mercoledì 29 aprile 2009

Identità e dissoluzione

Anche se gli scienziati italiani nel 1924 (ignorando il lavoro di Duchamp) avevano scoperto questa particolare forma di illusione, definendola come "effetto stereo-cinetico", Duchamp era giunto da solo a questo fenomeno percettivo già nei primi anni del 1920, realizzando il suo primo set di dischi ottici nel 1923. Questi aveva capito che dalla filatura dei disegni composti come una serie di cerchi concentrici, con una rotazione sempre più veloce si riusciva a creare un modello tridimensionale della forma, anche attraverso il principio dell'occhio solo. Come poi in Ane'mic Cine'ma, 1926, l'osservazione dei dischi in rotazione mette in moto le nostre pulsionoi più remote nell'ambiguità dell'immagine-tempo dove lo sguardo cade frantumandosi in mille prospettive sempre uguali; partendo dal grado 0 della forma si arriva, nell'aumentare della velocità, a forme alternative formatesi dalla somma di tutti gli attimi dell'immagine di partenza; una piccola alchimia dello sguardo nell'ossessione del movimento. Da questo link il progetto interattivo di Vittorio Marchi e Robert Slawinski permette di rivivere l'esperienza percettiva di questi cerchi.

http://toutfait.com/rotoreliefs/roto.htm

martedì 28 aprile 2009

“Ti perdono…ti perdono…ti perdono…”

Seguendo ormai un flusso di coscienza, ripensando al post di prima, ho ripescato altre immagini de-sacralizzate di Madonne (e sante) ed un estratto (il “monologo dei cretini”) dall’opera di Carmelo Bene “Nostra Signora dei Turchi”; tra le pagine, secondo me, più belle della letteratura italiana.

andresserrano-el otro cristo Alma Lopez. Our Lady. 1999

Nel nome del padre-BellocchioNostra signora dei turchi2

“Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno visto la Madonna.
Io sono un cretino che la Madonna non l’ha vista mai.
Tutto consiste in questo, vedere la Madonna o non vederla.
San Giuseppe da Copertino, guardiano di porci, si faceva le ali frequentando la propria maldestrezza e le notti, in preghiera, si guadagnava gli altari della Vergine, a bocca aperta, volando.
I cretini che vedono la Madonna hanno ali improvvise, sanno anche volare e riposare a terra come una piuma. I cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono come se un tale, avendo i piombi alle caviglie e volendo disfarsene, decide di tagliarsi i piedi e si trascina verso la salvezza, tra lo scherno dei guardiani, fidenti a ragione dell’emorragia imminente che lo fermerà. Ma quelli che vedono non vedono quello che vedono, quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa.
Un siffatto miracolo li annienta: più che vedere la Madonna, sono loro la Madonna che vedono. È l’estasi questa paradossale identità demenziale che svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sè, dentro un altro oggetto.
Tutto quanto è diverso, è Dio.
Se vuoi stringere sei tu l’amplesso, quando baci la bocca sei tu.
Divina è l’illusione. Questo è un santo. Così è di tutti i santi, fondamentalmente impreparati, anzi negati. Gli altari muovono verso di loro, macchinati dall’ebetismo della loro psicosi o da forze telluriche equilibranti - ma questo è escluso -. È così che un santo perde se stesso, tramite l’idiozia incontrollata. Un altare comincia dove finisce la misura. Essere santi è perdere il controllo, rinunciare al peso, e il peso è organizzare la propria dimensione. Dove è passata una strega passerà una fata.
Se a frate Asino avessero regalato una mela metà verde e metà rossa, per metà avvelenata, lui che aveva le mani di burro, l’avrebbe perduta di mano. Lui non poteva perdersi o salvarsi, perchè senza intenzione,inetto.
Chi non ha mai pensato alla morte è forse immortale. È così che si vede la Madonna.
Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: un miracolo è la trasparenza. Sacramento è questa demenza, perchè una fede accecante li ha sbarrati, questi occhi, ha mutato gli strati - erano di pietra gli strati - li ha mutati in veli. E gli occhi hanno visto la vista. Uno sguardo. O l’uomo è così cieco, oppure Dio è oggettivo.
I cretini che vedono, vedono in una visione se stessi, con le varianti che la fede apporta: se vermi, si rivedono farfalle, se pozzanghere nuvole, se mare cielo. E davanti a questo alter ego si inginocchiano come davanti a Dio.
Si confessano a un secondo peccato. Divino è tutto quanto hanno inconsciamente imparato di sè. Hanno visto la Madonna. Santi.
I cretini che non hanno visto la madonna, hanno orrore di sè, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne - in convenevoli del quotidiano fatti preghiere - e questo porta a miriadi di altari. Passionisti della comunicativa, non portano Dio agli altri per ricavare se stessi, ma se stessi agli altri per ricavare Dio. L’ umiltà è conditio prima.
I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all’assoluto comunque. Essere più gentile dei gentili. Essere finalmente il più cretino.
Religione è una parola antica.
Al momento chiamiamola educazione”.

Nostra signora dei turchi3

cfr. C. Bene, Sono apparso alla Madonna, Milano 1983

lunedì 27 aprile 2009

Ma-Donne

Roberta Torre-Annunciazione

E continuando con le Annunciazioni ho trovato quest’altra versione in chiave contemporanea dove il messaggio passa per un televisore; la fotografa è Roberta Torre (la regista di Tano da morire) la quale ha saputo fondere la cultura pop e l’iperrealismo, il kitsch e l’ossessione per il corpo femminile, realizzando una serie di scatti di donne comuni (dal titolo Ma-donne) dove gioca tra inquadrature cinematografiche e un sottile gusto per l’ironia ed il grottesco, non dimenticandosi mai della tradizione, in particolare dell’iconografia siciliana tradizionale.

Suggestivi e mai banali sono anche gli altri scatti della serie dove propone una sorta di “santine popolari” naif e barocche, sacre e ordinarie; "donne comuni, corpi che ho vestito, spogliato e sezionato come una bambina fa con la sua Barbie, trasformandole in donne ultraterrene (ma-donne) fino ad arrivare alla loro essenza sacrale e misteriosa: la femminilità"; infatti "Ma-donna prima ancora che a una visione sacra rimanda all'etimologia (laica) del termine: mia donna".

Immacolata concezione Sacro cuore Pupi siciliani

Ma non è nuovo, in campo fotografico, la forte ispirazione verso l’iconografia mariana rivista in chiave pop-olare dove la Vergine assume lo status di icona, ma in senso moderno; non è più “eikon”, immagine (sacra), ma figura legata ad uno stile, un look o un modo di vita che può essere riproposto o sovvertito (come nel caso delle foto di Pierre e Gilles o il celebre manifesto di Lady Vendetta). La de-sacralizzazione dell’iconografia sacra attraverso un meccanismo di ostensione-ostentazione porta ad un’immagine di facciata che mantiene solo l’involucro del divino, portato all’ennesima potenza iconica, con un progressivo dissolversi del mistico. Quello che resta saranno solo corpi assenti.

Pierre&Gilles006 Lady vendetta-originale vania-01-‘Aaliyah’ -The Fader

Tutto il resto è kitsch.

Madonna con bambino

domenica 26 aprile 2009

Non fidatevi delle apparenze

Tavola dittica (part.) XVI sec. Liegi

Si tratta dell’immagine interna di un piccolo dittico del XVI sec., conservato a Liegi, che si apre come un libro. Nella coperta esterna è raffigurato un giovane che, sporgendosi da una finestra, indica il monito a non fidarsi troppo delle apparenze.

Una volta trasgredito al divieto ci si trova di fronte un’immagine assai sconcertante, legata al rito del “leccaculo”, simile in tutto a quello del bacio (i cui significati si rifanno all’antica Cabala ebraica).

I cardi, in questo caso, non sono solo ostacolo all’esecuzione materiale del rito; “cardare” significa, in senso ampio, purificare: sembra dunque questa la finalità dei riti delle varie offerte anali, riti segreti cui si sottopongono solo coloro che sono veramente motivati, superando tutte le difficoltà, ovvero affrontando le spine del cardo.

A noi oggi rimane solo lo sberleffo e la “sottile” ironia, oltre il fortissimo e spiazzante realismo.

sabato 25 aprile 2009

Dall’angelo al cellulare

Negli ultimi 10 anni Richard Hamilton, concluso il periodo pop che aveva preso vita a Londra dall’Indipendent Group già nel 1952-53 e durante il quale fu protagonista a fianco degli artisti e dei personaggi più significativi dell’ultimo secolo: Duchamp, Hockey, Penrose, Roth, i Beatles, (per i quali realizzò un collage per l’interno di White Album), Brian Ferry ecc., ritorna ai grandi temi della pittura, in particolare con l’esposizione del 2007, A Host Of Angels, nella quale si è confrontato anche con l’iconografia antica e la tradizione. Mi ha colpito degli ultimi lavori questa immagine, una stampa digitale su tela del 2005:

Richard Hamilton, An annunciation (b), stampa digitale

L’opera si intitola “Un’annunciazione” e, in effetti, propone molto efficacemente (e anche molto ironicamente, senza cadere nel blasfemo), partendo dal classico tema mariano, come questa scena oggi, nell’era della tecnologia, sarebbe potuta avvenire: ovvero Maria vicino alla finestra che, anziché il messaggio portato dall’angelo Gabriele, riceve direttamente la chiamata del Signore sul cellulare.

Questa interpretazione in chiave moderna, però, non appare così lontana dal vero se la confrontiamo con le interpretazione dei Dottori della Chiesa: Sant’Agostino sosteneva che poiché l’angelo non aveva fatto altro che parlare (non aveva toccato Maria ecc.), la fecondazione doveva essere avvenuta attraverso le parole,e quindi, dall’orecchio. Si parlò quindi di fecondazione auricolare, anche sulla scorta di una delle tante tradizioni non riconosciute ufficialmente (i cosiddetti vangeli apocrifi), ossia il Vangelo armeno dell’infanzia:

«Perché ti turbi perché trema il tuo cuore?», le disse l’angelo.
«Se è così come tu dici avvenga di me e secondo la tua parola!».
Nel medesimo istante che la Santa vergine diceva queste parole e si umiliava, il Verbo di Dio penetrò in lei attraverso l’orecchio, e la natura intima del suo corpo, da esso animata, venne santificata in tutti i suoi organi e i suoi sensi e purificata come l’oro dentro il crogiuolo.

Lorenzetti annunciazione

Ecco perché in molte immagini, in particolare di 300-400, il verbo dell’angelo assume una connotazione fisica, a volte sotto forma di cartiglio che esce dalla bocca, a volte, come nel caso di questa splendida pala del Lorenzetti, nella frase che acquista una connotazione fisica e visibile (da non confondere assolutamente come un primo esempio di fumetto) per insinuarsi, anche realmente, nell’orecchio della Vergine.

mercoledì 22 aprile 2009

Le mie teste da Picasso

mypicasso mypicasso2

testa2 testa

Per chi ha velleità artistiche ed apprezza il grande maestro consiglio, per passare il tempo, questo gradevolissimo sito (quelle sopra sono le mie):

http://www.mrpicassohead.com/

Grande Vetro - Grande Opera



Breton, nel manifesto del Surrealismo del 1924, dichiarò di voler assumere la sapienza Alchemica a modello di un “occultamento” per evitare assolutamente al pubblico di entrare nell’opera, ovvero tenerlo alla porta della provocazione, confuso e sfidato, così le avanguardie, spesso, cercarono dietro astruse e insensate provocazioni, di nascondere un sapere ermetico. Ne fu un anticipatore lo stesso Duchamp, massimo interprete del Dadaismo, il quale, nella sua opera "La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli", opera nota più brevemente come "Il Grande Vetro", cui lavorerà dal '15 al '23 senza portarla mai decisamente a termine, (nel '27 fu danneggiata durante un trasporto - ma Duchamp lasciò intatta la frattura del vetro considerandola un'aggiunta "casuale") nascose, dietro il precetto alchemico del “silenzio” un significato ben più profondo della stessa provocazione visiva. Come dice calvesi lo “spiritoso” nel suo lavoro, oltre a rimandare all’ironia e l’assurdo, che rimangono sempre principi fondanti, rimanda anche all’utopia spiritualista.

Il criptico sottotitolo dell’opera “La Mariée mise à nu par ses célibataires, meme”, "La Sposa messa a nudo dai suoi scapoli", può essere sottoposto ad una seconda lettura, secondo il principio delle doppie letture omofone largamente usato da Raymond Russell, e suona così “La Marie est mise à nue pas ses céli-batteurs”, ovvero “Maria è messa nella nuvola dai propri trebbiatori celesti o celi-trebbiatori”. Dietro l’apparente gratuità della realizzazione, allora, si cela un complesso sistema di simbologie; qualcuno l’ha definita “macchina autopoietica” la quale, esclusivamente in relazione alla propria autoreferenzialità e sistemi concettuali interni, mantiene una sorta di “autocomportamento”.
Maria “portata nella nuvola” è la Vergine Assunta e, in effetti, come nelle tradizionali iconografie dell’Assunzione, il Grande Vetro (notare il gioco di parole fra Grande vetro e Grande Opera) è diviso in due parti, terrestre e celeste; nella prima vediamo una nuvola con tre quadrati, nella seconda un parallelepipedo in prospettiva, simboleggiante un feretro vuoto; i “trebbiatori celesti”, invece, richiamano la definizione duschampiana dell’opera come “macchina agricola” e come “macchina a vapore” con “base in muratura” (ovvero il fondamento massonico-ermetico-filosofale che la spiega).

Nel linguaggio dell’alchimia la trebbiatura (“celeste”), l’assunzione della Vergine incoronata dalla Trinità e il denudamento della sposa sono tutte metafore, codificate nei trattati (come nell’immagine tratta dal Rosarium Philosophorum), che significano la purificazione della materia e la sua trasformazione in “pietra filosofale”. I dettagli sono molti:

La “macinatrice di cioccolato”, come l’artista chiama il congegno con tre rulli (la macina della Malinconia di Durer) che serve a triturare la materia “al nero” (indicata come cioccolato).

I sette “setacci” o “crivelli” che la sovrastano corrispondono alle sette chiavi delle operazioni e sono strumenti di progressiva raffinazione.

Il “mulino ad acqua” incorporato nel carro-sarcofago e con sopra le “forbici” a croce (secondo i termini di Duchamp) alludono al progressivo dissolvimento della materia la quale, una volta “dissolta”, sale al cielo come vapore.

Nel cielo la nuvola con tre finestre (allusive alla Trinità) ricondenseranno la materia per farla tornare sulla terra in forma di gocce fertilizzanti (rugiada filosofica) e dare nuovo avvio al processo alchemico.
L’opera così in sé è una continua polarizzazione di principi positivi e negativi e credo che la sua essenza risieda proprio in questa sua ineffabilità, in questa mancanza; il Vetro, ovvero l’assenza dell’ elemento che pone una distanza fra l’opera e l’osservatore, inoltre, contribuisce ad aumentare questa partecipazione passiva al processo, questa sorta di ermeneutica infinita che non finirà mai di colpire.
cfr. M. Calvesi, Arte e alchimia; M. Eliade, Il mito dell'alchimia.

Duchamp, Grande Vetro

venerdì 17 aprile 2009

Genitalpanik

Nel 1969 l’austriaca Valie Export realizza la sua “azione” Genitalpanik; indossando pantaloni col cavallo rimosso offriva agli spettatori un contatto crudo e immediato con la sua sessualità. Il corpo così può diventare inquietante proprio perché rifiutando filtri e finzioni mette davanti agli occhi l’oggetto del desiderio il quale, appunto poichè non veicolato da stereotipi o concezioni maschiliste, appare come un elemento perturbante, che crea panico proprio in quanto sfida la sicurezza dell’uomo nel suo possesso. L’inquietante rapporto con il mitra, poi, non fa che creare un cortocircuito mettendo sullo stesso piano di funzione-azione la vagina e l’arma da fuoco.
L’artista serba Marina Abramović ha recentemente riproposto quest’idea in una performance del 2005, forse in maniera anche più cruda nel mostrarsi al centro della sala nel “sacro” silenzio del museo, con intorno attenti spettatori.


Del resto questo gesto, come molti altri, fa parte della nostra memoria collettiva e inconscia; nell’antichità infatti il significato delle figure femminili che ostentano i genitali era legato all’idea della fertilità e alla capacità rigeneratrice della natura; mostrare la vagina nell’antichità era considerata infatti un’azione salutare, la cui vista produceva serenità e riso. Nel medioevo la trattatistica teologica affida ai genitali femminili un significato e una funzione morali, in quanto sede della fecondazione e simboli del desiderio di generazione; oltre al valore apotropaico di allontanamento dalla cattiva sorte.

Un esempio è questa metopa dal duomo di Modena o questo bassorilievo del XIII sec. definito la Putta di porta Tosa:

Maestro_delle_metope-ermafrodito (la potta di modena)

Putta di porta Tosa valie-export

Come simbolo di seduzione e con una forte accezione di realismo, tipico della sua poetica, il tema sarà ripreso nell’800 da Courbet che creerà una sorta di paesaggio sessualizzato:

Courbet-Origine 1866

Su questo rapporto fra terra femminile e riguardante s’imposta invece un’opera capitale del percorso artistico del Novecento, che può ben considerarsi una delle prime installazioni che si ricordino. È il celebre assemblaggio di Marcel Duchamp intitolato Dati: 1. La cascata d’acqua. 2. Il gas illuminante: al di là di una porta chiusa, da una fessura (che pare di fortuna) si può sbirciare una figura femminile nuda che tiene in mano una lampada a gas.

EtantDonnes

La donna – un manichino ricoperto di pelle di maiale trattata dall’aspetto estremamente convincente – ha una posa assai esplicita che ricorda quella del quadro di Courbet: sdraiata su un prato di sterpi, rappresenta la Terra. Di lei non è possibile, come nel caso della donna di Courbet, scorgere il volto; è la femminilità della natura, sempre pronta a procreare eppure eternamente vergine. A fecondarla, con lo sguardo, quell’uomo, o meglio “l’uomo” che la sbircia dalla fessura della porta senza, però, poterla mai raggiungere. La presenza dell’acqua della cascata sullo sfondo, del fuoco della lampada che tiene in mano, della terra su cui è distesa e dell’aria tersa che riempie il cielo, simboli dei quattro elementi primordiali, originari della vita (terra, acqua, aria e fuoco), fa di questo scorcio uno spicchio di paesaggio sessualizzato. Tanto l’uomo che guarda, quanto l’artista che ha creato l’opera, ma che poi, una volta creatala, si è trovato nella stessa posizione del primo, finiscono per sentirsi immersi in un universo pervaso dalla vita fervente. Qui le colline si ammantano di verde o di giallo autunnale al ritmo del respiro delle stagioni e, come un’immensa madre, la terra morbida dalle chiome di bosco e di foresta, dalle vene pulsanti di acque torrentizie, dai denti bianchi di roccia scintillante, accoglie gli uomini che sanno amarla.
Duchamp impiegò più di vent’anni per realizzare quest’opera che ha un po’ il sapore della summa di una lunga tradizione iconografica, simbolica e, se si vuole, religiosa”
(M. Bussagli).

E per mostrare come tale gesto-raffigurazione non sia solo una velleità artistica ricordo come questo comportamento fosse ben noto ad Ernesto De Martino, che si rifaceva ad un esempio rumeno in Morte e pianto rituale. Questa azione, il ricorso all'esibizione della vulva nei momenti di intensa crisi cosmica o sociale, connessa ad antichissime costumanze documentate nella tradizione mediterranea ed in altre tradizioni, quella giapponese e quella egizia, interveniva quando il gruppo parentale era immerso nel delirio di morte e di abbandono, quanto tutto l'universo sembrava farsi vano per l'emergenza improvvisa del dissolversi nel rituale del lutto.

marina abramovic- Balkan Erotic Epiccfr. M. Bussagli, Il nudo nell'arte; B. Pasquinelli, Il gesto e l'espressione.

giovedì 16 aprile 2009

Tra corna e mascelle d’asino

L’iconografia non è una scienza perfetta ma legata alla storia della cultura; analizzare un particolare e la sua genesi-origine-trasformazione-migrazione è un affascinante modo per entrare nelle pieghe dell’immagine e cogliere appieno i suoi significati. Quello che voglio proporre oggi sono due esempi di come un’errata interpretazione dei testi porti a stravolgimenti del senso e alla comparsa di nuovi attributi.

Mosè viene generalmente raffigurato con barba bianca e capelli lunghi e sul capo sono raffigurate talvolta delle corna; questa rappresentazione trae origine dall’errata traduzione del termine “cornuta”, impiegato nella Vulgata da san Gerolamo per descrivere la faccia del profeta sceso dal monte Sinai dopo aver ricevuto le tavole della Legge per la seconda volta. Nel latino dell’epoca, infatti, quella parola significava anche “splendente di raggi di luce”. Il passo originale riporta così: “ignorat quod cornuta esset facies sua”, che letterarmente significa “ignorava che il suo volto era cornuto”.

Mosè cornuto-Michelangelo Sansone è tra le figure più eroiche dell’Antico Testamento; giudice per vent’anni, si batte per vincere i tradizionali nemici di Israele, i filistei. Numerose sono le sue prodezze: dopo essere stato consegnato ai filistei, a Lechi Sansone si libera dai lacci e con una mascella d’asino fa strage dei nemici; in seguito il Signore fa sgorgare dalla mascella d’asino dell’acqua per placare la sua sete. Quest’ultimo episodio, però, sembra derivare da un’errata traduzione del testo ebraico, dove è scritto che il Sansone beve alla fonte di Lechi, il cui nome significa appunto “mascella” ed ecco perché in molti dipinti è raffigurato mente si disseta con un’incomprensibile osso.

Sansone Vittorioso-Guido_Reni_1611

mercoledì 8 aprile 2009

Immota manent

 guernica

Ho cercato immagini che potessero rendere l’orrore e il dolore di fronte alla distruzione inaspettata che stiamo osservando in queste ultime ore; anche se il risultato può apparire scontato, niente più di questo quadro, autentico grido di angoscia e di morte, riesce a rendere, in immagine, la tragedia che stanno vivendo in Abruzzo. Non vuole essere un necrologio ma solo un invito al silenzio. Gli sciacalli mediatici stanno, per conto loro, già facendo troppo rumore.

asdfa

sabato 4 aprile 2009

Rosso Fiorentino - Deposizione (1521)



Pasolini - La ricotta -1962 (episodio dal film Ro.Go.Pa.G.)

Uta di Naumburg e la strega di Biancaneve



Le sopravvivenze nell’immagine, come spesse volte ho ricordato in questo blog, possono prendere le vie più impensabili e misteriose ma quasi mai inconsapevolmente; anacronismi o flasch back, disturbi della memoria visiva, riproposizioni con polarità diverse di forme significanti non sono casuali e spesso possono celare storie significative. E’ il caso dell’argomento di questo post.

Questa statua raffigura Uta degli Askani di Ballenstedt e si trova nella chiesa di Naumburg, una piccola cittadina della Sassonia che possiede una splendida cattedrale, il più importante edificio della transizione dal romanico al gotico di tutta la Germania e forse di tutta l'Europa. La costruzione fu iniziata ai primi del tredicesimo secolo e conserva magnifiche vetrate coeve e soprattutto, nelle cappelle absidali del coro, tra le agili colonne, le dodici splendide statue dei fondatori (1260 ca.), altissimo capolavoro dell'ignoto maestro di Naumburg. Lei, moglie senza figli di Ekkehard II di Messein, sfuggita al rogo dopo aver subito un processo per stregoneria e vissuta nel XII secolo, in particolare, affiancata alla figura dell’austero principe tedesco suo marito, distaccata visivamente dalla vita attiva del compagno per mezzo del suo scudo e della sua spada, simboli della sua condizione di valoroso guerriero, nel suo pesante abito volge lo sguardo malinconico altrove, mostrando una fredda regalità e una bellezza distaccata senza precedenti per una scultura romanica. Forse per queste morbidezze stilistiche, per queste caratteristiche sorprendenti proprio nella positura e nei caratteri somatici della giovane sposa effigiata, più vicina a certi intenti accademici di fine XIX secolo e al forte sentimento romantico e neomedievale, fu considerata orgoglio iconico dell’intera tradizione teutonica, sia essa post-bismarkiana che socialista e poi considerata simbolo della bellezza ariana nella Germania nazista, celebrata come esempio di arte classica contrapposta all’”arte degenerata” dell’espressionismo e del surrealismo, proprio quando il nazismo, criticando le avanguardie pluto-giudaico-massoniche, cercava di ritrovare anche nell’arte lo spirito del proprio popolo nel suo rapporto secolare con la campagna, la terra e la razza.
Era consuetudine in quegli anni, inoltre, un pellegrinaggio dal velato sapore romantico di Grand Tour, una sorta di “cammino di Santiago dello spirito tedesco” verso la casa dove Nietzsche aveva vissuto; questo viaggio prevedeva una avvincente suddivisione in tappe presso luoghi simbolo della storia tedesca e culturale europea: dalla cittadina universitaria di Göttingen si proseguiva verso Eisenach, Gotha, Erfurth e quindi nella Weimar di Goethe mirando infine, dopo le ennesime, ma tradizionali ed irrinunciabili soste di Jena e Pforta, alla cittadina di Naumburg, autentica Mecca dell’itinerario per ammirare l’effige della dama.
Ecco allora, primo spostamento semantico, come un capolavoro dell’arte romanica diventa, in chiave nazionalista, l’emblema della donna tedesca, fiera ed austera, velata da un profondo sentimento wagneriano di tragicità e immortalità, simbolo dell’ideologia del pangermanesimo; non si presenta nuda come una Venere greca qualsiasi, mediterranea, ma si erge casta ed altera con "il volto bellissimo incorniciato da una benda che ne esalta l'ovale, le labbra tra il serrato e il dischiuso, il diadema con i gigli, l'ampio mantello con il bavero rialzato e nello stesso momento serrato al corpo con un gesto che appare forse più trepido che imperioso".
Wolfgang Reithermann era figlio di emigranti tedeschi giunti in America nel 1912; dopo aver studiato disegno, mettendo a frutto le sue doti innate, dopo un fortuito incontro, divenne uno dei grafici che con Walt Disney, il “mago di Burbank” allora alle prese con una favola d’origini franco-tedesche e la ricerca della “maschera” cattiva, definì tecniche, soggetti e bozzetti del film capolavoro Biancaneve e i sette nani, primo lungometraggio di animazione di Disney che avesse per soggetti non animali antropomorfizzati ma esseri umani.
Quando Disney partì nel 1935 per un tour europeo assieme al fratello Roy, durante il quale acquistarono più di trecento volumi d’arte e illustrati in vista del lungometraggio(è noto come gli alberi parlanti sono tratti da quelli disegnati da Gustavo Doré per la Divina Commedia di Dante), Reithermann lo consigliò caldamente di visitare Naumburg e di osservare da vicino la statua della bella Uta per cucirgli addosso i panni di Grimilde. Fu l’idea risolutiva, così come quella di mettere a Betty Boop i panni di Biancaneve. Disney fu colpito dalla fotografia della statua indicata dal suo collaboratore: «Era proprio bella, anzi impressionava e quasi raggelava, forse era da pensare a lei come modello per quella che ormai tutti erano d’accordo di chiamare col bel nome tedesco di Grimhilde…». La somiglianza è inequivocabile, e l’eco indiscutibilmente wagneriano del nome Grimhilde a questo punto non può essere certo un caso; del resto proprio la favola di Biancaneve derivava dalle celebri favole dei fratelli Jacob e Wilhem Grimm, grandi filologi e studiosi della lingua tedesca, pubblicate nella prima edizione nel 1812. Grimhilde, o meglio, la strega di Biancaneve è Uta di Naumburg con le sopracciglia folte arcuate, gli occhi verdi, seduttivi e malvagi, di Joan Crawford.
Secondo Umberto Eco, però, bisogna dire che il prototipo sarebbe da ritrovare in un'attrice degli anni Trenta, Helen Gahagan, che con vesti quasi uguali aveva interpretato la mitica 'She', bellezza sublime e maledetta, ispirata al romanzo celeberrimo di Rider Haggard.



Seguendo l’interessante libro di Stefano Poggi “La vera storia della Regina di Biancaneve, dalla Selva Turingia a Hollywood” ecco allora una vera spy story, con Goebbels che si infastidisce per il furto dell'icona tedesca, Disney che nel 1935 conosce sul France, di ritorno a New York, Marlene Dietrich e il suo fotografo Paul Horst, nativo di Weissenfels an der Saale, a un tiro di schioppo da Naumburg, di cui spesso visitava il duomo accompagnato dal padre, imbattendosi appunto nella statua di Uta (entrambi erano presenti alla proiezione del film a Los Angeles, in prossimità del Natale 1937; l’attrice era compiaciuta, Horst invece si rammaricò per la corona della matrigna cattiva «che – osservò – ricorda il grattacielo Chrysler di New York» ). I nazisti, con mille pretesti, finirono per non far circolare il film in Germania, con tutto che il film era stato celebrato dal "Berliner Morgenpost", e che Goebbels (uso a regalare a Hitler cartoni animati di Disney, che se li guardava la sera nella cancelleria del Reich, ne possedeva circa 18), reputasse Biancaneve "una grandiosa creazione artistica" nonché "una favola per adulti". La beffa di rendere malvagia la nobile e bella Uta sarebbe servita a infrangere il progetto estetico del Reich che aveva fatto di Uta un’eroina völkisch, emblema della bellezza femminile germanica al punto che il potente ministro della Propaganda di Hitler si sarebbe dato da fare per mettere a tacere la provocazione ordita dagli studi Disney ai danni della Germania.
Al di la delle varie considerazioni sulla vicenda, sugli intrecci politici e culturali e sui vari rapporti (il libro non tiene in giusto conto per esempio che Hitler era un fervente ammiratore di Disney e che il suo film Biancaneve, ispirato dalla favola dei fratelli Grimm, era il preferito del poeta francese e fascista Robert Brasillach, e che inoltre, nel suo viaggio americano, la regista Leni Riefenstahl, che aveva celebrato con Olympia i giochi di Berlino del 1936, fu accolta con amabile simpatia proprio da Walt Disney che non si uniformò al boicottaggio dell’opera della regista organizzato dalla Lega antinazista; senza dimenticare i presunti legami di Disney con la massoneria e il satanismo) rimane l’ennesimo spostamento semantico di un’immagine.
Uta da emblema della donna tedesca ariana, bella, volitiva, fedele e degna di rispetto, si trasforma così nell’affascinante e crudele Grimhilde, diventando archetipo di “malvagia” almeno per la storia della cinematografia animata in un cartone che ha fatto la storia del cinema e che ha le sue basi nei simboli inconsci della cultura umana.




giovedì 2 aprile 2009

La Venezia Celeste

 

MoebiusVeniceSm

Venezia ha sempre ispirato la mente degli artisti, con le suggestioni delle sue architetture e la magia del suo mondo in bilico tra il sogno e la veglia, ma mai nessuno come Moebius, nome d’arte del grande fumettista Jean Giraud, ha raffigurato una Venezia dello spirito in un’utopistica visione di grande fascino.

Queste tavole, copertine del breve racconto pubblicato in Italia da Comic Art nella collana Best Comics n°35 (Roma, gennaio 1995) nel volume "La Dea" col titolo "Venezia Celeste", mostrano tutta la vena immaginifica di Giraud, che a buon diritto è stato definito il Raffaello del fumetto. Sono immagini per sognare e, almeno a me, fanno venire grandiose visioni nell’immaginarmi il resto di una città dove i canali sono lingue di nuvole e dove le profondità delle acque sono sostituite dalle altezze del cielo. Se volete guardatevi questo video di Ligabue.

venice15

Quel magnetismo del sud

Palizzi-fanciulla su una roccia a Sorrento

http://www.errecomeroma.it/index.php?variabile=articolo&code=210

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