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lunedì 11 marzo 2013

Trittico romano aspettando il conclave


E proprio qui, ai piedi di questa stupenda policromia sistina,
si riuniscono i cardinali,
una comunità responsabile per il lascito delle chiavi del Regno.
Giunge proprio qui.
E Michelangelo li avvolge, tuttora, della sua visione.
"In Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo..."

Chi è Lui?
Ecco, la mano creatrice dell'Onnipotente Vecchio, diretta verso Adamo...
Al principio Dio ha creato...
Costui che vede tutto...

La policromia sistina allora propagherà la Parola del Signore:
"Tu es Petrus" - udì Simone, il figlio di Giona.
"A te consegnerò le chiavi del Regno".
La stirpe, a cui è stata affidata la tutela del lascito delle chiavi,
si riunisce qui, lasciandosi circondare dalla policromia sistina,
da questa visione che Michelangelo ci ha lasciato.
Era così nell'agosto e poi nell'ottobre, del memorabile anno dei due conclavi,
e così sarà ancora, quando se ne presenterà l'esigenza dopo la mia morte.
All'uopo, bisogna che a loro parli la visione di Michelangelo.
"Con-clave": una compartecipata premura del lascito delle chiavi, delle chiavi del Regno.
Ecco, si vedono tra il Principio e la Fine,
tra il Giorno della Creazione e il Giorno del Giudizio.
E' dato all'uomo di morire una volta sola e poi il Giudizio!

Una finale trasparenza e luce.
La trasparenza degli eventi.
La trasparenza delle coscienze.
Bisogna che, in occasione del conclave, Michelangelo insegni al popolo.

Non dimenticate: Omnia nuda et aperta sunt ante oculos Eius.
Tu che penetri tutto - indica!
Lui additerà...

Giovanni Paolo II - Trittico romano

Alla vigilia del concilio una lirica di papa Giovanni Paolo II tratta dal bellissimo e poetico testo Trittico romano per ricordare la funzione principale della Sistina e degli affreschi michelangioleschi.
L’ultimo elogio della Cappella e dei suoi capolavori risale a pochi mesi fa, il 31 ottobre 2012, ai Primi Vespri della Festa di Ognissanti, in occasione della commemorazione del V centenario dell’inaugurazione dell’affresco della volta da parte di Giulio II. “Perché ricordare tale evento storico-artistico in una celebrazione liturgica?” si domandava Papa Benedetto in una omelia ricca di significato artistico e teologico. “Anzitutto perché la Sistina è, per sua natura, un’aula liturgica, è la Cappella magna del Palazzo Apostolico Vaticano. Inoltre, perché le opere artistiche che la decorano, in particolare i cicli di affreschi, trovano nella liturgia, per così dire, il loro ambiente vitale, il contesto in cui esprimono al meglio tutta la loro bellezza, tutta la ricchezza e la pregnanza del loro significato. E’ come se, durante l’azione liturgica, tutta questa sinfonia di figure prendesse vita, in senso certamente spirituale, ma inseparabilmente anche estetico, perché la percezione della forma artistica è un atto tipicamente umano e, come tale, coinvolge i sensi e lo spirito. In poche parole: la Cappella Sistina, contemplata in preghiera, è ancora più bella, più autentica; si rivela in tutta la sua ricchezza”.

lunedì 18 febbraio 2013

Lo sguardo di Michelangelo

Michelangelo Antonioni (1912-2007) è uno dei padri della modernità cinematografica. La sua opera ha oltrepassato i confini della settima arte: è stata profondamente ispirata dalle arti figurative e ha esercitato a sua volta su di esse un notevole ascendente, come sul cinema di ieri e di oggi. Tra i suoi ultimi lavori Lo sguardo di Michelangelo è un cortometraggio del 2004 che indaga con l'occhio della macchina da presa e un'assoluto silenzio il Mosè di Michelangelo a San Pietro in Vincoli. Splendida fotografia, attenzione per i più minimi dettagli e sostanzialmente un profondo e intimo amore per l'opera d'arte

Lo Sguardo di Michelangelo (Michelangelo Antonioni, 2004, KINOTE) from jeanne dielman on Vimeo.

sabato 3 novembre 2012

I 500 anni della volta Sistina nelle parole di Benedetto XVI



CELEBRAZIONE DEI VESPRI IN OCCASIONE DEL 500° ANNIVERSARIO DELL’INAUGURAZIONE DELLA CAPPELLA SISTINA, 31.10.2012

Alle ore 18 di questo pomeriggio, nella Cappella Sistina, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la Celebrazione dei primi Vespri della solennità di tutti i Santi, in occasione del 500° anniversario dell’Inaugurazione della Cappella.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia nel corso della Celebrazione:

OMELIA DEL SANTO PADRE 

Venerati Fratelli, 
cari fratelli e sorelle! 

In questa liturgia dei Primi Vespri della solennità di tutti i Santi, noi commemoriamo l’atto con cui, 500 anni or sono, il Papa Giulio II inaugurò l’affresco della volta di questa Cappella Sistina. Ringrazio il Cardinale Bertello per le parole che mi ha rivolto e saluto cordialmente tutti i presenti. 
Perché ricordare tale evento storico-artistico in una celebrazione liturgica? Anzitutto perché la Sistina è, per sua natura, un’aula liturgica, è la Cappella magna del Palazzo Apostolico Vaticano.
Inoltre, perché le opere artistiche che la decorano, in particolare i cicli di affreschi, trovano nella liturgia, per così dire, il loro ambiente vitale, il contesto in cui esprimono al meglio tutta la loro bellezza, tutta la ricchezza e la pregnanza del loro significato. E’ come se, durante l’azione liturgica, tutta questa sinfonia di figure prendesse vita, in senso certamente spirituale, ma inseparabilmente anche estetico, perché la percezione della forma artistica è un atto tipicamente umano e, come tale, coinvolge i sensi e lo spirito. 
In poche parole: la Cappella Sistina, contemplata in preghiera, è ancora più bella, più autentica; si rivela in tutta la sua ricchezza. Qui tutto vive, tutto risuona a contatto con la Parola di Dio. 
Abbiamo ascoltato il passo della Lettera agli Ebrei: «Voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa…» (12,22-23). L’Autore si rivolge ai cristiani e spiega che per loro si sono realizzate le promesse dell’Antica Alleanza: una festa di comunione che ha per centro Dio, e Gesù, l’Agnello immolato e risorto (cfr vv. 23-24). Tutta questa dinamica di promessa e compimento noi l’abbiamo qui rappresentata negli affreschi delle pareti lunghe, opera dei grandi pittori umbri e toscani della seconda metà del Quattrocento. 
E quando il testo biblico prosegue dicendo che noi ci siamo accostati «all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione» (v. 23), il nostro sguardo si leva al Giudizio finale michelangiolesco, dove lo sfondo azzurro del cielo, richiamato nel manto della Vergine Maria, dona luce di speranza all’intera visione, assai drammatica. «Christe, redemptor omnium, / conserva tuos famulos, / beatæ semper Virginis / placatus sanctis precibus» - canta la prima strofa dell’Inno latino di questi Vespri. Ed è proprio ciò che noi vediamo: Cristo redentore al centro, coronato dai suoi Santi, e accanto a Lui Maria, in atto di supplice intercessione, quasi a voler mitigare il tremendo giudizio. 
Ma stasera la nostra attenzione va principalmente al grande affresco della volta, che Michelangelo, per incarico di Giulio II, realizzò in circa quattro anni, dal 1508 al 1512. Il grande artista, già celebre per capolavori di scultura, affrontò l’impresa di dipingere più di mille metri quadrati di intonaco, e possiamo immaginare che l’effetto prodotto su chi per la prima volta la vide compiuta dovette essere davvero impressionante. Da questo immenso affresco è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea – dirà il Wölfflin nel 1899 con una bella e ormai celebre metafora – qualcosa di paragonabile a un «violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione»: nulla rimase più come prima. Giorgio Vasari, in un famoso passaggio delle Vite, scrive in modo molto efficace: «Questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». 
Lucerna, lume, illuminare: tre parole del Vasari che non saranno state lontane dal cuore di chi era presente alla Celebrazione dei Vespri di quel 31 ottobre 1512. Ma non si tratta solo di luce che viene dal sapiente uso del colore ricco di contrasti, o dal movimento che anima il capolavoro michelangiolesco, ma dall’idea che percorre la grande volta: è la luce di Dio quella che illumina questi affreschi e l’intera Cappella Papale. Quella luce che con la sua potenza vince il caos e l’oscurità per donare vita: nella creazione e nella redenzione. E la Cappella Sistina narra questa storia di luce, di liberazione, di salvezza, parla del rapporto di Dio con l’umanità. Con la geniale volta di Michelangelo, lo sguardo viene spinto a ripercorrere il messaggio dei Profeti, a cui si aggiungono le Sibille pagane in attesa di Cristo, fino al principio di tutto: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Con un’intensità espressiva unica, il grande artista disegna il Dio Creatore, la sua azione, la sua potenza, per dire con evidenza che il mondo non è prodotto dell’oscurità, del caso, dell’assurdo, ma deriva da un’Intelligenza, da una Libertà, da un supremo atto di Amore. In quell’incontro tra il dito di Dio e quello dell’uomo, noi percepiamo il contatto tra il cielo e la terra; in Adamo Dio entra in una relazione nuova con la sua creazione, l’uomo è in diretto rapporto con Lui, è chiamato da Lui, è a immagine e somiglianza di Dio. 
Vent’anni dopo, nel Giudizio Universale, Michelangelo concluderà la grande parabola del cammino dell’umanità, spingendo lo sguardo al compimento di questa realtà del mondo e dell’uomo, all’incontro definitivo con il Cristo Giudice dei vivi e dei morti. 
Pregare stasera in questa Cappella Sistina, avvolti dalla storia del cammino di Dio con l’uomo, mirabilmente rappresentata negli affreschi che ci sovrastano e ci circondano, è un invito alla lode, un invito ad elevare al Dio creatore, redentore e giudice dei vivi e dei morti, con tutti i Santi del Cielo, le parole del cantico dell’Apocalisse: «Amen, alleluia. […] Lodate il nostro Dio, voi tutti suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi! […] Alleluia. […] Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria» (19,4a.5.7a). Amen. 

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana (Fonte)


Inseriamo anche l'articolo di Antonio Paolucci, uscito sull'Osservatore Romano e il link dal sito vaticano per visitare virtualmente la Cappella Sistina

Il 31 ottobre 1512 Giulio si inaugurava la volta della Cappella Sistina completata da Michelangelo

di Antonio Paolucci

Ogni giorno almeno diecimila persone con punte di ventimila nei periodi di massima affluenza turistica, entrano in Cappella Sistina. È gente di ogni provenienza, lingua e cultura. Di ogni religione o di nessuna religione. La Cappella Sistina è l'attrazione fatale, l'oggetto del desiderio, l'obiettivo irrinunciabile per l'internazionale popolo dei musei, per i migranti del cosiddetto turismo culturale.
Tuttavia la Cappella Sistina, pur facendo parte del percorso dei Musei Vaticani, non è un museo. È uno spazio religioso, è una cappella consacrata. Di più, essa è il vero e proprio luogo identitario della Chiesa romano-cattolica. Perché qui si celebrano le grandi liturgie, qui i cardinali riuniti in conclave eleggono il pontefice. La Sistina è allo stesso tempo la sintesi in figura della teologia cattolica.
La storia del mondo (dalla Creazione all'Ultimo Giudizio) vi è qui rappresentata insieme al destino dell'uomo redento da Cristo. La Sistina è la storia della salvezza per tutti e per ognuno, è l'affermazione del primato del Papa di Roma, è il tempo sub gratia della Chiesa che assorbe, trasfigura e fa proprio il tempo sub lege dell'Antico Testamento. È l'arca della nuova e definitiva alleanza che Dio ha stabilito col popolo cristiano. Non a caso l'architetto Baccio Pontelli che operò fra il 1477 e il 1481 modificando e innalzando le preesistenti strutture volle dare alla Cappella Magna del Papa di Roma, le misure del perduto Tempio di Gerusalemme così come ci sono indicate dalla Bibbia.
Chi entra nella Cappella Sistina entra di fatto in una immane sciarada teologico-scritturale che è arduo comprendere al primo sguardo. Ci sono immagini (la Creazione dell'uomo, il Peccato originale) che nella memoria di chi guarda (sempre che chi guarda provenga da Paesi di cultura cattolica) riaffiorano in disarticolati frammenti dal catechismo dell'infanzia. Ce ne sono altre (i Profeti, le Sibille, certi episodi dell'Antico Testamento) che il visitatore comune non conosce affatto. Chi, anche fra i visitatori credenti e praticanti, sa qualcosa della Punizione di Aman o dell'Innalzamento del serpente di bronzo o saprebbe spiegare, con un minimo di correttezza, chi erano la Sibilla Cumana o il profeta Giona?
E poi c'è Michelangelo il quale, come una luce troppo forte che acceca tutto ciò che sta intorno, assorbe con la sua notorietà clamorosa l'attenzione di ognuno rendendo difficile l'ordinata comprensione del sistema simbolico all'interno del quale Michelangelo è inserito.
Ci sono vari modi per entrare nel sistema Sistina, tutti necessari. C'è prima di tutto quello della comprensione iconografica, della decodificazione simbolica. Occorre guardare e riguardare a lungo e poi tornare a guardare le scene affrescate cercando di collocarle nel tempo, nella storia, nella dottrina che ha dato loro immagine e significato.
C'è poi la comprensione del messaggio stilistico, operazione ardua per chi non è provvisto di una attrezzatura storico critica adeguata.
Quel 31 Ottobre del 1512 quando Giulio ii inaugurava con la liturgia dei vespri la volta da Michelangelo conclusa dopo una immane fatica durata quattro anni (1508-1512), il Papa non poteva immaginare che da quei più di mille metri affrescati sarebbe precipitato sulla storia dell'arte un violento torrente montano portatore di felicità ma anche di devastazione, come scrisse il Woelfflin nel 1899 con una bella metafora.
Di fatto, dopo la volta, la storia dell'arte in Italia e in Europa cambia radicalmente. Niente sarà più come prima. Con la volta ha inizio quella stagione delle arti che i manuali chiamano “del manierismo”. La volta -- scrive Giorgio Vasari -- diventerà la lucerna destinata a illuminare la storia degli stili per molte prossime generazioni di artisti.
Per capire la radicalità della rivoluzione operata da Michelangelo, bisogna confrontare la volta con gli affreschi che trent'anni prima lo zio di Giulio ii, Papa Sisto iv della Rovere aveva fatto affrescare dai massimi pittori dell'epoca: da Ghirlandaio, da Perugino, da Botticelli, da Luca Signorelli. Il visitatore che guarda prima gli affreschi della volta poi quelli delle pareti, avrà l'impressione che fra gli uni e gli altri ci siano non trenta ma trecento anni di distanza. Basterà questo confronto a far intendere anche al visitatore della prima volta e di una sola ora la profondità e le dimensioni di una mutazione, quella messa in opera dal Buonarroti, che è filosofica, spirituale, religiosa prima di essere stilistica.
C'è poi (al sapere dell'iconografo e alle competenze dello storico dell'arte si sovrappone e si mescola la sensibilità del conservatore) un tipo di approccio alla Sistina che riguarda l'uso che ai nostri giorni pesa su questo documento supremo della umana civilizzazione. È l'approccio che conosco bene perché tocca direttamente le mie responsabilità di direttore dei Musei Vaticani.
Cinque milioni di visitatori all'anno all'interno della Cappella Sistina, ventimila al giorno nei periodi di punta, fanno un ben arduo problema. La pressione antropica con le polveri indotte, con l'umidità che i corpi portano con sé, con l'anidride carbonica prodotta dalla traspirazione, comporta disagio per i visitatori e, nel lungo periodo, possibili danni per le pitture.
Potremmo contingentare l'accesso, introdurre il numero chiuso. Lo faremo se la pressione turistica dovesse aumentare oltre i limiti di una ragionevole tollerabilità e se non riuscissimo a contrastare con adeguata efficacia il problema. Io ritengo però che nel breve medio periodo l'adozione del numero chiuso non sarà necessaria. Intanto (è l'obiettivo che sta impegnando in questi mesi le nostre energie) è necessario mettere in opera tutte le più avanzate provvidenze tecnologiche in grado di garantire l'abbattimento delle polveri e degli inquinanti, il veloce ed efficace ricambio dell'aria, il controllo della temperatura e dell'umidità. Se ne sta occupando, con un progetto di altissima tecnologia, radicalmente innovativa, la multinazionale Carrier, azienda leader nel mondo nel settore della climatizzazione. Io confido che, entro un anno, il nuovo impianto potrà entrare in funzione.
Diceva Giovanni Urbani, grande maestro dei nostri studi, che alla nostra epoca non è dato avere un nuovo Michelangelo. A noi è dato però il dominio della tecnica la quale ci permetterà, se correttamente applicata, di conservare il Michelangelo che la storia ci ha consegnato nelle condizioni migliori, per il tempo più lungo possibile.

(©L'Osservatore Romano 31 ottobre 2012)



giovedì 21 giugno 2012

Michelangelo - Venere e Amore

Come sempre ci si va cauti ma l'ipotesi della (ri)scoperta di un Michelangelo è sempre affascinante, ancor più perchè la posa di Venere nella formella analizzata ricorda tanto l'Adamo della Sistina.

Una formella di marmo presente dal XVIII secolo nel Cortile di Michelozzo di Palazzo Medici Riccardi a Firenze sarebbe stata scolpita da Michelangelo Buonarroti, lo geniale scultore fiorentino del Rinascimento. A identificare la scultura, intitolata 'Venere e Amore' e rappresentante una donna con in braccio un bambino, sono stati i due storici dell'arte Gabriele Morolli e Alessandro Vezzosi.

Ulteriori studi e indagini saranno intrapresi; tuttavia, lo stile, i riferimenti iconografici e culturali, le misure della forma (originariamente l'opera doveva avere una larghezza di 67-68 cm, con un rapporto tra dimensioni di 2:3, tipico di Michelangelo) e, naturalmente, l'elevata qualità dell'opera fanno pensare che questa formella sia proprio una formella di Michelangelo.


Michelangelo (att.) Venere e Amore 

e naturalmente c'è il cartone michelangiolesco con questo soggetto dal quale Pontormo ha tratto la sua opera.


Un articolo più completo da Fiorentini nel Mondo

Attribuita al Buonarroti una formella di marmo nel Cortile di Michelozzo: raffigura l’abbraccio di una donna nuda con un bambino. “Talvolta, capolavori sconosciuti si nascondono, ovvero si mimetizzano, dinanzi a innumerevoli sguardi”, così un rilievo di marmo inserito nel Cortile di Michelozzo di Palazzo Medici Riccardi nei primi anni del XVIII secolo è oggi presentato come opera attribuibile a Michelangelo Buonarroti. La composizione, l’iconografia, i riferimenti letterari, l’altissima qualità, la tecnica e lo stile della scultura, i confronti e le coincidenze con le opere di Michelangelo, rendono l’attribuzione di questa formella al grande Maestro fiorentino molto più che un’ipotesi.
Quasi al centro di uno dei grandi “cartelloni” collocato sulla parete meridionale del cortile, esattamente quella verso l’angolo occidentale, il piccolo rilievo marmoreo, raffigurante una donna sdraiata teneramente abbracciata a un bambino, rivela la sua natura rinascimentale, benché sia stata inserita fra reperti in marmo greci e romani. La ricostruzione storica della collocazione di quest’opera risale a dopo che i Riccardi avevano acquistato, nel 1659, il Palazzo Medici di Cosimo il Vecchio in via Larga, capolavoro del XV secolo: nel primo Cinquecento lo studiò Leonardo, vi lavorò Michelangelo. Nel mirabile Antiquarium creato da Francesco Riccardi, alcuni pezzi furono oggetto di critiche da parte di studiosi che mettevano in dubbio l’antichità di alcuni frammenti. Il rilievo rinascimentale ora individuato potrebbe persino essere stato eseguito come un “falso-antico”, pratica nella quale si distinse lo stesso Buonarroti.

L’opera, rotta in più frammenti in epoca imprecisata, fu ricomposta e incastonata nell’attuale cornice prima del 1715, sicuramente prima del 1719, anno dell'ultimo pagamento dei lavori eseguiti da Foggini e dai suoi allievi per i Riccardi. Lo studio sulla “lastrina” e l’ipotesi di attribuzione del rilievo a Buonarroti è stata avanzata per la prima volta da Gabriele Morolli e Alessandro Vezzosi nel recentissimo volume “Michelangelo Assoluto”, edito da Scripta Maneant (Reggio Emilia, 2012), a cura dello stesso Vezzosi, con introduzioni di Carlo Pedretti e Claudio Strinati, contributi (oltre che di Morolli) di Lucilla Bardeschi Ciulich, Rab Hatfield, Marina Mattei, e arricchito dalle interpretazioni fotografiche di Aurelio Amendola.

“La Provincia di Firenze accoglie con molto entusiasmo questa ricerca, portata avanti con serietà e competenza – ha commentato il Presidente dell’amministrazione provinciale Andrea Barducci - . L’attribuzione del rilievo a Michelangelo è anche un’occasione per riscoprire le bellezze, spesso poco note, di Palazzo Medici Riccardi. Proprio per questo motivo, è stata messa in programma un’operazione di accurata ripulitura delle sculture conservate nel Cortile di Michelozzo”.

La lastrina di marmo misura attualmente cm 43,5x58, mentre - come ricostruisce Gabriele Morolli - le misure presumibilmente originarie dell’opera, di cui oggi non si vede il termine a destra, potevano raggiungere una larghezza di 67-68 cm, mentre l’altezza doveva essere di poco superiore a quella attuale. Una misura ‘non fiorentina’ – chiarisce Morolli – usata da Michelangelo in quanto diviso nella sua biografia artistica tra Firenze e Roma, e tendente alle proporzioni del rapporto 2:3 di quinta musicale. Il rilievo rinascimentale è stato denominato “Venere e Amore” nell’ambito di una ricerca che ha permesso di individuare chiari parallelismi e convergenze con i caratteri di molte opere di Michelangelo, a partire dal contrasto tra il levigato, il ruvido e il ‘non finito’.

La formella Riccardi potrebbe anche essere una traduzione scultorea della Venere e Cupido “disegnata da Michelangelo e colorata da Pontormo”, ideata dal Buonarroti tra il 1532 e il 1533 per la camera di Bartolomeo Bettini e rielaborata negli anni in almeno sedici dipinti identificati e in altri sedici documentati, oltre a disegni e cartoni, da artisti come Agnolo Tori detto il Bronzino e Giorgio Vasari (cfr. la mostra “Venere e Amore” del 2002 nella Galleria dell’Accademia). Ma per Morolli e Vezzosi è più probabile che sia invece un antecedente databile verso il 1504 e in relazione con il Tondo Pitti (Firenze, Bargello) e il Tondo Taddei (Londra, Royal Academy). Senza escludere tuttavia l’ipotesi suggestiva del periodo mediceo nel Giardino di San Marco, o “degli esperimenti antiquari” per Pierfrancesco de’ Medici (nell’ultimo decennio del ‘400). Interessante per l’analisi di questa Venere Medici-Riccardi, il confronto con disegni come la figura distesa nella Studio per un Baccanale di Bayonne (attribuito a Michelangelo da Tolnay e Buck) e il frammento che si conserva a Colonia nel Wallraf-Richartz-Museum. Entrambi potrebbero essere in relazione con una precedente idea compositiva di Michelangelo, o con varianti di cui si ha un’eco nel disegno dello stesso Pontormo che trasforma il bacio incestuoso nell’abbraccio di una Madonna che allatta.

Questa Venere Medici-Riccardi presenta sì la potenza dell’Amore, ma un nudo femminile meno eroico e più aggraziato, meno virile di quello di Michelangelo-Pontormo che l’Aretino lodava per aver fatto Michelangelo “nel corpo di femmina i muscoli di maschio”. La posizione di questa Venere presenta affinità compositive persino con l’Adamo nella volta della Cappella Sistina, con l’Aurora e la Notte nelle Cappelle Medicee, con il dipinto perduto (e il cartone) di Leda e il cigno, con Venere e Amore di Pontormo-Michelangelo (Firenze, Galleria dell’Accademia), e continuano con il Sogno della vita umana (Londra, Courtauld Institute) e con il disegno di Sansone e Dalila (Oxford, Ashmolean Museum), fino al San Paolo dell’affresco vaticano.

Risalta nel rilievo un senso astraente e dinamico nei volumi, sensibile in luce e in ombra, nell’invenzione e reinvenzione della posizione resa celebre verso il 1517-1520 dall’incisione di Marcantonio Raimondi da Raffaello; ma certo Michelangelo – afferma Vezzosi – non aveva bisogno di Raimondi per una simile soluzione iconografica di così “elegante vivacità d’artifizio”. Un nuovo riconoscimento di autografia riferita a Michelangelo è di estrema complessità. Ulteriori indagini e studi proseguiranno, insieme a nuovi confronti critici, per approfondire l’attribuzione del rilievo Medici-Riccardi al Buonarroti, ma già quanto evidenziato ha di per sé grande fascino e credibilità. “Anche se non fosse opera di Michelangelo ma di un suo seguace – commentano Morolli e Vezzosi – crediamo che l’individuazione di questo rilievo Medici-Riccardi raffigurante Venere e Amore rappresenti la sorprendente riscoperta di un raffinato, piccolo capolavoro”.

La lastrina in marmo - alta 43,5 cm e larga 58 circa - risulta ricomposta con 9 frammenti di differenti dimensioni: ha un bordo rilevato (un liscio nastrino a listello) sia sul lato verticale sinistro che su quello orizzontale superiore, che attualmente in basso e a destra. I personaggi scolpiti sono due. Una donna nuda è adagiata in una morbida posa, posta com’è sul fianco destro, sostenuta dal braccio elasticamente flesso e “puntellata” sul polso ripiegato e sulla mano rivolta verso l’esterno; mentre il braccio sinistro si protende nella porzione superiore del marmo. Il volto si presenta in un tagliente profilo, mentre le due gambe sono scolpite in ardito contrapposto: la destra completamente allungata e la sinistra fortemente ripiegata sin sotto la coscia.

Il fanciullo si avvita teneramente in grembo alla ‘madre’, ponendosi disinvoltamente a cavalcioni della coscia sinistra, stringendola con le gambette piegate e salendo con il piccolo busto lungo il petto della figura femminile, della quale il braccino sinistro cinge dolcemente il capo, in modo che la riccioluta testa del bambino possa giungere all'altezza del volto materno quasi a unire le labbra in un bacio. “Una composizione sapiente - nota Gabriele Morolli - dove ogni gesto è inserito in un contesto generale di accorti bilanciamenti e contrappunti. La superficie marmorea è lavorata in modo variegato: dalla finitura quasi perfetta di alcune parti alla sbozzatura meno definita di altre, fino a porzioni arditamente ‘non finite’, come i volti dei personaggi. Come in una seducente, generale impressione di work in progress, di ‘prova d’artista’”.

venerdì 6 aprile 2012

I paesaggi di Michelangelo e la "Roccia di Adamo"

Generalmente Michelangelo non viene ritenuto un grande paesaggista; i suoi sfondi sono spogli e brulli e c'è poco interesse per il dato naturale e la veduta. L'idea di fondo, come per il Caravaggio, è la difficoltà di cogliere attraverso la pittura, intesa come scienza, la natura umana; da qui l'impossibilità, a livello di speculazione, di indagare e cogliere la natura intera. Se è tanto difficile poter studiare un'anatomia o i moti dell'animo, figuriamoci poter comprendere le dinamiche del mondo intero. Ciononostante recenti ricerche hanno individuato i probabili luoghi descritti dal Buonarroti. I paesaggi del monte Penna sono gli stessi della Creazione di Adamo, del Tondo Doni, della Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. Nella Creazione di Adamo si riconoscono perfettamente il profilo del Santuario de La Verna e le rocce su cui poggia semidisteso Adamo. Esse hanno una precisione quasi fotografica con quelle reali, tanto che il contorno del corpo coincide esattamente con i massi presenti ancor oggi sul luogo. Non è un caso che in luogo è conosciuto come Roccia di Adamo. Il paesaggio della Creazione di Adamo, si trova vicino alla podesteria di Chiusi della Verna, proprio dove soggiornava il padre dell’artista durante il suo mandato. La scoperta degli scenari michelangioleschi è stata fatta nel 2004 da Simmaco Percario, uno studioso di Michelangelo, e Alessandro De Vivo, un artista del luogo.

Monte della Verna
Il paesaggio che fa da sfondo alla Creazione di Adamo, si può ammirare nei pressi della Podesteria di Chiusi della Verna, proprio dove soggiornava il padre dell’Artista durante il suo mandato. La somiglianza tra il paesaggio reale e quello riprodotto da Michelangelo nella Cappella Sistina è talmente forte da lasciar pensare che l’Artista abbia realizzato l’affresco tenendo conto di un disegno o di uno schizzo preparatorio preso direttamente sul posto. Infatti nell’opera non solo si riconosce il profilo del Santuario de La Verna, ma anche le rocce su cui poggia semidisteso Adamo hanno una precisione fotografica con quelle reali, tanto che il contorno del corpo coincide esattamente con i massi presenti ancor oggi sul luogo.


Roccia di Adamo

lunedì 5 dicembre 2011

In giro per mostre a Roma - da Raffaello e Michelangelo a Caravaggio

Torno a scrivere dopo diverso tempo e vorrei riprendere con alcune impressioni derivate dalle ultime frequentazioni romane. Si parla di mostre e si deve allora subito distinguere tra due prospettive: la visita per ammirare dal vivo capolavori e opere studiate solo sui libri, in un percorso esclusivamente di fruizione estetica, e la visita che dovrebbe lasciare una traccia anche livello formativo, ovvero dovrebbe accrescere le nozioni su un determinato periodo storico seguendo un'ottica scientifica e non esclusivamente didattico-manualistica. Il problema principale è la degradazione della mostra a semplice e basso evento di consumo turistico-propagandistico. Lo spiega bene Montanari nell'articolo Il sonno della ragione genera mostre quando scrive "Per rendere vero il luogo comune consolatorio per cui ‘le mostre avvicinano al patrimonio artistico e alla cultura il grande pubblico’, esse dovrebbero, al contrario, stimolare il senso critico ed il pensiero, non l’evasione e la distrazione. Una mostra potrebbe definirsi educativa se il pubblico uscisse dall’ultima sala persuaso a recarsi in un museo, in una chiesa o in una libreria per colmare alcune delle lacune intellettuali o culturali emerse durante la visita. E invece accade tutto il contrario". Per secondo spesse volte ci si trova con allestimenti completamente finti e spaesanti che alterano la percezione dell'opera spingendo più verso un'atmosfera di maniera che verso una lettura pulita e funzionale. Primo imputato è la mostra Il rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello. Ambiente inadeguato, allestimento pessimo e claustrofobico, tentativo di definizione di un periodo di per se complesso e articolato (la prima metà del 500), scelta di opere prese in larga parte da musei romani (e quindi fruibili nel loro contesto in un raggio di poche miglia), inserimento di opere non legate al contesto romano (come la scelta dei Raffaello, di certo i primi che hanno avuto a disposizione, tanto per inserire il gettone di presenza). Tra le poche cose che si salvano, oltre ribadisco la valenza estetica delle singole opere, il commovente originale della celebre lettera di Raffaello a Leone X, lo splendido disegno di Raffaello del Pantheon (tra le prime vedute esatte di monumenti romani), la produzione privata dell'ultimo Michelangelo con il confronto delle tavole (autografe?) della crocifissione e della pietà. 



La mostra Roma al tempo di Caravaggio appare ancor più un disastro. Le chiese romane sono state completamente depredate di pale d'altare (ben 40 in mostra) esposte poi su falsi e stucchevoli altari in finto marmo che rimandano un'atmosfera cupa e cimiteriale, da film dell'orrore. Se lo scopo era una ricognizione scientifica, infatti, niente di meglio sarebbe derivato da un allestimento pulito e minimale, anche asettico, che mettesse in evidenza l'opera prima di tutto e non la relegasse a pura immagine di se stessa. La Madonna dei Pellegrini, all'ingresso, in una posizione per nulla meritevole messa a confronto con non notevole tela dalla scuola dei Carracci. Percorso con poco filo logico, se si esclude una divisione prettamente cronologica. Troppe tavole didattiche sotto le opere che rischiano di smarrire lo sprovveduto visitatore Errore nelle iconografie con l'Allegoria di Roma di Valentin de Boulogne che diventa una retorica Allegoria dell'Italia. Ennesimo tentativo di far passare per originale di Caravaggio una tela privata (il sant'Agostino) recentemente scoperta. Quindi poca scientificità. Si spera che contributi interessanti vengano dalla seconda parte del catalogo, con nuovi saggi (ma anche il catalogo generale risulta interessante), e dal ciclo di conferenze: da non perdere quella della Macioce sul Caravaggio attraverso le incisioni (tema pochissimo affrontato), quella sulla pittura di paesaggio a Roma e su Roma vista da Milano. Tra le cose interessanti in mostra, invece, lo splendido lacerto della grande tela di Sezze di quel geniale caravaggista che fu Orazio Borgianni (dal quale questo blog, finalmente lo sveliamo, ha preso l'immagine di copertina), il poetico confronto tra le due Madonne con bambino di Orazio e Artemisia Gentileschi, l'altro confronto tra l'Angelo custode di Antiveduto Grammatica e il Tobiolo e l'angelo dello Spadarino, la bellissima Sacra Famiglia di Cavarozzi, il Martirio di Santa Caterina di Reni, lo sfondo neutro della sepoltura di Cristo di van Baburen da San Pietro in Montorio. Un recente articolo di Tomaso Montanari sulla mostra Roma e Caravaggio, scopriamo gli altarini, sintetizza bene tutti i punti negativi dell'esposizione.


Infine, girando nei pressi di Piazza Navona, non ho potuto non notare il Pasquino restaurato. Incredibilmente, ignorando del tutto la sua gloriosa storia, non è più possibile affiggere invettive e satire sul basamento poichè è stato posto a fianco un'anonimo totem di ferro che dovrebbe accogliere i versi.


Il Fatto Quotidiano, Tommaso Montanari, 2 dicembre

ALTO TRADIMENTO. Roma al tempo di Caravaggio non è solo l’ennesima kermesse caravaggesca promossa da Rossella Vodret nei due anni che sono passati dalla sua nomina a soprintendente di Roma: è letteralmente un atto di alto tradimento, culturale e professionale. La frenesia caravaggesca della dottoressa Vodret è tale che, al posto del Bacco di Bartolomeo Manfredi, a Palazzo Venezia c’è un cartello che informa che l’opera arriverà solo il 1 dicembre, al ritorno dalla inconsistente mostra su «Caravaggio en Cuba», sempre realizzata su progetto della Vodret.

Insomma, per disciplinare il traffico aereo dei Caravaggio movimentati dalla soprintendenza di Roma ormai ci vuole una torre di controllo dedicata. Ma la cosa più grave di Roma al tempo di Caravaggio è che quasi quaranta opere sacre sono state strappate dagli altari veri che ancora le accolgono nelle chiese per essere esibite a Palazzo Venezia, rimontate su finti altari di finto marmo, in una specie di galleria cimiteriale per cui davvero non c’era bisogno di scomodare Pier Luigi Pizzi. In questo momento le chiese di Roma sono dunque ridotte ad un colabrodo, anche perché quello di Palazzo Venezia non è l’unico luna park in attività: la stessa Vodret ha, per esempio, autorizzato l’espianto dalla Cappella Cerasi (in Santa Maria del Popolo) e la spedizione a Mosca della Conversione di Paolo di Caravaggio, un atto che distrugge (pro tempore, salvo incidenti) uno dei pochi ecosistemi artistici del tempo di Caravaggio che ci sia arrivato intatto.

E ai musei non va molto meglio: i pochi caravaggeschi dell’appena inaugurato Palazzo Barberini che non sono a Cuba sono stati deportati in Piazza Venezia, e anche la Galleria Borghese e la Corsini hanno pagato un alto prezzo all’ambizione della soprintendente. D’altra parte, quale sia la considerazione della soprintendenza per i musei, lo dice lo stato del disgraziatissimo Museo Nazionale di Palazzo Venezia, che sembra sempre il parente povero della mostra di turno nello stesso palazzo un degrado espresso perfettamente dal busto quattrocentesco di Paolo II ridotto a decorazione del guardaroba della mostra. E sta proprio qua l’alto tradimento: è la soprintendente stessa a lacerare il fragile e unico tessuto artistico romano che è pagata per difendere. In un conflitto di interessi intollerabile, la Rossella Vodret curatrice della mostra chiede i prestiti alla Rossella Vodret soprintendente: e, non sorprendentemente, li ottiene tutti. Tutto questo per una mostra che non ha nulla - ma davvero nulla - a che fare, non dico con la ricerca scientifica degli storici dell’arte seri, ma nemmeno con un buon progetto di divulgazione. Il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele E. M. Emanuele, scrive in catalogo che l’«assunto scientifico dell’esposizione è il confronto tra le due correnti del naturalismo e del caravaggismo»: che, invece, sono la stessa cosa.

Ma non bisogna fargliene troppo carico, perché è davvero difficile capire quale sia, quel famoso assunto: il “tempo di Caravaggio” (morto nel 1610) viene infatti dilatato fino al 1630, dimenticando un secolo di distinzioni storico-critiche e ammannendo al pubblico un polpettone indigeribile. Fin dalla prima sala (dove tiene banco un confronto, malissimo impostato, tra un capolavoro di Caravaggio e una tela della bottega di Annibale Carracci), la mostra appare dilettantesca, slabbrata, disinformata: una mostra come la si sarebbe potuta fare nel 1922. E nel 2011, con un tavolo pieno di monografie, tre milioni di euro in tasca e una buona ditta di traslochi a disposizione, l’avrebbe fatta meglio un laureando qualunque dei (pessimi) corsi triennali in Valorizzazione dei Beni culturali.

Ciliegina sulla torta, ecco la strizzatina d’occhio al mercato dell’arte. Finalmente tutti possono vedere il quadro lanciato a giugno come un Caravaggio a prova di bomba. L’esame diretto conferma che il SantAgostino è un gran bel quadro: ma dipinto trent’anni almeno dopo la morte del Merisi. A parte la curatrice della mostra, il proprietario e la professoressa Danesi Squarzina (che lo ha pubblicato), nessuno crede all’attribuzione a Caravaggio. Una pattuglia di specialisti autorevoli (tra cui Ursula Fischer Pace) pensa che sia un’opera del cortonesco Giacinto Gimignani, mentre a me ricorda addirittura le primissime prove di Carlo Maratti nella bottega di Andrea Sacchi (1640 circa).

Comunque sia, siamo lontani anni luce da Caravaggio: e ora c’è solo da sperare che non si provi a rifilarlo allo Stato italiano per qualche milione di euro. Non molti sanno che in Senato giace da mesi un’interrogazione in cui il senatore Elio Ianutti (IDV) chiede al ministro per i Beni culturali perché Rossella Vodret ricopra il posto di Soprintendente di Roma senza esser mai riuscita a superare un concorso da dirigente. Ebbene, dopo il colossale disastro di «Roma al tempo di Caravaggio», la soprintendente di Roma potrebbe prendere in considerazione una soluzione che farebbe risparmiare tempo al Senato e al suo ministro: dimettersi.


domenica 16 ottobre 2011

Un (auto?)ritratto sconosciuto di Michelangelo

Rimarrà esposto al Castello nella città di nascita di Michelangelo Buonarroti, Caprese Michelangelo, sino al 30 ottobre un tondo di marmo, mai mostrato, se si esclude una giornata del 2005 al Museo Ideale di Vinci, perché conservato nella collezione privata di una nobile famiglia toscana, assegnato al maestro da James Beck (4 anni fa) e da Claudio Strinati (oggi). La piccola scultura ad altorilievo di 36 centimetri di diametro secondo questi studiosi sarebbe un autoritratto di Michelangelo: la tecnica e gli strumenti utilizzati per realizzare l'opera, secondo Strinati, non lascerebbero dubbi. Il marmo raffigura un uomo barbuto e anziano e secondo gli studiosi potrebbe essere assegnato al 1545 circa e provenire dal complesso funerario della tomba di papa Giulio II realizzata da Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli di Roma. Spiega Strinati, già soprintendente di Roma e oggi dirigente del Mibac: «La prima testimonianza documentata su questa scultura compare in una guida turistica del '700 relativa a Pisa, dove si parla di un possibile autoritratto di Michelangelo in una collezione della città. Ma ci sono altri indizi: la composizione chimica del marmo è la stessa del materiale delle cave di Polvaccio, sulle Apuane, dove si riforniva abitualmente Buonarroti. Infine il ritratto potrebbe esser stato fatto con scalpelli a lame larghe e con un trapano, lavorazione compatibile con le metodologie di Michelangelo». (Il Giornale dell'Arte)

Tondo con ritratto di Michelangelo
ames Beck, professore di storia dell'arte alla Columbia University di New York, sembra esserne certo: ''Quel tondo di circa 35 centimetri raffigurante un uomo con la barba, sarebbe un autoritratto scolpito su marmo di Carrara dalla mano di Michelangelo''. E se così fosse, l'autoritratto scolpito dal Maestro fiorentino quando aveva circa 70 anni, avrebbe un valore intorno ai 100 milioni di dollari. 
La convinzione dello studioso americano non è recente, già 1999 James Beck pubblicò un saggio sul Buonarroti dal titolo ''Tre parole su Michelangelo'' in cui per la prima volta il professore attribuì il tondo al genio della Cappella Sistina. 

''È un'opera eccezionale, di grandissimo pregio, a mio parere di Michelangelo'', dice il professor Beck che basa la sua tesi su caratteristiche del tondo sia artistiche sia in parte scientifiche. Innanzi tutto l'espressione. La mano che ha scolpito il tondo è riuscita a rendere al contempo lo sguardo verso l'infinito e l'ideale e un occhio di disprezzo per la mortalità della vita terrena. Pensiero, questo, tipico della visione neo platonica michelangiolesca. Un'espressione molto simile a quella del Nicodemo della Pietà, conservata al museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze a cui Michelangelo lavorò dal 1547 al 1555. James Beck data il tondo nel periodo che va dal 1545 al 1555, il che però non è confermato né nella celeberrima biografia di Michelangelo di Giorgio Vasari, né in quella dell'assistente e biografo del genio fiorentino Ascanio Condivi. 

A dare forza alla tesi del professore della Columbia e a distinguere quest'opera da tutte la altre che con superficialità nella storia sono state attribuite a Michelangelo sarebbero la qualità e la raffinatezza della scultura. Le caratteristiche del viso, rese così bene nel marmo, ricordano in modo impressionante quelle del ritratto del maestro fiorentino dipinto da Jacopo del Conte, quando Michelangelo era ancora vivo. Da un punto di vista scientifico è praticamente impossibile datare il momento della scultura. I test che si possono applicare ci parlano solo dell'età geologica di quel marmo, un'età che non ha nulla a che vedere con la sua lavorazione. 
Ma il professor Corrado Graziu dell'Università di Pisa ha scoperto il luogo di origine del marmo utilizzato per il tondo. Non solo si tratta di Carrara, ma proprio della cava del Polvaccio, il sito noto anche come la 'Cava di Michelangelo', perché Michelangelo lavorava principalmente il marmo estratto da li'. 
Infine un ultimo dato interessante scoperto dal professore Graziu e considerato fondamentale dal professore della Columbia: il tondo è stato esposto per 150 anni ad agenti atmosferici e poi ripulito con degli acidi le cui tracce sono ancora presenti sul tondo. Questo spiegherebbe come mai la superficie dell'opera sia così liscia. ''La questione della superficie della scultura mi aveva sempre preoccupato - ha raccontato il professor Beck al quotidiano newyorkese 'New York Sun' - perché Michelangelo nel periodo in cui ho datato il tondo, aveva elaborato lo stile del 'non finito''' quello, per esempio, della Pietà Rondanini. (Guidasicilia)

Pietà Bandini - part. Nicodemo

venerdì 1 luglio 2011

A cosa serve Michelangelo?

Da un po' di tempo volevo segnalare questo libricino, da poco uscite per Einaudi, di Tomaso Montanari dal titolo emblematico A cosa serve Michelangelo? Il punto di partenza è il controverso acquisto del famoso crocifisso da parte dello Stato e tutte le problematiche che una politica del genere pone, ma si parla anche di altro, dal ruolo degli storici dell'arte al degrado della materia nel discorso pubblico. Approfitto quindi di quest'intervista realizzata da Davide Angerame uscita su Artribune per segnalarlo caldamente.



Il caso del falso Michelangelo è uno dei molti casi che tratta Tomaso Montanari per dimostrare come l’arte antica sia diventata “l’escort di lusso” della cultura italiana. Scritto con lucidità e verve, il saggio racchiude in sé i toni acri del pamphlet e le rimostranze dei cahiers de doléances. Ne risulta un atto d’accusa contro la deriva presa dalla moderna ideologia della “valorizzazione” dei “beni culturali” che, secondo il quarantenne docente di Storia dell’arte dell’Università Federico II di Napoli, si trasforma in svendita della nostra arte per pochi euro, in un mondo che capisce solo più gli “eventi” della grande “Disneyland culturale”, mentre languono i tanti musei a chilometro zero, ricchi di connessioni con la storia del territorio che l’Italia possiede e che nessuno più visita.

Il tuo libro presenta un’attenta ricostruzione dell’errata attribuzione del Cristo ligneo (provenienza Gallino) a Michelangelo e relativo acquisto per 3,25 milioni di euro da parte dello Stato. Hai il tono del polemista ma anche la perizia di uno storico. Sull’onda di quale sentimento hai scritto questo libro? L’indignazione?
Uno degli scrittori italiani contemporanei che amo di più, Franco Arminio, ha scritto che “il mondo non cambia perché non lo vuole cambiare quasi nessuno. Il mondo non cambia perché non è mai stato così pieno di ipocrisia”. Dunque, ho scritto questo libro sull’onda di una fredda indignazione, certo, e anche del disgusto per l’ipocrisia, l’impreparazione e l’inadeguatezza di molti di coloro che hanno in mano il mondo della storia dell’arte. Ma l’ho scritto soprattutto animato dalla voglia di cambiare, se non il mondo, almeno il mio piccolo mondo: quello della storia dell’arte.
Il problema del Michelangelo/Gallino è l’emblema di una stortura tutta italiana oppure all’estero non sono messi meglio?
Nessun Paese è perfetto, ma il dilettantismo, la presunzione e l’arroganza (per esempio) del Comitato degli storici dell’arte del Mibac che ha consigliato il ministro di comprare l’opera senza consultare esperti terzi, ma basandosi solo sulla forza della consorteria e della corporazione: beh, questi gravi difetti sono tipicamente italiani e tipicamente della casta accademica italiana. La professoressa Marisa Dalai presiede quel Comitato, nonostante sia in pensione da quasi due anni: in nessun altro Paese del mondo c’è un così grave problema di gerontocrazia. E da vecchi non si è felici di essere contestati: pensi che la professoressa Dalai è furibonda perché la Direzione dei beni culturali della Lombardia mi ha invitato a discutere il libro. E questi sarebbero i liberi intellettuali!
La svolta culturale a cui assistiamo, sostenuta da illustri soprintendenti e protagonisti della cultura artistica nostrana, fa sì che della storia dell’arte non sia più nulla, che il suo senso si svuoti e che di essa si possa fare ciò che si vuole. Davvero la verità non vale più nulla?
Vale in effetti pochissimo. Pochi giorni fa, un signor nessuno fortemente indiziato di cialtroneria ha chiesto al Louvre di prestare la Gioconda a Firenze, e immediatamente la Provincia di Firenze e tutti i media italiani lo hanno seguito come se fosse il pifferaio magico. Nel mondo della storia dell’arte italiana, chiunque può dire di essere Napoleone ed essere creduto.
In Italia quasi nessuno si espone. Tu fai nomi e cognomi. Follia o coraggio soprannaturale?
Semmai un’incoscienza soprannaturale. No, non scherziamo: davvero niente di soprannaturale. Questo è un Paese bizzarro, dove sembra strano fare il proprio lavoro. Ho avuto la fortuna di diventare professore relativamente giovane: abbastanza giovane da ricordarmi cosa pensavo di questo mondo prima di venirvi cooptato. Già, perché da noi il senso critico si esercita dall’esterno: quando si diventa interni, lo si dimentica. E invece io penso che lo Stato mi paghi ogni mese lo stipendio non solo per fare lezioni, esami, tesi e ricerca, ma anche per esercitare il mio senso critico. Se tutti facessero il proprio lavoro, questo Paese cambierebbe.
Trovo molto interessante l’analisi della trasformazione del “vocabolario” applicato ai beni culturali: da beni artistici e belle arti si è passati ai “beni culturali” da “valorizzare” e non più da custodire. Uno slittamento linguistico che apre il campo a una sciagurata gestione che porta al crollo di Pompei e della Domus Aurea. Il caso è, ancora una volta, l’effetto dell’ingerenza politica nella cultura di questo Paese?
Direi di sì. La mutazione delle parole (e chi parla male vive male, direbbe, a ragione, Nanni Moretti) inizia a metà degli anni ‘80 nell’entourage di Bettino Craxi. La radice antropologico-politica della mutazione da “opere d’arte” o da “memoria storica” in “beni culturali” è la stessa da cui nasce la cultura berlusconiana della monetizzazione di tutti i valori. Non a caso ho usato la metafora della storia dell’arte che diventa una escort della vita pubblica italiana.
Mario Resca come l’ultimo dei mali: dovrebbe fare del bene, valorizzare il patrimonio, e invece secondo te lo mette a repentaglio per pochi spiccioli. Cosa faresti se fossi Resca?
Ovviamente non ho nulla contro la persona di Resca. Ma se il Codice dei Beni culturali dice che lo scopo della cosiddetta valorizzazione è l’aumento della cultura dei cittadini (e non del fatturato dello Stato), forse al posto di un manager degli hamburger bisognava metterci un intellettuale. Se fossi al posto di Resca, lancerei una colossale campagna di “marketing” non dell’effimero (mostre ed eventi) o dei capolavori (Bronzi di Riace o Michelangeli veri o presunti) ma del patrimonio monumentale diffuso in tutto il Paese. Ci sarebbe da divertirsi.
Sei molto critico anche con la Chiesa, con le mostre confessionali travestite da esposizioni culturali. L’analisi dell’atteggiamento del Museo Diocesano di Napoli mette in luce come anche il clero soffra di questa malattia che potremmo chiamare “culturteinment”.
Io sono cattolico praticante: quasi mi turba doverlo dire, ma visto che vengo accusato di essere addirittura “anticristiano”, penso sia meglio chiarire come stanno le cose. Ho dunque un motivo in più per essere indignato per il modo grossolano in cui la gerarchia cattolica italiana strumentalizza il patrimonio artistico sacro per ricavare denaro e consenso. Ciò che descrivo nel libro culmina ora con la follia del Papa che si porta dietro in Germania la Madonna di Foligno di Raffaello, come se fosse una prigioniera in catene dietro un trionfo imperiale.
Però questi eventi fanno numeri da capogiro, e in qualche modo tolgono l’arte dai musei per restituirla alle masse di “fedeli” (dell’arte, s’intende). Guardi il caso Goldin con gli impressionisti e Van Gogh. È tutto da buttare?
Dipende dallo scopo che assegniamo all’arte. A cosa serve Michelangelo, e con lui a cosa serve tutto il patrimonio artistico? Se serve a intrattenere, va bene anche Goldin, che usa i quadri come i varietà televisivi usano le ballerine. Ma io non credo che l’arte serva a intrattenere, e nemmeno ad aumentare l’orgoglio nazionale (come posso essere orgoglioso di qualcosa che non capisco e violento?). L’arte serve a diventare più umani, a diventare cittadini consapevoli, a temperare la cecità del presente con la profondità prospettica della conoscenza del passato. E allora è essenziale che non si spostino le opere, ma i cittadini: bisogna viaggiare, visitare le opere nei contesti, conoscere un tessuto complesso, non organizzare luna park effimeri dove tutto è predigerito e finto come a Porta a Porta.
Fai notare che il sistema della critica e delle attribuzioni gira su se stesso, è autoreferenziale, ci sono conflitti d’interesse. E chi si oppone a questo sistema di solito è ottuagenario, ovvero fondamentalmente libero da autocensure. Tu invece sei giovane… Che ne pensi delle nuove generazioni di storici e critici d’arte?
Prima consentimi una battuta: non sono giovane, sono uno storico dell’arte “di mezza età” (come dice di se stesso Lorenzo Bianconi dei Baustelle, che ha due anni meno di me). Un Paese in cui si è ancora “giovani” a quasi quarant’anni, davvero ha qualcosa che non va. Penso che il precariato intellettuale e quello universitario facciano dei danni gravissimi non solo ai giovani storici dell’arte, ma anche al Paese. I migliori tra i nostri giovani passano spesso gli anni migliori della loro vita intellettuale (gli anni in cui potrebbero avere la forza e la fantasia per cambiare i connotati alla disciplina) a compiacere vecchi baroni decotti. Il servilismo e il conformismo sono i veri meriti che vengono ricompensati nella carriera accademica: e se questi sono i presupposti, come si può sperare che qualcosa cambi?
Una battuta sui mass media. Li consideri asserviti alla logica dello spettacolo. Ma come traghetteresti importanti dibattiti di attribuzione che riguardano il patrimonio pubblico, quindi di tutti, con le necessità dei media di semplificare, esaltare e a volte adorare?
Perché dobbiamo partire dal presupposto che i telespettatori siano una massa di imbecilli, fondando su questa presunzione una ignobile gara al ribasso? Il successo diChe tempo che fa o di Vieni via con me (per non fare che due esempi) dimostra che ci sarebbe eccome lo spazio per una televisione di qualità che faccia pensare invece che addormentare il pensiero. Fare della “vera” storia dell’arte in televisione sarebbe fantastico: il pubblico potrebbe, contemporaneamente, divertirsi ed educarsi. E anche vaccinarsi nei confronti di tutte le incredibili bufale che fioccano ogni giorno in una disciplina infestata da cialtroni e millantatori di ogni sorta.
Qual è il rimedio a questa errata attribuzione? Cosa speri per il futuro di nostri “beni culturali”, visto che le risorse scarseggiano? L’intervento a favore del Colosseo è una strada praticabile e auspicabile?
Per il cosiddetto Michelangelo mi aspetto, certo ingenuamente, che il Ministero dei Beni culturali ammetta l’errore, lo restituisca e si faccia rendere i soldi. E spero che la magistratura faccia la sua parte. Quanto ai privati, benissimo se hanno un ruolo di arricchimento e integrazione, ma non possono supplire al ruolo dello Stato. Il nostro patrimonio straordinario nasce da un millenario investimento di denaro, che ha “reso” arte. Oggi dobbiamo decidere se abbiamo interesse a continuare a investire denaro in quel patrimonio: così come si fa negli ospedali e nelle scuole. I dividendi del patrimonio artistico sono le cure dell’anima: memoria collettiva, cittadinanza, liberazione intellettuale, felicità. Chi può dire che non ne abbiamo bisogno quanto abbiamo bisogno delle cure del corpo?
Nicola Davide Angerame

venerdì 4 marzo 2011

Il crollo del David

Sarebbe un incubo vero e proprio, sarebbe terribile anche solo immaginarlo ma apprendo che, anche lontanamente, ci sarebbe il rischio che il David di Michelangelo passa crollare sotto i suoi piedi poiché i vicini lavori della Tav porterebbero all'estremo delle micro lesioni nelle zone basse. Naturalmente ci sono i catastrofisti ma anche la più remota possibilità che questo avvenga mi getta nel panico.

Il David di Michelangelo, statua di marmo imponente – di 6,72 metri, se si considera anche il basamento e raggiunge quota 6,83 metri con il gradino in granito – ma fragile a causa di micro-fessure apertesi sulle caviglie che ne possono compromettere la tenuta, è a grande rischio crollo. Le vibrazioni degli scavi dei tunnel dell’alta velocità e poi i transiti futuri dei convogli sotto Firenze, potrebbero causare un aggravio delle sollecitazioni cui è già sottoposta la scultura del Buonarroti. A lanciare l’allarme è l’architetto padovano Fernando De Simone, esperto in costruzioni sotterranee, che arriva a proporre di trasferire il capolavoro in un nuovo museo per proteggerlo. Dopo accurate indagini durate oltre un anno, De Simone ha richiamato l’attenzione su un eventuale pericolo per l’opera proprio mentre a Firenze è in corso un dibattito quotidiano sugli rischi dovuti all’attraversamento sotterraneo dei treni veloci, tanto che si stimano circa 2000 edifici con possibili lesioni, a ridosso del percorso ferroviario sotterraneo. «I due tunnel della Tav – ha fatto notare De Simone – passeranno a circa 600 metri dalla statua del David di Michelangelo che ha le caviglie piene di piccole crepe. Se prima di iniziare i lavori di scavo, la statua non verrà trasferita, ci saranno seri rischi che crolli, a causa delle vibrazioni». L’architetto si accorse del problema delle vibrazioni per il David alcuni anni fa, osservando cosa accadeva al treppiede della sua macchina fotografica: «All’arrivo di gruppi di visitatori, la livella a bolla, che segnala l’equilibrio non stava mai ferma, vibrava di continuo. Figuriamoci cosa può accadere coi treni;…». «Alla Galleria dell’Accademia di Firenze – ha spiegato la soprintendente Cristina Acidini – è in corso uno studio finalizzato a stabilire quale grado di resistenza a sollecitazioni sismiche, ai terremoti, può avere l’edificio che certo non è moderno. Quando avremo un quadro diagnostico completo potremo valutare se le vibrazioni degli scavi della Tav e i passaggi futuri dei treni potranno creare problemi alla statua». Intanto, il capolavoro di Michelangelo è finito in parlamento: il senatore del Pdl Pietro Paolo Amato ha presentato in Senato un’interrogazione ai ministri Bondi e Matteoli per «fare immediata chiarezza». (Rovesci d'arte)

Da qui la proposta formulata da Fernando De Simone di trasferire il David in un museo sotterraneo che proteggerebbe la statua anche in caso di terremoto ed inoltre si potrebbe consentire al visitatore la sua osservazione, tra l'altro, da ogni punto di vista, quindi non solo frontalmente, ma lateralmente e dall'alto. "Un'osservazione - aggiunge De Simone - dai punti di vista ascendenti e discendenti e spiralati, grazie a delle rampe e delle scale intorno alla statua. Un modo di vedere la celebre scultura come desiderava lo stesso Michelangelo e come ha scritto il grande critico dell'arte Carlo Ludovico Ragghianti, di cui io sono stato allievo".

venerdì 7 gennaio 2011

Pietà e Deposizione

Due articoli, diversi tra loro, offrono interessanti novità e riflessioni su due assoluti capolavori: la Pietà di Michelangelo e la Deposizione di Caravaggio. Il primo articolo illustra il ritrovamento del presunto bozzetto della Pietà (che all'inizio era chiamata Madonna della Febbre); scoperta che, se dimostrata, sarebbe sensazionale. Il secondo articolo, di impostazione teologica, è un'interessante analisi della Deposizione in relazione al significato sacrificale della messa. Profonde le parole del papa alla fine. Scriveva il cardinale Ratzinger: "Nella passione di Cristo (...) l'esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire il volto, sputare addosso, incoronare di spine (...) Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l'autentica, estrema bellezza: la bellezza dell'amore che arriva "sino alla fine" e che, proprio per questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l'ultima istanza del mondo. Non la menzogna è vera, bensì proprio la verità. È un nuovo trucco della menzogna presentarsi come verità e dirci: al di là di me non c'è in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla, così facendo siete sulla strada sbagliata. L'immagine di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme con lui e crediamo nell'Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza".





lunedì 31 maggio 2010

Neuroscienze, Michelangelo e l'eventuale Codice

La Cappella Sistina di Michelangelo è la summa dell'arte rinascimentale e, naturalmente, della dottrina della chiesa cattolica essendo collocata nel suo centro "fisico" e raffigurando l'intera storia dell'uomo, dalla Genesi fino al Giudizio universale, in un complesso programma iconografico unitario formulato dai teologi di Sisto IV, in pieno Quattrocento, e poi seguito dallo stesso Michelangelo molti anni dopo. L'argomento è molto complesso e all'inizio, per togliere eventuali dubbi, vorrei segnalare questo fondamentale testo di Pfeiffer Heinrich. La Sistina svelata. Iconografia di un capolavoro che mostra una nuova Sistina attraverso uno sguardo del tutto innovativo all'iconografia delle pareti laterali dipinte fra gli altri da Botticelli, Perugino, Signorelli e del lavoro michelangiolesco nella volta, nelle lunette e nella parete del Giudizio Universale.
Nella Cappella chiunque, storico dell'arte o meno, vi ha visto qualsiasi cosa: nel Giudizio nel suo complesso, per esempio, vi si è voluto trovare il volto di Michelangelo (del resto già presente nella pelle di San Bartolomeo).
Doliner Roy, studioso d'arte, e Blech Benjamin, rabbino americano, ne I segreti della Sistina, (si legga la Prefazione in pdf) invece, hanno individuato un codice che fa largo uso della simbologia ebraica e neoplatonica. Ecco allora come il profilo del Giudizio Universale ricorda quello delle Tavole della Legge e le dimensioni della Cappella Sistina sono identiche, al millimetro, a quelle dell’«Eichal» del Tempio di Salomone. Nei pennacchi che si trovano ai quattro angoli della Volta, invece, lettere ebraiche formate con gli arti dei personaggi raffigurati richiamando concetti cabbalistici: la Ghimel di gvurà (orgoglio) nel pannello di David e Golia come la Chet di chessed (pietà) in quello di Giuditta e la sua ancella, mentre gambe e dita di Giona formano una Hei che corrisponde al numero 5, quanti sono i libri del Vecchio Testamento. Giona viene raffigurato in un grande pesce, come suggerisce il Midrash, e non nella tradizionale balena della cultura cristiana. Anche nel caso dell’Arca di Noè l’immagine evoca il Talmud perché si tratta di una grande scatola galleggiante. Lo stesso vale per Eva, che nasce non dalla costola ma dal fianco di Adamo. E ancora: il frutto della tentazione sull’Albero della Conoscenza nell’Eden non è la mela della tradizione cristiana ma i fichi, come riportato dal Midrash. Sul perchè di questo "Codice" l’opinione degli autori è che fu una conseguenza delle conoscenze apprese durante l’adolescenza da Giovanni Pico della Mirandola, il più importante cabbalista cristiano del Rinascimento, e da Marsilio Ficino, fondatore della Scuola di Atene, nella Firenze dei Medici dove Cosimo aveva scelto di accogliere e proteggere gli ebrei con il risultato di ospitare eminenti cabbalisti che riscuotevano grande interesse per le conoscenze tramandate dall’epoca del Vecchio Testamento.


In un post precedente (Dio-Cervello) avevo evidenziato come il medico Frank Lynn Meshberger, del St. John's Medical Center in Anderson, in un articolo del 1990 sulla prestigiosa rivista “Journal of American Medical Association” aveva descritto minuziosamente le sorprendenti corrispondenze e somiglianze, a tratti speculari, tra l'anatomia di un cervello umano e il Dio della Creazione di Adamo. In questo caso l'associazione Dio-intelletto è, almeno in apparenza, più condivisibile.

                                
                                

E' notizia di pochi giorni fa, invece, un'altra incredibile scoperta che riguarderebbe le Storie della Genesi e che porterebbe all'individuazione di un vero e proprio Codice negli affreschi michelangioleschi. Questa l'ipotesi di Ian Suk e Rafael Tamargo, esperti di neuroanatomia della John's Hopkins University, pubblicata dalla rivista specializzata Neurosurgery. Il messaggio di Michelangelo Buonarroti sarebbe disegnato nella gola di Dio, proprio nell'affresco dipinto tra il 1508 e il 1512 che illustra la separazione della Luce dal Buio. All'altezza della gola e del collo di Dio che crea la luce il disegno presenta delle irregolarità anatomiche, del resto già evidenti. Mentre il resto dei personaggi sono illuminati tutti a sinistra e dal basso, il collo di Dio è illuminato frontalmente e leggermente dalla destra, e tanto è bastato per attrarre la loro l'attenzione. Hanno ipotizzato che il collo sfigurato di Dio non rappresenti un errore da parte del Buonarroti, ma piuttosto un messaggio. Sovrapponendo il particolare del disegno all'immagine di un cervello visto dal basso i due combaciano perfettamente. Secondo i due esperti poi nella parte centrale della tunica della figura si potrebbe nascondere anche il disegno di un midollo spinale che ascende all'attacco con il cervelletto nel collo di Dio.






Rassegna stampa:

Mind on Canvas: anatomy, signs and neurosurgery in art

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