sabato 23 ottobre 2010

Il giardino di Polifilo in 3D

Interessante testo, più che altro un gioco, che ricostruisce i mitici scenari, allegorici, del giardino di Polifilo così come ripresi dalle bellissime xilografie di Aldo Manuzio a commento del testo di Francesco Colonna Hypnerotomachia Poliphili. Da questo link lo scan completo del testo.
"Il volume presenta la ricostruzione virtuale del giardino ideale illustrato nella "Hypnerotomachia Poliphili" di Francesco Colonna, il più celebre incunabolo stampato da Aldo Manuzio a Venezia nel 1499. Fra i libri del Rinascimento, l'Hypnerotomachia è quello che ha influenzato maggiormente le scelte architettoniche, ma soprattutto simboliche e ideologiche del giardino cinquecentesco" (link).



venerdì 22 ottobre 2010

La macchia

Un link che avevo smarrito e che riporto ora; anche se un po' in ritardo credo sia interessante leggerlo per non dimenticare il disastro immane della perdita di petrolio nel Golfo del Messico e per vedere la macchia da un altro punto di vista, nel suo valore simbolico. In questo senso ho accostato un'immagine della macchia d'olio con una celebre "macchia" dell'arte contemporanea, forse l'opera più angosciante di Pollock, The Deep (non a caso), del 1953.

Nelle ultime settimane due eventi si sono imposti all’attenzione internazionale per la loro portata, per ciò che hanno comportato e che purtroppo continueranno a comportare. Si è trattato di due drammatici eventi tra loro comunque diversi, che incarnano in maniera neanche troppo implicita significati simbolici e per certi versi “archetipici”. Si tratta, da un lato, della falla di petrolio che sta devastando un’intera aerea del Golfo del Messico, dall’altro lato del vulcano islandese Eyjafjallajkull che eruttando ha bloccato letteralmente il traffico aereo di tutta Europa.
Nel caso della tragedia ambientale del Golfo del Messico, nel quale sono stati riversati milioni di tonnellate di petrolio e che comporterà dei danni ancora oggi difficilmente calcolabili, il Male assume la forma della “macchia”, macchia nera e sporca che contamina la purezza degli ambienti paradisiaci del centro America. Ricoeur dedicò la sua attenzione al valore simbolico della macchia, archetipo che attraversa la storia e lo spazio essendo essenziale per numerose civiltà; nella macchia, si incarna nella fisicità il trascendentale, e soprattutto i monoteismi abramitici hanno riversato grande fiducia nella possiblità di rimuovere la macchia in corrispondenza della rimozione del peccato. La macchia di petrolio devastante è simbolo di una colpa? In realtà tale macchia non si limita a essere “immagine di…” ma è “distruttiva” per se stessa: è lei in sé a determinare la sciagura, perchè è capace di sterminare la fauna marina, di sconvolgere il ciclo naturale e di bloccare settori importanti dell’economia. Questa macchia perciò va oltre al valore meramente simbolico, perchè è lei stessa ragione del Male in senso empirico, come un cancro. Le cose sono ancor più complicate se riflettiamo sulla “colpa”: la macchia di petrolio può incarnare una colpa? A differenza del simbolo sopratutto cristiano della “macchia morale”, della “sozzura”, che Ricoeur evidenzia come la più efficace esteriorizzazione simbolica del peccato e che ha provocato l’identificazione di esso in uno “stato” che va “pulito” affinché si torni integri e nobili, la macchia di petrolio appare una commistione tra responsabilità umana e naturalità. Il petrolio è una sostanza della natura, e il suo “confondersi” con l’acqua può apparire ai nostri occhi una palese manifestazione dell’insensibilità umana, noncurante del pianeta che lo ospita. In realtà, si tratta della commistione, quella tra petrolio e mare, tra elementi naturali, natura con natura, che non sempre è fonte di quiete ma che spesso “deve” essere fonte di morte proprio per alimentare perpetuamente il motore della “vita”. In realtà, è proprio la potenza dell’immagine del petrolio come “macchia” che comporta una antropomorfizzazione che ci porta a ricondurre l’elemento petrolio alla sola dimensione culturale-umana.
Ma è proprio così? Bisogna tener conto nella sciagura dell’imperizia e della trascuratezza di tecnici, manager e ingegneri del pozzo della compagnia petrolifera BP, perciò quella macchia riflette una colpa a tutti gli effetti, relativa all’avidità umana che è causa di sciagure di cui lui stesso in persona pagherà le conseguenze, non tanto “la natura” in senso astratto e metafisico, quale entità di cui pensiamo di conoscere lo stato di salute e quello di malattia. (continua)



giovedì 21 ottobre 2010

Mariano Vargas

Alcune foto sono eccessivamente kitsch e di maniera, nell'esasperazione dell'attualizzazione a tutti i costi, altre invece risultano piacevoli elaborazioni e riproposizioni di opere classiche, fedeli al modello eppure con caratteri nuovi, moderni, a volte perturbanti. Sono gli scatti di Mariano Vargas attualmente esposti a Milano per la sua prima esposizione in Italia. Ecco una selezione, con relativa opera.

Raffaello - Le tre grazie

Giovanni Bellini - donna allo specchio 

Piero di Cosimo - Simonetta Vespucci come Cleopatra

Raffaello - La fornarina

E per restare in tema di riproposizioni, interessante anche questa campagna pubblicitaria che riprende lo stile di Alphonse Maria Mucha, padre dell'Art Nouveau (da Coilhouse)



mercoledì 20 ottobre 2010

I Bentvueghels

S. Maria in Aquiro - flagellazione
Soffermandomi sulla notizia del restauro delle tre importanti tele della cappella della Passione di S. Maria in Aquiro a Roma, significative in quanto rappresentano l’ultima committenza pubblica affidata alla scuola di Caravaggio, leggendo degli eventuali realizzatori (si parla del francese Trophime Bigot per due tele e del cosiddetto “Master of candle” per la terza) ho trovato anche il nome dei Bentvogels (o banda degli Uccelli; scritto anche Bentvueghels). Questa, poco conosciuta col suo vero nome e dalla storia affascinante anche per capire il variegato ambiente romano dell'epoca, era un'associazione di pittori ("Schilderbend" gilda dei pittori), in larga parte olandesi e fiamminghi, in opposizione all'Accademia di San Luca. Fondata nel 1623 da Breenbergh e Poelenburgh  aveva sede in via Margutta, nei pressi di Piazza di Spagan, garantiva assistenza ai soci e perseguiva una pittura di genere (scene di strada e di vita quotidiana, vedute con rovine). In seguito parte dei pittori di questa gilda furono conosciuti anche col nome di Bamboccianti (usato per la prima volta da Salvator Rosa), e del resto molti dei soprannomi derivano proprio da qui.
L'associazione era famosa anche per un'altro motivo: come riporta questa esauriente nota di wikipedia "altra caratteristica della Schildersbent, che richiamava scarso apprezzamento, erano i rituali e pratiche bacchici dei suoi associati. Anche se l'organizzazione non aveva uno statuto o un qualsivoglia regolamento, era comunque previsto un rituale di iniziazione a cui doveva sottoporsi ogni nuovo adepto e che ci è noto da varie testimonianze lasciate da Bentvueghels, come disegni, incisioni e racconti. Si trattava di una parodia di antiche feste, in cui i vari membri, vestiti con toghe e con la corona d'alloro, onoravano Bacco. Il novizio aveva il privilegio di giocare il ruolo del dio. La cerimonia iniziava con uno pseudo-battesimo in chiave sempre di parodia, in cui il nuovo adepto veniva innaffiato di vino. Seguivano lauti banchetti e la visita alla tomba di Bacco, ovvero al Sarcofago di Costantina in porfido rosso, recante scolpite scene di vendemmie con tralci di vite e putti. Questo sarcofago si trovava nella Chiesa di Santa Costanza, che si suppone sia stata costruita su un tempio dedicato a Bacco. Oltre all'iniziazione, era usanza che ogni membro avesse un soprannome: in una nicchia vicino al sarcofago, si trovano centinaia di nomi di Bentvueghels con i relativi soprannomi".

Tali cerimonie sono ricordate dal Passeri, dal Sandrart e piú dettagliatamente da Cornelis de Bruyn, a Roma nel 1675, e documentate da disegni e incisioni. In basso alcune immagini:





“Vi e poi talun, che col pennel trascore
A dipinger faldoni e guitterie,
E facchini, e monelli, e tagliaborse:
Vignate, carri, calcare, osterie,
Stuolo d’imbriaconi, e genti ghiotti,
Tignosi, tabaccari, e barberie;
Niregnacche, bracon, trentapagnotte:
Chi si cerca pidocchi, e chi si gratta,
E chi vende ai baron le pere cotte;
Un che piscia, un che caca, un che alla gatta
Vende la trippa, Gimignan che suona,
Chi rattopa un boccal, chi la ciabatta...”
"...Da l'atlantico mare a l'eritreo
il decoro non ha dove ricoveri,
ch'ognun s'è dato ad imitar Pirreo:
sol bambocciate in ogni parte annoveri,
né vengono a i pittori altri concetti
che pinger sempre accattatozzi e poveri".


Il cubo nell'arte contemporanea

Perduta la figurazione è la geometria a farla da padrone. Come vera e propria "formula di pathos", così, la figura del cubo ritorna in molte opere e installazioni, da Manzoni a Kosuth a Warhol (nei materiali più diversi), e questo post di artfagcity, IMG MGMT: The Cube Show, ne offre un'esauriente carrellata. In basso alcune opere tratte dal post

Jean Nouvel - Monolith (2002)
Joseph Kosuth - Box, Cube, Empty, Clear, Glass-A Description (1965)
Paul Thek - Meat Piece With Warhol Brillo Box (1965)
continua su artfagcity

martedì 19 ottobre 2010

Quanto conta l'artista?

La classifica annuale stilata dalla rivista Art Review è tra le più documentate e affidabili nel panorama dell'arte contemporanea; naturalmente, come tutte le classifiche, è solo un gioco che, comunque, non si discosta di molto dalla realtà. L'ultima, quella del 2010, è uscita da pochi giorni e vede in testa il gallerista Larry Gagosian seguito dal curatore Hans Ulrich Obrist. Interessante gli scivoloni di Jeff Koons e Damien Hirst mentre di italiani si segnalano Celant, Cattelan, Gioni, Massimo De Carlo e Galleria Continua. Osservando questi grafici di analisi alla classifica non posso non constatare come le persone più influenti dell'arte contemporanea, oggi, siano sopratutto critici e galleristi, mentre gli artisti occupano una piccola percentuale. Ribaltamento, ormai consolidatosi da diversi anni, che sa di assurdo e che sminuisce prima di tutto gli artisti e la loro arte (per conoscere i veri critici d'arte, italiani, che prima di essere critici erano sopratutto degli illustri storici, consiglio questo libro L' occhio del critico. La storia dell'arte in Italia da Cavalcaselle a Previtali.)




lunedì 18 ottobre 2010

Un Caravaggio in vendita

Dal sito Caravaggio400 apprendo la notizia, che giro subito, dell'imminente vendita nientemeno che di un Caravaggio. L'opera, autenticata da Marini e confermata anche da Sir Denis Mahon, sarebbe una tela giovanile e raffigura un soggetto comune nei primi anni a Roma al pittore, un ragazzo con una caraffa di fiori. Il piede d’asta parte da mezzo milione di franchi svizzeri.


domenica 17 ottobre 2010

Nelle scatolette di Manzoni solo gesso


Si scopre, così, secondo le affermazioni di Agostino Bonalumi, amico di Piero Manzoni, che nelle famose scatolette, tra le opere più dissacranti dell'artista, non ci sarebbe "merda" ma solamente del gesso. Di seguito l'articolo del Corriere con l'intervista.


«Pane, salame e formaggio con vino di Barbera asciutto. Quanto le possiamo offrire alla riunione presso la galleria del Prisma dove sono esposte le nostre recenti opere. L' appuntamento è per mercoledì 25 febbraio 1959 alle ore 18. Due chitarristi e una chanteuse improvvisata ravviveranno la serata. L' aspettiamo con amici». Firmato: Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Piero Manzoni. Questa - per quanto consentivano le nostre tasche, e la nostra fantasia - la promessa che avrebbe interessato almeno qualche curioso, oltre i soliti amici. Ottenemmo qualche presenza insolita. Ci consolava il pensiero che la mostra sui taxi di Milano, anche senza fantasiosi inviti, era stata certamente più frequentata grazie ai buoni uffici dei tassisti. Bilancio, a mostra finita: nessuna vendita, e lodi più divertite che ragionate, dei soliti amici. Liberammo la modesta sala della galleria la sera dell' ultimo giorno di mostra lasciando le opere impacchettate, pronte per il ritorno ai rispettivi studi. La sera era piovigginosa e fredda. Al bancone del Giamaica, per il solito «bianchino», incontrammo Romano Lorenzin, un appassionato collezionista che aiutava i giovani artisti, acquistando saltuariamente qualche opera. Per noi, niente da fare, anche se correva qualche sguardo di complicità: stai a vedere che a mostra già chiusa vendiamo qualcosa di nostro a Lorenzin. Azzardiamo una proposta: un' opera di ciascuno di noi a buon prezzo. «No, non sono interessato. Sapete... Amo altre cose». «Ma a metà prezzo», diciamo, consapevoli di proporre la metà di qualcosa di cui non s' era detto l' intero. Un altro diniego. «Neppure in regalo?». Niente da fare. I nostri lavori non lo interessavano. Finito il «bianchino», uscimmo; forse senza nemmeno salutare. La pioggia era cessata, l' aria fredda e l' umidità si avvertivano fin nelle ossa. Il rifiuto rese manifesta quella delusione di come era andata la mostra, che sino a quel momento era rimasta nell' aria. «Questi stronzi di borghesi milanesi vogliono la merda», borbottò Piero. Ci lasciammo, salutandoci sottovoce. Era stato Baj a farci incontrare, Manzoni e io (Castellani si sarebbe aggiunto poco dopo in occasione della mostra alla Galleria Pater di Milano). Enrico diceva che avevamo affinità di idee e che, per questo, eravamo due rivoluzionari. Insieme potete far molto, aggiungeva. Eravamo nel 1957. Manzoni proveniva da una esperienza in ambito di quella figurazione surrealista che andava ricercando una particolarità di accenti e di definizioni col Movimento arte nucleare, fondato e capeggiato da Baj e Sergio Dangelo. Forse più che un incontro di idee fu, dapprima, un incontro di due giovani artisti che per vie diverse giungevano alla constatazione di una sproporzione fra quello cui aspiravano e gli esempi offerti dall' arte del momento e dalla quale volevano differenziarsi a tutti i costi. Si sviluppò anche una fraterna amicizia. Giornate di discussioni interminabili: idee, progetti, invenzioni. Guardando adesso la produzione di allora, è evidente una certa influenza informale, dovuta forse anche al desiderio di sopravvivenza. Gli Acrome di Manzoni, per esempio: la superficie bianca composta a riquadri che affiorano, la tela passata in una soluzione di caolino, oppure la superficie bianca di una tela imbevuta di caolino, che l' attraversa facendo delle pieghe tra le quali la luce sommuove il bianco e crea gradazioni con ombre e penombre. Esperienza, questa, che Manzoni pensò di superare rinunciando a tela e caolino degli Acrome per «tele» che fossero solo ed esclusivamente tele, per passare poi a materiali diversi quali lana di vetro, bambagia di cotone, polistirolo. L' invenzione passata così attraverso una «rivolta» e una citazione ironica, fino allo sberleffo. Diversamente da oggi, non erano molte le possibilità che si offrivano ai giovani artisti perché potessero mostrare gli esiti delle loro ricerche. Da qui, l' ansiosa attesa d' un qualche interlocutore che sapesse ascoltare. Anche se, in verità, della critica milanese, Gillo Dorfles e Guido Ballo guardavano con attenzione le ricerche dei giovani artisti. Per noi, vecchia figurazione e nuova figurazione non meritavano rispetto. Le consideravamo, appunto, merda. L' unica cosa accettabile era l' Informale. Devo aggiungere che non trovo esatto - anzi lo giudico del tutto arbitrario - fare di Manzoni l' anticipatore dell' Arte povera. Restando ai fatti, per Piero si dovrebbe fare riferimento al Dadaismo, sia per il gioco dissacratorio, che per l' uso dei materiali in quanto tali. Lontano, quindi, da intendimenti «costruttivi» ed estetici, salvo occasionali cadute. Sberleffo e ironia non appartengono certo all' Arte povera. Qualche tempo dopo l' episodio del Giamaica mi raggiunse una telefonata di Manzoni: «Passa da me, devo mostrarti qualcosa». Lo stesso giorno mi recai in via Fiori Oscuri (dove aveva lo studio, prima di passare in via Fiori Chiari). Castellani mi aspettava davanti al portone. Salimmo le scale. Piero ci accolse sorridendo: «Ecco», disse con aria soddisfatta mostrandoci quella che doveva essere una scatola di conserva alla quale aveva sostituita la fascetta con un' altra in cui aveva scritto a mano Merda d' artista. Alla nostra sorpresa iniziale, seguì una grande risata di approvazione entusiastica e incondizionata. In seguito, quando la Merda d' artista divenne un multiplo, la parola venne stampigliata. Negli ultimi decenni, sono stati in tanti a chiedersi che cosa veramente contenga la scatoletta. Certo non la materia organica dichiarata. Se così fosse, prima o dopo il metallo si corroderebbe provocando una fuoriuscita. Posso tranquillamente asserire che si tratta di solo gesso. Qualcuno vuole constatarlo? Faccia pure. Non sarò certo io a rompere le scatole. 

sabato 16 ottobre 2010

Quel genio di Picasso

La grandezza di un artista si nota maggiormente nei particolari, nelle opere minute, spesso schizzate, o estemporanee, nell'abilità nel riplasmare la realtà secondo le proprie istanze. Picasso, in questo senso, è stato un maestro indiscusso, il più grande artista del '900, in quando è riuscito a rielaborare la tradizione non smarrendo mai la tecnica, anzi potenziandola maggiormente in virtù delle sue decostruzioni. In queste due immagini (tratte dall'archivio del museo Picasso di Parigi), così, si può cogliere tutta la grandezza del suo genio. Dallo stesso album bellissime le serie di foto che testimoniamo la realizzazione di Guernica o le immagini della decostruzione del toro.

Cheval couché
Genou décoré par Picasso, 1950

venerdì 15 ottobre 2010

"Diti"

Leggendo questa interessante intervista a Cattelan ho notato come alla fine non si inventa nulla e che, al di là della provocazione, anche la scultura più discussa e sopravvalutata dell'ultimo periodo (il dito medio alla Borsa di Milano definito da Dorfles una brutta opera per una brutta piazza) ha i suoi legami (strettissimi direi) col passato nel riprende un'altra celebre scultura, entrata nella storia del gusto nella sua conformazione frammentaria. Sono i celebri frammenti della statua colossale di Costantino, conservati ai Musei Capitolini, da sempre ammirati dagli artisti dal rinascimento in poi.










Arte e morte dell'arte - Hegel

Pensiero fondamentale, quello di Hegel, per comprendere gli sviluppi della critica d'arte del '900 è qui proposto in un'antologia scaricabile direttamente da scribd curata da Paolo Gambazzi e Gabriele Scaramuzza

Hegel {Paolo Gambazzi & Gabriele Scaramuzza} - Arte e morte dell'arte

lunedì 11 ottobre 2010

La luce delle carte. La miniatura a Roma in età moderna


L'evento si incentra sulla presentazione della mostra che nel mese di gennaio 2011 offrirà una raffinata selezione di codici e fogli miniati a Roma tra il XVIII e la prima metà del XX secolo. Si tratta di una trentina di opere, per la maggior parte inedite, solo qualcuna presenta una scarna bibliografia, mentre, in diversi casi, si tratta di opere mai uscite dai depositi di Musei e Archivi. Le opere sono conservate tutte a Roma; proprio qui, infatti, gli artisti ricevono commissioni per realizzare manufatti di varia destinazione ed uso. Sono presenti naturalmente codici liturgici, immagini isolate con scene bibliche o con figure di santi, ma anche descrizioni e illustrazioni di opere conservate a Roma o anche di importanti avvenimenti come quelli con le illustrazioni per i congressi fascisti. 
Un vasto settore, poi, è rappresentato dalle opere conservate al Museo del Risorgimento come i cammei dorati con i ritratti degli uomini illustri di Sansepolcro inserite nel volume e le varie pergamene donate ai Savoia come il volume di Caprino Bergamasco o provenienti da lasciti ecclesiastici, come lo stemmario di Pio IX. Un'altra sezione importante illustra, invece, le pergamene conservate al Museo della Marina dove, accanto alla raffinatezza della fattura, si aggiunge la particolarità degli oggetti come il cofano portabandiera dove è incastonata una miniatura su un apposito leggio intagliato. 
L’opera che conclude la mostra è la Vita Nova di Dante (Dantis Amor) un volume pubblicato nel 1921 per il Sesto centenario della morte di Dante. Il testo - stampato in 1321 esemplari - è realizzato come un codice miniato: fregi a bianchi girari incorniciano il testo scritto in gotica mentre variegate ed eleganti immagini sono inserite a commento dell’opera di Dante. L’autore dei fregi è Nestore Leoni che aveva la sua bottega a Roma, le illustrazioni invece sono realizzate da Vittorio Grassi, pittore, incisore e illustratore che, com’è noto, lavora anche alla Casina delle Civette. Il volume mostra, inoltre, una raffinata copertura con motivi di tradizione celtica.

La miniatura a Roma in età moderna. Codici illustrati tra Seicento e Novecento a cura di Marco Pizzo – Emilia Anna Talamo a cura di

Giovedì 14 Ottobre 2010
Ore 17.00

Sala della Crociera - Collegio Romano 

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

Via del Collegio Romano, 27, ROMA

saluti: Maurizio Fallace (Direzione Generale per le Biblioteche, Gli Istituti Culturali e il Diritto d’Autore);
Maria Concetta Petrollo (Direttore Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte);
Maria Giovanna Fadiga (Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte)
Interventi: Giovanna Capitelli (Università della Calabria); Silvia Meloni (Galleria degli Uffizi, Firenze)
saranno presenti i curatori della mostra 

mercoledì 6 ottobre 2010

Le converse di Hirst e i Linkin Park's


Non nuovo ad intrusioni nel mondo della moda (si veda la linea realizzata per Levis) Hirst si butta nel mondo delle calzature personalizzando nientemeno che le mitiche sneakers della Converse con le sue tipiche farfalle.

"Non l’ennesima provocazione ma l’ultimo sforzo benefico organizzato da Product (RED), il marchio no profit fondato dall’attivista Bobby Shriver e Bono Vox degli U2rilasciato sotto licenza a varie aziende partner, i cui proventi vengono destinati al Fondo globale per la lotta all’Aids, la tubercolosi e la malaria. In Limited edition 400 paia dal 5 novembre da Colette a Parigi". (fonte)
La Converse del resto già si era ispirata a Hirst per questo allestimento in Giappone.


E' uscito da poco, invece, il nuovo video dei Linkin Park's, Waiting for the end; non ho trovato molte informazioni a riguardo ma sembra proprio ispirato alle ultime opere pittoriche di Hirst. Voi che ne dite?



Pasolini e la Malinconia


Mi ha sempre colpito questa foto di Pasolini; il gesto è quello tipico del pensatore, o meglio, del pensatore malinconico, ma vi trovo anche un che di profondamente tragico, come di un'anima consapevole del proprio peccato e che medita, tristemente, sulla propria condizione di dannato, quasi mangiandosi le mani. In questo la foto mi ricorda diverse opere dell'800 nelle quali viene affrontata proprio la condizione infausta del peccatore dannato.

Franz von Stuck

Gustave Dorè, dalla Divina Commedia

Jean-Baptiste Carpeaux, Ugolino e i suoi figli

Auguste Rodin, Il pensatore

Cfr. Dolore e meditazione. Figure della Malinconia attraverso l’Atlante della Memoria. Tavola 53

martedì 5 ottobre 2010

Rodolfo Papa - Riflessioni sull'arte

Rodolfo Papa - L'artista contemporaneo - olio su tela 2008
Riflessioni sull'arte è il titolo di una rubrica quindicinale che il prof. Rodolfo Papa tiene su Zenit (il mondo visto da Roma) su questione dell’arte e dell’arte sacra in tutte le sue diverse dimensioni: teoretica, critica, tecnica, storiografica, filosofica, teologica, liturgica, antropologica. Lo scopo, come afferma il professore, "è condurre una riflessione sulle complesse e urgenti problematiche che attorniano l’arte, tenendo conto di tutti gli aspetti che ne compongono il vasto territorio". 
In questo post sono inseriti i primi tre interventi, con rispettivi link.


Le teorie estetiche contemporanee propongono definizioni dell’arte estremamente fluide, addirittura liquide, apparentemente elastiche ed attraversabili, spesso però si rivelano poi estremamente rigide, con confini invalicabili. Uno di questi confini, surrettiziamente elevato, riguarda la perentoria separazione di arte e bellezza, un altro confina al di fuori dell’arte ogni riferimento alla trascendenza. Questa impostazione pone non pochi problemi teoretici per rintracciare una definizione del concetto di arte.
Vogliamo affrontare la questione del rapporto tra arte e bellezza, tra arte e trascendenza, da un punto di vista particolare, ovvero riflettendo sul Magistero della Chiesa. In esso troviamo non solo indicazioni che hanno valore per i credenti, ma anche la fondazione seria e rigorosa di un discorso che si propone come vero per ogni uomo.
Nella esortazione apostolica Sacramentum Caritatis, Benedetto XVI riflettendo sullo spirito della liturgia, pone in essere una riflessione sull’arte al servizio della celebrazione, fondata sul legame profondo tra “bellezza e liturgia”; in modo particolare leggiamo: «Lo stesso principio vale per tutta l'arte sacra in genere, specialmente la pittura e la scultura, nelle quali l'iconografia religiosa deve essere orientata alla mistagogia sacramentale. Un'approfondita conoscenza delle forme che l'arte sacra ha saputo produrre lungo i secoli può essere di grande aiuto per coloro che, di fronte a architetti e artisti, hanno la responsabilità della committenza di opere artistiche legate all'azione liturgica. Perciò è indispensabile che nella formazione dei seminaristi e dei sacerdoti sia inclusa, come disciplina importante, la storia dell'arte con speciale riferimento agli edifici di culto alla luce delle norme liturgiche. In definitiva, è necessario che in tutto quello che riguarda l'Eucaristia vi sia gusto per la bellezza. Rispetto e cura dovranno aversi anche per i paramenti, gli arredi, i vasi sacri, affinché, collegati in modo organico e ordinato tra loro, alimentino lo stupore per il mistero di Dio, manifestino l'unità della fede e rafforzino la devozione» (n. 41, corsivo aggiunto).
L’arte sacra, al servizio della liturgia, è finalizzata alla “mistagogia sacramentale”, e deve essere impregnata di “gusto per la bellezza”. Sospendiamo per ora, rimandandone l’analisi a un altro articolo, l’affermazione che è “indispensabile” che seminaristi e sacerdoti conoscano la storia dell’arte, per formare il gusto alla bellezza.
Soffermiamoci, invece, sulla relazione intima e inscindibile di arte sacra e bellezza, fondata nel cuore della stessa liturgia; nello stesso documento ancora leggiamo: «La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza, quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi davanti a loro (cfr Mc 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell'azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l'azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria» (n. 31, corsivo aggiunto).
La bellezza, in quanto attributo di Dio, è elemento costitutivo della liturgia e dunque dell’arte sacra. Si tratta di una implicazione preziosa, che àncora la bellezza dell’arte sacra in Dio.
Anche in una riflessione esterna all’ambito liturgico e sacramentale, una seria considerazione di cosa sia l’arte mostra come la bellezza ne sia comunque attributo costitutivo, perché ogni artista opera a immagine di Dio creatore, e perché il bello è una proprietà trascendentale dell’essere, un attributo cioè che tutto ciò che è possiede, proprio perché partecipa dell’essere di Dio, in quanto creato.
Questo percorso è tracciato da Giovanni Paolo II nella Lettera agli artisti del 1999, rivolta universalmente a tutti gli artisti, definiti “geniali costruttori di bellezza”. In questo modo Giovanni Paolo II indica all’artista il suo proprio campo d’azione, sottolinea il cuore della sua stessa identità. Non si tratta di una considerazione puramente descrittiva o la constatazione di un dato di fatto, ma è quasi l’enunciazione di un principio, l’esortazione a un rinnovato connubio tra arte e bellezza.
La definizione “geniali costruttori di bellezza” è complessa e profonda in ogni suo termine. Il sostantivo “costruttori”, rimanda alla classica definizione di ars come “recta ratio factibilium”, cioè a un ambito di produzione: l’artista è un artefice. Viene così richiamato un ambito entrato purtroppo in disuso in molte teorie dell’arte, sprezzanti nei confronti della reale produzione artistica. L’aggettivo “geniale” dialoga con tutta la storia della riflessione estetica, sottolineando nel possesso del “genio” la peculiarità dell’arte rispetto all’artigianato e alle altre produzioni tecniche. Ma è il complemento della “bellezza” il vero cuore della definizione: la bellezza è l’oggetto e la finalità dell’arte stessa. Questa sottolineatura, che si pone in continuità con una multimillenaria tradizione, è audacemente contrastante con le tante contemporanee estetiche del brutto che teorizzano la bruttezza come vero campo artistico o ancor peggio propongono una assoluta indifferenza verso il bello e il brutto. Giovanni Paolo II ricolloca l’arte nel territorio della bellezza, sottoposta alle regole del fare, nel riconoscimento di quel dono particolare che usualmente si chiama “genio” e che, nel contesto della Lettera agli artisti stessa, si svela come un talento naturale e un dono dello Spirito Santo.
L’imprescindibilità della bellezza in tutte le arti – pittura, scultura, architettura etc. – implica necessariamente un ripensamento della stessa nozione di bellezza, che, come mostreremo in altri prossimi articoli, trova la propria migliore chiarificazione nella tradizione aristotelico-tomista medievale e rinascimentale.




Spesso l’arte contemporanea appare veicolata da linguaggi settoriali e da configurazioni di sistemi chiusi che non delineano panorami e non aprono orizzonti, ma focalizzano un particolare, sovente in modo da farlo apparire unico. Talvolta il punto di vista di tali ricostruzioni è apertamente “militante”, ovvero mosso dall’interesse per un determinato gruppo o movimento artistico. Tuttavia, ad ogni posizione ideologica è preclusa una analisi obiettiva della realtà, capace di restituire la complessità e la varietà delle strade battute da tutte le infinite correnti artistiche che animano il mondo delle arti, nella contemporaneità.

Si impone, anzi, di declinare al plurale il termine “arte”, di fronte al proliferare di discipline e movimenti, per evitare di ridurre l’arte a una sua sola espressione; tuttavia le arti sono tali perché hanno una relazione con l’arte in generale. Sospendiamo, per adesso, di percorrere questa lunga strada della relazione tra arte e arti, e soffermiamoci invece sull’aggettivo “contemporaneo”, cercando di analizzarlo e di comprenderlo.

Il termine contemporaneo non può, per sua natura, essere un attributo distintivo, capace di definire una determinata corrente, ma si tratta di un termine che dovrebbe costituire un riferimento temporale, entro un contesto. Spesso, invece, l’aggettivo “contemporaneo” appare come un marchio attribuito ad alcune correnti in modo privilegiato, con l’esclusione pregiudiziale di ogni espressione che non rientri nel confine tracciato da una specifica teoria dell’arte “contemporanea”, costituendo, quasi per negativo, la categoria di “arte non contemporanea”, ovvero anacronistica. Ma il termine dovrebbe, più correttamente, indicare semplicemente una nozione di tempo. Da un punto di vista storiografico è equivoco definire “arte contemporanea” opere degli anni Cinquanta del secolo passato, mentre sarebbe più appropriato chiamarle con il nome del movimento a cui appartennero, o della disciplina a cui afferiscono, pittura, scultura o altro.

Mi si potrebbe obiettare che ormai il termine contemporaneo è storiograficamente acquisito per indicare un determinato periodo storico; tuttavia questo significherebbe avere esaurito la semanticità del termine, limitandone la referenza a un esclusivo periodo storico, e generando, di contro, nozioni ancora più equivoche come il “post-contemporaneo” che può definire il sentimento di fine della contemporaneità come categoria critica, ma non esaurisce minimamente il termine in senso temporale.

Il prefisso “post”, inoltre, si carica di significati. Sembra voler indicare la constatazione di una crisi, della fine, anche con gli echi emotivi della sconfitta, dell’insuccesso, oppure può connotare un’epoca di epigoni, incapaci di smarcarsi dai maestri; in ogni caso, sembra che un certo periodo storico costituisca un inaggirabile punto di riferimento: ciò che è prima è “pre” ciò che è dopo è “post” contemporaneo. Sembra giustificabile tale posizione, al di fuori di una certa militanza critica? Del resto, è storicamente naturale che dopo un momento di “avanguardia”, segua un periodo di normalizzazione; come dopo i movimenti di conquista militare e dopo il superamento di un confine, segue poi una fase antropologicamente ricorrente di normalizzazione e di regole, fatta da coloni che lavorano entro il confine acquisito per annetterlo definitivamente alla nazione conquistatrice. Tuttavia se questa fase non sa crearsi le sue regole, si assiste al disfacimento del territorio tanto faticosamente conquistato.

Se invece diamo un nome ai tanti movimenti del Novecento, che non sono più a noi contemporanei, possiamo ridonare al termine la sua vitalità semantica, e liberare la storiografia artistica da una sorta di vincolo pregiudiziale. Infatti, se si attribuisce la “contemporaneità” a una sola determinata corrente artistica, si condannano di contro e ingiustamente tutte le altre ad una forzata antistoricità, che peraltro contraddice le spinte libertarie proprie della cosiddetta “contemporaneità” del Novecento. Del resto né gli storici né i critici possono attribuirsi il potere di dare la patente di “contemporaneità” ad alcuni per escluderne degli altri, senza peraltro giustificarne i criteri.

Tutte le teorie dell’arte, prodotte dalla fine dell’Ottocento fino ad oggi, hanno reclamato il diritto sacrosanto dell’artista di autodeterminarsi, però, nel contempo, man mano che tali idee hanno acquisito importanza, hanno di fatto operato un genocidio mediatico e culturale di tutte le teorie artistiche percepite come avversarie. E questo è lentamente rifluito nell’immaginario comune, tanto che in ambiti quotidiani e non specialistici si sente oggi usare il termine “contemporaneo” come una sorta di confine razziale tra le discipline. Tutto ciò che è aniconico, o non tradizionale nella forma, nel contenuto o nel materiale è considerato “contemporaneo”, il resto, soprattutto se è figurativo, è classificato come “non contemporaneo”.

Si tratta di un assurdo cronologico, prima che logico, in cui è facile cadere, e costituisce una sorta di apertura di un percorso che, di equivoco in equivoco, conduce alla confusione dei generi, delle discipline, delle tecniche, alla costruzione di confini invalicabili, fino all’incapacità di vedere e giudicare con le proprie facoltà.

Per esempio, una serena analisi di quanto sta accadendo nel panorama mondiale dell’arte, dovrebbe segnalare una incredibile vitalità di espressioni artistiche bollate a tavolino come non-contemporanee. Nella pittura, nel contenitore generico del “figurativo”, assistiamo ad una esplosione vitalissima di movimenti e correnti che stanno animando il settore di questo disciplina in tutto il mondo: dall’Ucraina agli Stati Uniti, dal Giappone all’Italia, dall’Inghilterra alla Cina …. Si tratta di esperienze che con motivazioni diverse, teorie diverse e finalità diverse, riguardano tutti i cinque continenti, e non si può non tenerne conto. Inoltre moltissime accademie nel mondo da circa un decennio hanno ripreso a studiare approfonditamente Michelangelo e tutto il Rinascimento. Invece in Italia ci sono progetti per eliminare la disciplina “Anatomia artistica” dai piani di studio delle Accademie d’Arte. E tutto questo è ignorato da molte riviste specializzate, dai musei di arte contemporanea, dai critici e dai mass media.




Che cosa è l’arte? Di fronte a questa domanda, viene in mente la situazione descritta da sant’Agostino nel libro XI della Confessioni a proposito della domanda “che cosa è il tempo?”: se non me lo domandano lo so, se me lo domandano non lo so. Si sente la necessità di definire il significato del termine, anche se nel contempo si avverte una difficoltà definitoria. Infatti, circoscrivere il significato dell’arte escluderebbe, forse, novità e sperimentazioni, oppure mantenerlo fluido e suscettibile di infinite interpretazioni ne annullerebbe, forse, l’identità.
Nella teoria dell’arte convivono atteggiamenti diversi: tentare di definire e analizzare fino all’esaurimento di ogni punto interrogativo; oppure rinunciare ad una definizione di fronte al proliferare delle domande; o ancora identificare l’arte solo con un suo aspetto: una particolare disciplina, una particolare corrente, una particolare epoca storica.
La questione è difficile, e per essere affrontata richiede chiarimenti prioritari. Cercheremo solo di tracciare un percorso possibile, soprattutto delineandone i compiti. Innanzitutto, cosa vuol dire definire? Definire significa spiegare “che cosa è”, dunque implica la conoscenza, seppure non esaustiva, di ciò che si definisce; inoltre definire non significa costringere una realtà dentro una parola, ma viceversa cercare un discorso che sappia dire la stessa realtà. Dunque, non bisogna avere paura delle definizioni, come se fossero delle prigioni. Inoltre, le definizioni possono essere di tanti tipi, secondo lo scopo e il tipo di conoscenza che si vuole o si può conseguire. Si può definire il “nome” oppure la “cosa”. Nel primo caso siamo di fronte a una definizione nominale, che può a sua volta consistere nell’etimologia, nella spiegazione dell’uso comune del termine, oppure nella specificazione di usi particolari, relativi a un contesto o a una persona. Nel secondo caso, siamo di fronte a una definizione “reale”, che può consistere nell’esplicitazione della cause e dei principi, oppure nella determinazione di genere e differenza specifica, o ancora può sfumare in una descrizione.
La tradizione classica (Aristotele, Tommaso d’Aquino, solo per fare alcuni nomi) ci offre una definizione reale di ars, secondo genere e differenza: ars est recta ratio factibilium, ovvero l’arte è la corretta ragione delle cose da fare. Dunque il genere è la “recta ratio”, e la specie viene differenziata dal riferimento ai “factibilia”, alle cose da fare, da produrre. L’arte viene così posta tra le virtù dianoetiche, cioè tra le perfezioni dell’anima razionale; inoltre è strettamente connessa con la conoscenza e con la fabbricazione di oggetti; potremmo esemplificare che arte è un “saper fare”. Si tratta di una definizione ampia, che tiene insieme tutte le modalità di “saper fare”: dal costruire tavoli allo scrivere poesie, dal dipingere al cucinare, purché siano fatti bene, con recta ratio.
Entro questo concetto così vasto, facilmente si pone una distinzione tra le arti connotate principalmente da bellezza e le arti connotate principalmente da utilità. Si tratta di una distinzione non escludente, nel senso che anche un tavolo, che è utile, può essere bello ed anche un monumento, che è bello, può essere utile, tuttavia l’opera d’arte bella è arte perché è bella, mentre l’opera di arte utile è arte perché è utile. Entro le arti belle, notiamo una grandissima varietà di operazioni e funzioni, che delineano i vari ambiti delle discipline artistiche. Proprio a questo livello si pone la problematicità di una definizione comune. Mi sembra che il modo migliore di procedere per contribuire alla definizione dell’arte sia cercare, adesso, una definizione delle diverse discipline artistiche. Una tradizione che risale a Plinio, ripresa anche da Leonardo, dice che la prima disciplina artistica è la pittura, da cui sono seguite poi la scultura e via via tutte le altre. Sappiamo che nel Rinascimento si è riflettuto molto sul “paragone delle arti”, e cioè sulla valorizzazione degli aspetti comuni e soprattutto di quelli diversi, al fine di capire quale fosse la regina delle arti. Ciò ha contribuito a una valorizzazione degli aspetti specifici delle singole discipline, con una forte consapevolezza dei percorsi tecnici, cui sono stati dedicati molti trattati e manuali, come per esempio il già citato Libro di pittura di Leonardo. Mi sembra che questa strada sia molto proficua, perché proprio partendo dalla pratica della pittura, della scultura, dell’architettura … si arriva a definire cosa siano ciascuna. Ed è anche importante che tale riflessione sia provenuta e provenga dai medesimi artisti, cosa che evita il senso di scollamento tra le arti e la teoria delle arti, così frequente nella contemporaneità.
Entro il percorso di ricerca di una definizione universale di arte, acquista un valore molto significativo la ricerca dei principi e delle regole che definiscono le singole discipline artistiche. Ciascuna ha un proprio specifico compito, mezzi e metodologie proprie, tradizioni e maestri, paradigmi e principi. Mi sembra un campo molto fecondo, che non nega sviluppi e progressi, ma nel contempo consente di identificare una disciplina e anche di coltivarla. Fornisce inoltre la strumentazione teorica per riconoscere la disciplina stessa, per affermare, per esempio, che Monet è pittore così come Giotto, ma anche per negare che gli allestimenti e le performances siano pittura. Infatti, le innovazioni che accadono in una disciplina possono far crescere notevolmente la disciplina stessa, ma ci sono delle innovazioni che, anche se spesso nascono dentro di essa, però ne ricadono fuori, e non ne fanno più parte. Così, per esempio, la pop art e gli allestimenti non rientrano nella disciplina della pittura, perché ne esorbitano i mezzi, i fini, la tradizione, l’ambito, e vanno a definire una disciplina diversa, nuova, con proprie finalità e modalità di esecuzione: non si tratta del superamento della pittura ma forse della nascita di una nuova disciplina artistica. La distinzione che si pone tra le arti tradizionali, pittura, scultura, architettura, poesia, musica … si pone anche nei confronti di quelle nuove, quali la fotografia, il cinema, etc. Per esempio, i fondamenti della pittura sono diversi da quelli dell’architettura, e anche se possono avere anche parti in comune, hanno scopi e regole diverse.
Dunque la definizione dell’arte deve essere tale da poter comprendere tutte le singole arti, ciascuna delle quali ha i propri principi e fondamenti che la distinguono dalle altre e la definiscono nella propria identità.



Cosa vuol dire “essere artisti”? Chi è artista? Nella contemporaneità si è affermata l’opinione che essere artista non sia una condizione particolare, ma che ciascuno sia un artista, in quanto non servirebbero talenti e formazione, ma l’unico ingrediente necessario sarebbe la creatività libera da ogni schema. Nelle biografie di molti artisti del Novecento, emergono inoltre abitudini disordinate, atteggiamenti eccentrici, comportamenti autodistruttivi, tanto che sembrerebbe che tale tipo di vita sia un ingrediente necessario per riconoscere il vero artista, sia esso un pittore, uno scultore, un musicista, un poeta.

Ma al di là di queste posizioni, evidentemente poco consistenti, rimane la domanda: chi è l’artista? A cui possiamo aggiungere una domanda ulteriore, fondamentale per le nostre riflessioni: chi è l’artista cristiano? Nell’arte cristiana, ovvero nell’arte che è al servizio della Chiesa e che nei secoli è stata capace di annunciare Cristo e alzare un inno di lode a Dio attraverso inestimabili opere, ci sono regole o principi che individuano l’identità professionale, morale e spirituale dell’artista? Possiamo trovare un aiuto per la nostra riflessione, nel Libro di pittura scritto da Cennino Cennini alla fine del XIV secolo; egli innesta la storia della nascita dell’arte sugli eventi della creazione narrati nel libro della Genesi, e pone a fondamento della pratica artistica una riflessione di tipo morale: all’arte non si perviene con sete di guadagno, né per vanagloria, ma con un’umiltà e una perseveranza tali da sopportare ogni sacrificio necessario per impararne tutte le regole e praticarne tutti i principi.

Ulteriore aiuto alla riflessione può essere trovato nel Libro di pittura di Leonardo da Vinci, ovvero nella raccolta dei suoi appunti e dei suoi studi composta postuma dall’allievo Francesco Melzi e di cui abbiamo copia nel Codice Urbinate 1270 conservato nella Biblioteca Vaticana, di cui Carlo Pedretti ha fornito un’edizione critica nel 1995. Leonardo indica all’artista un cammino di formazione tecnico e morale, in cui hanno un ruolo fondamentale le regole e i principi praticati fino a diventare virtù. Le certezze di Cennini e di Leonardo poggiavano su una solida tradizione, che non poneva in discussione l’importanza delle regole di formazione. Nell’antichità, possiamo trovarne esempi noti in Vitruvio e Plinio, ma anche in Columella per quanto riguarda l’arte dell’agricoltura. Si tratta di una tradizione che, con innovazioni e ripensamenti, arriva fino al XX secolo, testimoniata da innumerevoli trattati.

Da questa tradizione possiamo trarre l’importanza del binomio arte e regole, e soprattutto possiamo comprendere come tale impostazione sia realmente liberatoria per la creatività dell’artista. Nella lunga storia delle arti, le regole hanno giocato l’importante ruolo di formare gli artisti, di far crescere senza opprimere, di spronare senza imprigionare, di sciogliere senza legare. Le regole tracciano un percorso, rendendo accessibile una tecnica che può diventare il fondamento dell’azione, la condizione di possibilità per la crescita. Oggi, riusciamo a comprendere l’importanza della tecnica e delle sue regole soltanto in campi molti ristretti; un esempio molto divulgativo riguarda il mondo dello sport: nell’atletica, nei tuffi, nello sci, nel calcio … la bella esecuzione è tale perché è anche gesto tecnico. Infatti, senza una adeguata preparazione tecnica, nessuno sport può essere praticato.

Nel campo delle arti gli esempi diventano più difficili. Nella musica rimane più evidente la necessità di possedere il linguaggio e la sua tecnica; nel campo della pittura, invece, le regole del mercato hanno preso sopravvento, aiutate dai critici che teorizzano che l’arte non deve avere vincoli e principi, se non appunto quelli -imperanti ma non esplicitati- dello stesso mercato. Così come la tanto reclamata libertà dell’artista da ogni regola spesso si traduce paradossalmente in dipendenze di tipo non-artistico, come l’alcool, le droghe o altri vincoli che coartano radicalmente la libertà della persona, ottundendo la ragione. Del resto, le teorie artistiche che sottolineano con una certa ossessiva ricorrenza che l’artista è un essere disadattato e solitario, finiscono quasi per prescrivere il malessere psichico ed esistenziale come un prerequisito fondamentale. Così l’arte che dovrebbe donare la felicità diventa un labirinto di dolore, interamente attraversato dall’ansia di successo. Cosicché alla figura dell’artista si sovrappone quella di Faust disposto a fare patti con il Diavolo, o quella di Prometeo, che sfida gli dei per rubare loro il fuoco.

Il centro del percorso creativo dell’artista, in un siffatto contesto, è l’artista stesso. In un totale egotismo, l’arte esprime l’io dell’artista e null’altro. Se riflettiamo bene, invece, comprendiamo che l’artista per essere tale dovrebbe possedere le regole del suo mestiere, e che il presupposto per violarle e superarle è appunto conoscerle. Inoltre il malessere e la perversione non sono richiesti all’artista in quanto tale, ma solo all’artista così come è teorizzato da certi critici e da certi mercanti contemporanei.

Se questo osservazioni valgono per l’artista in generale, a fortiori acquistano ragione nei confronti dell’artista cristiano. Si può parlare di Cristo a partire da queste posizioni teoriche e raggiungere le alte vette dell’arte sacra cristiana? L’artista che lavora per la Chiesa può essere identificato dalla dissolutezza, dall’ignoranza del mestiere, dal narcisismo? Non stiamo parlando di un giudizio sulla vita dell’artista, perché questo non dovrebbe interessare allo storico e al teorico dell’arte, ma stiamo riflettendo proprio sulle opere d’arte, sulla possibilità che senza una formazione tecnica e artistica, e senza virtù coltivate, si possano produrre opere belle adatte alla preghiera e alla liturgia.

Inoltre, aggiungo una considerazione più importante, e cioè che per lavorare per Cristo, ad ogni livello e in ogni campo, c’è bisogno di una adesione a Cristo stesso. Con molta chiarezza Joseph Ratzinger spiega che la sacralità dell’immagine implica la vita interiore dell’artista, il suo incontro con il Signore: «La sacralità dell’immagine consiste proprio nel fatto che essa deriva da un vedere interiore e così conduce a un vedere interiore. Deve essere frutto di una contemplazione interiore, di un incontro credente con la nuova realtà del Risorto e, in questo modo, deve introdurre nuovamente ad uno sguardo interiore, nell’incontro orante con il Signore» (Joseph Ratzinger, Teologia della liturgia, Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 131). Aggiunge anche che «la dimensione ecclesiale è essenziale all’arte sacra» (ibid.), mettendo all’attenzione che l’artista cristiano non può vivere al di fuori della Chiesa stessa.

Gesù nel Vangelo di Luca ci avverte: «là dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34) . Se il nostro tesoro non è Cristo, ma siamo noi stessi, i nostri vizi, il successo, allora non si ha il cuore adatto alla produzione di opere di arte sacra. Ancora ci insegna Gesù che «nessun servitore può servire due padroni [...] non potete servire Dio e la ricchezza» (Lc 16,13). Dunque l’artista cristiano deve fare la scelta radicale di porre Cristo come unico Signore della sua vita e della sua arte. Ciò implica anche l’umiltà di un percorso di formazione, artistica, morale e spirituale, nella convinzione che il lavoro artistico è una vocazione: «Ciascuno viva secondo la grazia ricevuta, mettendola a servizio degli altri, come buoni amministratori di una multiforme grazia di Dio. Chi parla, lo faccia con parole di Dio; chi esercita un ufficio lo compia con l’energia ricevuta da Dio, perché in tutto venga glorificato Dio per mezzo di Gesù Cristo, al quale appartiene la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen» (1Pt 4,10-11).

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