venerdì 29 luglio 2011

Bollettino di guerra

Il ritrovamento della montagna sacra a Soriano del Cimino è esemplare: dove sono le risorse? - E domani sciopero generale del personale scientifico dei Beni culturali contro i tagli Orfini (Pd) e la Domus: «Dopo anni di commissariamento i lavori sono indietro» Idv e Colosseo Dito puntato contro la sponsorizzazione: contratto commerciale. L'emergenza archeologia sembra un piccolo Vietnam.. E il sottosegretario ai Beni culturali Francesco Giro conferma che la soprintendenza ai beni archeologi di Roma perderà 5 milioni di euro.



ROMA. Martedì 26luglio, Soriano del Cimino (Viterbo), una cooperativa di archeologhe porta alla luce una montagna sacra, vale a dire un luogo di culto del 1000 avanti Cristo: lo scavo è per lo più a loro spese. Mercoledì 27 luglio ore 9.30, una delegazione del Pd prende visione dello stato della Domus Aurea accompagnata da archeologi, restauratori, ingegneri e dal commissario Marchetti. Due ore dopo l'ldv davanti al Colosseo lancia un pesante j'accuse sulla sponsorizzazione di Della Valle per il restauro del grande anfiteatro; nel frattempo il sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Giro (Pdl) conferma: la soprintendenza ai beni archeologici di Roma perderà 5 milioni di euro, a favore del Polo Museale di Napoli oramai vicino alla bancarotta. Domani sciopero generale del personale scientifico del Ministero dei Beni Culturali contro il taglio delle missioni. Sembra un bollettino di guerra, invece è l'emergenza archeologia, piccolo Vietnam nel complesso della emergenza cultura divenuta negli ultimi anni una squallida normalità. I fatti delle ultime ore permettono di seguire l'intera filiera del disastro. La storia della Montagna sacra è esemplare: lavori finanziati nel 2009 quando la provincia di Viterbo era al centrosinistra, definanziati quando lo stesso ente è passato al centrodestra, ma continuati grazie al lavoro volontario degli archeologi della cooperativa Metris 96 in collaborazione con l'Università la Sapienza. Finito lo scavo si porrà il problema di trovare le risorse e le intelligenze per preservare un ritrovamento prezioso e raro. «Di casi del genere è piena l'Italia» -spiega Matteo Orfini, coordinatore del settore Cultura del Pd, mentre si avvia al sopralluogo della Domus Aurea celeberrima ma non per questo non in pericolo: chiusa dal 2006 per le infiltrazioni e i cedimenti, commissariata per urgenza di lavori nel 2007, dopo il crollo di una galleria lo scorso anno la reggia di Nerone sembrava destinata a un restauro pesantissimo con ascensori, musei pensili, pali di metallo infitti nelle mura. Dopo il grido d'allarme dei giorni scorsi del Pd sembra prevalere un'altra linea: prima di tutto i lavori di sbancamento e consolidamento dell'area: «Siamo orientati a creare una intercapedine che protegga la Domus dalle infiltrazioni d'acqua sostenuta non da pali, ma da sostegni di metallo -spiega l'ingegner strutturista Croci che segue il progetto-. . La soluzione sarà definita solo quando, tolta la terra che pesa sul tetto, avremo un quadro completo». Sempre perplesso il senatore del Pd Marcucci: «Abbiamo constatato che i problemi sono tantissimi e di non facile e rapida soluzione». Istigato dai giornalisti ci scherza sopra il commissario Marchetti: «Forse avete ragione, la Domus finita la vedranno i nostri nipoti». Per Orfini è motivo di tranquillità «che la situazione sia tornata saldamente nelle mani di archeologi, restauratori e ingegneri, piuttosto che in quelle della politica degli annunci». Tuttavia, conclude Orfini «dopo anni di commissariamento i lavori sono molto indietro e né il governo né il comune di Roma sembrano voler affrontare il problema con decisione». L'Idv sulla sponsorizzazione di Della Valle per il restauro del Colosseo va giù pesante: Massimo Donadi capogruppo alla camera e Giulia Rodano consigliere regionale promuovono una interrogazione parlamentare per sapere come sia stato assegnato questo contratto, mettono in dubbio che si tratti di sponsorizzazione e la definiscono un contratto commerciale con tutti i rischi di commercializzazione, si chiedono a chi andranno i servizi aggiuntivi -biglietteria, punto ristoro, ecc. E puntano il dito sul valore della sponsorizzazione: 25 milioni per il Colosseo? Pochissimi, e rilanciano la domanda alla Corte dei Conti. Osservazioni forse non nuove, che aprono a una ulteriore domanda: dopo vent'anni di litania sull'intervento dei privati possibile il Governo non abbia ancora gli strumenti per definire il valore di una sponsorizzazione? E ci sarà lo sciopero generale del personale tecnico scientifico del ministero? Vale a dire di archeologi, restauratori, architetti, ingegneri cui è affidato il controllo del nostro patrimonio, oramai impossibilitati a svolgerlo per il taglio dei finanziamenti alle missioni. Nella serata di ieri infuriavano le trattative tra il ministro Galan e i sindacati. Trattative aperte solo all'ultimo minuto, ennesimo, preclaro esempio della quotidiana emergenza archeologia.
Luca Del Fra
L'Unità 28/7/2011

lunedì 18 luglio 2011

Banksy? No, questa volta un vero vandalo - Imbrattato un Poussin

Non è un quadro della celebre personale di Banksy a Bristol, bensì l'opera di un uomo di 57 anni, con problemi psichici, che ha imbrattato con una bomboletta rossa il capolavoro di Poussin alla National Gallery di Londra: L'adorazione del vitello d'oro. (Fonte)

domenica 17 luglio 2011

Uno sguardo sull'architettura

Consiglio questo sito, Archiwatch, curato dal grande Giorgio Muratore, docente di storia dell'arte e dell'architettura presso la facoltà di architettura di Valle Giulia, studioso di fama internazionale e attento osservatore, specialmente in ambito romano, delle infinite brutture che ci riservano oggi le cosiddette archistar e  le famose "cricche". I suoi post sono intelligenti e sarcastiche riflessioni visuali sull'architettura oggi, e un occhio attento riesce a cogliere tutte le varie sottigliezze insite nei suoi apparenti giochi di parole. Dal sito, per esempio, sono arrivato a conoscenza di curiosi e grandiosi progetti di risistemazione urbana a Roma nei secoli passati (piazza Navona, Borgo, Pantheon)




e ho appreso l'esistenza di un progetto di riqualificazione urbana per Tor Bella Monaca di Leon Krier assolutamente fantastico. In tempi di esaltato esibizionismo (di materiali e visioni futuristiche ed antiumane dello spazio) apprendere dell'esistenza di architetti che lavorano ancora su città a misura d'uomo è confortante. Nel progetto di Krier, forse con troppe citazioni antiquarie, ciò che si vede è una visione etica e strutturata dei luoghi, una concezione rinascimentale dell'urbanistica, un piccolo miracolo di bellezza e struttura. Forse è solo un'utopia ma metterei la firma per vivere in un quartiere così.



e il confronto è spietato


giovedì 14 luglio 2011

Breve storia della galleria La Tartaruga


La Tartaruga è una galleria storica romana, fondamentale per lo sviluppo dell'arte italiana nel secondo dopoguerra; da qui sono passati tutti i più grandi artisti; qui gli italiani, ancor prima degli americani, avevano inventato la pop art e facevano concorrenza all'egemonia culturale di oltre oceano. Poi sono arrivati i dollari di Leo Castelli e l'arte come arma di conquista. Un articolo su Il Mondo degli archivi di Sonia Grossi e Nora Santarelli ne ripercorre la storia.

Recentemente la Soprintendenza archivistica ha acquistato per l’Archivio di Stato di Latina, dopo un lungo e complesso iter, l’archivio della Galleria d’arte La Tartaruga, di proprietà di Plinio De Martiis.
L’archivio della galleria d’arte “La Tartaruga” documenta con buona continuità dal 1954 (data di nascita) sino agli anni ’90 la storia dell’arte contemporanea e non solo. Testimonia soprattutto la cultura degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta romana e italiana: in particolare, ruotava intorno alla Tartaruga tutta “la dolce vita” di quegli anni.
La galleria fu un luogo determinante per il rinnovamento artistico dell’Italia del dopoguerra, rinnovamento che ebbe tra la metà degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta la sua punta più avanzata proprio a Roma. Fu infatti a Roma che una comunità di artisti, già attivi nei decenni precedenti, in singolare posizione di dissidenza rispetto alle correnti ufficiali, si confrontò con straordinaria originalità con le generazioni più giovani e con i loro percorsi spesso divergenti. Questo confronto anche conflittualmente dialettico ebbe luogo in buona parte negli spazi della galleria La Tartaruga.
Plinio De Martiis e sua moglie Ninnì Pirandello aprirono la Tartaruga nel febbraio del 1954, spinti e incoraggiati dagli amici che frequentavano in quegli anni: Mafai, Turcato, Scarpitta, Maccari, Leoncillo. Il nome stesso della galleria fu una scelta condivisa con quegli artisti: proposto da Mino Maccari, fu estratto a sorte tra altri bigliettini dal cappello di Mafai.
Nelle intenzioni di Plinio quel locale di via del Babuino 196 doveva essere uno studio fotografico, poiché questa era la sua professione[1]. Divenne invece il luogo di ritrovo di artisti, poeti, letterati, critici, giornalisti, attori, registi, musicisti, collezionisti, galleristi e intellettuali di tutto il mondo, vale a dire di quanti hanno contribuito alla circolazione delle idee d’avanguardia a Roma.
Ad inaugurare la galleria fu una mostra di litografie di Daumier, alla quale seguirono numerose altre esposizioni di artisti affermati e di giovani emergenti, italiani e stranieri, tanto che, appena quattro anni dopo, allo scadere del decennio, la Tartaruga era in grado di contrassegnare, con l’instancabile impegno e la tenacia della sua attività, il panorama culturale di quelli che Plinio definì “gli anni originali”[2].
Dopo le mostre di Scarpitta nel 1955, dei Sette pittori romani nel 1956 con, tra gli altri, Dorazio, Perilli e Novelli, e quella di Afro, Burri e Scialoja, vennero nel 1957 gli esordi più memorabili, con le personali a Roma di Appel e Marca-Relli[3], di Asjer Jorn e Wols nel 1958 e, sempre in quello stesso anno, oltre alla collettiva Afro Capogrossi Consagra De Kooning Kline Marca-Relli Matta, le prime personali in Europa di Franz Kline e Cy Twombly.
Seguirono, l’anno dopo, la personale di Rauschenberg, la collettiva Giovane pittura di Roma con, tra gli altri, Rotella, Bignardi, Perilli, Novelli, Accardi, Sanfilippo e Scarpitta, la mostra Kline Rothko Scarpitta Twombly e, in collaborazione con la Galerie Aujourd’hui di Bruxelles, la mostra Novelli, Perilli, Twombly.
La Tartaruga è stata dunque la prima a presentare a Roma all’inizio del nuovo decennio l’arte americana, ma anche la migliore avanguardia italiana ed europea e, soprattutto, a creare una serie di legami e collaborazioni importanti con altre gallerie[4], musei, curatori e promotori d’arte contemporanea nel mondo, stabilendo percorsi preferenziali soprattutto con New York, grazie a Leo Castelli, ma anche con la Francia, l’Olanda e la Germania[5].
Il nuovo decennio si aprì all’insegna del “clima felice degli anni Sessanta” e la galleria si trasferì a piazza del Popolo[6] dove prese piede quel gruppo di giovani artisti, in seguito fu definito “ scuola di piazza del Popolo”.
All’esordio di Kounellis e alla prima personale a Roma di Brüning nel 1960, seguirono l’esordio di Schifano, quello di Giosetta Fioroni a Roma e la mostra di Castellani e Manzoni nel 1961.
Nel 1962 fu la volta della mostra collettiva La materia a Roma con Festa, Angeli e Schifano accanto a Burri e Rotella, nel 1963 quella dei 13 pittori a Roma con, tra gli altri, Mambor, Mauri e Tacchi, e la personale di Baruchello. Nel 1964, dopo la mostra Otto giovani pittori romani che presentò, tra gli altri, Lombardo, fu la volta di Ceroli, Rotella e Warhol, mentre nel 1966 venne inaugurata la prima personale in Italia di Richter, alla quale seguì la mostra collettiva Lichtenstein Raus. Seguirono l’esordio di Mattiacci nel 1967, mentre nel 1968 la personale di Warhol e Twombly precedette l’inaugurazione del Teatro delle mostre, ciclo di mostre giornaliere  inaugurato da Giosetta Fioroni, che trasformò la galleria in un laboratorio permanente. Un’occasione di incontro quotidiano fra gli artisti e il pubblico nello spirito di un diverso modello di esposizione e di rapporto con l’opera, a fronte della qualità più accentuatamente effimera che andava assumendo la produzione artistica di quegli anni.
Chiusero il decennio nel 1969 le mostre di Paolini e la selezione, intitolata Archivio, delle foto realizzate da Plinio, con la sua Rolleicord 6x6, dei protagonisti che avevano partecipato ai primi 15 anni di vita della Tartaruga,
Negli anni Settanta, dopo la scomparsa di Ninnì e le mostre del primo biennio[7], seguì una pausa di due anni (1972-1973). Quando la galleria riprese l’attività, concesse spazio soprattutto al teatro, al cinema, alla musica e alla poesia visiva[8].
Nel 1978, infine, con l’esordio di Piruca  la Tartaruga aprì la sua ultima grande stagione raccogliendo intorno a sé il gruppo dei “sei pittori” colti, poi definiti “Anacronisti” (Piruca, Abate, Di Stasio, Marrone, Panarello, Pizzi Cannella), ai quali si aggiunsero Ligas, Bulzatti e Gandolfi.
L’attività di Plinio, però, non terminò con la chiusura della galleria nel 1984, dopo le due retrospettive sulla “Scuola Romana” e sulla “Scuola di Piazza del Popolo” dell’anno prima. Proseguì, infatti, sul piano editoriale, con la pubblicazione di una nuova serie di Quaderni della Tartaruga[9], dal 1986 al 1993[10]. Si tratta di quaderni d’arte e letteratura, ispirati nel taglio editoriale e nel formato a “L’Italiano” di Longanesi, stampati una o due volte l’anno da De Luca Editore, con cui Plinio collaborava fin dagli anni storici.
L’attività editoriale è stata, infatti, per Plinio una costante parallela a quella espositiva, con i primi “Bollettini della Tartaruga” nel 1954, alcune monografie a tiratura limitata (Scarpitta nel 1958, Scialoja nel 1959 e Twombly nel 1961), i cataloghi, le locandine, i manifesti, gli inviti e l’intera produzione di quel vasto corpus di materiali tipografici che tanto amava e che oggi costituisce una parte importante dell’archivio cartaceo della Tartaruga.
Accanto all’attività tipografica, Plinio ha infine continuato a curare mostre in varie sedi e a promuovere i giovani artisti. Ha collaborato con la Galleria Netta Vespignani[11], dove ha presentato Promemoria nel 1989, Millenovecentosessanta nel 1990, Archivio. Fotografie di Plinio De Martiis nel 1993 e Per il clima felice degli anni Sessanta nel 1998, mostra, questa, già presentata a Castelluccio di Pienza, nuova sede espositiva della Tartaruga che Plinio inaugurò nel 1995 con Gli anni originali. Tra le altre collaborazioni importanti ricordiamo quella con la Galleria Niccoli di Parma per la mostra L’arte Pop in Italia nel 2000.
Nel 2003, infine, oltre alla mostra all’Istituto Nazionale per la Grafica inaugurata in occasione dell’acquisizione da parte della Calcografia dei cartelli della Tartaruga[12], tre importanti esposizioni resero omaggio a Plinio fotografo, Americani a Roma[13] allo Spazio Fendi, Piazza del Popolo e Premio Michetti in occasione del quale Duccio Trombadori, presidente di giuria, assegnò a Plinio de Martiis il premio alla carriera.
Già nel 1999 Plinio De Martiis aveva proposto l’acquisto del suo archivio all’Istituto della Grafica - Calcografia Nazionale, nonostante le richieste pervenute da altre Istituzioni e Fondazioni internazionali di grande rilevanza, quali la Guggheneim di New York. L’archivio comprendeva i cartelli autografi realizzati dagli artisti e presentati alla Galleria, cartoni,  pastelli, oli di vari autori, nonché l’archivio fotografico, composto a sua volta di ca. 5.000 negativi e positivi, scattati e stampati dallo stesso Plinio De Martiis nei primi anni Cinquanta e Sessanta, soprattutto ad amici intellettuali letterati, poeti e artisti.
Ma la trattativa non andò in porto del tutto e l’Istituto della Grafica acquisì solo una parte dell’archivio e cioè i cartelli, anche perché come afferma De Martiis in una sua lettera alla direttrice di quell’Istituto dell’ottobre 2002 “sono impaurito dai tempi d’attesa per me non affrontabili”[14]. La pratica per l’acquisto dell’archivio della galleria passò quindi alla DARC (Direzione Generale per l’Arte Contemporanea). Ci furono appelli all’allora ministro per i Beni Culturali, Giovanna Meandri, per non smembrare e disperdere il ricchissimo archivio della Tartaruga costituito non solo da  fotografie e cartelli, ma anche da carteggi, cataloghi di mostre, bozzetti, manifesti, ecc.
In seguito nel 2001 la pratica approdò alla Direzione Generale per gli Archivi e di conseguenza alla Sovrintendenza archivistica per il Lazio che nell’agosto 2003 dichiarava tutto il complesso archivistico conservato da Plinio De Martiis di notevole interesse storico e riproponeva l’acquisto all’Amministrazione. La trattativa è andata avanti a lungo per vari motivi, tra cui le scarse risorse economiche da parte dell’Amministrazione e l’iter burocratico che l’acquisizione da parte dello Stato comporta.
Plinio De Martiis moriva nel luglio 2004 senza aver avuto il piacere di vedere acquistato il suo complesso archivistico dallo Stato, verso cui la sua sensibilità si era rivolta, desiderando rendere pubblico e fruibile il proprio patrimonio culturale e artistico.
Succedevano le eredi, Paola e Caterina. Soprattutto quest’ultima aveva collaborato col padre al riordinamento dell’archivio, che lo stesso Plinio, ancora in vita  aveva conservato e inventariato, con cura e metodo, nella sua bella casa di Vignoni in Val d’Orcia, coadiuvata  dalla d.ssa Sonia Grossi, storica dell’arte contemporanea, che ha redatto un inventario e un indice dell’archivio, utili strumenti di corredo per la ricerca.
Il complesso documentario è assai ricco e consistente, frutto dell’attività poliedrica di un intellettuale  tra i più rappresentativi del mondo dell’arte contemporanea.
L’archivio si compone di materiale cartaceo (documentario e bibliografico), includente corrispondenza con artisti, critici, storici d’arte, letterati; cataloghi, locandine, manifesti, brochures; materiale a stampa e pubblicazioni varie; materiale fotografico e audiovisivo (interviste, filmati) nonché  materiale grafico. Un complesso documentario che costituisce un ricchissimo e inestimabile patrimonio che rientra a pieno titolo tra gli archivi del Novecento meritevoli di essere tutelati e valorizzati.


[1] Fu fotoreporter di varie riviste e diversi giornali, tra cui “L’Unità” e “Il Mondo”. Prima di aprire la galleria fotografò numerose immagini della realtà sociale dell’Italia del dopoguerra; in seguito documentò, con una serie straordinaria di ritratti in bianco e nero, il fermento vivo del panorama artistico e culturale romano degli anni Cinquanta e Sessanta e dunque anche la storia della sua galleria.
[2] Questo il titolo della mostra dedicata agli anni Cinquanta, la prima inaugurata nel 1995 a Castelluccio di Pienza, sede delle ultime esposizioni curate da Plinio fino al 2000.
[3] Sempre nel 1957 la Tartaruga inaugurò anche la prima personale di Ettore Colla.
[4] Tra quelle italiane ricordiamo le gallerie Apollinaire, dell’Ariete, L’Attico, Blu, de’ Foscherari, Lambert, Marconi, il Naviglio e Schwarz.
[5] Non vanno dimenticati, però, anche i rapporti che la Tartaruga ebbe con, tra gli altri, le gallerie Iris Clert e la Gallerie Brateau di Parigi, Martha Jackoson e Sonnabend di New York, con il Palais des Beaux-Arts di Bruxelles, con Anne Abels a Colonia, con la Galerie Schmela, con lo Staatliche Kunsthalle di Baden Baden e molti altri.
[6] Le sedi della Tartaruga: via del Babuino 196 (1954-1963), piazza del Popolo 3 (1963-1970), via Principessa Clotilde 1/A (1970-1974), via Ripetta 22 (1974), via Pompeo Magno 6 (dic. 1974), via Pompeo Magno 6 /B (1975-1980), piazza Mignanelli 25 (1980-1984).
[7] Tra le altre ricordiamo quelle di Twombly, Festa, Castellani, Ceroli, Fioroni, Burri, Kounellis, Notargiacomo, Agnetti Ceroli.
[8] Tra le manifestazioni più importanti ricordiamo: Una favola di Alberto Boatto con musiche di Sylvano Bussotti e tavole di Giosetta Fioroni nel 1974; Smettete di giocare nella strada, azione scenica e pittorica di Aglioti e Perlini, il concerto di Mosconi, la collettiva Parlare e scrivere curata da Barilli, Camera 3, tre films in super8 di Barzini, Carini, Miscuglio, Corpus Scripsit, quattro giorni di poesia a cura di Nanni Cagnone e il concerto Nuove forme sonore nel 1975; nel 1977 i films di Barzini e Taylor Mead, e il Laboratorio di poesia”, curato da Elio Pagliarani e replicato nel 1978.
[9] Nel 1984 la Tartaruga, infatti, aveva già pubblicato tre Quaderni di cui due monografici, dedicati a Bulzatti (Quaderno n. 2, febbraio 1984) e Pirica (Quaderno n. 3, marzo 1984).
[10] Con una nuova sede in via Passeggiata di Ripetta 19 (1986-1988) e in via di S. Anna 18 (1988-1993).
[11] Tra le altre ricordiamo le mostre Promemoria nel 1989 e Millenovecentosessanta nel 1990.
[12] Raccolta di opere su carta (cm 50 x 60) realizzate con materiali e tecniche varie, che Plinio fece eseguire agli artisti in occasione delle loro mostre come “cartelli” segnaletici delle esposizioni e che venivano esposti in una bacheca all’ingresso della galleria, per circa una decina d’anni, tra il 1950 e il 1962. Tale prassi fu ripresa, in seguito, in occasione del Teatro delle mostre.
[13] Con la galleria di ritratti dei pittori americani: Twombly, Rauschenberg, De Kooning, Marca-Relli.
[14] Cfr. fascicolo. “La Tartaruga” presso l’archivio della Sovrintendenza del Lazio

mercoledì 13 luglio 2011

Astrattismo pop nucleare


Fukushima Roof Plant, 2011


I mostri dell'Aldrovandi

Homo Fanesius auritus
Gallus Indicus auritus tridactylus
Il bolognese Ulisse Aldrovandi (1522-1605), naturalista e botanico, è autore di uno dei testi più noti, in materia di mostri: la Monstrorum Historia, pubblicata postuma nel 1642. La versione che ci è giunta è però stata rimaneggiata da Bartolomeo Ambrosini (1588-1657), che ha aggiunto le proprie considerazioni e integrazioni con altri scritti. L'opera è caratterizzata da un certo rigore rispetto ai testi dell'epoca: non si trovano elementi magici, prevale l'esigenza di classificazione e di raccolta enciclopedica con una certa attenzione per l'osservazione naturale e l'illustrazione scientifica, anche se, quest'ultima non esce dagli schemi poco realistici del tempo. A Bologna Aldrovandi ha a disposizione un vero e proprio museo che raccoglieva all'incirca 11.000 esemplari di animali e vegetali, 7.000 piante secche e 8.000 disegni a colori. Nella sua classificazione dei mostri, Aldrovandi è interessato soprattutto alle cause della loro insorgenza che classifica in quattro tipi: per eccesso o per difetto di materia; per ibridazione tra animali di specie diverse; per l'influsso dell'immaginazione; per cause superiori e divine. Sulla prima causa lo scienziato non fa che riproporre le teorie degli antichi greci, in particolare Ippocrate e Aristotele: l'abbondanza o la scarsità di semenza durante il concepimento generano mostri per eccesso o per difetto. Seguendo Ippocrate, inoltre, spiega che anche le dimensioni della matrice - cioè l'utero - troppo larga o troppo stretta possono generare individui malformati, troppo grandi nel primo caso, o troppo piccoli e schiacciati nel secondo. Questo tipo di malformazioni, perciò, deriva da processi embriologici nei quali, per cause accidentali, la natura è impedita a svolgere il suo percorso. Da questo punto di vista i mostri sono dunque dei fenomeni perfettamente naturali. L'influenza di Aristotele si sente anche a proposito degli incroci tra diversi animali. Qui, tuttavia, Aldrovandi si mostra meno rigoroso del filosofo greco - che aveva limitato la possibilità di questi eventi - e descrive numerosi improbabili ibridi fantastici come il capriasino (incrocio di un caprone con un'asina), l'hippotaurus (cavalla e toro), il cicursus (capro e scrofa), l'equicervus (cervo e cavalla). Addirittura, per spiegare l'esistenza di alcune popolazioni mostruose come i cinocefali o altri popoli fantastici, viene ammessa l'ibridazione tra l'uomo e gli animali: capra e uomo, cane e donna e così via. 

Infans [..]^,
 cum promuscide, & capitibus animalium
Tra le cause naturali che portano alla formazione dei mostri si ritrova in Aldrovandi (come in Lemmio e Paré) la concezione del coito con la donna mestruata. Il tabù delle donne mestruate aveva origini antichissime e si ritrova in molte culture, tra cui quella ebraica e cristiana. Nelle sacre scritture la donna in quel periodo viene considerata come un essere immondo che deve essere isolata e necessita di riti di purificazione (Levitico). Un'altra causa dell'insorgenza dei mostri è individuata nel ruolo che avrebbe l'immaginazione della madre durante l'atto sessuale o durante la gravidanza. Anche in questo caso, vale la pena di ricordare che nella Bibbia (Genesi 30, 31-43) Giacobbe parla di alcune le pecore che avevano partorito agnelli striati perché negli abbeveratoi erano stati piantati dei rami a strisce. L'idea che le fantasie della madre potessero imprimere al feto forme mostruose è una credenza molto antica che si ritrova in tutte le epoche sino al tardo '700 e che sopravvive sino ai giorni nostri nelle credenze popolari dell'origine delle "voglie" dei neonati.

Le credenze degli antichi si risentono in modo evidente anche a proposito della quarta categoria di mostri, quelli dovuti a eventi miracolosi, astrologici e divini. Queste cause consentono ad Aldrovandi di spiegare i fatti più incredibili, come le uova d'oca che contenevano un'effigie umana con vipere al posto dei capelli, o con colli e teste d'oca. Questi eventi venivano per lo più interpretati come ammonimenti divini contro una vita empia.Tra le narrazioni fantastiche si ritrova quella dell'uccello manucodiata, che si riteneva privo di piedi e, perciò, perennemente in volo; la descrizione dell'unicorno e dei poteri anitivenefici della sua escrescenza; il ritrovamento nella campagna di Bologna di un dragone a due zampe (probabilmente un rettile gravemente malformato) i cui resti essiccati furono conservati nel museo.  Nelle illustrazioni di Aldrovandi - nello spirito dell'epoca - non c'è nessun realismo: le fonti dei disegni si basavano in gran parte sui fortunati libri degli antichi, perpetuandone l'iconografia fantasiosa.  In ogni caso, anche quando gli illustratori avevano a disposizione dagli esemplari del museo da riprodurre, si trattava di reperti per lo più essiccati e la filosofia che guidava le loro illustrazioni era quella di accentuare le somiglianze che intravedevano e non di riprodurre fedelmente l'esemplare. In questo modo, seguendo criteri artistici più che scientifici, prendevano forma i fantastici mostri quadrupedi con la testa di uccello, i draghi alati e via dicendo. 
Le raffigurazioni dei feti mostruosi, per esempio, sono indicative: i disegni raffiguravano il mostro come sarebbe stato se fosse diventato adulto, includendo così tutto il retroterra teorico, mitico e prodigioso dell'epoca. (Fonte).

Dall'ottimo blog BibliOdyssey una carrellata di incisioni in alta risoluzione di queste singolari figure.

Monstrum Marinum rudimenta habitus Episcopi referens
Monstrum tetrachiron alatum capite humano aurito

venerdì 8 luglio 2011

E' Leonardo?

Sono riuscito a trovare un'immagine decente e a colori dell'originale appena restaurato. Che dire, pur appoggiando ancora le considerazioni di Pedretti, la qualità appare molto elevata in particolare per la mano destra in scorcio, dai bellissimi passaggi chiaroscurali e per la sfera di vetro trasparente.

lunedì 4 luglio 2011

La svalutazione del critico d'arte

Riporto dei passi dall'articolo della critica ed estetologa Anita Tania Giuga (Italia, il paradiso perduto dell'arte) che, amaramente, raccontano la difficoltà di un mestiere che non trova riscontro nella realtà concreta e che può lasciar molti sospesi nell'incertezza di un futuro, nel tentativo di una sicurezza, tra l'amore per la materia e lo sconforto di un sistema chiuso ed autoreferenziale. La svalutazione dell'arte e la sua crisi passano anche attraverso questi meccanismi.

La svalutazione dello storico dell'arte

Ora, è anomalo, di un'anomalia tutta italiana, che si debba essere ricchi e di nobil casato per sviluppare una professione che, in teoria, possiederebbe tutti i requisiti per presentarsi fra le più ovvie da scegliere. Allorché, si manca di proposte e volontà politica, in un paese che celebra e ostenta un'eredità secolare di Beni architettonici e artistici, pari al 50% dell’intero patrimonio nazionale. Tuttavia, mentre lo storico dell'arte è una qualifica che può essere accertata e inserita, a livello concorsuale, nelle sovrintendenze, dopo la laurea canonica “tre più due” e un triennio di specializzazione in Storia dell’arte; il critico, al contrario, non esiste. Proprio così! Abbiamo studiato per un ruolo sociale inesistente, che obbliga chi può contare sulla sola professionalità, a scendere a compromesso sempre e comunque, svendendo competenze in cambio di visibilità. Questo vuole dire, in parole povere, redigere un intero catalogo per un celebre museo ed essere retribuiti poco più di quattrocento euro; rispondere alle richieste sempre più esigenti di una notissima responsabile di un’altrettanto conosciuta associazione culturale, per non raccogliere né compensi né ringraziamenti né opportunità di carriera e nemmeno copia del libro in cui è stato pubblicato il lungo intervento redatto dal professionista “anonimo”.
14133727_maxxi_new33
Chi scrive, raggiunto questo punto di confidenza è bene dichiararlo, è una ricercatrice indipendente che si è lasciata attrarre dall'arte come fosse il canto delle sirene. Fino da bambina, fino da quando ha memoria di avere compiuto un atto determinato e consapevole.
Mi dicono che l'arte, la cultura, la possibilità di declinare il tempo secondo piacere e passione, è assimilabile sempre più al fashion, quindi al potere d’acquisto che la ricchezza conferisce. Io ci sono riuscita. Almeno per dieci lunghi anni. Grazie alla famiglia, riluttante ma complice, e agli amici più cari, che sempre hanno creduto nelle mie doti intellettuali.
Certo è che l'avventura, il periplo attorno al promontorio dell’arte contemporanea si è dipanato in maniera romanzesca, per almeno tre motivi condivisi da molti: sono siciliana, provengo da un ambiente piccolo borghese, le mie risorse finanziarie sono tutt'altro che illimitate. Ogni giorno quelli come me hanno l'obbligo di domandarsi se producono contenuti accessibili a tutti. Ogni giorno quelli come me sono costretti a chiedersi se il decennale e poco documentabile investimento in cultura non sia stato una frode. Inutile, nonché dannoso, citare l'assenza di meritocrazia e di presente, badate bene, non di futuro. Io, però, avendo contravvenuto al comandamento dell’ubbidienza nei confronti del mio tutor, che mi voleva complice e artefice di cene piuttosto che brava teorica, dal 23 dicembre 2009 mi sono trovata costretta a portare avanti una personale battaglia, venata da una forma privatissima di resistenza passiva.

Meriti a parte
Tutto ciò, per mantenere aperto un iter universitario, che mi ha sorretto sino a dicembre 2010, permettendomi, grazie a una borsa di studio vinta per il summenzionato Dottorato di ricerca in Estetica e Pratica delle Arti (Università di Catania, XXIV ciclo, già soppresso), di continuare a dedicarmi alla punta più sperimentale del contemporaneo. Solo questa negletta vittoria ministeriale mi aveva consentito, infatti, di raddoppiare gli sforzi, oltre che incoraggiare una minima mobilità, benché dopo lunga malattia mi sia trovata privata del sussidio e sotto procedimento di esclusione dallo stesso Dottorato (procedimento che si è concluso il 13 maggio 2011 con un decreto di esclusione definitiva).
Riassumere i punti del disagio culturale che la mia generazione sta vivendo, come si può constatare, non è cosa semplice, né univoca. E soprattutto rischia di diventare un memoriale privo di interesse, se i numeri di quelli che si dedicano ancora alle discipline umanistiche non fosse pericolosamente elevato.
mart_rovereto_crisi_musei
Giacché, non sarà il corporativismo la soluzione, se mai in Italia fosse venuto meno. Ciò nondimeno, servirebbe l’abolizione di una forma compulsiva di ricorso alla parola e alla pratica dello stage e alla riconoscibilità coatta, non mi stanco di ripeterlo, come corvée: un servizio di fatica che i graduati dell’esercito della cultura assegnano ai soldati semplici. Gioverebbe un riordino e il recupero di un’idea di professionalità da inserire nella Pubblica amministrazione e nei poli museali, innovativa e veramente flessibile. Così, invece che fare scappare all’estero le nuove leve, ci si potrebbe risolvere ad ammettere che la cultura paga se solo fosse internazionale come il pistacchio di Bronte e la mozzarella di bufala! [...]

Il rischio hobby
Abbiamo lasciato che altri trasformassero il nostro futuro, dice sempre la mia amica, e non è possibile darle torto. Insomma, per potere dimostrare di essere critici d'arte non vi è un titolo, né un qualsivoglia tesserino che ne dimostri l’esercizio e l’autorità. Inoltre, il "sistema Italia” non investe né punto né poco in chi si propone di formarsi nei mestieri trasversali dell’arte, magari con un'apertura di credito restituibile al primo lavoro vero, come avviene nei paesi anglosassoni. Così, per resistere in questo mondo esplosodell'arte contemporanea è poi necessario scrivere e lavorare senza cachet e sine die, con l'unica speranza (esasperata ed esasperante) che la visibilità (questa parolaccia) torni in ingaggi e ruoli significativi, retribuiti a sufficienza per pagarsi da vivere. C’è del dolo e dell’incuria in tutto ciò… Dato che se non sussiste retribuzione non può nemmeno esserci lavoro, che per essere chiamato tale abbisogna di riferirsi a un indice retributivo, altrimenti la categoria di riferimento diviene più prossima al puro svago, all’hobby, all’aberrazione nel senso del tempo non certificabile e della sua ipoteca perenne in una qualche attività non proprio identificabile.
Vi sono due ulteriori punti focali. Ovvero, l'interesse che il mondo contemporaneo, sempre più autonomo nello scegliere, può avere nei confronti di un "personaggio" che si arroga il diritto di sapere operare una distinzione tra il grano e il loglio.
L’altro, non meno importante, è il tema della verità nell'arte; antico qualche migliaio d’anni, che la critica sfiora di continuo fino a farne una metafisica.
Più semplicemente, oggigiorno, il senso del nostro ruolo sta tutto nel Sistema dell’arte, e nella legittimazione di cui il sistema economico si serve per vendere meglio l’artista.

E il “Sistema” è chiuso nell’esercizio assiomatico e quasi massonico di lobbyes di potere, che premiano i
pac_Milano.pct
commensali e non le eccedenze esogamiche. Come avviene per gli ex MBA (Master in Business Administration) i quali hanno l’obbligo di assunzione verso altri MBA ex students. A dirla tutta, chi partecipa al banchetto possiede anche il tavolo: con diritto di prelazione sui fornitori.
Altro problema, lasciatemelo sostenere, ben più radicale, concerne la predetta formazione. La terribile impostura in termini professionali e didattici che questa stessa vituperata formazione alla critica d’arte comporta.
Il curatore ha, è vero, al contrario, un ruolo concreto e di ordine sostanziale: mette in piedi l'allestimento delle mostre seguendo un concetto. Il "giovane curatore" ha anche imparato le caratteristiche dei materiali, la forza del progetto, l'ambivalenza tra significante e significato e la utilizza, per rendere l’esposizione un organismo vivente (nel migliore dei casi). Non temo divagazioni insomma, e mi auguro di non risultare ridondante, quando cerco legittimazione, pur ammettendo le asperità di un linguaggio critico disancorato dalla realtà, e distante dal forse superato ruolo di saldatura fra intellettuali e gente comune, tanto da apparire ostico e autolesionista. Ma il problema esiste, che si voglia regolarizzare, o meno, una figura dalle troppe ombre, resta un dato: l'università, il D.A.M.S. capofila, ci forma come esperti, esattamente come si va dal dentista per farsi curare un dente e non da un rappresentante politico, e ci butta nel mare indistinto dell'invenzione di un mestiere, senza regole né albi.

Le qualità artistiche
Personalmente ho anche sperimentato con un discreto successo di virare alla volta del giornalismo culturale, tuttavia l'annoso dato della mancanza di "rispetto" economico per i lavori della penna resta. Così, quelli come me si dibattono imprigionati nella favola che chi si occupa d'arte, come diceva Croce, dovesse aver le terre...
Capire quel che si guarda è poi una mera questione di esercizio. Se l’artista imbroglia o c’è “del buono che dura”; se l'esaminato porta con sé qualcosa di più essenziale del giochino linguistico, che molti avventizi cavalcano, e di cui, scrivendo, sviluppo la storia e la poetica, le ragioni e la prassi, i processi e i cedimenti a un surplus estetico... Insomma, non so se sono utile né, meno che mai, necessaria; eppure, pur essendo sovra visibile, non esisto.

domenica 3 luglio 2011

Pedretti - E' errata l’attribuzione del «Salvator mundi»

Sono tempi di incredibili ritrovamenti che si cerca a tutti i costi di spacciare per veri; ne abbiamo segnalati molti su questo blog, dai tanti Caravaggio al Crocifisso di Michelangelo. Si ha come l'idea, di certo fondata, che si muovano interessi immani dietro queste operazioni pubblicitarie e di marketing che, da un giorno all'altro, fanno spuntare il capolavoro del maestro; si percepisce che dietro questa cortina di attribuzioni e avvalli della critica ci siano ben altri interessi. Tali "scoperte" non fanno, secondo me, che destabilizzare la percezione che si ha del mondo dell'arte che vive ancora della ricerca di capolavori mentre dovrebbe pensare a salvaguardare il nostro l'immenso patrimonio. Tali ritrovamenti, inoltre, perché di non eccelsa qualità paragonati agli autografi, non fanno che sminuire il lavoro dei maestri e alterano, al vasto pubblico, il giudizio. Prima di avvalli del genere bisogna star molto attenti, altrimenti si corre il rischio di promuovere non l'arte ma il capitale, come si legge in questa "simpatica" diatriba tra Maurizio Marini e Tomaso Montanari circa il "Marte" del Guercino esposto in una mostra a Castel Sant'Angelo. Per Montanari, che rifiuta l'autografia, il punto sarebbe che la Soprintendeza di Roma ha accolto in un museo pubblico l’esibizione di un quadro appartenente a un fondo di investimento privato affidando la responsabilità scientifica al presidente onorario di quel fondo (l'articolo su Il Fatto Quotidiano).
Circa invece il presunto Salvator Mundi, di seguito l'articolo di Carlo Pedretti, il massimo esperto mondiale di Leonardo, che sulle pagine dell'Osservatore Romano spiega l'assurdità dell'attribuzione.

Se Leonardo è una chimera

Il tema del Salvator mundi (veduta frontale a mezzo busto del Salvatore in atto benedicente e con la sfera del globo terrestre nell’altra mano) fu affrontato da Leonardo molto tardi nella sua carriera, intorno al 1515, forse in vista di una committenza francese o da parte del maresciallo Gian Giacomo Trivulzio che nel 1518 moriva ad Amboise in Francia dove un anno dopo sarebbe morto lo stesso Leonardo.Il «Salvator mundi» erroneamente attribuito a Leonardo Di questo non esistono documenti ma, a Windsor, solo due splendidi studi per la stola e per il braccio benedicente del Cristo, stile e tecnica (matita rossa su carta preoparata di rosso) riconoscibili in quelli di paesaggi e studi di figura databili dal 1511 al 1515 e oltre.
Nel 1650 Wenceslao Hollar, ben noto come l’incisore di molti dei disegni di Leonardo allora di proprietà di Lord Arundel, poi di Carlo i e oggi a Windsor, pubblicava come di Leonardo unSalvator mundi corrispondente nei particolari della veste e del braccio alzato ai disegni autografi di Leonardo. Fu quella incisione il punto di partenza di una complessa proliferazione di versioni di scuola a ogni livello di qualità, dalla più raffinata e seducente, alla più pedissequa e perfino spregevole.
È di questi giorni l’annuncio della scoperta di una nuova versione che una sofisticata operazione di marketing sta lanciando come un originale di Leonardo coll’asserito avallo di specialisti che avrebbero proposto di accogliere l’opera fra quelle autografe che saranno esposte nel prossimo autunno presso la National Gallery di Londra.
L’unica giustificazione di un riconoscimento di tale portata sarebbe la prova che una eventuale spettrografia e altre prove di laboratorio avessero rivelato la presenza di tutt’altra immagine sottostante. Ma di questo non si fa alcun cenno, insistendo invece su una fantomatica provenienza dell’opera dalle raccolte reali inglesi per finire nell’Ottocento con attribuzione al Boltraffio — uno dei migliori allievi di Leonardo — nella Cook Collection a Richmond, per poi scomparire in mani private con vendite a epoca imprecisata.
Nella fondamentale e aggiornatissima monografia sul Boltraffio di Maria Teresa Fiorio (2000) non è menzionata fra le opere perdute o non rintracciate. Si presentano invece fra le opere d’incerta attribuzione una buona versione presso l’Accademia Carrara di Bergamo con copiosi riferimenti ad altre dello stesso livello, tutte illustrate in un fondamentale contributo di Ludwig H. Heydenreich del 1964, compresa quella, ora di ubicazione ignota, già presso la collezione Vittadini nella Villa Arcore a Monza.
La migliore versione di scuola (probabilmente Giampietrino) del medesimo soggettoLa versione ancora migliore e più vicina a un eventuale prototipo di Leonardo (sulla cui esistenza è legittimo avere forti dubbi), è quella già nella raccolta del marchese De Ganay a Parigy messa all’asta alcuni anni fa dagli eredi e venduta per poche centinaia di dollari a New York e ora di proprietà privata. È questa la versione che agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso ebbe l’onore di una attribuzione allo stesso Leonardo con una monografia di Joanne Snow-Smith durante una mostra da me organizzzata nel 1982 a Vinci per essere poi trasferita a dieci musei degli Stati Uniti insieme col resto della collezione De Ganey, che comprendeva i quattro famosi studi autografi di drappeggi poi ceduti due al Louvre e due alla Collezione Jonhnson di Princeton, nonché gli autografi di Poussin e Rubens sugli scritti teorici di Leonardo, ora in mani private.
C’è dunque ancora ben altro in circolazione nel mercato dell’arte. È bene dunque restare sul concreto e non andare appresso a chimere, come nel caso del «ritrovato» Salvator mundi che in fondo si spiega da sé. Basta guardarlo
  Carlo Pedretti

venerdì 1 luglio 2011

A cosa serve Michelangelo?

Da un po' di tempo volevo segnalare questo libricino, da poco uscite per Einaudi, di Tomaso Montanari dal titolo emblematico A cosa serve Michelangelo? Il punto di partenza è il controverso acquisto del famoso crocifisso da parte dello Stato e tutte le problematiche che una politica del genere pone, ma si parla anche di altro, dal ruolo degli storici dell'arte al degrado della materia nel discorso pubblico. Approfitto quindi di quest'intervista realizzata da Davide Angerame uscita su Artribune per segnalarlo caldamente.



Il caso del falso Michelangelo è uno dei molti casi che tratta Tomaso Montanari per dimostrare come l’arte antica sia diventata “l’escort di lusso” della cultura italiana. Scritto con lucidità e verve, il saggio racchiude in sé i toni acri del pamphlet e le rimostranze dei cahiers de doléances. Ne risulta un atto d’accusa contro la deriva presa dalla moderna ideologia della “valorizzazione” dei “beni culturali” che, secondo il quarantenne docente di Storia dell’arte dell’Università Federico II di Napoli, si trasforma in svendita della nostra arte per pochi euro, in un mondo che capisce solo più gli “eventi” della grande “Disneyland culturale”, mentre languono i tanti musei a chilometro zero, ricchi di connessioni con la storia del territorio che l’Italia possiede e che nessuno più visita.

Il tuo libro presenta un’attenta ricostruzione dell’errata attribuzione del Cristo ligneo (provenienza Gallino) a Michelangelo e relativo acquisto per 3,25 milioni di euro da parte dello Stato. Hai il tono del polemista ma anche la perizia di uno storico. Sull’onda di quale sentimento hai scritto questo libro? L’indignazione?
Uno degli scrittori italiani contemporanei che amo di più, Franco Arminio, ha scritto che “il mondo non cambia perché non lo vuole cambiare quasi nessuno. Il mondo non cambia perché non è mai stato così pieno di ipocrisia”. Dunque, ho scritto questo libro sull’onda di una fredda indignazione, certo, e anche del disgusto per l’ipocrisia, l’impreparazione e l’inadeguatezza di molti di coloro che hanno in mano il mondo della storia dell’arte. Ma l’ho scritto soprattutto animato dalla voglia di cambiare, se non il mondo, almeno il mio piccolo mondo: quello della storia dell’arte.
Il problema del Michelangelo/Gallino è l’emblema di una stortura tutta italiana oppure all’estero non sono messi meglio?
Nessun Paese è perfetto, ma il dilettantismo, la presunzione e l’arroganza (per esempio) del Comitato degli storici dell’arte del Mibac che ha consigliato il ministro di comprare l’opera senza consultare esperti terzi, ma basandosi solo sulla forza della consorteria e della corporazione: beh, questi gravi difetti sono tipicamente italiani e tipicamente della casta accademica italiana. La professoressa Marisa Dalai presiede quel Comitato, nonostante sia in pensione da quasi due anni: in nessun altro Paese del mondo c’è un così grave problema di gerontocrazia. E da vecchi non si è felici di essere contestati: pensi che la professoressa Dalai è furibonda perché la Direzione dei beni culturali della Lombardia mi ha invitato a discutere il libro. E questi sarebbero i liberi intellettuali!
La svolta culturale a cui assistiamo, sostenuta da illustri soprintendenti e protagonisti della cultura artistica nostrana, fa sì che della storia dell’arte non sia più nulla, che il suo senso si svuoti e che di essa si possa fare ciò che si vuole. Davvero la verità non vale più nulla?
Vale in effetti pochissimo. Pochi giorni fa, un signor nessuno fortemente indiziato di cialtroneria ha chiesto al Louvre di prestare la Gioconda a Firenze, e immediatamente la Provincia di Firenze e tutti i media italiani lo hanno seguito come se fosse il pifferaio magico. Nel mondo della storia dell’arte italiana, chiunque può dire di essere Napoleone ed essere creduto.
In Italia quasi nessuno si espone. Tu fai nomi e cognomi. Follia o coraggio soprannaturale?
Semmai un’incoscienza soprannaturale. No, non scherziamo: davvero niente di soprannaturale. Questo è un Paese bizzarro, dove sembra strano fare il proprio lavoro. Ho avuto la fortuna di diventare professore relativamente giovane: abbastanza giovane da ricordarmi cosa pensavo di questo mondo prima di venirvi cooptato. Già, perché da noi il senso critico si esercita dall’esterno: quando si diventa interni, lo si dimentica. E invece io penso che lo Stato mi paghi ogni mese lo stipendio non solo per fare lezioni, esami, tesi e ricerca, ma anche per esercitare il mio senso critico. Se tutti facessero il proprio lavoro, questo Paese cambierebbe.
Trovo molto interessante l’analisi della trasformazione del “vocabolario” applicato ai beni culturali: da beni artistici e belle arti si è passati ai “beni culturali” da “valorizzare” e non più da custodire. Uno slittamento linguistico che apre il campo a una sciagurata gestione che porta al crollo di Pompei e della Domus Aurea. Il caso è, ancora una volta, l’effetto dell’ingerenza politica nella cultura di questo Paese?
Direi di sì. La mutazione delle parole (e chi parla male vive male, direbbe, a ragione, Nanni Moretti) inizia a metà degli anni ‘80 nell’entourage di Bettino Craxi. La radice antropologico-politica della mutazione da “opere d’arte” o da “memoria storica” in “beni culturali” è la stessa da cui nasce la cultura berlusconiana della monetizzazione di tutti i valori. Non a caso ho usato la metafora della storia dell’arte che diventa una escort della vita pubblica italiana.
Mario Resca come l’ultimo dei mali: dovrebbe fare del bene, valorizzare il patrimonio, e invece secondo te lo mette a repentaglio per pochi spiccioli. Cosa faresti se fossi Resca?
Ovviamente non ho nulla contro la persona di Resca. Ma se il Codice dei Beni culturali dice che lo scopo della cosiddetta valorizzazione è l’aumento della cultura dei cittadini (e non del fatturato dello Stato), forse al posto di un manager degli hamburger bisognava metterci un intellettuale. Se fossi al posto di Resca, lancerei una colossale campagna di “marketing” non dell’effimero (mostre ed eventi) o dei capolavori (Bronzi di Riace o Michelangeli veri o presunti) ma del patrimonio monumentale diffuso in tutto il Paese. Ci sarebbe da divertirsi.
Sei molto critico anche con la Chiesa, con le mostre confessionali travestite da esposizioni culturali. L’analisi dell’atteggiamento del Museo Diocesano di Napoli mette in luce come anche il clero soffra di questa malattia che potremmo chiamare “culturteinment”.
Io sono cattolico praticante: quasi mi turba doverlo dire, ma visto che vengo accusato di essere addirittura “anticristiano”, penso sia meglio chiarire come stanno le cose. Ho dunque un motivo in più per essere indignato per il modo grossolano in cui la gerarchia cattolica italiana strumentalizza il patrimonio artistico sacro per ricavare denaro e consenso. Ciò che descrivo nel libro culmina ora con la follia del Papa che si porta dietro in Germania la Madonna di Foligno di Raffaello, come se fosse una prigioniera in catene dietro un trionfo imperiale.
Però questi eventi fanno numeri da capogiro, e in qualche modo tolgono l’arte dai musei per restituirla alle masse di “fedeli” (dell’arte, s’intende). Guardi il caso Goldin con gli impressionisti e Van Gogh. È tutto da buttare?
Dipende dallo scopo che assegniamo all’arte. A cosa serve Michelangelo, e con lui a cosa serve tutto il patrimonio artistico? Se serve a intrattenere, va bene anche Goldin, che usa i quadri come i varietà televisivi usano le ballerine. Ma io non credo che l’arte serva a intrattenere, e nemmeno ad aumentare l’orgoglio nazionale (come posso essere orgoglioso di qualcosa che non capisco e violento?). L’arte serve a diventare più umani, a diventare cittadini consapevoli, a temperare la cecità del presente con la profondità prospettica della conoscenza del passato. E allora è essenziale che non si spostino le opere, ma i cittadini: bisogna viaggiare, visitare le opere nei contesti, conoscere un tessuto complesso, non organizzare luna park effimeri dove tutto è predigerito e finto come a Porta a Porta.
Fai notare che il sistema della critica e delle attribuzioni gira su se stesso, è autoreferenziale, ci sono conflitti d’interesse. E chi si oppone a questo sistema di solito è ottuagenario, ovvero fondamentalmente libero da autocensure. Tu invece sei giovane… Che ne pensi delle nuove generazioni di storici e critici d’arte?
Prima consentimi una battuta: non sono giovane, sono uno storico dell’arte “di mezza età” (come dice di se stesso Lorenzo Bianconi dei Baustelle, che ha due anni meno di me). Un Paese in cui si è ancora “giovani” a quasi quarant’anni, davvero ha qualcosa che non va. Penso che il precariato intellettuale e quello universitario facciano dei danni gravissimi non solo ai giovani storici dell’arte, ma anche al Paese. I migliori tra i nostri giovani passano spesso gli anni migliori della loro vita intellettuale (gli anni in cui potrebbero avere la forza e la fantasia per cambiare i connotati alla disciplina) a compiacere vecchi baroni decotti. Il servilismo e il conformismo sono i veri meriti che vengono ricompensati nella carriera accademica: e se questi sono i presupposti, come si può sperare che qualcosa cambi?
Una battuta sui mass media. Li consideri asserviti alla logica dello spettacolo. Ma come traghetteresti importanti dibattiti di attribuzione che riguardano il patrimonio pubblico, quindi di tutti, con le necessità dei media di semplificare, esaltare e a volte adorare?
Perché dobbiamo partire dal presupposto che i telespettatori siano una massa di imbecilli, fondando su questa presunzione una ignobile gara al ribasso? Il successo diChe tempo che fa o di Vieni via con me (per non fare che due esempi) dimostra che ci sarebbe eccome lo spazio per una televisione di qualità che faccia pensare invece che addormentare il pensiero. Fare della “vera” storia dell’arte in televisione sarebbe fantastico: il pubblico potrebbe, contemporaneamente, divertirsi ed educarsi. E anche vaccinarsi nei confronti di tutte le incredibili bufale che fioccano ogni giorno in una disciplina infestata da cialtroni e millantatori di ogni sorta.
Qual è il rimedio a questa errata attribuzione? Cosa speri per il futuro di nostri “beni culturali”, visto che le risorse scarseggiano? L’intervento a favore del Colosseo è una strada praticabile e auspicabile?
Per il cosiddetto Michelangelo mi aspetto, certo ingenuamente, che il Ministero dei Beni culturali ammetta l’errore, lo restituisca e si faccia rendere i soldi. E spero che la magistratura faccia la sua parte. Quanto ai privati, benissimo se hanno un ruolo di arricchimento e integrazione, ma non possono supplire al ruolo dello Stato. Il nostro patrimonio straordinario nasce da un millenario investimento di denaro, che ha “reso” arte. Oggi dobbiamo decidere se abbiamo interesse a continuare a investire denaro in quel patrimonio: così come si fa negli ospedali e nelle scuole. I dividendi del patrimonio artistico sono le cure dell’anima: memoria collettiva, cittadinanza, liberazione intellettuale, felicità. Chi può dire che non ne abbiamo bisogno quanto abbiamo bisogno delle cure del corpo?
Nicola Davide Angerame

LinkWithin

Related Posts Plugin for WordPress, Blogger...