martedì 31 gennaio 2012

La magnifica visione

Roma, la magnifica visione, ovvero la città eterna sognata, immaginata, veduta e riprodotta da tanti artisti nel corso dei secoli. In questo post solo un paio di impressioni d'arte. Da una parte le sorprendenti visioni di Giovanni Tommasi Ferroni, figlio del celebre Riccardo, che ha elaborato negli ultimi anni, forse più di altri, l'immagine barocca dell'Urbe presentando vedute di indubbio fascino dove visione e sogno si sommano alle auliche architetture della città in un tripudio di forme, linee e figure barocche. Nei cieli dell'artista, sulle cupole più famose, vortica tra fumi d'incenso un nugolo di angeli, proprio quelli che ci immaginiamo salire intorno ai monumenti più famosi ma che, pur intuendo, non riusciamo a percepire. Dall'altra, invece, due video che entrano letteralmente dentro due celebri vedute panoramiche dell'800 mostrandoci una roma ancor non alterata da lavori e demolizioni, in intimo contatto con le sue rovine e splendente nella sua magnificenza: il panorama dal campanile di S. Maria Nova di Luigi Rossini e la veduta generale di Roma dal Gianicolo di Luigi-Nisi Cavalieri e Augusto Marchetti.

Fumi d'incenso da S. Ivo alla Sapienza, 2009
Conflitto aereo sopra la chiesa dei Santi Luca e Martina, 2009  
Fumi d'incenso da sant'Andrea della valle, 2009
Azione arcangelica sopra S. Andrea Della Valle, 2009

lunedì 30 gennaio 2012

La morte delle cattedrali, di Marcel Proust

In un'epoca di brutture architettoniche e relativismo etico e morale, che si traduce anche in relativismo estetico, un prezioso testo di Marcel Proust, con grazia di sintesi, ci illumina sulla bellezza delle cattedrali (e per traslato dell'arte sacra) in relazione alla funzione religiosa e ci da una serie di imput per cogliere, anche incoscientemente, la grandezza spirituale della simbologia. In basso la premessa della traduttrice Cristina Campo

"Questo studio di Marcel Proust apparve nel «Figaro» del 16 agosto 1904, in occasione della legge di separazione della Chiesa dallo Stato francese, che prevedeva fra l’altro l’abolizione dei luoghi di culto, l’inventario di tutti i beni della Chiesa di Francia, l’istituzione delle cultuali pena la confisca di quegli stessi beni da parte dello Stato, la «polizia dei culti», ecc. Legge che, come è noto, fu occasione di vittoria spirituale da parte dell’episcopato francese, obbediente all’ordine di San Pio X: lasciarsi spogliare serbando, in povertà assoluta, il mandato pastorale. Oggi che senza alcuna pressione da parte di governi laici si ode parlare negli stessi ambienti ecclesiastici di «sacrificio necessario» delle cattedrali e del canto gregoriano sembra opportuno rileggere la sottile, sferzante, appassionata perorazione di Proust in difesa dell’immenso tesoro di cui s’è nutrita per secoli – con la fede cristiana – tutta la grande arte di Occidente, e che non è facile comprendere a chi o a che cosa voglia oggi essere immolato [N.d.T.]"

lunedì 23 gennaio 2012

Instagram, comunicare attraverso istanti


In molti la definiscono il Twitter della fotografia. Instagram è una applicazione che permette di realizzare delle foto suggestive grazie a dei filtri che si applicano alla foto stessa. Il tutto in un contesto social, ovvero di condivisione delle proprie foto sulla stessa piattaforma e/o sui maggior social network, che rendono la foto visibile a tutto il mondo Instagram. Nel 2011 è stata eletta come miglior applicazione dell’anno.

Caratteristica di questa App, oltre la suggestiva resa delle foto, è che ha condotto ad una piccola rivoluzione "antropologica" nel mondo dell'immagine. Se con i social network è nata l'idea della condivisione del proprio stato e dei propri pensieri attraverso delle frasi (o scritte o citazioni o link) con tale applicazione per la prima volta si usano ad un livello così massificato delle immagini per comunicare i propri stati d'animo e impressioni. Le foto sostituiscono le scritte, le immagini rappresentano noi stessi e non ciò che oggettivamente vediamo aprendo interessanti orizzonti di senso. C'è poi l'aspetto vintage creato artificialmente con i filtri, come se alla fine, tra tante tecnologie avanzate, ci fosse il desiderio di tornare alle vecchie e care macchine analogiche. Nostalgia e rivelazione, una certa componente onirica e tanta voglia di trasfigurare il reale adattandolo al nostro immaginario, queste le caratteristiche estetiche degli istanti modificati da Instagram.

E che questa applicazione, oltre a diventare un vero e proprio social network (vedi Obama), abbia anche velleità artistiche è dimostrato da diverse mostre che si stanno organizzando nel mondo. La prima, iPhoneography, è stata organizzata a Londra lo scorso ottobre. La prossima invece aprirà nella capitale: la prima mostra fotografica organizzata dagli Instagramers Romani si svolgerà a Roma dal 27 Gennaio al 12 Febbraio prossimo. La location scelta per l’evento è l’esclusivo Yakiniku di Via del Pigneto 207/209 a Roma che ospiterà per ben due settimane tutti gli appassionati e curiosi di fotografia.

Vedi: PRINTED MATTER: Fotografo dunque sono: estetica e ideologia di Instagram [WIRED]

mercoledì 11 gennaio 2012

Iconografia della Croce dipinta

Un interessante articolo dello storico dell'arte Marco Bona Castellotti sul tema della Croce dipinta che ho accompagnato con una selezione di opere. Un percorso di secoli: dal Cristo vivo e trionfante a quello morto e patiens. Alla scoperta del soggetto iconografico che condensa in sé la natura umana e quella divina del Figlio di Dio.

croce 432 Uffizi
Perché il tema della croce dipinta e del suo mistero? Se mi si ponesse la domanda di quale espressione d'arte riflette più intensamente il senso del Mistero di Dio, non potrei che rispondere: una croce dipinta italiana del XII secolo. Ma un altro mistero soggiace al tema della croce dipinta ed è un mistero di carattere culturale: quali sono le ragioni che dettano il passaggio dell'iconografia del Cristo vivo e trionfante sulla croce a quella del Cristo morto e patiens sulla croce in Oriente e in Occidente. Il volto di Cristo della Croce 432 degli Uffizi, che si data intorno alla metà del XII secolo, di autore anonimo, a mio parere rappresenta una vetta assoluta nella storia dell'arte, nella sua apparente mancanza di espressione di dolore e nella sua evidente espressione di mestizia e di lontananza. Nella crocifissione che compare su un codice della Biblioteca Laurenziana di Firenze, detto codice di Ràbula, nome dell'autore delle miniature, probabilmente di origine siriaca, possiamo vedere una raffigurazione del tema già molto progredita nella densità degli elementi che la compongono: Cristo, i due ladroni, a sinistra la Vergine e san Giovanni, Stefanato e Longino (Longino è quello che raccoglie il sangue sgorgato dal costato di Cristo in un calice e lo porta a Mantova, infatti il calice del sangue di Cristo per tradizione è ancora conservato a Mantova e ivi venerato), i tre soldati che giocano sotto la croce e il gruppo delle pie donne sulla destra estrema.

È probabile che il codice sia di origine siriaca, in quanto la raffigurazione di Cristo e di tutti i personaggi che compongono la scena è molto realistica; ad esempio il Cristo veste una specie di gonnellone, il colobium di origine siriaca, porta la barba, diversamente dall'iconografia del Cristo di origine ellenistica che è imberbe. La cultura ellenistica è una cultura più estetizzante, quindi era più probabile che si raffigurasse un volto glabro, imberbe piuttosto che questo, realista, come è realista tutto quanto il cristianesimo di origine orientale. Il sole e la luna compaiono spesso nelle raffigurazioni della crocifissione e hanno una precisa allusione al Vangelo di Luca, che dice che «obscuratus est sol» nel momento della morte di Cristo, ma potrebbero anche stringere un nesso con certe iconografie più antiche, pagane, proprio di area siriaca, che accompagnano la raffigurazione di alcune divinità, come Serapide o Iupiter Heliopolitanus o Mitra, divinità legate al culto del sole, culto dal quale il cristianesimo recupera molti elementi, vedi il concetto di Cristo come Sol invictus.

Arte aniconica

Santa Maria Antiqua, crocifissione
Nei primi tre secoli l'arte cristiana è completamente aniconica, si basa unicamente su simbologie, e la croce poteva rappresentare, proprio per la sua forma, un simbolo. Con l'avvento di Costantino avviene il trionfo della croce, e Costantino aveva usato come vessillo della sua vittoria la croce stessa. Nel monogramma di Cristo comincia a comparire la croce con l'alfa e l'omega e il monogramma continua anche molto dopo l'epoca costantiniana. Intorno al 340 si colloca anche la leggenda del ritrovamento della vera croce operata dalla madre di Costantino, sant'Elena. Quindi la croce comincia il suo cammino trionfale, ma non un cammino iconografico perché la croce, specialmente la crocifissione col corpo di Cristo, tarderà molto a comparire nell'iconografia, in quanto la crocifissione è un supplizio pagano. Nel 340 il supplizio della croce viene abolito. La croce, come si vede nel grande mosaico absidale di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna del VI secolo, ha ancora una valenza simbolica. L'unico elemento che richiama Cristo è quel medaglione che sta al centro ma tutto il resto invece è ricondotto a pura geometrizzazione. Quali sono le ragioni? Qui cominciano a infittirsi i misteri collegati all'iconografia della croce, e bisogna sconfinare finché è possibile nel campo della storia della Chiesa, del cristianesimo e delle eresie a esso connesse. Una delle eresie più dure, che risale ai primi decenni del IV secolo è quella di Eutichio il quale negava la natura umana di Cristo, lasciando in vita unicamente quella divina. In tal senso tutto ciò che potesse essere rappresentazione corporea di Dio veniva negato. Si mette ordine nel problema piuttosto tardi, nel 692, quando a Costantinopoli si tiene un Concilio detto "in Trullo" nel quale un comma, l'undicesimo, esprime chiaramente il problema: «È il pittore che deve prenderci per mano e condurci alla memoria di Gesù vivente in carne e ossa, che muore per la nostra salvezza e conquista con la passione la redenzione del mondo». Quindi finalmente si poteva lasciare assoluto spazio alla figurazione anche di Cristo in croce; ma a quali condizioni? A condizione che fosse rispettata la sua sopravvivenza trionfale oltre la morte e anche a questo punto il problema, il mistero, si infittisce e molti hanno cercato di capire perché Cristo è trionfante, non bastando le scritture soltanto a giustificare la vita di Cristo in croce, da morto. Nello straordinario affresco di Santa Maria Antiqua a Roma, dell'VIII secolo, Cristo è vivo, inespressivo, non venato da alcuna traccia di dolore sul volto, con gli occhi aperti e incantati, trionfante per la sua solenne calma oltre la morte. È probabile che la spiegazione di Cristo oltre la morte si ritrovi nella risposta alla teoria eutichiana che venne promulgata durante il Concilio di Calcedonia, nel V secolo, nel quale si affermò che nell'unica persona di Cristo erano compresenti la natura divina e la natura umana. La compresenza di queste due nature doveva superare il problema del dolore di Cristo morto e anche superare, in forma onnicomprensiva e sintetica, il concetto della passione.

Movimento iconoclasta

L'iconografia di Cristo vivo in croce, trionfante, dura in Oriente fino all'XI secolo, in Occidente fino ai primi due decenni del XII secolo. L'affresco di Santa Maria Antiqua probabilmente appartiene a un anonimo maestro costantinopolitano, lo si data di solito verso la fine dell'VIII secolo, perché a Roma potevano confluire maestri di area orientale in quel momento, per una ragione storica molto semplice, storicamente individuabile, ed è costituita dal grande movimento iconoclasta che si colloca fra il 730 e l'840 all'incirca, che aveva dato vita a una vera e propria guerra di religione, contro tutto ciò che potesse essere immagine del Redentore. Da che cosa nasceva questo movimento iconoclasta, appoggiato fondamentalmente dal Basileo e da gli ambienti intellettuali che si muovevano intorno alla corte? Dal fatto che il realismo di una certa pittura popolare era considerato peccaminoso. Nacque, il movimento iconoclasta, da un giudizio morale che immediatamente si convertì in un giudizio culturale di portata inaudita; fu una rivoluzione che portò a eccidi. Alle origini del movimento iconoclasta ci fu un'influenza islamica. L'arte islamica è aniconica, è pura decorazione; ma furono proprio la base di elementi popolari e gli ambienti monastici, ancora una volta dell'Oriente cristiano, a conservare e custodire una iconografia sacra realistica, perché gli ambienti popolari volevano una immagine davanti a sé, non un'idea.

Mentre in Occidente la raffigurazione di Cristo vivo in croce perdura fino al XIII secolo, quanto invece accade in Oriente due secoli prima è ancora avvolto dal mistero. Per quale ragione nei primi due decenni del Mille, intorno al 1020, compare un codice, miniato nel monastero di Stoudios a Costantinopoli, in una delle cui miniature Cristo viene raffigurato in croce morto? Per quale ragione nel mosaico, stupefacente, di Dafnì, Cristo ha reclinato il capo, il suo corpo si è arcuato, ha perso la fermezza, il tipo di ieraticità, di fissità come invece era fino a quel momento, e il capo si appoggia sulla spalla? Perché gli occhi sono quasi completamente chiusi e Cristo è morto - benché non sia una morte totalmente corporale e assomigli molto di più a un sonno, è una morte quasi disincarnata, è più un abbandono di una vita terrena che una morte -, gli occhi sono chiusi e qualcosa di nuovo è accaduto nel frattempo? Fra le miriadi di ipotesi che si sono susseguite negli studi moderni, e contemporanei, ce n'è una che è da considerarsi la più attendibile. Proprio nel monastero di Stoudios, verso la fine del X secolo un monaco, filosofo, Nichetas Sthetatos aveva cercato di mettere ordine in questo problema, tremendo anche nei suoi risvolti figurativi, artistici ed espressivi: come giustificare che Dio potesse morire in croce, una morte corporalmente diversa da quella dei due ladroni e mantenere intatta la sua divinità pur da morto. Ed era arrivato a questa soluzione teologica: morì, sì, in croce, il suo corpo morì, ma lo Spirito Santo rimase in lui, quasi a sua custodia, sì che pur morto viveva nello Spirito. Ciò toglieva ormai tutti gli ostacoli alla rappresentazione di Cristo morto e il fedele poteva ancora continuare a confidare nella vita di Dio. Ma perché potesse il fedele essere ancora più certo che in un corpo morto, nel corpo morto di Cristo, la vita ancora proseguisse, venne raffigurato per la prima volta il fiotto di sangue che sgorga dal costato.

Vivo e trionfante

Croce di Rosano
Il grande crocefisso di avorio che proveniva in origine dalla cattedrale di Leon, ora conservato nel Museo Archeologico di Madrid, la croce di Ferdinando I di Castiglia del 1160, dimostra come la tradizione iconografica del Cristo vivo in croce non solo dura, ma anche si diffonde in ambiente latino, in Spagna e specialmente in Italia. Cristo ha un'aria quasi spettrale dovuta al fatto che i grandi occhi spalancati, perché è vivo e trionfante, sono di porcellana, porcellana azzurra, quindi tutto quanto cerca di puntare sul tema della sospensione pur essendo straordinariamente concreto nella sua forza d'urto.
Il fenomeno della fioritura delle croci dipinte è italiano, ma non si sa se la prima croce dipinta fosse italiana. La cosa strana e curiosa è che, comunque, dopo Dafnì, dopo il pensiero che si esprime nel monastero di Stoudios, dopo Nichetas Sthetatos, dopo che Cristo muore o comunque si abbandona in qualcosa di molto simile alla morte in Oriente, in Occidente - che dovrebbe essere così aggiornato culturalmente - Cristo continua a trionfare fino agli inizi del 1200.
In un'altra delle straordinarie croci dipinte italiane, quella di Rosano, conservata agli Uffizi, la croce è mozza nel capocroce, ma è completa in tutti gli altri elementi e cominciano a comparire intorno alla figura di Cristo anche i tabelloni che di solito illustrano in dettaglio tutti i momenti della passione di Cristo, ma Cristo è vivo.
È piuttosto sconvolgente il particolare del volto. Certo l'influenza bizantina è ancora molto forte, ma questa influenza bizantina si deve adattare, entrare nel vivo di una forza di concretezza di immagine che è italiana; ed è vero che Cristo è raffigurato quasi impassibile, non colpito e non espressivamente segnato dal dolore, ma è anche evidente che in questo sguardo così incantato c'è un senso di lontananza, di tristezza, di mestizia che ha come bisogno di espandersi e di trovare una forma nuova per esprimersi e diventare sempre più vero, lasciare la sua condizione totemica che, nella sua inafferrabilità è insufficiente ad appagare anche la pietas di chi vuole invece essere sempre più vicino alla figura di Cristo.
La croce di Pisa mantiene ancora la struttura con i tabelloni ai fianchi di Cristo, che in qualche modo sono il segno di una tradizione antica; inoltre c'è come un eccesso di linearismo: Cristo non è più con gli occhi spalancati, non è più vivo ma è morto, ma questa morte, a ben guardare, ha ancora i caratteri del Cristo morto di Dafnì, il che fa supporre - per la tripartizione della chioma, l'eccesso di linearismo, con cui viene segnata la curva del naso, le palpebre, ma soprattutto l'abbandono incorporeo, quasi lievitante, quasi sognante -, che l'autore è orientale. È certamente la prima croce di area italiana nella quale Cristo muore. E allora è da pensare che l'autore fosse già soggetto a quel fatto assolutamente rivoluzionario nella cultura europea, che rappresenta la ragione certa della svolta di proporzioni colossali, soprattutto di una svolta senza confini che portò anche come riflesso figurativo la morte di Cristo in croce? Questo fatto non è altro che l'avvento di san Francesco e del suo pensiero, della sua predicazione.

L'avvento di San Francesco.

Giunta Pisano, Crocifissione, San Domenico
La meravigliosa croce di Giunta Pisano, databile poco dopo il 1220, oggi si trova nella chiesa di San Domenico a Bologna. Cosa è successo? Quanto è lontano questo volto di Cristo - oramai affondato dalla sofferenza, assolutamente morto, senza ombra di esitazione, e così capace anche di coinvolgere lo spettatore, il devoto, di portarlo con sé - dalla croce di Dafnì. È qualcosa di dirompente quello che è accaduto. Perché nel pensiero e nella predicazione di san Francesco l'identificazione con Cristo morto è diventata uno dei cardini così di tutta quanta la sua spiritualità, così della pietà, e da ciò ne è scaturito tutto quanto ne è conseguito poi sul piano figurativo. Non c'è nulla di più efficace, di più eloquente, utile, a spiegare cos'è accaduto, delle parole di Jacopone da Todi, che in clima francescano a un certo punto canta: «Voglio me stesso renegare e la croce voglio portare». Quasi in un crescendo di dolore terreno Giunta dipinge intorno a quegli anni anche la croce di Santa Maria degli Angeli ad Assisi. Si è abbandonata la linearità ascensionale, tutto quanto è diventato come più concreto, perché il cammino poi continua per quello a cui in fondo si doveva arrivare e si arriverà soltanto con Giotto: portare fino all'estremo della sua verità l'umanizzazione del sacro e quindi anche della figura di Cristo.
La croce dipinta di Coppo di Marcovaldo, nel museo di San Gimignano, è del 1274. Certe resistenze antiche permangono, vedi appunto ancora l'illustrazione episodica dei tabelloni, con le storie di Cristo, e poi l'alleggerimento della figura del Cristo morto che in qualche modo richiama al fatto, alla possibilità di lasciarlo come parzialmente, impalpabilmente in vita. Quanto c'è di nuovo in un pittore come Coppo di Marcovaldo è da attribuirsi a un suo immediato predecessore benché più giovane di lui, che aveva effettivamente fatto un passo anche ulteriore rispetto a Giunta: Cimabue. Allora c'è qualcosa di nuovo, innanzitutto c'è un alleggerimento di certe parti, però non da intendersi come retroattivo, come una volontà di tornare al passato, nell'impalpabilità della figura, ma invece è da intendersi come una volontà faticosa di arrivare a quella umanizzazione del sacro per cui Cristo potesse essere sempre più vero e il Mistero sempre più incarnato. Per arrivare a questo ci vuole un'altra rivoluzione: consimile a quella di san Francesco anche se proiettata su un altro piano. Proprio in funzione della umanità dichiarata di Cristo, nella sua morte (ma questa volta è una morte fisica, umana fino in fondo e come tale può essere anche attraversata da un fremito di vita, perché nel crocefisso del Tempio Malatestiano Cristo è morto ma è umano e divino), mai ci si è totalmente spinti in una corsa verso la modernità, e la sua concentrazione di umano e divino è definitivamente decretata.

Marco Bona Castellotti

E per terminare questo articolo, mostrando come l'iconografia è sempre viva e un'immagine può evolversi nella storia avendo come saldi punti di riferimento la dottrina cristiana ecco una croce realizzata dall'artista Rodolfo Papa che segna una novità: Cristo è morto ma è come se fosse già in gloria, risorto in quanto stagliato su un cielo luminoso.


martedì 10 gennaio 2012

Cataloghi dal Guggenheim

Sul sito del Guggenheim di NY è possibile sfogliare tantissimi cataloghi della loro biblioteca gratis; direttamente dagli archivi è possibile leggere e ricercare molti testi di mostre, anche datate, e, accedendo a quest'altro sito, archive.org, è possibile anche scaricarli.

domenica 8 gennaio 2012

Società liquida, sistemi rigidi e necessità d'identità

R. Papa, Theophania, 2005 coll. priv.
Su engrammi avevo iniziato a raccogliere gli articoli del prof. Rodolfo Papa da Zenit, "Riflessioni sull'arte"; ora è nato il blog personale che raccoglie tutti questi contributi e pertanto vorrei segnalarlo caldamente aii lettori poichè queste osservazioni sono un interessante contributo alla lettura della situazione odierna dell'arte proponendo una visione controcorrente al "sistema" che mi sento pienamente di appoggiare. Vi lascio col link del sito http://rodolfopapa.blogspot.com/ e con l'ultimo testo uscito su zenit.

SOCIETÀ LIQUIDA, SISTEMI RIGIDI E NECESSITÀ D’IDENTITÀ (III PARTE)

di Rodolfo Papa

ROMA, lunedì, 5 settembre 2011 (ZENIT.org).- Nelle due parti precedenti di questo articolo, abbiamo sottolineato che i complessi rivolgimenti occorsi negli ultimi centocinquanta anni non hanno avuto l’esito finale di esprimere un nuovo sistema filosofico e/o un nuovo sistema artistico, ma di fatto hanno condotto ad un totale assorbimento nel mercato. Il mercato si presenta ormai come l’unico criterio ontologico per identificare le arti.

La proposta di cambiamento all’origine della modernità, che nasceva come soluzione elitaria e rivoluzionaria, autoassegnandosi il compito di cambiare il mondo, ebbe il progetto di pensare un sistema di valori alternativo a quello tradizionale ma, essendo sintomo non già di una spinta propulsiva feconda, quanto piuttosto di un disagio e di una decadenza in atto, finì di fatto con l’asservimento globale alle regole del mercato. Tutto è divenuto prodotto di consumo. Oggi non è neanche più significativo se tale consumo sia “di massa”, perché è il marketing a stabilire la fetta di mercato in cui collocare il prodotto, di qualunque tipo esso sia: cibo, divertimento, vacanze, musica, letteratura, pittura, filosofia, politica o religione. Il mercato viene definito come la massima espressione della democrazia. Quindi non esistono più cittadini, cultori di una disciplina, fedeli, studenti o professori: ma solo consumatori. Tutto viene realizzato in nome del profitto e con le regole del profitto. L’eventuale mercato culturale, letterario o artistico, è determinato non da principî morali, etici o estetici, ma più banalmente dal marketing. Tutto deve essere appetibile per essere consumato; deve essere “sexy” per essere desiderato. Ormai raramente si vedono progetti ad ampio respiro, monumenti che richiedono decenni per essere realizzati, in quanto tutto deve rispondere alle tre regole fondamentali del consumismo: Easy, Fast and Pop. Tutto deve essere facile, non complicato, velocemente consumabile, e, soprattutto, non deve mai porre problemi al “consumatore”, non deve porlo di fronte ad una scelta o ad un tempo per pensare, tutto deve rimanere incolto, volgare, “popolare”, nel senso che il “consumatore” non deve mai pensare, altrimenti recupererebbe una coscienza individuale. Ogni aspetto propriamente “culturale” o “impegnato” viene anch’esso proposto all’insegna dell’estrema leggerezza, del divertimento e del consumo; tutto viene offerto entro il format del festival: musica, letteratura, filosofia, politica, arte, teologia …

La cornice globale è quella della “tolleranza”, perché il mercato non può ammettere intolleranze, tutto deve essere consumato anche se immorale o dannoso alla salute; il mercato vende i prodotti, insieme agli antidoti per renderli tollerabili. Tale condizione serve per mantenere lo stato di fatto in una illusione di ordine apparente, ma nel frattempo sta pericolosamente mostrando in tutto l’Occidente segni preoccupanti di intolleranza o di tradizionalismi etnici, politici e/o religiosi di vario segno e di varia natura. Il vero volto di questa situazione è la “dittatura del relativismo”, come Benedetto XVI denuncia da tempo. La forzata impossibilità di uscire dalla condizione post-moderna, come se in definitiva fosse il vero ed ultimo esito degli ultimi due secoli di rivoluzioni, sta impedendo la naturale tendenza dell’uomo a mettere in ordine il mondo che lo circonda, superando il caos. Questa necessità che è spirituale, e poi psicologica e solo successivamente politica, si sta manifestando in maniera confusa e distonica, da molte parti e con molti aspetti a volte anche inquietanti. Tanto disagio e tanta sofferenza sono realmente tangibili nel mondo che chiamiamo economicamente e tecnologicamente sviluppato.

C’è una necessità definitoria nell’uomo che va oltre la contingenza fluida e impalpabile del mondo presente. Anche se la società contemporanea, secondo la ormai affermata terminologia del sociologo Zygmut Bauman, è una “società liquida”, “neotribale”, dove la consistenza degli «sforzi di autocostruzione, e l’inevitabile inconcludenza e frustrazione di questi sforzi conducono al loro smantellamento e rimpiazzo»[1], ciononostante si fa largo in controtendenza una necessità di definire dei termini sui quali poggiare le scelte individuali e quindi il senso dell’agire e del fare, ed anche del fare artistico. Anche se tutto della realtà che ci circonda sembra mostrare che è impossibile affermare la certezza di una verità, in realtà sappiamo che senza una minima azione di giudizio, senza la condivisione di verità anche minime, è impossibile fare, commissionare e fruire arte.

Del resto, lo stesso Bauman, precisa che la condizione neo-tribale non significa che non esista una tensione verso l’autocostruzione, ma il fatto stesso che tale tensione venga costantemente frustrata dal fallimento e dalla dissolvenza delle tribù nel giro anche di pochi anni, nel tempo di una moda stagionale, non significa che questa tensione non ci sia. A mio avviso, significa in realtà che l’insopprimibile sete d’infinito che l’uomo porta con sé, ha necessità di trovare un approdo. Però l’approdo viene ostacolato dalla “intolleranza”, imposta dalla “dittatura del relativismo”, nei confronti della “necessità definitoria”. Siamo di fatto ben coscienti che proporre soluzioni e affermare valori è intollerabile per la struttura contemporanea delle coscienze individuali. Appare ancora attuale quanto scriveva Hans Jonas nel Il principio responsabilità nel 1979, sebbene allora il mondo fosse geo-politicamente diverso, perché si confrontava ancora con i blocchi contrapposti demarcati dal muro di Berlino; Jonas affermava che si può reagire all’utopia del progresso tecnologista materialista, contrapponendo al principio speranza, non il principio paura, ma il principio responsabilità, in quanto « lo spirito della responsabilità respinge il verdetto precipitoso dell’inevitabilità e a maggior ragione rifiuta che venga sancito dalla volontà come conseguenza di quella supposta inevitabilità, poiché intende porsi dalla parte della storia. (La storia poi potrà mostrarsi anche troppo disponibile a schierarsi a favore di una resa di quello spirito, a meno che non preferisca offrire una delle sue sorprese)»[2].

Per fondare un vero principio di responsabilità è necessario conoscere e definire, superare cioè l’indistinta confusione dei termini e organizzare un ordine capace di contenere un corretta visione della natura e di conseguenza la capacità di sviluppare un giusto e sano umanesimo. Occorre evitare di cadere negli opposti eccessi, come ammonisce Benedetto XVI: «né cadere in una superbia che disprezza l’uomo e non costruisce in realtà nulla, ma piuttosto distrugge, né abbandonarsi alla rassegnazione che impedisce di lasciarsi guidare dall’amore e così servire l’uomo»[3].

Ci sono domande di fondo che vanno poste e per le quali si devono cercare risposte chiare ed esaustive. Se vogliamo ridare slancio alla cultura, se vogliamo dare nuova vita all’arte per poi muovere verso una più proficua azione per far rinascere il sentimento giusto capace di promuovere veramente l’arte sacra nella cattolicità, allora occorre partire dalla consapevolezza della situazione contemporanea, evitando azioni revansciste o nostalgiche. Ce lo insegna la statica: quando un sistema rigido si inserisce in un sistema elastico, accade che il sistema elastico non riesca a tollerare le spinte del sistema rigido se sottoposto a sollecitazioni, e così si determina il crollo del manufatto. Ogni volta che inseriamo un sistema rigido in un contesto elastico o addirittura fluido come è il nostro, il risultato è quello di una intollerabilità che non produce alcun effetto se non quello di far sembrare ridicola e anacronistica la soluzione. C’è necessità, invece, di promuovere un movimento che scuota le coscienze e le indirizzi rapidamente ad una azione di preparazione culturale alla rinascita, una sorta di preparazione al parto. Tutto deve essere in movimento, ma con la finalità di costruire un preambolo –un addensamento- capace di accogliere in seguito i primi vagiti di soluzione ai problemi posti dalla nostra attuale condizione.

Potremmo quindi dire, che per proporre una narrazione vera[4] dell’arte e della sua storia, prima di tutto occorre individuare dei preambula narrationis, e dopo, soltanto dopo, si potrà snodare la vera e propria narratio historiae dell’arte sacra, in cui si mostrano i principî proposti dal Magistero della Chiesa e gli exempla offerti dalla tradizione. La riflessione sulla contemporaneità impone la scelta non di soluzioni definitive, rigide e quindi automaticamente inaccettabili, ma piuttosto di un percorso, di un movimento finalizzato, l’individuazione di principî forti attorno ai quali far coagulare gli interessi degli artisti e dei committenti -che negli ultimi decenni sono stati abbagliati solo da soluzioni facili e poco concrete, affascinati dalla notorietà di nomi, legata non ad effettive qualità e valori, ma solo al mercato-. In modo particolare, la questione dell’arte sacra non può essere risolta con il reclutamento di stars e starlette dell’ultima moda consumistica contemporanea, e neanche con lo scimmiottamento di sistemi d’arte, che nulla hanno in comune con il sentire cattolico, con Magistero e con il catechismo della Chiesa.

La scelta di produrre una vera e proficua analisi, capace di rintracciare e promuovere i principî fondativi e peculiari dell’arte sacra cattolica, non è dettata solamente dalla opportunità di scientificità e di correttezza, ma anche e soprattutto dalla necessità di operare una distinzione all’interno del campo artistico, al fine di giungere alla scoperta di principî originari propri dell’arte cristiana. Come insegna Benedetto XVI, ci sono valori non negoziabili che sono l’identità del cristiano. Anche nel campo dell’arte, esistono principî regolatori non negoziabili, che se messi di nuovo in circolo offrirebbero la possibilità di muovere verso, di portare a; si avrebbe la possibilità di reintrodurre il lievito nella farina per far fermentare l’intera pasta, per infornare a tempo opportuno un pane “tanto antico, quanto nuovo”.

1 Zygmunt Bauman, Modernità e ambivalenza, Torino 2010, pp. 275-6.

2 Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009, pag. 284.

3 Benedetto XVI, Lettera Enciclica Deus Caritas est, Citta del Vaticano 2006, II, 36.

4 La questione del rapporto tra narrazione storica e principî critici è una delle maggiori questioni storiografiche che ha impegnato ed impegna gli storici e i filosofi dell’arte da Heinrich Wölfflin fin ad Arthur Coleman Danto nei nostri giorni.

sabato 7 gennaio 2012

Milo-project

Un nuovo street artist francese, Milo Project, che gioca col contesto urbano e con l'inserimento di elementi surreali nel contesto cittadino, seguendo una pratica ormai acclarata nel mondo della street art contemporanea. Interessanti progetti tipo quello sulle frecce, su interruttori aleatori o sul manichino appeso che sa molto di Cattelan.




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