mercoledì 28 dicembre 2011

Cretti e memorie

Il Grande Cretto di Gibellina è una grande opera d'arte ambientale realizzata daAlberto Burri. È situato sull'area dove un tempo sorgeva l'abitato di Gibellina. Un violento terremoto colpisce la valle del Belice nella notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968, distruggendo completamente Gibellina. Di fronte all'impossibilità di ricostruire l'abitato sulle rovine, l'amministrazione cittadina decide di lasciare sul luogo una testimonianza della tragedia a perenne ricordo delle vittime e delle grandi sofferenze sopportate. L'incarico viene affidato ad Alberto Burri, che concepisce una versione amplificata dei suoi famosi Cretti. La titanica impresa inizia nel 1985 e viene interrotta nel 1989. Il Grande Cretto di Gibellina si presenta come un'enorme coltre di cemento bianco che si dispiega sul fianco scosceso della montagna. Il suo aspetto ricorda un'immensa superficie ondulata, spaccata da profonde crepe e fenditure. L'effetto è dovuto alla sua particolare struttura a grandi blocchi di cemento, grosso modo quadrangolari, separati tra loro da profondi solchi. Il tracciato dei blocchi e delle fenditure ricalca sostanzialmente l'antico impianto viario, con i suoi isolati e le sue stradette. L'intenzione di Burri è stata, cioè, di restituire un'idea dell'antico abitato. Le macerie "cementificate" sono custodite dall'opera che conserva l'urbanistica del paese; la memoria diventa non retorica ma percorribile, seppur resa anonima e uguale dai blocchi. L'idea della frattura e del distacco, metafora se vogliamo del terremoto che disgrega, diventa cifra stilistica per un'installazione potente ed evocativa, di grande impatto emozionale. L'impressione è amplificata dal singolare contrasto con l'ambiente circostante, aspro, ma a tratti coltivato. Su un lato, il Grande Cretto evoca l'idea della terra che trema e uccide. Sull'altro, il tracciato ordinato dei vigneti sulle colline antistanti evoca l'idea della terra faticosa ma pacifica, che risponde alla mano dell'uomo dando frutti.





Singolare il confronto col Memoriale all’Olocausto di Berlino progettato da Peter Eisenman, e inaugurato pochi anni fa. Il progetto si presenta come un percorso labirintico lungo il quale una vasta griglia di colonne di cemento crea un’atmosfera di astrazione che diventa metafora dell’oscuro e complesso percorso interiore che l’uomo vive al ricordo del genocidio degli ebrei ad opera del nazismo. Il monumento sorge emblematicamente presso la porta di Brandeburgo, vicino la sede amministrativa della macchina da guerra di Hitler ed in prossimità del suo famoso bunker. Eisenman ha voluto rendere percettibile quel senso di estraniazione mosso dal ricordo di una inimmaginabile strage, attraverso un progetto che diventa apoteosi di una totale perdita di senso: un percorso labirintico ed irregolare di ciottoli guida i visitatori tra 2.711 pilastri di calcestruzzo disposti a scacchiera che sembrano affondare ambiguamente in un terreno che segue un movimento ondulatorio, senza lasciare alcuna speranza di risalita. La vasta griglia del memoriale rappresenta l’estensione delle vie adiacenti al sito, ma è anche evocazione inquietante della rigida disciplina inculcata dal regime del Führer. Le colonne evocano, invece, le lapidi funerarie degli ebrei che hanno perso la vita nel massacro. L’idea alla base del progetto sembrerebbe quella di dare forma ad un processo che consenta all’uomo di accettare il male come un aspetto della vita normale. Ed è per questo che nel nuovo memoriale di Berlino la linea che separa vita e morte, colpevolezza ed innocenza si rivela quasi impercettibile. Man mano che si procede lungo il percorso, il terreno sul quale sorgono le colonne acquista sempre maggiore pendenza: all’inizio del percorso si riesce ad intravedere la città, mentre le fila dei pilastri fanno da cornice al Reichstag. Gradatamente la vista comincia a scomparire, e lo scricchiolio della ghiaia calpestata diventa sempre più rumoroso, finchè il movimento instabile delle colonne inclinate diventa minaccioso ed opprimente. L’effetto di disorientamento è voluto: il visitatore si ritrova solo faccia a faccia col ricordo dell’olocausto. Una volta fuori dal percorso, ritornato nella dimensione reale, tutte le sensazioni appena vissute acquistano maggiore chiarezza. In tal modo l’architetto intende far rivivere momenti agghiaccianti senza alcun tipo di sentimentalismo: “Non voglio che i visitatori si commuovano per poi andar via con la coscienza pulita”.




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