venerdì 7 gennaio 2011

Van Gogh e Gauguin a Arles. Lo studio del Sud


E ritornando sulla mostra di Van Gogh a Roma, approfondendo la notizia della messa in asta di una delle tele con girasoli che Gaugain dedicò all'amico-nemico Vincent (la tela col famoso occhio di Dio incastonato nel girasole), trovo notizia di una mostra datata ma, a mio avviso, tra le più significative realizzate sull'olandese. la mostra, realizzata a Chicago e Amsterdam nel 2002, si intitola Van Gogh e Gauguin, Lo studio del Sud, e indaga quel complesso rapporto di odio/amore che nacque tra i due artisti nei fatidici 63 giorni di permanenza di Gauguin ad Arles, rapporto fatto sopratutto di differenze di concezione sull'arte. van Gogh convinto della necessità di confrontarsi sempre con la natura, Gauguin fautore di un'arte simbolica e immaginifica, lontana dalla realtà. Una delle pagine più belle e drammatiche dell'impressionismo e dell'intera storia dell'arte che si conclude, la sera della partenza di Gauguin, col famoso episodio dell'orecchio. Così scriveva il giornale di Arles in giorno seguente "Domenica, alle undici e mezzo di sera, tale Vincent van Gogh, pittore nativo olandese, si è presentato alla casa di tolleranza N.1, ha chiesto di tale Rachel e le ha dato il suo orecchio dicendo: "Conservalo come un oggetto prezioso". Poi è scomparso. Informata di questo fatto, che non poteva essere che opera di un povero alienato, la polizia si è recata l'indomani matina presso questo individuo e lo ha trovato coricato nel suo letto senza quasi dare più segno di vita".


Riporto, riguardo alla mostra, questo esauriente articolo

"Il nostro dovere è pensare, non sognare". Firmato Vincent Van Gogh. Destinatario Paul Gauguin. Basterebbe questa sentenza, con cui di fatto si chiuse una breve e intensissima amicizia, per descrivere i caratteri di due esperienze opposte e incomunicabili. Se c’erano dei dubbi sulla radicale differenza che oppose l’uno all’altro i due mitici maestri dell’arte moderna, la mostra aperta prima a Chicago e poi ad Amsterdam li ha davvero fugati tutti. Una mostra straordinaria proprio per la chiarezza con cui si sono lasciate parlare, quasi gridare, le differenze. Una mostra d’impatto tale da non aver quasi bisogno di didascalie o di contestualizzazioni: il semplice accostare le opere che i due avevano dipinto nelle stesse ore e negli stessi luoghi in quei 63 giorni di vita comune ad Arles, imponeva evidenze elementari. Sarà stato anche questo fattore ad aver determinato il successo dell’esposizione, visitata da quasi un milione e mezzo di persone nelle due sedi? C’è, sinceramente, da pensarlo. 
     "Il nostro dovere è pensare, non sognare". Eppure era stato proprio Van Gogh a sognare a lungo quel sodalizio, primo nucleo di una comunità di pittori da radunare sotto il sole della Provenza. Era stato lui a tallonare l’amico Paul Gauguin, a farlo mettere sotto pressione dal fratello Theo, che di Gauguin era anche il mercante, e quindi teneva i cordoni della sua borsa. Decine di lettere scritte nell’estate del 1888 testimoniano l’ansia, l’impazienza, ma anche le enormi aspettative che Van Gogh riponeva su quella venuta. Gauguin, in quei mesi, stava in Bretagna, a Pont-Aven, un po’ malaticcio, e tergiversava con scuse anche un po’ patetiche, come la fatica del viaggio in treno per un artista debilitato come lui. Era di poco più anziano, già con un carattere da leader, tant’è che aveva un entourage di ammiratori e imitatori. 
Van Gogh era l’opposto, pieno di insicurezze, ingenuo nella vita, incapace di nascondere qualcosa di sé o di quello che faceva, come dimostrano le migliaia di lettere che ha lasciato, nell’arco, pur breve, della sua vita.
     Gauguin, al contrario, si muoveva sempre negli spazi dell’ambiguità, sia che si trattasse di decidere i propri comportamenti sia che si trovasse davanti al cavalletto. Se Van Gogh era monacale nel suo bisogno di cercare regole o presenze alle quali appoggiare la propria vita, Gauguin era insofferente di quelle giornate ritmate solo dal lavoro. Se Van Gogh ostinatamente s’attaccava ad ogni appiglio che la realtà gli offriva, Gauguin aveva come orizzonte finale la propria interiorità: lì il mondo iniziava e finiva.
     Per questo c’è davvero da credere che quando, dopo tanto esitare, si decise a prendere il treno che lo avrebbe portato ad Arles, aveva in realtà in testa solo il modo e i tempi in cui mandare a monte quel sodalizio. La fisicità della pittura di Van Gogh lo infastidiva, non sopportava quella materia grumosa e quasi fangosa, che, non si sa per quale forza, sulla tela s’accendeva di una luce a volte abbagliante. Addirittura non sopportava la cucina di Vincent, troppo grassa, troppo contadina, così poco ascetica come tutto nella vita di quello strano olandese che si ostinava a fare il pittore senza essere mai riuscito a vendere un quadro in vita sua.
     A partire da quel 23 ottobre 1888, martedì, ore 5 del mattino, quando Gauguin scese dal treno alla stazione di Arles, iniziò così uno strano duello, in cui uno dei due contendenti incassava, senza per nulla soffrire, e l’altro imponeva la sua volontà, senza assolutamente riuscire ad essere felice. Gauguin arrivò, come detto, alle 5 del mattino e subito sperimentò lo stile di Van Gogh. L’olandese, felice per l’arrivo dell’amico, aveva infatti parlato di lui a tutti nella cittadina, mostrando l’autoritratto che Gauguin stesso gli aveva inviato qualche settimana prima. Così la barista del caffè alla stazione lo riconobbe immediatamente: più che lo stupore c’è da immaginare il fastidio che quel primo impatto gli provocò. Lui, abituato a muoversi nell’indistinto, doveva convivere con uno che metteva tutto in piazza. Quanto poteva durare?


"Il nostro dovere è pensare, non sognare". Van Gogh, pur nella sua arrendevolezza e semplicità, era caparbiamente attaccato ad alcune evidenze elementari. Prima tra tutte, quella che non si può dipingere senza vedere, senza aver di fronte l’oggetto. Gauguin, al contrario, appena arrivato, aveva cercato di convincerlo alla pittura di immaginazione. Si mettevano con il cavalletto sullo stesso punto, dipingevano i ritratti alla stessa persona, come due allievi in accademia, ma i risultati erano sempre così lontani. Gauguin trasferiva le immagini in uno spazio mentale, le decontestualizzava dalla realtà, come creature fluttuanti in un nirvana. Sagome ritagliabili, ricollocabili in altri mondi, alleggerite di ogni concretezza e per questo ridotte a due dimensioni, cioè private volutamente di profondità. Ancor prima che arrivasse, Van Gogh aveva colto qualcosa di insano nel suo futuro compagno. "Mi fa l’effetto di un prigioniero", scrive al fratello. "Non c’è un’ombra di allegrezza. Non c’entra nulla con il mondo della carne, ma si può mettere sul conto della sua volontà melanconica. La carne nell’ombra è lugubramente rabbuiata". E poi ancora: "Gauguin ha l’aria malata nel suo ritratto torturato".
     Ma come, non era Van Gogh il depresso, lo schizofrenico, il perseguitato dal complesso di fallimento? Tra le sale della mostra di Amsterdam le parti si rovesciano con nitidezza. Gauguin, il grande Gauguin, si svela saturo di accidia, quasi ostaggio della sua ambiguità. Illude se stesso e gli altri d’aver trovato la via di fuga dai problemi formali e intellettuali che la fine dell’Impressionismo (l’ultima rassegna impressionista si era tenuta proprio un anno prima, nel 1887), aveva spalancato. In realtà passo dopo passo si cala in un orizzonte occulto e magico dentro il quale smarrisce anche la sua innata grazia di pittore, come dimostra l’ultima, quasi disperante, sala della mostra. Sulla parete finale c’è infatti quella natura morta con girasoli e manghi, dipinta nel 1901, in cui, nonostante il soggetto, si era persa ogni traccia dello splendore di Van Gogh. Al centro del mazzo compare l’inquietante occhio di Dio, dentro un girasole. Inquietante deriva mistico-magica di uno che aveva sempre diffidato della realtà.
     Dall’altra parte Van Gogh tiene botta. È felice di quel sodalizio, baldanzoso come un bambino. Organizza la vita sin nei minimi dettagli, con una cura ogni tanto sopra le righe. Assegna, senza batter ciglio, il ruolo di superiore a Gauguin, cui assegna, di sua sponte, la camera più bella. "Le nostre giornate passano a lavorare, lavorare sempre. La sera poi siamo sfiniti e andiamo al caffè, per andare a dormire presto! Ecco la vita!", scrive sempre al fratello in novembre. Gli piacciono anche le infinite discussioni in cui si infilano, e che qualche volta sfociano in litigate più o meno furiose. Da allievo accondiscendente accetta di dipingere su quella tela di juta, e non di lino come era sua consuetudine, che Gauguin, appena arrivato, aveva comperato. La juta, a trama larga, si beve il colore, e lascia sui quadri delle apparenze più che delle realtà. Trasforma le figure in fantasmi, toglie ogni appoggio alle cose. Scarnifica, spiritualizza la pittura. Anche la scelta della tela diventa così uno strumento per forzare la natura di Van Gogh. Gauguin aveva annunciato questa intenzione prima di arrivare ad Arles, con una lettera: "Un consiglio, non copi troppo la natura. L’arte è un’astrazione; la tiri fuori dalla natura sognando davanti a quella, e pensi più all’atto creativo che al risultato; è l’unico modo di ascendere a Dio...".
 Per Gauguin quindi la juta è un supporto ideale, per Van Gogh invece è una sfida: ma chi guarda i quadri dell’olandese dipinti sulla tela tagliata da quel rotolo di 20 metri (tra gli altri i due celebri Sedie e L’Arlesiana), non se ne accorge. Con la caparbietà contadina ha caricato a tal punto di materia quelle tele da averne vinto l’inerzia. 



L’aneddoto della tela alla fine dimostra solo come il pensiero sulla realtà, alla fine, sia comunque più attraente di ogni sogno. Una dinamica che a Gauguin sucita solo rancore. Come accadde in quel giorno di dicembre, in cui, per il cattivo tempo i due erano rimasti a lavorare in studio. Quel giorno avevano deciso di farsi il ritratto a vicenda. Gauguin raffigurò Van Gogh davanti alla tela, ma alle prese con un mazzo di girasoli. Pittura di fantasia, evidentemente, perché Van Gogh in realtà stava dipingendo in contemporanea il ritratto di Gauguin; e poi perché i girasoli in dicembre si poteva solo immaginarli. Per l’olandese fu un vero oltraggio. Guardò con terrore quel quadro, scrivendo al fratello: "Sono io, ma io diventato pazzo". 


Seguirono giorni di liti. E il giorno che Gauguin decise di andare a dormire alla locanda e di ripartire per il nord, Van Gogh, vedendo svanire il suo sogno, si tagliò un lobo dell’orecchio e lo consegnò incartato a Rachel, una prostituta della vicina casa di tolleranza. Paul Gauguin partì immediatamente, scrivendo a Theo che rompeva il sodalizio e che toccava a lui prendersi cura di quel fratello incontrollabile. Quanto a Van Gogh rimase qualche giorno in ospedale. Intanto la sua casa era stata messa sotto sigilli dalla gendarmeria, incaricata delle indagini dopo quel fatto di sangue nella tranquilla Arles. Solo un visitatore curioso si fece vivo, il 28 marzo 1889, chiedendo che gli venisse aperta la casa. Era Paul Signac, pittore già noto, uno dei maggiori rappresentanti del postimpressionismo. Quando gli aprirono la porta, restò abbagliato. Lasciò anche una testimonianza di quella visita: "Non dimenticherò mai quella stanza coperta di paesaggi sfolgoranti di luce". (Fonte).

 Il sodalizio di Arles     Cronologia di quei 63 giorni in cui i due artisti lavorarono assieme. Per amicizia, ma anche per darsi battaglia
     1888     20 febbraio: Van Gogh arriva ad Arles, da Parigi. Soggiorna per il primo periodo in una locanda, l’Hotel Carrel.
      Giugno: Van Gogh dipinge la serie del Seminatore.
     Primi contatti con Gauguin, per convincerlo a trasferirsi con lui a sud.
     Luglio: Gauguin è ancora in Bretagna, a Pont-Aven. Qui dipinge due quadri tra i più famosi, La visione del sermone eCristo nell’Orto degli ulivi. Van Gogh vuole imitarlo ma non ce la fa. Scrive al fratello: "Ho grattato un grande studio dipinto con degli ulivi, con una figura di Cristo blu e arancione e un angelo giallo... l’ho grattato perché mi sono detto che non bisogna fare delle figure di questo impegno senza modello".
     21/26 agosto: Van Gogh dipinge la celebre serie dei Girasoli, per arredare la stanza in cui starà Gauguin.
     16 settembre: Scambio di autoritratti tra i due. Quello che Gauguin invia a Van Gogh da Pont-Aven si intitola I miserabili. A Van Gogh il titolo non piace: "Non approvo queste atrocità dell’opera. La nostra missione è quella di non farle sopportare a noi stessi né di farle sopportare ad altri".
     7 settembre: Van Gogh entra nella casa di Place Lamartine, la celebre casa gialla, affittata in previsione dell’arrivo di Gauguin. È alle porte di Arles, "proprio all’ingresso del "paradiso del Sud""(Van Gogh).
     29 settembre: Van Gogh annuncia al fratello di aver dipinto la Notte stellata sul Rodano, forse il suo capolavoro.
     23 ottobre: Paul Gauguin arriva ad Arles.
     5 novembre: dipingono in studio il ritratto di Madame Ginoux, che Van Gogh intitolerà L’Arlesiana.     20 novembre: Van Gogh dipinge le due celebri seggiole (La sedia di Vincent e la sua pipa La sedia di Paul Gauguin).
     25 novembre: è la volta del Seminatore, un altro dei quadri più celebri di Van Gogh.
     Inizi dicembre: Ritratti reciproci. Quello di Gauguin a Van Gogh scatena una furiosa litigata tra i due.
     22 dicembre: dopo un nuovo contrasto, Gauguin annuncia a Van Gogh l’intenzione di partire. Nella notte l’olandese si taglia un lobo dell’orecchio destro. Viene ricoverato all’ospedale di Arles. Verrà dimesso il 7 gennaio.
     23 dicembre: Paul Gauguin riparte alla volta di Parigi.
     -------
     Vincent Van Gogh morirà il 29 luglio del 1890 a Auvers-sur-Oise, nel nord della Francia, dove il fratello l’aveva portato per farlo curare dal dottore degli impressionisti, Paul Gachet.
    
     Paul Gauguin nel 1891 partì per Tahiti. Si stabilì alle isole Marchesi, dove morì nel 1903.


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