martedì 29 marzo 2011

Gian Enzo Sperone e Bonami

Parla Gian Enzo Sperone: "Anche se sofisticati e intelligenti hanno un’ansia  di diventare famosi che mi fa orrore."

Sidney Janis, Leo Castelli, Ileana Sonnabend, Konrad Fischer sono stati i punti cardinali di un mondo dell’arte che non esiste più. Un mondo dell’arte che si divideva fra Europa e Stati Uniti, fra Parigi e New York. Oggi i suoi confini si sono così allargati che i signori e le signore appena menzionati si troverebbero a disagio. A disagio si trova anche un signore di nome Gian Enzo Sperone, un punto di riferimento del mercato dell’arte che alla metà degli Anni 60 trasformò Torino in una piccola New York anticipando la Grande Mela con mostre di artisti che poi sarebbero esplosi in America. Le sue mostre della Pop Art e dell’Arte Povera organizzate in spazi industriali e non più nelle gallerie fecero capire proprio a uno come Leo Castelli che l’arte stava cambiando e quindi anche i luoghi dell’arte dovevano cambiare. Le famose gallerie loft di Soho arrivano dopo e grazie a Gian Enzo Sperone. Un eterno pioniere ancora in cerca di qualche frontiera da scoprire. 


Oggi si divide fra la Casa del Governatore in Engadina e il suo loft a tre piani nel Greenwich Village a New York dove lo incontriamo a pranzo. Questo signore, sotto sotto ancora sabaudo, nasconde i suoi 72 anni dentro una scocca che al massimo potrebbe dimostrarne 60. Non pare esserci soluzione di continuità nei suoi interessi, basta guardare le opere appese: dai fondi oro del ’300 alle opere di Tom Sachs, giovane artista americano di belle speranze. Una figura di Luca Giordano dall’alto sfida dei minacciosi coltelli di Andy Warhol su quel ring della storia dell’arte dove Sperone sembra essere un arbitro molto permissivo e perverso. 

Ti senti parte di una razza in via d’estinzione? 
«Direi che sono un sopravvissuto di una minoranza, che se ne frega della maggioranza. Io sono un esempio vivente di quell’Uomo senza qualità descritto da Robert Musil. Volevo fare lo scrittore. Sono finito a lavorare all’Olivetti a 50 mila lire al mese per potermi pagare gli studi. Lettere moderne, dove a insegnare c’era un giovane sconosciuto a quel tempo, di nome Umberto Eco». 

Come hai cominciato a fare il gallerista? 
«Facendo l’assistente nella galleria Galatea a Torino. Il proprietario era Mario Tazzoli, un banchiere con un carattere difficilissimo che prendeva letteralmente a calci le opere che non gli piacevano. Collaborava con il famoso critico d’arte di allora, Luigi Carluccio. Le prime mostre di Bacon in Italia furono fatte in quella galleria dove in magazzino c’erano quaranta Giacometti e Schiele bellissimi. Da Tazzoli si mettevano umilmente in fila per fare affari gente come Jan Krugier e Ernst Beyeler (collezionista svizzero, famosissima oggi la sua Fondazione a Basilea, nda)». 

Quali sono stati gli altri tuoi esempi? 
«Michael Sonnabend, il secondo marito di Ileana dopo Castelli. Lei era quella che sapeva fare gli affari ma lui, Michael, era il visionario, uno che parlava perfettamente italiano citando Dante e Ariosto. Una volta agli inizi degli Anni 60 per spiegare a un collezionista francese un quadro di Jasper Johns, allora quasi sconosciuto, usò parole così alate da confonderlo. Gli disse anche che quel quadro allora costava 2000 dollari ma in un paio di anni il suo valore sarebbe quadruplicato. Fu così convincente che il collezionista gli staccò un assegno di 8 mila dollari e lui lo strappò dicendo che l’opera non era in vendita ma intendeva solo illustrarne la qualità e il valore artistico. Fu per me una grande lezione. Non bisogna mai farsi tentare dal solo valore economico dell’opera d’arte, si rischia di commettere errori madornali». 

Fra gli artisti che hai conosciuto chi ti ha insegnato qualcosa?
«Giacometti. Aveva un’umiltà incredibile. Una volta prima dell’inaugurazione di una mostra alla Galleria Civica a Torino mi chiese di avvisarlo se arrivava qualcuno mentre lui modificava a matita il dettaglio di un suo quadro già appeso in una sala del museo: evidentemente non lo soddisfaceva». 

Che differenza c’è con gli artisti di oggi?
«Li trovo in generale, anche se sofisticati e intelligenti, esageratamente vanitosi, con un’aspirazione al successo sproporzionata e un’ansia di diventare famosi che mi fa orrore. Sembra che l’arte sia solo uno strumento per il successo e la fama, non qualcosa con la quale si vuole comunicare poesia, pensieri, valori». 

Hai qualche rimpianto? 
«Avrei dovuto smettere a 35 anni quando avevo fatto e capito quasi tutto. Se qualcuno me lo avesse consigliato mi avrebbe fatto un favore». 

Chi ti convinse ad andare a dare un’occhiata fuori dall’Italia?
«Pistoletto. Era quello che aveva capito più degli altri quanto stava succedendo in America. Con la sua macchina andammo a Parigi, nel 1963, dove Ileana Sonnabend organizzava la prima mostra di Lichtenstein. La signora mi fece fare anticamera parecchi giorni, ma tornai a Torino con la promessa di una mostra di Lichtenstein e di Warhol». 

Quando si è esaurita la forza innovativa dell’Arte Povera? 
«Quasi subito: pensavamo di avere il copyright della radicalità e di essere i soli rivoluzionari e anti-borghesi. Ma nella stessa strada dove avevo la galleria, corso San Maurizio, al numero 27 c’era la sede di Lotta Continua. Sofri e compagni ci sorpassarono a sinistra deviando l’attenzione e rovinandoci per un po’ la festa. 
Davanti alla galleria c’erano sempre scritte contro l’arte, del tipo: “Attenti, il pennello non va a destra”, dimostrando anche che erano un po’ ignoranti perché nessuno degli artisti dell’Arte Povera dipingeva, e comunque il pennello va dove deve andare». 

Perché secondo te l’arte italiana ha sempre avuto difficoltà ad affermarsi in America anche in termini di valore di mercato? 
«Scarsa fiducia nella comunicazione. In più, nessuno degli artisti italiani degli Anni 60 e 70 parlava inglese». 

Dovendo scegliere solo tre artisti di quegli anni? 
«Andy Warhol, Bruce Nauman (di una genialità sorprendente) e Giulio Paolini». 

Quando hai deciso di andare in America e aprire una galleria? 
«Nel 1972 insieme a Konrad Fischer e Angela Westwater. Ma nel 1974 ero già economicamente in apnea profonda. Andai da Gianni Agnelli che conoscevo già dai tempi della galleria Galatea e gli dissi che avevo bisogno di soldi per l’avventura di New York. Lui era uno al quale piacevano avventure azzardate come la mia e mi aiutò. Oggi invece c’è quest’immagine superficiale di lui fra il viveur e l’imprenditore capriccioso, ma pochi ammettono che l’Avvocato era molto coraggioso. Si era fatto la campagna di Russia e il Nord Africa senza tentare scorciatoie. Era capace di forti passioni, ricordo anche quando in pieno ’68 venne da solo senza scorta nella mia Galleria di piazza Carlo Alberto». 

Quali errori hai fatto? 
«Gli errori sono inevitabili. Ma non fraintendermi. Quando ho sbagliato sapevo che stavo sbagliando. Difatti ho investito troppe energie preziose in artisti che meritavano sì il successo, ma non l’hanno avuto (perché forse non facevano marketing). Sono convinto che il compito del gallerista è anche quello di aiutare l’artista che deve esprimere delle cose importanti ma non ha nel suo Dna la vittoria, la capacità di esprimerle come i campioni.Noi, diceva Giovanni Romano, prendiamo per buona la storia dell’arte scritta dal Vasari, ma la storia dell’arte è fatta anche da tanti personaggi di cui il Vasari non ha raccontato la vita e che sono stati comunque importanti, sono stati la punteggiatura che ci ha aiutato a leggere e capire il grande racconto». 

L’arte ti ha dato quello che ti aspettavi? 
«L’arte come la poesia, e Goffredo Parise lo dice benissimo nel suo Sillabario, va e viene. Non promette niente ma quando arriva ti cambia la vita». 

Che differenza c’è fra te e uno come Larry Gagosian? 
«Lui è il Duveen del nostro tempo (il grande mercante inglese dei primi ’900, nda) io il Mr. Nessuno, che però verrà magari ricordato fuori del nostro tempo (speriamo) per le sue intuizioni non ortodosse». 

A cosa ti è servita l’arte? 
«A non deprimermi. L’arte è il miglior antidepressivo che esista (come dice il mio amico antiquario Fabrizio Moretti). Se i giovani lo capissero si aprirebbero a questo tipo di emozioni e starebbero meglio». 

Di cosa sei grato? 
«Di aver potuto fare un lavoro dove non si fatica per nulla e si è pure pagati bene. È quasi scandaloso». 

Sei più collezionista o mercante? 
«Purtroppo più collezionista. Sedermi in poltrona e guardare il mio Picasso mi dà più soddisfazione che contare soldi». 

Oggi la tua attenzione spazia attraverso epoche diversissime, l’arte contemporanea t’interessa meno? 
«Mi sono un po’ stufato di questa mania che un’epoca debba prevalere sulle altre. Ogni epoca ha bisogno e diritto di esprimersi. A me interessa questo. Non importa di quale epoca l’arte sia». 

Francesco Bonami
La Stampa, New York

domenica 27 marzo 2011

Jeff Koons deve morire!!!

Chi non ha sognato per una volta di distruggere i suoi lavori? E' l'opera-videogioco realizzata dall'artista Hunter Jonakin. "Jeff Koons Must Die! è costituita da una piattaforma di gioco stile anni 80 (stand-up Arcade cabinet) e da un ambiente digitale dove muoversi in prima persona. I visitatori devono pagare 25 centesimi per giocare attraversato un joystick e due pulsanti. Lo scopo del videogioco è quello di consentire allo spettatore di distruggere le opere dell'artista Jeff Koons.


Jeff Koons Must Die!!! The Video Game from Hunter Jonakin on Vimeo.

mercoledì 23 marzo 2011

E il corpo di Caravaggio?

Ricorderete le notizie che si sesseguivano l'anno scorso circa l'eventualità del ritrovamento del corpo di Caravaggio, seguite con attenzione dal blog Caravaggio400 che si è impegnato molto nella divulgazione degli eventi legati al maestro lombardo. Dal loro sito ecco un documentario"CARAVAGGIO, IL CORPO RITROVATO" trasmesso il 27 febbraio 2011 da National Geographic sulla ricerca e le analisi delle presunte spoglie mortali di Caravaggio.

Clet a Roma

Dopo l'incursione di Space Invaders a Roma lo scorso dicembre, con tanto di mostra conclusiva presso la galleria Wunderkammern, curata da Bonito Oliva, ecco un'altro artista che si confronta con la città e i suoi oggetti iconici. Si chiama Clet e lavora sui cartelli stradali usati come base per raffigurazioni minimali e ironiche, giocando con le linee forza della segnaletica, alterate e piegate all'idea progettuale di fondo. Un'altra invasione ironica e spiazzante di immagini sintetiche, in legame-scontro con la realtà urbana. Una su tutta la geniale idea di una crocifissione ai piedi del cartello Strada senza via d'uscita. Come egli stesso ha affermato: “Sempre più invaso dalla segnaletica stradale, lo spazio urbano deve farsi reversibile, aggiungere significati a quelli originari, orientare altri e nuovi gradi di lettura“.




ROMA - Cuori rossi o monete da un euro sulla freccia che incanala i veicoli nella direzione obbligatoria. Metafore opposte, come un punto interrogativo, al bivio tra materia e spirito. Peccato che la svolta dall'ingorgo etico non sia perentoria come per il traffico.
Il misterioso vigile urbano dei sentimenti, notato anche dai lettori del Corriere, incolla sticker rimovibili sui segnali stradali: non fuorvianti - la lettura rimane chiara - ma comunque fuori posto. Motivo per cui, dai quotidiani ai blog, cresce la curiosità: chi sarà mai l'autore degli insoliti adesivi apparsi qua e là, dal Tridente al Lungotevere? L'ultimo street artist con uno spiccato senso dell'umorismo? Le figurine - silhouette stilizzate o simboli di vario tipo - sono firmate Clet Abraham: 44 anni, francese, ma fiorentino d'adozione. Creativo a tutto tondo - pittore, scultore, disegnatore - diplomato all'Accademia di Belle Arti in Bretagna.L'idea è nata un anno fa: «È assurdo che nelle città italiane - osserva Clet, a Valencia per uno dei suoi blitz estetici - i cartelli siano ovunque nei centri storici, deturpando la vista di monumenti e palazzi antichi». E ammette di voler provocare quando li definisce «l'unica forma d'arte contemporanea che sia riuscita a imporsi con tale prepotenza nello spazio pubblico». Tant'è: dal capoluogo toscano a Bologna, Torino e, ora, anche Roma la sua protesta visiva corre da un disco di lamiera all'altro. Ingloba divieti d'accesso e spartitraffico, la «T» di strada senza uscita e la «P» di parcheggio. Nella selva di segni e suoni metropolitani, richiama l'attenzione con lievi cortocircuiti: qua una carambola di auto tricolori, là una «Pietà» stilizzata.Eppoi Cristi crocifissi, angeli, diavoli, moderni Cirenei con pesanti travi sotto il braccio. «La religione è il mio messaggio più forte - spiega l'autore di parabole illustrate - per le sue implicazioni sociali. Sono cattolico non praticante, ma trovo che la perdita d'identità, di valori, sia una deriva pericolosa». Insomma, no a clacson, polveri sottili e caduti sull'asfalto: il suo carburante, pulito e a impatto zero, è nell'anima. Energia rinnovabile, a patto di non inquinarla con veleni chimici e aberrazioni culturali. La sua rivoluzione pacifica è affidata a uno stuolo di pigmei: santi o dannati, comunque ambasciatori di nuove forme espressive. Da queste sagome primitive sale un rumore di fondo, una lieve distonia, che risuona nell'orecchio. Pifferai magici, suadenti proprio per la loro indecifrabilità: sono circa 300 quelli sparsi nella Capitale, un po' come le briciole di Pollicino. «Ho scelto gli incroci importanti, le zone di passaggio - dice Clet - per ottenere la massima visibilità. L'intervento, visto il tam-tam, mi pare che abbia funzionato». Nessuna remora ad agire fuori dalle regole? «Penso che la street art sia sempre esistita - valuta l'ideatore - anche nel David di Michelangelo. Il punto è se è autorizzata o meno... Ecco, la mia appartiene alla seconda categoria!». 








domenica 20 marzo 2011

L'artista per Picasso

Da Giovanni Papini “Il libro nero” 1951 Vallecchi Editore

VISITA A PICASSO
Antibes, 19 Febbraio

Molti anni fa avevo comprato a Parigi sei quadri di Picasso, non perché mi piacessero ma perché eran di moda ed io potevo servirmene per fare dei regali alle signore che m’invitavano a pranzo. Ma ora, trovandomi solo sulla Côte d’Azur e non sapendo come passar le giornate, m’è venuta la voglia di vedere in viso l’autore di quelle pitture. Vive qua vicino, in una villa sul mare, con una giovanissima e florida moglie. Ha, credo, sessantacinque o sessantasei anni ma è di buon sangue catalano, forte e ben formato, di bel colore e di bell’umore. S’è parlato, sulle prime, di certi comuni conoscenti ma ben presto il discorso s’è fermato sulla pittura. Pablo Picasso non è soltanto un artista felice ma anche un uomo intelligente, che non ha paura di sorridere, a tempo e a lungo, delle teorie dei suoi ammiratori.

-Voi non siete un critico né un esteta, mi ha detto, e con voi posso parlare liberamente. Da giovane, come tutti i giovani, ho avuto anch’io la religione dell’arte, della grande arte. Ma poi, col passar degli anni, mi sono accorto che l’arte, come s’intendeva fino a tutto l’Ottocento, è ormai finita, moribonda, condannata e che la cosiddetta “attività artistica”, con la sua stessa abbondanza, non è che la multiforme manifestazione della sua agonia. Gli uomini vanno sempre più disaffezionandosi di pitture, sculture e poesie, nonostante le contrarie apparenze. Gli uomini di oggi hanno messo il loro cuore in tutt’altre cose: le macchine, le scoperte scientifiche, la ricchezza, il dominio delle forze naturali e delle terre del mondo. Non sentono più l’arte come bisogno vitale, come necessità spirituale, a somiglianza di quel che in altri secoli accadeva. Molti di loro seguitano a fare gli artisti e ad occuparsi d’arte, ma per ragioni che con l’arte vera hanno poco a che vedere, cioè per spirito d’imitazione, per nostalgia della tradizione, per forza d’inerzia, per amore dell’ostentazione, del lusso, della curiosità intellettuale, per moda o per calcolo. Vivono ancora, per abitudine e snobismo, in un recente passato, ma la grande maggioranza, in alto e in basso, non ha più una sincera e calda passione per l’arte, che considera tutt’al più come spasso, svago e ornamento. A poco a poco le nuove generazioni, innamorate di meccanica e di sport, più sincere, più ciniche e più brutali, lasceranno l’arte nei musei e nelle biblioteche, come incomprensibili e inutili relitti del passato.
“ Un artista che vede chiaro in questa fine prossima, come è avvenuto a me, cosa può fare? Troppo duro partito sarebbe quello di cambiar mestiere, e pericoloso dal punto di vista alimentare. Ci sono, per lui, soltanto due strade: cercare di divertirsi e cercare di far quattrini.
“ Dal momento che l’arte non è più il cibo che alimenta i migliori, l’artista può sfogarsi a suo talento in tutti i tentativi di nuove formule, in tutti i capricci della fantasia, in tutti gli espedienti del ciarlatanismo intellettuale. Nell’arte il popolo non cerca più consolazione ed esaltazione; ma i raffinati, i ricchi, gli oziosi, i lambiccatori di quintessenze, cercano il nuovo, lo strano, l’originale, lo stravagante, lo scandaloso. Ed io, dal cubismo in poi, ho contentato questi signori e questi critici con tutte le mutevoli bizzarrie che mi son venute in testa, e meno le capivano e più mi ammiravano. A forza di spassarmela con tutti questi giochi, con queste funambolerie, con i rompicapo, i rebus e gli arabeschi, son diventato celebre abbastanza presto. E la celebrità significa, per un pittore, vendite, guadagni, fortuna, ricchezza.
E ora, come sapete, son celebre, son ricco.
Ma, quando son solo, fra me e me, non ho il coraggio di considerarmi un artista nel senso grande e antico della parola. Veri pittori furono Giotto e Tiziano, Rembrandt e Goya: io sono soltanto un amuseur public, che ha capito il suo tempo e ha sfruttato meglio che ha saputo, l’imbecillità, la vanità e la cupidigia dei suoi contemporanei. E’ un’amara confessione, la mia, più dolorosa di quel che vi possa sembrare, ma ha il merito di essere sincera.
“et après ça, ha concluso Pablo Picasso, allons boire”.

Condividete il pensiero di Picasso? L'intervista però è immaginaria, scritta dallo stesso Papini.

giovedì 17 marzo 2011

Surrealisti

Girando su internet ho trovato questa splendida foto di Anna Riwkin che ritrae insieme i maggiori esponenti del surrealismo. Da sinistra Tristan Tzara, Paul Éluard, André Breton, Hans Arp, Salvador Dalí, Yves Tanguy, Max Ernst, René Crevel and Man Ray. Parigi 1933. E mi piace paragonarla con la celebre foto dei futuristi.



mercoledì 16 marzo 2011

Da seguire con attenzione

Omaggio a Leo Steinberg

Leo Steinberg, uno degli storici e critici dell’arte di maggiore celebrita’ della seconda meta’ del XX secolo, ma al tempo stesso anche autore di controversi studi, e’ morto domenica sera nella sua casa di Manhattan all’eta’ di 90 anni. L’annuncio della scomparsa e’ stato dato oggi dalla sua assistente Sheila Schwartz al ”New York Times”. Steinberg era considerato uno dei massimi esperti mondiali del Rinascimento e del Barocco italiano e si era affermato per i suoi studi su Leonardo da Vinci, Michelangelo e Francesco Borromini.

"Tutta l'arte ha per oggetto se stessa. Tutta l'arte originale va alla ricerca dei propri limiti e la differenza tra l'arte del passato e l'arte modernista non ha a che fare con la presenza o meno dell'autodefinizione, ma con la direzione che questa autodefinizione prende”


Rileggendo queste poche righe si avverte subito lo spirito libero e senza pregiudizi del suo autore, Leo Steinberg, considerato uno fra i più grandi storici d'arte americani del Novecento e che è venuto a mancare all’età di 90 anni domenica 13 marzo nel suo appartamento di New York. L'annuncio ufficiale è stato dato ieri sul “New York Times” ed è stato confermato dalla sua assistente Sheila Schwartz. Dallo studio degli artisti rinascimentali, alla sua interpretazione dell'opera Les damoiselles d'Avignon di Picasso nel saggio “The Philosophical Brothel”, fino ad arrivare alle tendenze americane degli anni Cinquanta e Sessanta, attraverso la conoscenza diretta e la promozione di artisti a lui contemporanei, tra cui non si possono non citare Jasper Johns, Robert Raushenberg, Jackson Pollok e Willem de Koonig; la sua vita è stata costellata da continue, infinite e meditate ricerche, che condotte con uno stile poco ortodosso, sono diventate fondamentali nello studio storico artistico.

Tra questi sicuramente si può ricordare il testo da cui è tratta la frase iniziale “Other criteria” pubblicato nel 1972. Nel saggio, che rappresenta la versione integrale di un discorso pronunciato durante una famosa conferenza del 1968 presso il MoMA, lo studioso nato a Mosca nel 1920 criticava l'eccessivo formalismo di Clement Greenberg, trovando nuovi strumenti per analizzare le opere d'arte. Usando un criterio simpatetico infatti secondo Steinberg il critico poteva sospendere il suo gusto per riconoscere la pienezza di quella determinata opera d'arte. Facendo poi innumerevoli esempi sull'arte del passato, propose la definizione di pianale (flatbed) per il piano pittorico, in questo modo questo concetto invitava a comprendere l'opera in tutta la sua integrità, attraverso i diversi processi che avevano permesso la sua creazione, non soltanto la materia di cui era fatta. Su questa definizione molti studiosi nel corso degli anni hanno discusso, Steinberg infatti è stato senza dubbio in tutta la sua vita uno studioso controverso, spesso criticato per le sue interpretazioni, che comunque sono rimaste fondamentali negli studi del settore. Come fu il caso nel 1983 del testo “The Sexuality of Christ in Renaissance Art and in Modern Oblivion” che analizzava la costante raffigurazione nelle opere d'arte rinascimentali dei genitali del Cristo, rappresentati per comprovare la sua umanità. Steinberg era anche un importante collezionista di stampe, nel 2002 ha infatti donato all'Università del Texas, dove aveva insegnato, un importante corpus che comprende più di 3200 opere (tra cui stampe di Durer, Piranesi, Lorrain, Rembrant, Matisse, Grosz, Picasso, Johns).

La grande varietà delle opere che nel corso degli anni ha collezionato, così come i suoi scritti raccontano quello che è stato uno dei suoi tratti più distintivi, e da cui tutti gli storici dell'arte dovrebbero imparare, ossia la grande libertà e la straordinaria modernità con cui si muoveva nelle sue ricerche, non soltanto attraverso la varietà dei temi trattati e per il suo metodo limpido e schietto, ma anche per il suo stile diretto che ha permesso una comprensione attenta e puntuale di quei fenomeni. (Da Arskey)


Da questo link una sintesi del suo fondamentale saggio 

martedì 15 marzo 2011

Prima conferenza stampa di presentazione della Biennale (Video)

La prima conferenza stampa di presentazione della 54ma Esposizione Internazionale d'Arte: Illuminazioni. Un po' di numeri: prima di tutto sui tagli ai finanziamenti, poi su artisti e iniziative. Le nuove geografie dei Padiglioni Nazionali, che registrano i sommovimenti politici del momento. La drammaturgia della curatrice Bice Curiger, le domande dei giornalisti e le mosse egocentriche dei grandi assenti... Per fare un po' di luce sull'evento d'arte made in Italy piu' importante e discusso, vi proponiamo il documento video integrale della presentazione ufficiale a Roma. Su Undo.net.

E altri articoli:


Perchè la Biennale di Sgarbi è una guerra persa in partenza

lunedì 14 marzo 2011

ATLAS: come portarsi il mondo sulle spalle?

Atlas. Interessante esposizione al museo Reina Sofia curata da George Didi-Huberman; si riflette sulle immagini, quelle contemporanee ma anche quelle sedimentate. Filo conduttore è il celeberrimo Atlante della Memoria di Warburg, generatore infinito di impressioni e rimandi e che il curatore prova a continuare. Vaso di Pandora del nostro eccesso visuale ma anche scrigno per decifrare una cultura dell'immagine sempre più opprimente, in perenne relazione con un passato inteso quale memoria quasi sempre nascosta e celata. Di seguito un bel post dal blog Rocaille di Lisa.

La memoria

Mnemosyne deriva dal greco μνήμων e significa memoria.

Era il nome di una delle figlie di Urano e Gea, una Titanessa generata all’inizio dei tempi. Dalla sua unione con Zeus nacquero le nove Muse, protettrici dell’arte. Fu così che si fissò per sempre il legame imprescindibile tra arte e memoria.

Mnemosyne è il nome del monumentale atlante di Aby Warburg dove immagini di ogni epoca e provenienza sono accostate in maniera non gerarchica ma tematica, dove nulla è più importante di altro ma tutto forma un tessuto: la trama della memoria.



L’Atlante


Il progetto di Warburg era un’impresa imponente, iniziata negli ultimi anni della sua vita dal 1925 al 1929 quando morì e la lasciò incompiuta.

Un lavoro paradossale, ma affrontato con metodo scientifico di archivista e classificatore e che può essere considerato come un grande riassunto, un documentario di tutta l’arte occidentale e non, un tentativo di dare un ordine (κόσμος) al caos (χάος) della storia e quindi della memoria.

Il suo studio si serviva di un sistema di pannelli dove raccoglieva le immagini che più lo interessavano così che, ad una sola occhiata, potesse avere uno sguardo d’insieme senza bisogno di parole.

Il suo occhio cercava le analogie, gli isomorfismi che intercorrono tra le immagini, i richiami impensabili che si muovono sottotraccia, invisibili. Una studio quasi primitivo dove non serve più l’analisi, ma solo l’intuizione, un approccio talmente nuovo da sembrare inutile.

Warburg diceva infatti “ciò di cui mi occupo è una scienza che non ha nome” e chiamava questo atlante “racconto di fate venuto dal reale” o “storia di fantasmi per adulti”.



Imago Mundi


Sin da quando l’uomo abita il mondo ha prodotto talmente tante immagini che con il tempo rischiano di andare perdute cioè dimenticate. Per evitare l’eterno ritorno bisogna combattere l’oblio così Warburg si chiede come raccogliere tutta l’arte: come racchiudere tutta la nostra memoria? Come portarsi il mondo sulle spalle?

E’ un’impresa titanica proprio come quella di Atlante, condannato da Zeus a reggere sulle spalle l’intera volta celeste. Atlante regge il mondo, ma questa è la mappa del mondo, è la sua memoria fatta dalle immagini che l’uomo ha creato dall’inizio dei tempi ad oggi e che costituiscono un fardello altrettanto pesante.

Warburg arriva ad una congiunzione astrale e terrestre dove tutto può essere scritto, anzi tutto può essere rappresentato e l’universo può essere racchiuso in un libro: un atlante.

Il grande atlante diventa così una mappa istantanea della memoria, magma informe e infinito, IMAGO MUNDI del pensiero e del ricordo. Non esiste più oggetto ma solo concetto, non possiamo più collezionare ma solo collazionare. E’ l’uomo moderno che non è più in grado di creare, ma solo di recuperare, raccogliere frammenti, vagare.



I tableaux di G. Didi-Huberman


E’ ancora il sogno dell’uomo rinascimentale che cerca di stipare la conoscenza nei manuali, ma è impossibile racchiudere l’universo in un libro e infatti l’opera rimane incompiuta, non solo per caso. Georges Didi-Huberman prova a continuarla, accostando immagini quanto mai eterogenee di artisti ed esperienze artistiche tra il XX e XXI secolo.

Lo storico dell’arte francese, che a Warburg ha dedicato la monografia “L’immagine insepolta”, ha curato la mostra esposta al museo Reina Sofia a Madrid, fino al 28 marzo. Una mostra sperimentale e un saggio critico esposto che non ha bisogno di parole né, quasi, di immagini.

Non è una mostra che si preoccupa di esporre la bellezza di grandi capolavori, ma di ciò che c’è dietro. Ciò che è esposto non sono oggetti, ma i pensieri che collegano quegli oggetti: è una grande mostra all’immateriale.

Non c’è niente da capire, ma solo da scoprire e tutto ciò che capiamo si rivela effimero, leggero.

Un labirinto estetico incomprensibile e impossibile fatto di dipinti e sculture, ma anche fotografie, film, giornali, annotazioni, lettere, dove non ci sono verità o certezze ma tutto è affidato a foglietti delicati e fragili.

Si sente una totale perdita del centro, tutto è sullo stesso piano: il tavolo. Non ci sono più punti fissi, né linee né momenti, ecco dunque il tentativo di ricostruire “l’ordine delle cose”, “l’ordine del tempo” e “l’ordine dello spazio”.

Abbiamo di fronte un mondo sotterraneo di oggetti e parole nascoste: troviamo una statua romana di Atlante e un assemblage di foto di Warburg, i capricci di Goya e i ritratti fotografici di August Sanders e i collage di El Lissitzky. Non è una mostra di opere famose, ma non è nemmeno una mostra di opere: di Paul Klee c’è l’erbario, di Sol LeWitt le sue fotografie dei muri di New York, di Josef Albers il suo album fotografico dedicato all’architettura pre-colombiana, gli esercizi di anatomia di Max Ernst, le Water Towers di Berndt & Hilla Becher, gli appunti di Walter Benjiamin e di Rosemarie Trockel; le nuove invenzioni geografiche di Marcel Broodthaers, Guy Debord e On Kawara, fino ad arrivare all’ Histoire du cinéma di Jean-Luc Godard.

“Di solito quando si esibisce un archivio non c’è niente da vedere, è un lavoro di tempo che prende mesi e anche anni mentre invece un atlante è una presentazione sinottica delle differenze. Il suo scopo è quello di farti capire il legame che non è basato sulle somiglianze, ma sulle connessioni segrete tra due cose diverse. Atlas è un tour visuale rispetto a qualsiasi altro archivio, è un lavoro di montaggio nel quale differenti tempi stanno insieme. Non sono cose belle appese sulle pareti, ma è il processo creativo che spesso avviene sul tavolo.”

Un grande celebrazione alla Corrispondenza, così come l’aveva intuita Baudelaire, che della modernità è l’inizio.

Una delle più belle mostre di quest’anno, fatta con la voglia di ricerca e non di vendere biglietti.

Data: 26 Novembre – 28 Marzo
Luogo: Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía
Co-organizzata da : ZKM Zentrum für Kunst und Medientechnologie Karlsruhe y Sammlung Falckenberg Phoenix Kulturstiftung
Curatore: Georges Didi-Huberman

Lisa.


lunedì 7 marzo 2011

Vernissage romani

Quantomeno Dagospia, grazie alla passione di D'Agostino per l'arte contemporanea, offre interessanti reportage fotografici che ci fanno entrare nello splendente mondo dei vernissage romani, con tanta gente (addetta?) in mostra, tante strette di mano, qualche politico e la solita noia. In questo caso siamo al vernissage  della mostra Michelangelo Pistoletto: da Uno a Molti, 1956 - 1974.

NINNA NANNA DI GIANNA NANNINI IN GLORIA DI MICHELANGELO PISTOLETTO AL MAXXI 2- LA NEO-MAMMA GRATTUGIA LE CORDE VOCALI RASPANDO ’MAMA’ PER L’ULTIMA FATICA DEL GRANDE ARTISTA PIEMONTESE, IL TERZO PARADISO, CHE SIMBOLEGGIA, CON IL NUOVO SEGNO DELL’INFINITO, LA PROCREAZIONE AL CENTRO DELLA VITA. LAVORANDO A QUESTO PROGETTO, HA RIVELATO PISTOLETTO, ’’LA NANNINI HA DECISO DI DIVENTARE MAMMA’’ - 3- AL DI LÀ DEL "RUMORE" DELLA SCAPIGLIATA SENESE L’ANTOLOGICA È MOZZAORECCHI - 4- DOPO IL MINISTRO BONDI, IERI AD ESSERE "INFILZATO DAI BUUH" COME AD UNA PRIMA A TEATRO È STATO IL SOTTOSEGRETARIO FRANCESCO GIRO CHE HA DOVUTO FRETTOLOSAMENTE INTERROMPERE IL SUO DISCORSO SOMMERSO DAI "BASTA" DEI GIORNALISTI -




sabato 5 marzo 2011

Arte assenteista

Quando Totò stava più avanti di molti artisti contemporanei. Non volendo una vera e propria dichiarazione di estetica.


venerdì 4 marzo 2011

Posso farlo anch'io

Chi non lo ha mai pensato una volta osservando l'arte contemporanea? Ora si può fare grazie a iartist, un pò come l'operazione che compie Mike Bidlo con le opere degli artisti storici. In questo caso l'opera, inserita pienamente nel contesto della merce e del consumo, arriva a casa con tanto di pacco e istruzioni e deve essere solo montata. Un pezzo su tutti il celebre teschio di Hirst, ma si possono realizzare anche dei Banksy, la celebre testa di Marc Quinn, Everyone I have Ever slept with 1963-1995 di Tracy Emin. E per riflettere sul concetto di originalità-realtà nell'arte contemporanea, ovvero sulle differenze, tutte filosofiche, che intercorrono tra un oggetto comune e lo stesso oggetto diventato opera e musealizzato, è uscito da poco Oltre Brillo Box. Il mondo dell'arte dopo la fine della storia, di Arthur Danto. Finalmente anche in Italia viene tradotto il celebre saggio The artworld (in parte fruibile in inglese qui), ampliato e aggiornato: "Analizzando in modo critico la complessa relazione tra interpretazione, storia, teoria e pratica nell'arte, e con uno stile improntato alla chiarezza espositiva, "Oltre il Brillo Box" prende le distanze da un passato dominato dal paradigma tradizionale delle arti visive e ci proietta nell'attualità di un mondo caratterizzato da opere d'arte indiscernibili dagli oggetti ordinari: è il mondo in cui viviamo, costantemente alla ricerca di una risposta alla domanda "che cos'è l'arte?". Naturalmente, per entrare in queste problematiche, si sconsiglia l'inutile testo, seppur divulgativo, di Bonami "Lo potevo far anch'io".




Il crollo del David

Sarebbe un incubo vero e proprio, sarebbe terribile anche solo immaginarlo ma apprendo che, anche lontanamente, ci sarebbe il rischio che il David di Michelangelo passa crollare sotto i suoi piedi poiché i vicini lavori della Tav porterebbero all'estremo delle micro lesioni nelle zone basse. Naturalmente ci sono i catastrofisti ma anche la più remota possibilità che questo avvenga mi getta nel panico.

Il David di Michelangelo, statua di marmo imponente – di 6,72 metri, se si considera anche il basamento e raggiunge quota 6,83 metri con il gradino in granito – ma fragile a causa di micro-fessure apertesi sulle caviglie che ne possono compromettere la tenuta, è a grande rischio crollo. Le vibrazioni degli scavi dei tunnel dell’alta velocità e poi i transiti futuri dei convogli sotto Firenze, potrebbero causare un aggravio delle sollecitazioni cui è già sottoposta la scultura del Buonarroti. A lanciare l’allarme è l’architetto padovano Fernando De Simone, esperto in costruzioni sotterranee, che arriva a proporre di trasferire il capolavoro in un nuovo museo per proteggerlo. Dopo accurate indagini durate oltre un anno, De Simone ha richiamato l’attenzione su un eventuale pericolo per l’opera proprio mentre a Firenze è in corso un dibattito quotidiano sugli rischi dovuti all’attraversamento sotterraneo dei treni veloci, tanto che si stimano circa 2000 edifici con possibili lesioni, a ridosso del percorso ferroviario sotterraneo. «I due tunnel della Tav – ha fatto notare De Simone – passeranno a circa 600 metri dalla statua del David di Michelangelo che ha le caviglie piene di piccole crepe. Se prima di iniziare i lavori di scavo, la statua non verrà trasferita, ci saranno seri rischi che crolli, a causa delle vibrazioni». L’architetto si accorse del problema delle vibrazioni per il David alcuni anni fa, osservando cosa accadeva al treppiede della sua macchina fotografica: «All’arrivo di gruppi di visitatori, la livella a bolla, che segnala l’equilibrio non stava mai ferma, vibrava di continuo. Figuriamoci cosa può accadere coi treni;…». «Alla Galleria dell’Accademia di Firenze – ha spiegato la soprintendente Cristina Acidini – è in corso uno studio finalizzato a stabilire quale grado di resistenza a sollecitazioni sismiche, ai terremoti, può avere l’edificio che certo non è moderno. Quando avremo un quadro diagnostico completo potremo valutare se le vibrazioni degli scavi della Tav e i passaggi futuri dei treni potranno creare problemi alla statua». Intanto, il capolavoro di Michelangelo è finito in parlamento: il senatore del Pdl Pietro Paolo Amato ha presentato in Senato un’interrogazione ai ministri Bondi e Matteoli per «fare immediata chiarezza». (Rovesci d'arte)

Da qui la proposta formulata da Fernando De Simone di trasferire il David in un museo sotterraneo che proteggerebbe la statua anche in caso di terremoto ed inoltre si potrebbe consentire al visitatore la sua osservazione, tra l'altro, da ogni punto di vista, quindi non solo frontalmente, ma lateralmente e dall'alto. "Un'osservazione - aggiunge De Simone - dai punti di vista ascendenti e discendenti e spiralati, grazie a delle rampe e delle scale intorno alla statua. Un modo di vedere la celebre scultura come desiderava lo stesso Michelangelo e come ha scritto il grande critico dell'arte Carlo Ludovico Ragghianti, di cui io sono stato allievo".

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