Se è così difficile arrivare a comprendere attraverso l’arte, in una vita, i misteri e le verità dell’uomo che pure, rispetto alla Natura, è piccola cosa, l’impresa di entrare nel cuore della Natura e nei segreti delle sue leggi è un’utopia. Questo deve aver pensato Michelangelo nell’accingersi a dipingere l’ultima e più struggente opera pittorica: la cappella Paolina.
La cappella, costruita da Antonio da Sangallo nel 1537, cuore dei palazzi vaticani e chiesa privata dei pontefici, fu affrescata dal 1542 al 1550 dal sommo pittore che vi riprodusse la Conversione di san Paolo e la Crocifissione di San Pietro, i due pilastri della Santa Romana Chiesa, portando alle estreme conseguenze le implicazioni già contenute nel Giudizio. Se la volta sistina è immagine positiva e gloriosa, il Giudizio, tanto criticato, è l’assoluta mancanza di Storia nel terribile evento della fine dei tempi. Ancor di più quindi nei due affreschi lo spazio è senza Storia e il paesaggio è annichilito dall’agire del divino mentre nei vuoti cieli solo la Grazia illumina. Qui non sono rappresentati eventi ma meditazioni: lo spazio è senza storia, sono eliminati vegetazione e dettagli, edifici e ogni riferimento al tempo umano. Restano solo le tensioni possibili fra le figure, gesti sospesi di un teatro drammatico senza tempo
Per Paolucci i due affreschi sono una "specie di testamento spirituale, improntato a una vasta mestizia, a un profondo pessimismo". I colori, la "saldezza plastica delle figure sono ancora quelle del 'Giudizio', ma ancora più forti appaiono la tensione drammatica e l'oltranza espressionistica". Paolucci ha l'impressione che il "mistero della Grazia, misteriosamente offerta ad una umanità immeritevole angosci l'anima dell'artista".
Il momento in cui Michelangelo dipinge i due affreschi è quello della scomparsa di due amici e protettori, Luigi del Riccio nel 1546 e la poetessa Vittoria Colonna nel 1547. La Colonna era legata a una riflessione sulla Grazia come luce e quindi, attraverso Sant' Agostino, al neoplatonismo, professando una religiosità cristiana improntata a un dialogo diretto col divino, come qui appunto appare nei freschi di Paolo e di Pietro. Michelangelo aderiva a questo gruppo di intellettuali ma percepiva anche la propria inadeguatezza, il peccato, la debolezza della carne in un profondo pessimismo. Basta rileggere qualche riga amarissima di un componimento dell' artista scritto nel 1546: dopo aver descritto il decadimento del proprio corpo Michelangelo conclude: «L' arte pregiata, ov' alcun tempo fui/ di tant' opinion, mi rec' a questo,/ povero e vecchio e servo in forz' altrui,/ ch' i son disfatto, s' i non muoio presto». Ebbene, la figura alla estrema destra della Crocifissione di Pietro, quel personaggio fuori scena, probabilmente è proprio Michelangelo che medita sulla fine; si tratterebbe così dei un suo autoritratto confermato dal recente restauro che ha scoperto come questo volto fosse incredibilmente più delineato degli altri generici.
Lo splendido restauro ha restituito inoltre la bellezza dei colori, che sono poi quelli dei quattro elementi intrisi di simbologia cosmica, ma sono anche i colori del Pontormo, nel loro acceso carico di timbri cromatici, colori che danno enorme profondità pur senza un accenno di prospettiva e senza un’articolazione del paesaggio.
Del resto un altro immenso pittore, nel seicento, anche lui ossessionato dalla figura umana, dalle implicazioni immense sottese alla sua rappresentazione, e quindi non interessato, o impossibilitato, alla raffigurazione della Natura, al paesaggio sostituirà un buio rivelatore, un’assoluta oscurità dove la Grazia del divino risplende con una drammaticità mai raffigurata fino ad allora. Questi è il Caravaggio e le due opere, dello stesso soggetto, furono realizzate per la cappella Cerasi a santa Maria del Popolo.
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