sabato 29 ottobre 2011

Caravaggio XXI - il Dvd

Esce finalmente in Dvd lo spettacolo Caravaggio XXI, 21 tableaux vivant dalle opere del Merisi. La compagnia Malatheatre con la regia di Ludovica Rambelli, tra luce e buio, dà vita ai modelli di strada e ai soggetti del genio maledetto. In uno spettacolo di sole immagini e musica, le più belle opere del Merisi si compongono sotto gli occhi degli spettatori, con poche stoffe e oggetti semplici; gli attori danno vita ai modelli di strada e ai soggetti sacri e profani immortalati dal grande artista culminando nell'istante creativo della realizzazione ultima di ogni dipinto. Il video, per la regia di Massimo D'Alessandro, coglie a 360° il processo di trasformazione nella successione dei tableaux vivants dello spettacolo "entrando" nei quadri e cogliendone molteplici e inaspettate angolazioni di prospettiva. 



Un mio articolo sullo spettacolo uscito sul sito errecomeroma

Probabilmente solo da una compagnia teatrale di origine partenopea, quale i Malatheatre, poteva nascere l’idea di uno spettacolo tanto suggestivo quanto immediato intorno l’opera di Caravaggio poiché nella loro azione scenica si respira tutta l’anima di una cultura teatrale che affonda le proprie radici sia nelle esibizioni di strada che nelle sacre rappresentazioni di carattere popolare. Naturalmente “Caravaggio XXI” non è solo questo ma una complessa riflessione sui lavori dell’artista che, più di altri, ha cambiato il modo di raffigurare il corpo umano inteso quale veicolo di emozioni e di drammi.

Filo conduttore dello spettacolo è la realizzazione di tableaux vivants ispirati alle tele del Merisi le quali vengono ricomposte sulla scena in un continuo fluire di gesti, pose e tessuti. Ancor più del soggetto riproposto, infatti, la bellezza dell’idea sta nel mostrare la costruzione del quadro da parte degli attori i quali, grazie ad una perfetta sincronia ed al ricorso di minimi oggetti, riescono a ricreare, in pochi minuti, i dipinti nella loro più immediata vividezza. I quadri costruiti si mostrano come nello studio del pittore, i gesti vivono nello spazio, la luce scolpisce i corpi, la realtà fisica mostra, inaspettatamente, l’irrompere del sacro.
Non sarebbe eccessivo vedere in questa ossessione per la composizione vari momenti di tensione che portano ad un acme il quale si raggiunge nella fissazione dei movimenti e che coincide con l’opera riproposta. Poiché le opere sono diverse, infatti, il ritmo dello spettacolo segue una linea ondulatoria fatta dal continuo susseguirsi di momenti di tensione-preparazione, e di estrema mobilità, e di momenti di stasi e immobilità che segnano l’acme momentaneo e la quasi miracolosa apparizione dell’opera. Colpisce di certo l’estrema cura dei “quadri viventi”, l’importanza dei tessuti per la creazione dello spazio, la bellezza delle pose che non puntano tanto ad una filologica riproposizione dei gesti dei personaggi quanto al suggerimento del dramma-evento che si compie sotto i nostri occhi.

Questi ed altri particolari, inoltre, proprio per il grande impatto visivo non possono non stimolare alcune riflessioni sull’opera del Caravaggio capace di ispirare ancora oggi ricerche e sperimentazioni proprio in quanto così rivoluzionaria dal punto di vista figurativo. Una prima riflessione va al metodo di lavoro del pittore il quale, quasi certamente, usava una camera oscura nella quale disponeva le figure e le dipingeva dal vero, vedendole riflesse in una sorta di specchio. I tableaux vivants, così, rimandando inconsciamente a tale pratica, sono utili strumenti per comprendere e vedere fisicamente questo criterio di lavoro. Una seconda riflessione va al valore dei tessuti, magistralmente usati nello spettacolo, in quanto sono tra gli oggetti più significativi adoperati dal pittore per abbellire la scena ma, soprattutto, per veicolare la luce e creare lo spazio tra i personaggi. In assenza di paesaggio e di altre indicazioni di luogo sono le stoffe, con le loro pieghe e colori accesi, a creare distanze, quinte e prospettive. Un ultimo pensiero, infine, va alla forte valenza dei gesti ed al ricorso, nelle opere, a specifiche formule di pathos capaci da sole di trasmettere emozioni in quanto universalmente riconosciute. Parlando col regista riguardo lo spettacolo il quale, prima di venir registrato, è stato portato letteralmente in piazza, tra i vicoli e le chiese di Napoli, con molta sorpresa ho appreso come gli anziani dei Quartieri Spagnoli, di solito lontani dal mondo dell’arte, osservando questi quadri viventi riconoscevano non l’opera bensì i santi che venivano riproposti, segno dell’enorme valenza dei gesti e delle iconografie e della bravura degli attori. Questo particolare ritengo valga da solo a rendere l’effettiva validità dell’operazione compiuta dal gruppo la quale, prima che teatro, si pone come autentica ed efficace esperienza estetica.

Il video girato dal regista Massimo D’Alessandro non è che una registrazione dello spettacolo curato da Ludovica Rambelli; l’effetto non può essere lo stesso che dal vivo ma il sapiente uso della fotografia e la possibilità, grazie alla macchina da presa, di moltiplicare scorci e punti di vista rendono la riduzione cinematografica altrettanto valida e suggestiva.
Sarebbe bello se l’opera, attualmente non in cartellone, venisse riproposta a Roma, nei luoghi del Caravaggio, magari in concomitanza con le celebrazioni dei 400 anni della sua morte. Sarebbe un degno modo per rievocare e far riflettere  sull’opera dell’artista che, più di altri, ha lasciato un segno nella storia dell’arte.

Tommaso Evangelista



Interpreti: Gaetano Coccia, Adriana Del Duca, Dora De Maio, Francesco De Santis, Chiara Giuliani, Francesca Lugnano, Mauro Milanese
Musiche di Bach, Mozart, Sibelius, Vivaldi
Regia teatrale di Ludovica Rambelli
Regia cinematografica di Massimo D'Alessandro
Durata video: 40 minuti

Acquistabile su amazon a questo link

Giacometti e gli etruschi

Un confronto interessante quello proposto da la Pinacothèque di Parigi, incentrato sull'analisi dei rapporti tra i lavori scultorei di Giacometti e la statuaria etrusca. Un fil rouge che emerge netto nell’attacco dell’articolo di Florence Besson per Elle France: senza saperlo, gli Etruschi facevano come Giacometti e il contrario. Questa corrispondenza a 3000 anni di distanza salta magicamente agli occhi.

Se l’interesse per la figura primitiva è un topos che compare molto presto nei lavori di Giacometti, è con l’incontro diretto con l’arte dell’antica popolazione che si produce un “considerabile sconvolgimento”, imprimendo una caratterizzazione incomparabile alle sue sculture. Un faccia a faccia costruito attraverso le visite al dipartimento di archeologia del Louvre e durante l’esposizione sull’arte e la civiltà etrusca tenutasi a Parigi nel 1955, per completarsi con un viaggio a Volterra. Nel cuore dell’Etruria, Giacometti scoprirà l’Ombra della sera (nome attribuitele dal poeta Gabriele d’Annunzio), statuetta votiva conservata al museo Guarnacci che costituisce uno dei simboli emblematici del mondo etrusco e influenzerà attivamente la serie delle donne di Venezia e L’uomo che cammina (assegnata recentemente per una somma pari a più di 74 milioni di euro). E’ nei guerrieri slanciati appartenenti a un popolo misterioso che risiede lo spunto della scelta volta ad esaltare la verticalità, è nel loro tratto sottile che si gioca la cifra emaciata all’estremo di quelle che sono diventate le sue opere più rappresentative. Centocinquanta oggetti etruschi e una trentina di sculture di Giacometti si mostrano in questo “eccezionale avvicinamento” dando prova tangibile della loro fraternità.


L'Ombra della sera

venerdì 28 ottobre 2011

Il Cattelan vaticano


Già avevamo parlato delle analogie tra il dito di Cattelan e i frammenti della statua colossale di Costantino ai Capitolini; ora trovo questa interessante nota su un'ipotetico dito trovato a Roma nel '700.

Antoine-Laurent-Thomas Vaudoyer
(Parigi, 1756-1846) Dito colossale in marmo, 1785 penna, inchiostro, matita, acquarello, 205 x 194 mm Roma, collezione W. Apolloni Iscrizioni: in alto a sinistra “Doigt colossal en marbre/ porté par huit hommes/ au museum à Rome”; in alto a destra “1785 MUNIFICENTIA/ PIO VI PONT MAX” (sul basamento) 
Questo foglio è opera dell’architetto francese Antoine-Laurent-Thomas Vaudoyer, pensionnaire di architettura dell’Accademia di Francia a Romatra il 1784 e il 1788. […] Come informa la dettagliata iscrizione a matita, il disegno raffigura il trasporto di un dito colossale in marmo al “Museo”, effettuato con una portantina in legno da otto uomini, diretti da una figura che possiamo identificare con un architetto o un impresario. La data 1785 e l’iscrizione posta sulla base del dito stesso, montato su di essa come fosse una colonna, mettono subito in connessione il dito e il suo trasporto con la figura di Pio VI, il grande pontefice protettore delle belle arti e delle antichità, a cui si deve la nascita e lo sviluppo di una delle realtà museali più importanti dell’Europa settecentesca, il museo Pio-Clementino inVaticano. Dopo aver contribuito in misura decisiva, sotto il pontificato del suo predecessore Clemente XIV, alla fondazione del Clementino, primo vero museo di scultura antica in Vaticano, Pio VI, divenuto papa nel 1775, ampliò questa istituzione in un museo di grandiosa e innovativa concezione, il Pio-Clementino appunto, destinato immediatamente a divenire il fiore all’occhiello dell’offerta espositiva della capitale pontificia, luogo privilegiato di raccolta della moltitudine di sculture e di reperti che venivano ogni giorno alla luce nel corso delle attività di scavo sostenute dal pontefice stesso e dai numerosi impresari privati, locali e forestieri, dentro e fuori le mura di Roma. Non stupisce dunque che il pensionnaire Vaudoyer rappresentasse in disegno quella che doveva essere una realtà ricorrente nella Roma di Pio VI, vale a dire il trasporto al museo di statue e antichità acquistate dal pontefice, o acquisite grazie al meccanismo che consentiva allo Stato di incamerare un terzo di quanto scavato dai privati, o rinvenute nel corso degli scavi finanziati direttamente dalla Camera Apostolica. Purtroppo, ed è davvero singolare, questo dito dalle dimensioni straordinarie sembra non aver lasciato nessun altro indizio di sé, oltre a questo disegno: non figura nel museo Pio-Clementino né nei depositi, né di esso si trova alcuna traccia nella pur vasta messe di documenti d’archivio, epistolari, guide, saggi, articoli e cataloghi che nel Settecento accompagnarono il ritrovamento, il restauro, il commercio dei reperti archeologici, nonché la loro acquisizione nei musei pubblici romani. Ciò stupisce ancor più se si considerano le sue dimensioni davvero eccezionali (a giudicare dalle proporzioni con le figure dei portatori, circa due metri) […] Il dito doveva dunque appartenere a una statua veramente unica per grandezza, e lascia stupiti che un ritrovamento tanto fuori dal comune non sia stato materia di discussione tra gli eruditissimi antiquari del tempo. Che debba essere allora considerato, il disegno di Vaudoyer, un divertissement ispirato, come molti altri, da quella mania dell’antico che pervadeva la cultura romana e contagiava di sé tutta l’Europa? Un’allusione satirica alla dedizione collezionistica del pontefice e alla magnificenza del trattamento riservato ai reperti antichi nel rinnovato museo vaticano? Un dito che diventa colonna, con tanto di basamento con iscrizione dedicatoria, un frammento che richiede otto uomini per essere trasportato, quasi fosse la statua di un santo portata in processione: per quanto realistica, è un’immagine che suscita immediata ironia. Nonostante la precisione dell’annotazione a matita sembri ricondurre all’osservazione diretta di un fatto reale, l’apparente assenza di sforzo dei portatori, la mancanza di elementi che circoscrivano uno spazio urbano o uno sfondo reale, la rigida frontalità del dito sono dati che a mio avviso confermano invece l’ipotesi che si tratti di un disegno d’invenzione. Per di più di rara sottigliezza: bersaglio della garbata canzonatura non sarebbe in questo caso semplicemente la mania antiquaria, ma, con maggiore finezza, la sontuosa accoglienza che la munificenza pontificia riservava alle reliquie dell’antico. 
Federica Giacomini 
Scheda in Carolina Brook, Valter Curzi, Roma e l’antico, catalogo della mostra (Roma, Fondazione Roma), Milano 2010. (Fonte)

venerdì 21 ottobre 2011

Achille Bonito Oliva Vs Diprè

Andrea Diprè, sedicente critico d'arte, ha un proprio canale sul satellite dove invita e presenta artisti senza alcuna selezione e promettendo grandi fortune. In televisione, come stesse vendendo un prodotto, naturalmente elogia opere d'arte di qualsiasi genere e qualità. Viene pizzicato da Mi manda RaiTre dopo le denunce di alcuni pittori che, per apparire in video, hanno dovuto sborsare molti soldi. In studio è invitato anche il critico Bonito Oliva. Inizia così uno scambio di offese tra le due figure a tratti comico e surreale ma che ben stigmatizza il sistema dell'arte contemporanea con Diprè che arriva a dare del coglione a Bonito Oliva, definendolo nessuno e asservito al mercato, quello che conta. Da una parte quindi critici che avvallano tutto e che si prestano a parlare su qualsiasi proposta, dall'altra la figura istituzionale dello "studioso" che sancisce e sceglie cosa sia o meno valido, da una parte l'artista che si crede tale e che vuole, spendendo, il suo momento di gloria, dall'altro il mercato e il sistema. Lascio a voi decidere chi sia nel giusto.


lunedì 17 ottobre 2011

Il San Girolamo in terracotta attribuito a Leonardo


In un passo delle Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori Giorgio Vasari parla della tecnica esperimentata da Leonardo da Vinci quando era ancora nella bottega fiorentina del Verrocchio suo maestro. Leonardo era solito «fare modelli di figure in terra e addosso a quelle metteva cenci molli interrati e poi con pazienza si metteva a ritrargli sopra a certe tele mollissime, e li lavorava di nero e bianco con la punta del pennello ch'era cosa meravigliosa». Il Verrocchio dovette impartire al geniale discepolo i primi rudimenti della pittura ma anche della scultura. Benché Leonardo ritenesse la pittura superiore alla scultura, racconta di essersi «adoperato» tanto nell'una che nell'altra arte «in un medesimo grado», cioè con pari diligenza e risultato. Poco dopo il 1480, in procinto di partire per Milano dove avrebbe prestato servizio alla corte del Moro, l'idea di realizzare il monumento equestre di Francesco Sforza cominciava a prendere consistenza e forma. Poi Leonardo giunse sino al penultimo stadio, portando a termine il modello in argilla o stucco, ma non concluse il lavoro che avrebbe dovuto prevedere la fusione in bronzo. Il colosso equino doveva essere di oltre sette metri di altezza e il peso della terra di fusione avvicinarsi alle cinquanta tonnellate. Di questa superba impresa rimangono alcuni disegni, sparsi in vari codici leonardeschi, dai quali si desume che il primo pensiero prevedeva un cavallo impennato; in seguito Leonardo aveva ripiegato, forse dietro suggerimento del Moro, su un cavallone al passo, solenne, tornito, e monumentale per vocazione. La scultura, celebrata in antico da molti eruditi, secondo Sabba da Castiglione impegnò l'autore per «sedeci anni continui», ma il modello di stucco già nel 1499 era stato fatto bersaglio dei balestrieri guasconi entrati a Milano con le truppe di Luigi XII, quando ancora il grandioso quadrupede si stagliava in un cortile del castello di Porta Giovia. Tuttavia nel 1501 il duca di Ferrara Ercole I d'Este lo aveva richiesto al cardinale di Rohan per farlo copiare. Più tardi andò distrutto. Di tutte le opere di scultura leonardesche, più o meno dettagliatamente citate dalle fonti antiche, non se n'è identificata una, ma visto che la pratica espletata da Leonardo nello scolpire e plasmare la terracotta, che doveva risultargli più congeniale del marmo per i suoi effetti pittorici, fu assidua, è impensabile che nemmeno un esempio di mano del grande maestro non sia sopravvissuto alle soppressioni.
La caccia a una scultura di Leonardo dura da tempo e ha visto impegnati studiosi di inossidabile serietà e pervicacia: tra gli scomparsi Sir John Pope-Hennessy, illuminato pioniere delle ricerche sul rinascimento italiano, nonché direttore del Victoria and Albert Museum di Londra, Kenneth Clark, W.R. Valentiner.
Le fonti antiche su Leonardo scultore ricordano «teste di femmine che ridono», «teste di putti», un Bambino Gesù in creta che fu di proprietà del cardinale Federigo Borromeo, probabile modelletto della testa di Gesù del quadro con Sant'Anna e forse da identificarsi con «la testicciola di terra di un Cristo mentre che era fanciullo» la quale, nel Cinquecento, era presso il pittore e trattatista milanese Giovan Paolo Lomazzo; «teste di vecchi» e cavallini in bronzo, come è quello del Museo di Budapest, che molti ritengono autografo e possibile prototipo del monumento a Gian Giacomo Trivulzio, che però non fu mai compiuto. Anche l'insieme delle sculture che oggi gli esperti attribuiscono a Leonardo è ben assortito, ma non ne esiste una sulla quale i massimi calibri dell'esegesi leonardesca siano concordi; ciò però non deve suscitare né meraviglia, né tantomeno scandalo, perché in materia d'arte, i dispareri fan parte integrante del mestiere. In un momento arroventato come l'attuale da altisonanti attribuzioni respinte, avanzarne una nuova a Leonardo scultore è un atto a dir poco di coraggio. Patrocinatore della proposta è un bravo studioso italiano, Edoardo Villata, che martedì prossimo, nel corso dell'importante convegno sulla terracotta del Quattrocento diretto da Maria Grazia Albertini Ottolenghi dell'Università Cattolica di Milano, farà il nome di Leonardo da Vinci per attribuire una paternità a un bellissimo e un po' negletto San Girolamo in meditazione, conservato nei depositi del Victoria and Albert Museum. La statua a tutto tondo misura circa cinquanta centimetri di altezza, ma il suo impianto grandioso la direbbe maggiore, elemento che di per sé depone a favore di una eccellente fattura, peraltro conclamata da ogni particolare. La storia di questa terracotta segue quella di molte opere d'arte che appartenevano alla sterminata raccolta di Giovan Petro Campana marchese di Calvelli, direttore, verso la metà dell'Ottocento, del Monte di Pietà di Roma, archeologo e collezionista tanto sfrenato negli acquisti e nel tenore di vita personale, da finire in miseria e in carcere con l'accusa di peculato e abuso d'ufficio. Nel 1854 la sua collezione era stimata quasi un milione di scudi. Per pagare i debiti fu dispersa in vari tronconi, perché non si era trovato nessuno disposto a rilevarla in blocco. Una parte fu acquistata dallo zar, un'altra da Napoleone III, che, per uno strano caso della sorte, alcuni anni prima era riuscito a fuggire di prigione con l'aiuto di tale signora Crowford, futura suocera del Campana. Il lotto dove si conservava anche il San Girolamo venne comperato dal South Kensigton Museum di Londra, odierno Victoria and Albert. Ma prima di passare al Campana, la magnifica terracotta era appartenuta a Ottavio Gigli, pedagogo, patriota e collezionista fiorentino fondatore di asili e del periodico cattolico «L'Artigianello». Il San Girolamo, attribuito per lungo tempo al Verrocchio, nel 1964 fu declassato da Sir John Pope-Hennessy a opera di un seguace del Verrocchio degli inizi del Cinquecento e poi ritenuta di uno scultore fiorentino, Giovan Francesco Rustici, che molto aveva attinto da Leonardo. Rustici è l'autore dello spettacolare gruppo bronzeo con la Predica del Battista, all'esterno del Battistero di San Giovanni a Firenze. Attribuendo la terracotta a Leonardo in persona, Villata si scontra con l'autorità di Pope-Hennessy e di alcuni insigni studiosi, quale Olga Raggio, per non dire dei viventi. Ma quali sono le ragioni che legittimano l'ipotesi attributiva di Edoardo Villata? Innanzitutto la qualità del San Girolamo, che è elevatissima, come vediamo nell'energia di sintesi plastica racchiusa nella «organicità della posa» del vecchio dottore della Chiesa che nella destra regge il libro e con la sinistra si accarezza la barba. Si coglie sul volto del santo filosofo un sorriso appena accennato che denota il compiaciuto raggiungimento della conoscenza delle verità eterne e che affiora nell'intensità della concentrazione e dell'espressione. Ma per vibrare il nome di Leonardo quel che più conta sono i molteplici riferimenti al suo stile. Forse il più sorprendente è la mano destra di San Girolamo, affusolata e un po' irrigidita, che richiama subito quella della Dama dell'ermellino, la cui mano, secondo una recente ipotesi, non venne ritratta dal vivo bensì da un modello plastico. Poi entrano in gioco, more solito, i panneggi leonardeschi, molto vicini a quelli del mantello indossato da San Girolamo. Da ultimo Villata rimarca giustamente che nella terracotta di Londra non vi è il benché minimo cenno di influenze michelangiolesche, che in un qualunque scultore attivo a Firenze dopo il 1.500 sarebbero immancabili.


Questa attribuzione, audace ma non peregrina, scatenerà discussioni e dissensi ma anche consensi, e il fatto che venga pubblicata in grande evidenza sul prossimo numero della «Raccolta Vinciana» (XXXIV fascicolo, 2011, in corso di stampa), prestigioso periodico biennale dedicato ai più approfonditi studi leonardeschi, è un fatto di indubbio conforto.


Tra le altre terrecotte attribuite vorrei mettere in evidenza questa bellissima testa dolente, forse di un san Girolamo, considerata all'inizio del Verrocchio...

 e il Christo Fanciullo dalla collezione Eredi Gallandt



domenica 16 ottobre 2011

Un (auto?)ritratto sconosciuto di Michelangelo

Rimarrà esposto al Castello nella città di nascita di Michelangelo Buonarroti, Caprese Michelangelo, sino al 30 ottobre un tondo di marmo, mai mostrato, se si esclude una giornata del 2005 al Museo Ideale di Vinci, perché conservato nella collezione privata di una nobile famiglia toscana, assegnato al maestro da James Beck (4 anni fa) e da Claudio Strinati (oggi). La piccola scultura ad altorilievo di 36 centimetri di diametro secondo questi studiosi sarebbe un autoritratto di Michelangelo: la tecnica e gli strumenti utilizzati per realizzare l'opera, secondo Strinati, non lascerebbero dubbi. Il marmo raffigura un uomo barbuto e anziano e secondo gli studiosi potrebbe essere assegnato al 1545 circa e provenire dal complesso funerario della tomba di papa Giulio II realizzata da Michelangelo nella chiesa di San Pietro in Vincoli di Roma. Spiega Strinati, già soprintendente di Roma e oggi dirigente del Mibac: «La prima testimonianza documentata su questa scultura compare in una guida turistica del '700 relativa a Pisa, dove si parla di un possibile autoritratto di Michelangelo in una collezione della città. Ma ci sono altri indizi: la composizione chimica del marmo è la stessa del materiale delle cave di Polvaccio, sulle Apuane, dove si riforniva abitualmente Buonarroti. Infine il ritratto potrebbe esser stato fatto con scalpelli a lame larghe e con un trapano, lavorazione compatibile con le metodologie di Michelangelo». (Il Giornale dell'Arte)

Tondo con ritratto di Michelangelo
ames Beck, professore di storia dell'arte alla Columbia University di New York, sembra esserne certo: ''Quel tondo di circa 35 centimetri raffigurante un uomo con la barba, sarebbe un autoritratto scolpito su marmo di Carrara dalla mano di Michelangelo''. E se così fosse, l'autoritratto scolpito dal Maestro fiorentino quando aveva circa 70 anni, avrebbe un valore intorno ai 100 milioni di dollari. 
La convinzione dello studioso americano non è recente, già 1999 James Beck pubblicò un saggio sul Buonarroti dal titolo ''Tre parole su Michelangelo'' in cui per la prima volta il professore attribuì il tondo al genio della Cappella Sistina. 

''È un'opera eccezionale, di grandissimo pregio, a mio parere di Michelangelo'', dice il professor Beck che basa la sua tesi su caratteristiche del tondo sia artistiche sia in parte scientifiche. Innanzi tutto l'espressione. La mano che ha scolpito il tondo è riuscita a rendere al contempo lo sguardo verso l'infinito e l'ideale e un occhio di disprezzo per la mortalità della vita terrena. Pensiero, questo, tipico della visione neo platonica michelangiolesca. Un'espressione molto simile a quella del Nicodemo della Pietà, conservata al museo dell'Opera di Santa Maria del Fiore a Firenze a cui Michelangelo lavorò dal 1547 al 1555. James Beck data il tondo nel periodo che va dal 1545 al 1555, il che però non è confermato né nella celeberrima biografia di Michelangelo di Giorgio Vasari, né in quella dell'assistente e biografo del genio fiorentino Ascanio Condivi. 

A dare forza alla tesi del professore della Columbia e a distinguere quest'opera da tutte la altre che con superficialità nella storia sono state attribuite a Michelangelo sarebbero la qualità e la raffinatezza della scultura. Le caratteristiche del viso, rese così bene nel marmo, ricordano in modo impressionante quelle del ritratto del maestro fiorentino dipinto da Jacopo del Conte, quando Michelangelo era ancora vivo. Da un punto di vista scientifico è praticamente impossibile datare il momento della scultura. I test che si possono applicare ci parlano solo dell'età geologica di quel marmo, un'età che non ha nulla a che vedere con la sua lavorazione. 
Ma il professor Corrado Graziu dell'Università di Pisa ha scoperto il luogo di origine del marmo utilizzato per il tondo. Non solo si tratta di Carrara, ma proprio della cava del Polvaccio, il sito noto anche come la 'Cava di Michelangelo', perché Michelangelo lavorava principalmente il marmo estratto da li'. 
Infine un ultimo dato interessante scoperto dal professore Graziu e considerato fondamentale dal professore della Columbia: il tondo è stato esposto per 150 anni ad agenti atmosferici e poi ripulito con degli acidi le cui tracce sono ancora presenti sul tondo. Questo spiegherebbe come mai la superficie dell'opera sia così liscia. ''La questione della superficie della scultura mi aveva sempre preoccupato - ha raccontato il professor Beck al quotidiano newyorkese 'New York Sun' - perché Michelangelo nel periodo in cui ho datato il tondo, aveva elaborato lo stile del 'non finito''' quello, per esempio, della Pietà Rondanini. (Guidasicilia)

Pietà Bandini - part. Nicodemo

Piazze d'Italia?

Una breve impressione sullo stato dell'architettura oggi, in particolare nella realizzazione di piazze, incapace di rapportarsi con uno spazio urbano storicizzato come il centro storico di Roma che vanta una grande tradizione in questo senso. Lo spunto è la riqualificazione di piazza S. Silvestro. Un primo progetto, assolutamente anonimo e inconcludente, è stato scartato per la mancanza di verde e il poco decoro (panchine-bara, un orribile scultura contemporanea,ecc.). Il nuovo progetto, proposto da Paolo Portoghesi, pur richiamandosi a forme rinascimentali (vi veda Michelangelo) non ha nessun contatto con la città. Di fatto un mero luogo di passaggio che non favorisce la socializzazione ne la percezione della città come luogo dell'incontro e della storia condivisa. Riguardo al verde si può obiettare che nelle piazze più belle (Navona, del Campo, ecc.) è sempre stato assente, ma queste nascono in accordo con l'architettura e lo spazio, si sono formate in maniera quasi naturale e successivamente sono state dotate di decori appropriati. Realizzare una piazza a Roma non è affatto semplice e dovrebbe essere un avvenimento quantomeno condiviso dalla popolazione. E dovrebbe avere, in fondo, una forte idea identitaria. Quella proposta da Portoghesi, per quanto ineccepibile, mi pare l'ennesima occasione mancata per la città di Roma che da oltre mezzo secolo non riesce a produrre, per il suo centro, architettura e spazi di qualità. 


Primo progetto
Progetto di Paolo Portoghesi

sabato 15 ottobre 2011

Whitehouse - Uno sguardo critico sul "sistema dell'arte"

Segnalo questo interessantissimo blog, Whitehouse, che offre approfondimenti mai banali, ma sempre critici e (de)costruttivi, sul sistema dell'arte contemporanea e sullo stato della critica d'arte oggi in Italia (si veda la recente uscita di Politi sul ruolo della stagista). Realizzato da addetti ai lavori è arricchito da molte interviste con critici e curatori strutturandosi come una sorta di project room online. L'autore è Luca Rossi e tra i tanti spunti volevo inserire queste riflessioni

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Qual è lo stato della nuova critica d’arte in Italia?

Non esiste critica, esistono curatori che vogliono fare gli artisti e gli autori. Gli artisti non sono il cardine (come viene detto nel primo appuntamento di sentimiento nuevo), non sono i protagonisti del testo, ma sono un pretesto. Il sistema seleziona certo, e sceglie la strada del"mi piace/non mi piace" di facebook, non c'è mai alcuna riflessione ed approfondimento rispetto le luci e le ombre. 

Chi sono le sue figure di riferimento?

Non ci sono, forse questo blog. Ma se non c'è confronto critico non ci sono figure di riferimento ovviamente. 

Come è cambiata la scrittura d’arte nell’epoca dei curatori?

La critica diventa prosa funzionale ad un progetto artistico. Non ci sono scale critiche e valoriali ma tutto può andare se proposto e sostenuto nei luogi e dalle relazioni che "ci piacciono". 

E’ possibile trovare una nuova scala di valori, un nuovo vocabolario, nuovi modelli narrativi per la critica d’arte?

Sì, ma non lo si fa sopra torri d'avorio nel 2011. Ci vuole il coraggio di non compiacere sempre tutti, ed inoltre il coraggio per un corpo a corpo con il pubblico.

È vero che in Italia si scrive molto ma si legge poco anche tra gli addetti ai lavori?

Il testo scritto (vedi Moussoscope) diventa solo riempitivo, estetica del testo; la rivista diventa opera giovanilistica. Non si legge perchè si scrivono sempre le stesse cose, rispetto ad un linguaggio che vive una crisi profonda (e non solo in italia). 

Quali sono gli articoli e i saggi più importanti degli ultimi dieci anni?

Ci sono poche cose quà e là. Forse questo blog ha innescato una fase di utile riflessione. Ma le cose si costruiscono in anni ed anni, non dal giorno alla notte. 

Siamo ancora in grado di racchiudere la scena dell’arte italiana attuale in un pensiero critico forte, capace di imporsi anche fuori dai nostri confini?

Assolutamente no. La scena italiana è paralizzata da esterofilia e complessi di inferiorità, da una parte, e assenza di un pubblico appassionato ed interessato dall'altra parte. Il pubblico del contemporaneo è fatto da addetti ai lavori e curiosi.

Quali punti di forza e carenze possiedono le nuove riviste e case editrici?

Il punto di forza è la continuità e la voglia di fare, ma procedono paralizzate esattamente come la scena italiana. 

Esiste uno spazio di dibattito critico sui quotidiani e i principali mezzi di comunicazione?

Assolutamente no. Un sistema piccolo, precario e con posta in gioco bassa non può creare confronto critico e approfondimento. Questo, negli anni, mortifica e disincentiva la qualità. C'è un compiacimento generale e un conflitto di interessi permanente che disincentiva la libertà di espressione. 
Dopo due anni, il sistema riconosce le sue carenze, ma invece di attivare un confronto reale ed allargato, decide di salire su torri d'avorio ancora più alte, consolato dalla presunzione di riflettere su se stesso con leggerezza, amicizia e simpatia. 

Perché in Italia i musei faticano a costituirsi come istituzioni in cui una comunità di artisti, critici, curatori, galleristi, collezionisti, scrittori, editori, possano raccogliersi attorno ad un pensiero critico?

Perchè i musei in italia non nascono dalla prodonda necessità del loro contenuto e di una missione verso il pubblico; nascono come grandi insegne luminose, lì a dimostrare ostinatamente la presunta modernità dei soggetti pubblici e privati che li sostengono. Quindi non c'è mai reale attenzione per il contenuto, perchè questi sono contenitori degenerati in grandi insegne. Questo anche perchè in italia non c'è un pubblico realmente interessato ed appassionato all'arte contemporanea. Negli ultimi venti anni il "miglior" sistema italiano non è stato capace di ricucire uno scollamento con il pubblico; o forse non ha voluto, perchè convinto di non riuscirci. Questo determina anche un sistema politico e mediatico che non riconosce questo miglior sistema (due dati: in otto anni di vita l'associazione Amaci -dei musei di arte contemporanea italiani- non è mai riuscita a farsi ricevere da un ministro del cultura; nel 2011 il festival internazionale, dico internazionale, di faenza non è stato ribattuto neanche nella versione web-cultura dei principali quotidiani italiani). E' chiaro che poi il massimo diventano sgarbi e giovanni minoli.

giovedì 13 ottobre 2011

Nanni Balestrini - Original tag cloud

La sistemazione grafica di parole in base alla loro pregnanza o importanza, definita tag cloud, che va tanto di moda su siti e blog in realtà è stata sperimentata per la prima volta in Italia negli anni '70 quando molti artisti giocavano con le frasi. Allora l'operazione era artistica, con una forte componente politica, e il processo di costruzione della "nuvola" era manuale. Significativo, per esempio, è Potere operaio di Nanni Balestrini che fu esposto per la prima volta in occasione della Quadriennale di Roma del 1972. Finì poi in un deposito per quasi trent’anni. Tornato alla luce fu restaurato e appartiene oggi a una collezione privata.




Nanni Balestrini, nato a Milano nel 1935, vive tra Roma e Parigi. Negli anni Sessanta è stato tra i principali animatori della stagione della neoavanguardia, autore di numerose raccolte di poesia e di romanzi di successo. Negli ultimi cinquant’anni, parallelamente alla produzione poetica e narrativa, ha sviluppato un’importante ricerca in campo visivo partecipando a numerose mostre in Italia e all’estero.

«La furia collagistica di Balestrini, che dura dalla fine degli anni Cinquanta, ha prodotto un corpus di grande coerenza e dalla cifra riconoscibilissima, segno che in questa riappropriazione non indebita dei testi altrui egli ci ha messo qualcosa del suo, che è poi lo stile – il che per un poeta è tutto, ed è fatto di molto sudore creativo» (Umberto Eco, 2002).

«Balestrini simula un’operazione di massaggio del linguaggio, mediante una condensazione manuale che ne evidenzia l’aspetto fisico e tangibile (…). Tutto è oggetto trovato, ma proprio per questo manipolato e manipolabile. Balestrini realizza opere che sono un suggerimento di opera, fondazione di un metodo evidente ma che richiede in ogni caso lo stato di grazia dell’artista capace di portare il materiale nella necessità della forma» (Achille Bonito Oliva).

«Che questo spazio pittorico sia anche uno spazio linguistico e che questo spazio linguistico divenga qui uno spazio pubblico, mi sembra più che evidente. Nanni è sempre stato un politico. Ha fatto politica prima con le poesie che rompevano ogni tessuto linguistico per riportare i segni all’alienazione di cui erano costituiti; poi ha ricostruito questi segni dentro vicende rivoluzionarie che i suoi romanzi descrivevano; adesso si è messo a fare politica con i collage…» (Toni Negri).

Van Gogh in 3D

Con alcune modifiche con photoshop Serena Maylon riesce a farci entrare realmente in un quadro di Van Gogh.







giovedì 6 ottobre 2011

Apple-mnemosyne

Penso che Warburg sarebbe andato a nozze studiando il fenomeno Apple. In questo articolo interessantissimo, un vero e proprio saggio, uscito su Il Foglio e scritto da Claudio Cerasa si spiegano molte dinamiche: la merce come logo(s) e la mela mangiata come icona del nuovo secolo con slittamento di significato. Cupertino, Betlemme: costruzione simbolica della Apple come religione implicita. Steve Jobs come figura cristologica e mitica e rappresentazione divina della sua figura e della sua storia. Contrapposizione tra la "legge" divina e il "male" delle altre compagnie. Microsoft come il diavolo. I-pad come tavola della legge. E molto altro.
Riguardo alla mela, per esempio, si legge: “quella mela evidentemente è un’entità molto più simile al frutto della conoscenza del primo libro della Genesi che a qualsiasi altra mela comparsa nella storia della mitologia occidentale, ma ciò che più sorprende del significato metaforico legato a quel frutto è il modo in cui l’inventore della Apple ha completamente capovolto il senso di quel simbolo: perché, con Jobs, la Mela, da frutto del peccato che ‘non devi mangiare poiché se tu ne mangerai di certo morrai’, è diventata il simbolo della conoscenza a cui è quasi doveroso non rinunciare, il simbolo di un nuovo, e rivoluzionario, ‘prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi’.

SE NE VA IL CRISTO DEI COMPUTER

lunedì 3 ottobre 2011

L'Arte Maivista


In occasione del ritorno oggi in edicola de Il Male dopo 29 anni, giornale che cambiò la concezione della satira in Italia, vorrei parlare dell'Arte Maivista, un vero e proprio movimento artistico nato negli anni '70 con tanto di manifesti. “L’Arte Maivista”, si legge nel progetto originale, “è quell’arte imprevista, multipla, alta, bassa, media, pop e anti-pop, inventata, e pubblicata - dal 1977 in poi - dalle riviste “certificate maiviste” come Frigidaire, Cannibale, Il Male, Frìzzer (su cui apparve per la prima volta nell’85 il “Manifesto del Maivismo” di Andrea Pazienza e Vincenzo Sparagna), Vomito, Tempi Supplementari, Il Lunedì della Repubblica, il Nuovo Male, la Piccola Unità ecc. ecc.
Queste riviste, tutte al principio originali esperimenti autonomi, sono divenute poi, non solo in Italia, dei modelli di comunicazione “altra” per l’originalità dei loro autori e collaboratori (dei quali - tra l’altro - moltissimi sono oggi tradotti e amati in decine di paesi).
Il Maivismo è un’arte multiforme, con autori spesso diversissimi tra loro, ma uniti nel rifiuto - ironico e consapevole - della “storia ufficiale dell’arte”, ovvero del “pensiero unico” dell’estetica dominante, che si basa sulla distinzione sistemica tra “arte per il popolo” e “arte per le elites”.





IL MAIVISMO DI FRIGIDAIRE,
ovvero i vertici dell'arte bassa

Queste pagine sono dedicate a una forma d'arte che solo da pochi anni, grazie agli autori qui rappresentati, è divenuta visibile. Non perché le opere non ci fossero, ma perché non erano state mai viste. L'ironia del manifesto "maivista" esprimeva d'altra parte un doppio senso sociale ed estetico del concetto di visione.
L'arte maivista è sia quella che lo sbarramento del privilegio e dello spettacolo sociale ha effettivamente "nascosto", sia quella che, proiettata a gran luce sullo schermo, è divenuta così abbagliante da non permettere più la "visione".
In altri termini c'è un'arte che sta sotto gli occhi, "le opere esistono", ma che non vediamo, "non sono state mai viste". Dobbiamo dunque imparare a "vederle", nel senso di accettare la "mobilità sociale" dell'arte e l'incursione di un diverso immaginario su quello "accademico" e "prevedibile". Dobbiamo incoraggiare l'imprevisto estetico che viene dal "basso". E dobbiamo anche accettare l'imprevisto che viene dall'"altrove".
L'imprevisto che ci sembrava di conoscere già, di aver catalogato e incasellato in qualcosa.
È destino particolarissimo, e affascinante, del fumetto, questa categoria estetica della riproducibilità assoluta, che esiste solo in funzione di un trucco scenico.
Qui gli attori recitano di profilo in modo che il loro naso domini la scena. Là il muscolo del braccio è così gonfio che potrebbe esplodere. Sullo sfondo case, cortili, giardini, campagne innevate, cavalli e cammelli, navi e gomene, aerei e macchine della squisitezza, esseri che non sono, come dice Scozzari, che "macchine a molla", come me, come voi, come tutti.
Prima con Cannibale, prepotentemente fondato da Stefano Tamburini nel '77, trascinandovi dentro il meglio del nuovo fumetto mondiale (Scozzari, Pazienza, Liberatore, Mattioli); poi con Frigidaire e la sua sterminata serie di "filiazioni editoriali" (Frìzzer, Tempi Supplementari, Vomito, Il Lunedì della Repubblica) questa ricerca (che trovò un suo momento di esplosiva convergenza già su "Il Male" tra il '78 e l' '80) è andata diventando da progetto/provocazione sequenza estetica costruttiva, progetto e mutamento reale di scenari concreti.
È la scoperta che l'arte può uscire dal suo "territorio" se vuole esplorare le sue latitudini più lontane.
In questa vicenda di gruppo e d'ambiente, dominata da figure auto-affermative (come, al limite, me medesimo), dove il giudizio estetico tradizionale è respinto o sospeso, perché indifferente al contenuto individualissimo dell'approccio all'immagine, si può anche cercare l'ancoraggio all'arte "bassa" del comic d'evasione, ma è un ancoraggio difficile e forzato.
Liberatore s'innalza ben oltre il bravissimo Corben e aspira alla potenza trasgressiva di Michelangelo.
Scozzari non insegue l'espressionismo di Grosz o di Dix, poiché lo ha "digerito" ab ovo, dal profondo dei suoi influssi sull'immaginario fumettistico americano e fantascientifici.
Mattioli non è un replicante di Disney, ma una sua intelligente "creatura incarnata", un suo acutissimo "ri/creatore".
Infine Pazienza, l'indimenticabile Paz, non crea né la perfezione, né il consenso: li possiede come un al di qua della poesia, un al di qua dell'estetica, anche nei ritratti da bar, anche nelle caricature paradossali della parodia disegnativa.
E Stefano Tamburini, figura centrale e 'storicamente fondativa" di tutta questa storia "maivista", è un architetto del bricolage, un costruttivista della pagina che incasella e traduce in unico flusso linguistico la diversità del segno e del segnale "maivista".
L'arte di Frigidaire, racogliendo in questa sigla questa prima linea post 1977 e pre 2000, è stata per me il punto di raccordo della mia passione per il disegno con la mia passione per la parola.
In questo ciclo ho scoperto che eravamo tutti solissimi e insostituibili, ma anche confusi sulla scala di una sfida, sul filo di un abisso.
E in questo purgatorio paradisiaco e infernale, a mezza strada tra la vetta fredda e inutile dell'archeologia artistica e il rantolare del vento nelle umide spelonche dell'underground, abbiamo scoperto che non bastava e non basta dire che "il fumetto è arte", né bastava "alludere" all'accademia per rendere "artistico" un fumettino volgarino volgarino (destino crudelmente poco "carino" di tanti valvolini tardofuturisti, tantofiloturisti). No. L'invenzione è una traccia dolorosa che s'incide dolcemente nelle coscienze e ritorna, senza più né padre, né madre, né etichette, nell'universo misterioso e buio, ma non cieco, dei sogni di tutti i nostri simili, dall'Ovest all'Est, dal Nord al Sud del pianeta Terra.


Vincenzo Sparagna
Snork - Supplemento autonomo de "Il Lunedì della Repubblica" n.22
24 giugno/7 luglio 1991



MANIFESTO DELLA PITTURA MAIVISTA

Noi Certificati Artisti Maivisti sopportiamo che:
Tutta l'arte rifà il verso a se stessa.
L'Arte vera è quella Maivista.
"(...) Il Maivismo è tensione verso il fugace, labile apparizione onirica, come gli affreschi romani scoperti durante gli scavi della metropolitana, e che al primo contatto con l'aria si sono Dissolti" (Nardella).
Avevate mai visto le pitture del maestro Vincenzo Sparagna?
Sicuramente no. E non certo per l'esiguità della produzione,
che è vastissima. Ma perché le opere non venivano viste!
"(...) Maivismo è l'underground che si cela alla vista, il promuoversi
per poi negarsi, tanto più che, oltreché promuoversi, non si è fatto
quasi niente" (Nardella).
L'Arte Maivista è tutta l'arte che non avete visto mai e che potete invece da oggi vedere sulle riviste qualificate Maiviste che per le loro (le riviste maiviste) caratteristiche peculiari resistono pochissimo all'occhio di chi le sfoglia, e che per raggiungere questo obiettivo si sacrificano di essere bruttissime.
Un'opera, non appena vista, diventa Giavista* - Perché resti almeno Pokovista** è fondamentale che:
Non tiri l'occhio - Non attragga e non repella - Non suggestioni,
evochi, scateni i ricordi - Non si capisca - Non denunci, provochi,
ammetta - Non abbia tempo né età - Non abbia un fine - Non abbia
una fine - Non! Non! Non!
Sia del maestro Vincenzo Sparagna***
Venga recensita da Andrea Pazienza****
Somigli a questo manifesto.

Roma aprile 85 - Noi Certificati Artisti Maivisti
Vincenzo Sparagna e Andrea Pazienza

Note al Manifesto della Pittura Maivista.

* Gustav Giavosky (1903-1990) Fondatore della Pittura Giavista.
** Jack Francisco Pokovski (1961-1968) Iniziatore della pittura Pokovista.
*** Vincenzo Sparagna (1951-...) il massimo del Maivismo.
**** PAZ (....). l'imprinter del Maivismo.


Snork - Supplemento autonomo de "Il Lunedì della Repubblica" n.22
24 giugno/7 luglio 1991

sabato 1 ottobre 2011

Decostruzione

Storia dell'arte e trippa per gatti. Gli articoli di Tomaso Montanari


Il culto dell'arte non è mai stato tanto diffuso quanto oggi, ma quale storia dell'arte è stata innalzata sugli altari? In un clima di sempre più acceso relativismo l'endemica mancanza di fondi per la cultura e la tutela unita a nuove tendenze di marketing che riguardano i beni culturali nella speranza, illusoria, di far cassa stanno completamente svilendo il nostro patrimonio. La storia dell'arte come disciplina scientifica con una sua specifica metodologia, molto diversa dalla soggettività della critica d'arte e dalla spettacolarizzazione del mercato, appare sempre più in crisi e con essa il ruolo degli storici dell'arte. A riguardo vorrei proporre quattro articoli usciti su Il fatto Quotidiano scritti da Tomaso Montanari, docente presso la facoltà Federico II di Napoli ed autore del bellissimo pamphlet A cosa serve Michelangelo? (qui si può leggere la premessa). Tra queste righe tutta la deriva "mercantile" della storia dell'arte, l'indifferenza verso il patrimonio dello Stato, la mancanza di studi scientifici, gli interessi commerciali, l'assenza degli storici, la crisi di un sistema di tutela che è stato da sempre il nostro fiore all'occhiello.





e come ciliegina sulla torna mettiamoci anche Salvatore Settis

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