terrestre dove tutto può essere scritto, anzi tutto può essere rappresentato e l’universo può essere racchiuso in un libro: un atlante.
Il grande atlante diventa così una mappa istantanea della memoria, magma informe e infinito, IMAGO MUNDI del pensiero e del ricordo. Non esiste più oggetto ma solo concetto, non possiamo più collezionare ma solo collazionare. E’ l’uomo moderno che non è più in grado di creare, ma solo di recuperare, raccogliere frammenti, vagare.
I tableaux di G. Didi-Huberman
E’ ancora il sogno dell’uomo rinascimentale che cerca di stipare la conoscenza nei manuali, ma è impossibile racchiudere l’universo in un libro e infatti l’opera rimane incompiuta, non solo per caso. Georges Didi-Huberman prova a continuarla, accostando immagini quanto mai eterogenee di artisti ed esperienze artistiche tra il XX e XXI secolo.
Lo storico dell’arte francese, che a Warburg ha dedicato la monografia “L’immagine insepolta”, ha curato la mostra esposta al museo Reina Sofia a Madrid, fino al 28 marzo. Una mostra sperimentale e un saggio critico esposto che non ha bisogno di parole né, quasi, di immagini.
Non è una mostra che si preoccupa di esporre la bellezza di grandi capolavori, ma di ciò che c’è dietro. Ciò che è esposto non sono oggetti, ma i pensieri che collegano quegli oggetti: è una grande mostra all’immateriale.
Non c’è niente da capire, ma solo da scoprire e tutto ciò che capiamo si rivela effimero, leggero.
Un labirinto estetico incomprensibile e impossibile fatto di dipinti e sculture, ma anche fotografie, film, giornali, annotazioni, lettere, dove non ci sono verità o certezze ma tutto è affidato a foglietti delicati e fragili.
Si sente una totale perdita del centro, tutto è sullo stesso piano: il tavolo. Non ci sono più punti fissi, né linee né momenti, ecco dunque il tentativo di ricostruire “l’ordine delle cose”, “l’ordine del tempo” e “l’ordine dello spazio”.
Abbiamo di fronte un mondo sotterraneo di oggetti e parole nascoste: troviamo una statua romana di Atlante e un assemblage di foto di Warburg, i capricci di Goya e i ritratti fotografici di August Sanders e i collage di El Lissitzky. Non è una mostra di opere famose, ma non è nemmeno una mostra di opere: di Paul Klee c’è l’erbario, di Sol LeWitt le sue fotografie dei muri di New York, di Josef Albers il suo album fotografico dedicato all’architettura pre-colombiana, gli esercizi di anatomia di Max Ernst, le Water Towers di Berndt & Hilla Becher, gli appunti di Walter Benjiamin e di Rosemarie Trockel; le nuove invenzioni geografiche di Marcel Broodthaers, Guy Debord e On Kawara, fino ad arrivare all’ Histoire du cinéma di Jean-Luc Godard.
“Di solito quando si esibisce un archivio non c’è niente da vedere, è un lavoro di tempo che prende mesi e anche anni mentre invece un atlante è una presentazione sinottica delle differenze. Il suo scopo è quello di farti capire il legame che non è basato sulle somiglianze, ma sulle connessioni segrete tra due cose diverse. Atlas è un tour visuale rispetto a qualsiasi altro archivio, è un lavoro di montaggio nel quale differenti tempi stanno insieme. Non sono cose belle appese sulle pareti, ma è il processo creativo che spesso avviene sul tavolo.”
Un grande celebrazione alla Corrispondenza, così come l’aveva intuita Baudelaire, che della modernità è l’inizio.
Una delle più belle mostre di quest’anno, fatta con la voglia di ricerca e non di vendere biglietti.
Data: 26 Novembre – 28 Marzo
Luogo: Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía
Co-organizzata da : ZKM Zentrum für Kunst und Medientechnologie Karlsruhe y Sammlung Falckenberg Phoenix Kulturstiftung
Sono rimasto colpito dalle foto di Fazal Sheikh, ottimo fotografo americano che indaga, con i suoi scatti, il mondo "oltreconfine", sempre attento alla persona e al ritratto che esalta con ottimi bianchi e neri. In particolare sono rimasto colpito dalla bellezza e compostezza di queste donne, presumibilmente arabe o magrebine, che nella posa e nei gesti mi ricordano le madonne trecentesche dei Pisano, e in generale quei gruppi scultorei tipici del rinascimento italiano. A voi il confronto.
E che dire della cosidetta Madonna di Algeri, una fotografia scattata da Hocine Zaourar durante il massacro di Bentalha?
A questa foto aggiungerei la recente "Pietà" con la quale Samuel Aranda ha vinto il World press photo 2012, una donna il cui volto e corpo sono completamente coperti abbraccia un parente morente all'interno di una moschea allestita come ospedale durante gli scontri aSanaa, Yemen.
L'ossessione e la dinamica del gesto in una gif che anima varie versioni barocche della Giuditta e Oloferne. (via absurdlakefront). Rappresentazione differenziata o moto continuo.
Michelangelo Merisi da Caravaggio - Judith Beheading Holofernes, 1598-99
Artemisia Gentileschi - Judith Slaying Holofernes, ~1612-1614 Naples version
Catherine’s room del 2001 di Bill Viola si ispira alla predella della Santa Caterina di Andrea di Bartolo, per la riproposizione della stanza, strutturata in una severa prospettiva centrale, dove si muove la figura della donna durante il giorno, dedita a pratiche "ascetiche" e spirituali che si rifanno alla cultura zen e buddista. Come The Greeting è ispirata alla Visitazione del Pontormo e Emergence alla Pietà di Masolino, anche qui vi è una ripresa della pittura rinascimentale, anche se il punto di partenza è concettualmente e spiritualmente diverso.
Perduta la figurazione è la geometria a farla da padrone. Come vera e propria "formula di pathos", così, la figura del cubo ritorna in molte opere e installazioni, da Manzoni a Kosuth a Warhol (nei materiali più diversi), e questo post di artfagcity, IMG MGMT: The Cube Show, ne offre un'esauriente carrellata. In basso alcune opere tratte dal post
Jean Nouvel - Monolith (2002)
Joseph Kosuth - Box, Cube, Empty, Clear, Glass-A Description (1965)
Paul Thek - Meat Piece With Warhol Brillo Box (1965)
Mi ha sempre colpito questa foto di Pasolini; il gesto è quello tipico del pensatore, o meglio, del pensatore malinconico, ma vi trovo anche un che di profondamente tragico, come di un'anima consapevole del proprio peccato e che medita, tristemente, sulla propria condizione di dannato, quasi mangiandosi le mani. In questo la foto mi ricorda diverse opere dell'800 nelle quali viene affrontata proprio la condizione infausta del peccatore dannato.
Trovo ci siano molte affinità tra quest’opera di Piero di Cosimo, Morte di Procri, dipinto affascinante dal controverso soggetto, e questa tela di Matisse, Ninfa e Satiro del 1910, quantomeno nei gesti dei personaggi che rivelano una tensione comune (pathosformel).
Forse è un’operazione troppo facile trarre tableaux vivants dalle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio ma ciò dipende non certo dalla banalità dei registi o attori quanto dall’intrinseca natura delle opere del Merisi, soggetti così miracolosamente reali e significanti di per se stessi, senza il ricorso a un primo approccio a lettura iconografiche, da prestarsi a questo genere di riutilizzazione. Arte sublime e ricorso a specifiche formule di pathos (pathosformel appunto) capaci da sole di trasmettere emozioni. E’ quello che ha cercato di fare compagnia Malatheatre con la regia di Ludovica Rambelli con lo spettacolo Caravaggio XXI che verrà trasmesso, in prima assoluta, alle ore 21.00, presso il Cinema Azzurro Scipioni di Roma. Dalle immagini che ho trovato trovo assolutamente valida, dal punto di vista estetico, la loro operazione tanto da aver scambiato l’immagine con la Maddalena, ad un primo sguardo, per un dipinto reale. L’azione scenica non fa che aumentarne la resa.
ecco i quadri originali, per un veloce raffronto.
Un breve video del lavoro si può visionare dal blog Caravaggio400, sempre aggiornato sugli ultimi avvenimenti intorno all’artista.
Da questo link, invece, un video desunto dal Caravaggio di Darek Jarman, assoluto capolavoro di regia e di contestualizzazione dell’opera del Merisi nel contemporaneo.