martedì 29 marzo 2011

Gian Enzo Sperone e Bonami

Parla Gian Enzo Sperone: "Anche se sofisticati e intelligenti hanno un’ansia  di diventare famosi che mi fa orrore."

Sidney Janis, Leo Castelli, Ileana Sonnabend, Konrad Fischer sono stati i punti cardinali di un mondo dell’arte che non esiste più. Un mondo dell’arte che si divideva fra Europa e Stati Uniti, fra Parigi e New York. Oggi i suoi confini si sono così allargati che i signori e le signore appena menzionati si troverebbero a disagio. A disagio si trova anche un signore di nome Gian Enzo Sperone, un punto di riferimento del mercato dell’arte che alla metà degli Anni 60 trasformò Torino in una piccola New York anticipando la Grande Mela con mostre di artisti che poi sarebbero esplosi in America. Le sue mostre della Pop Art e dell’Arte Povera organizzate in spazi industriali e non più nelle gallerie fecero capire proprio a uno come Leo Castelli che l’arte stava cambiando e quindi anche i luoghi dell’arte dovevano cambiare. Le famose gallerie loft di Soho arrivano dopo e grazie a Gian Enzo Sperone. Un eterno pioniere ancora in cerca di qualche frontiera da scoprire. 


Oggi si divide fra la Casa del Governatore in Engadina e il suo loft a tre piani nel Greenwich Village a New York dove lo incontriamo a pranzo. Questo signore, sotto sotto ancora sabaudo, nasconde i suoi 72 anni dentro una scocca che al massimo potrebbe dimostrarne 60. Non pare esserci soluzione di continuità nei suoi interessi, basta guardare le opere appese: dai fondi oro del ’300 alle opere di Tom Sachs, giovane artista americano di belle speranze. Una figura di Luca Giordano dall’alto sfida dei minacciosi coltelli di Andy Warhol su quel ring della storia dell’arte dove Sperone sembra essere un arbitro molto permissivo e perverso. 

Ti senti parte di una razza in via d’estinzione? 
«Direi che sono un sopravvissuto di una minoranza, che se ne frega della maggioranza. Io sono un esempio vivente di quell’Uomo senza qualità descritto da Robert Musil. Volevo fare lo scrittore. Sono finito a lavorare all’Olivetti a 50 mila lire al mese per potermi pagare gli studi. Lettere moderne, dove a insegnare c’era un giovane sconosciuto a quel tempo, di nome Umberto Eco». 

Come hai cominciato a fare il gallerista? 
«Facendo l’assistente nella galleria Galatea a Torino. Il proprietario era Mario Tazzoli, un banchiere con un carattere difficilissimo che prendeva letteralmente a calci le opere che non gli piacevano. Collaborava con il famoso critico d’arte di allora, Luigi Carluccio. Le prime mostre di Bacon in Italia furono fatte in quella galleria dove in magazzino c’erano quaranta Giacometti e Schiele bellissimi. Da Tazzoli si mettevano umilmente in fila per fare affari gente come Jan Krugier e Ernst Beyeler (collezionista svizzero, famosissima oggi la sua Fondazione a Basilea, nda)». 

Quali sono stati gli altri tuoi esempi? 
«Michael Sonnabend, il secondo marito di Ileana dopo Castelli. Lei era quella che sapeva fare gli affari ma lui, Michael, era il visionario, uno che parlava perfettamente italiano citando Dante e Ariosto. Una volta agli inizi degli Anni 60 per spiegare a un collezionista francese un quadro di Jasper Johns, allora quasi sconosciuto, usò parole così alate da confonderlo. Gli disse anche che quel quadro allora costava 2000 dollari ma in un paio di anni il suo valore sarebbe quadruplicato. Fu così convincente che il collezionista gli staccò un assegno di 8 mila dollari e lui lo strappò dicendo che l’opera non era in vendita ma intendeva solo illustrarne la qualità e il valore artistico. Fu per me una grande lezione. Non bisogna mai farsi tentare dal solo valore economico dell’opera d’arte, si rischia di commettere errori madornali». 

Fra gli artisti che hai conosciuto chi ti ha insegnato qualcosa?
«Giacometti. Aveva un’umiltà incredibile. Una volta prima dell’inaugurazione di una mostra alla Galleria Civica a Torino mi chiese di avvisarlo se arrivava qualcuno mentre lui modificava a matita il dettaglio di un suo quadro già appeso in una sala del museo: evidentemente non lo soddisfaceva». 

Che differenza c’è con gli artisti di oggi?
«Li trovo in generale, anche se sofisticati e intelligenti, esageratamente vanitosi, con un’aspirazione al successo sproporzionata e un’ansia di diventare famosi che mi fa orrore. Sembra che l’arte sia solo uno strumento per il successo e la fama, non qualcosa con la quale si vuole comunicare poesia, pensieri, valori». 

Hai qualche rimpianto? 
«Avrei dovuto smettere a 35 anni quando avevo fatto e capito quasi tutto. Se qualcuno me lo avesse consigliato mi avrebbe fatto un favore». 

Chi ti convinse ad andare a dare un’occhiata fuori dall’Italia?
«Pistoletto. Era quello che aveva capito più degli altri quanto stava succedendo in America. Con la sua macchina andammo a Parigi, nel 1963, dove Ileana Sonnabend organizzava la prima mostra di Lichtenstein. La signora mi fece fare anticamera parecchi giorni, ma tornai a Torino con la promessa di una mostra di Lichtenstein e di Warhol». 

Quando si è esaurita la forza innovativa dell’Arte Povera? 
«Quasi subito: pensavamo di avere il copyright della radicalità e di essere i soli rivoluzionari e anti-borghesi. Ma nella stessa strada dove avevo la galleria, corso San Maurizio, al numero 27 c’era la sede di Lotta Continua. Sofri e compagni ci sorpassarono a sinistra deviando l’attenzione e rovinandoci per un po’ la festa. 
Davanti alla galleria c’erano sempre scritte contro l’arte, del tipo: “Attenti, il pennello non va a destra”, dimostrando anche che erano un po’ ignoranti perché nessuno degli artisti dell’Arte Povera dipingeva, e comunque il pennello va dove deve andare». 

Perché secondo te l’arte italiana ha sempre avuto difficoltà ad affermarsi in America anche in termini di valore di mercato? 
«Scarsa fiducia nella comunicazione. In più, nessuno degli artisti italiani degli Anni 60 e 70 parlava inglese». 

Dovendo scegliere solo tre artisti di quegli anni? 
«Andy Warhol, Bruce Nauman (di una genialità sorprendente) e Giulio Paolini». 

Quando hai deciso di andare in America e aprire una galleria? 
«Nel 1972 insieme a Konrad Fischer e Angela Westwater. Ma nel 1974 ero già economicamente in apnea profonda. Andai da Gianni Agnelli che conoscevo già dai tempi della galleria Galatea e gli dissi che avevo bisogno di soldi per l’avventura di New York. Lui era uno al quale piacevano avventure azzardate come la mia e mi aiutò. Oggi invece c’è quest’immagine superficiale di lui fra il viveur e l’imprenditore capriccioso, ma pochi ammettono che l’Avvocato era molto coraggioso. Si era fatto la campagna di Russia e il Nord Africa senza tentare scorciatoie. Era capace di forti passioni, ricordo anche quando in pieno ’68 venne da solo senza scorta nella mia Galleria di piazza Carlo Alberto». 

Quali errori hai fatto? 
«Gli errori sono inevitabili. Ma non fraintendermi. Quando ho sbagliato sapevo che stavo sbagliando. Difatti ho investito troppe energie preziose in artisti che meritavano sì il successo, ma non l’hanno avuto (perché forse non facevano marketing). Sono convinto che il compito del gallerista è anche quello di aiutare l’artista che deve esprimere delle cose importanti ma non ha nel suo Dna la vittoria, la capacità di esprimerle come i campioni.Noi, diceva Giovanni Romano, prendiamo per buona la storia dell’arte scritta dal Vasari, ma la storia dell’arte è fatta anche da tanti personaggi di cui il Vasari non ha raccontato la vita e che sono stati comunque importanti, sono stati la punteggiatura che ci ha aiutato a leggere e capire il grande racconto». 

L’arte ti ha dato quello che ti aspettavi? 
«L’arte come la poesia, e Goffredo Parise lo dice benissimo nel suo Sillabario, va e viene. Non promette niente ma quando arriva ti cambia la vita». 

Che differenza c’è fra te e uno come Larry Gagosian? 
«Lui è il Duveen del nostro tempo (il grande mercante inglese dei primi ’900, nda) io il Mr. Nessuno, che però verrà magari ricordato fuori del nostro tempo (speriamo) per le sue intuizioni non ortodosse». 

A cosa ti è servita l’arte? 
«A non deprimermi. L’arte è il miglior antidepressivo che esista (come dice il mio amico antiquario Fabrizio Moretti). Se i giovani lo capissero si aprirebbero a questo tipo di emozioni e starebbero meglio». 

Di cosa sei grato? 
«Di aver potuto fare un lavoro dove non si fatica per nulla e si è pure pagati bene. È quasi scandaloso». 

Sei più collezionista o mercante? 
«Purtroppo più collezionista. Sedermi in poltrona e guardare il mio Picasso mi dà più soddisfazione che contare soldi». 

Oggi la tua attenzione spazia attraverso epoche diversissime, l’arte contemporanea t’interessa meno? 
«Mi sono un po’ stufato di questa mania che un’epoca debba prevalere sulle altre. Ogni epoca ha bisogno e diritto di esprimersi. A me interessa questo. Non importa di quale epoca l’arte sia». 

Francesco Bonami
La Stampa, New York

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