giovedì 29 novembre 2012

Il nudo più bello della storia del cinema


Le retour à la raison (II ritorno alla ragione)
(1923, b/n, muto, 4’)
interpreti: Alice Kiki Prime (Kiki de Montparnasse)

Realizzato in una sola notte, fu presentato tra fischi di disapprovazione alla storica serata del “Coeur à barbe”, organizzata da Tristan Tzara nel 1923. Privo di qualsiasi struttura e costruito con frammenti di pellicola impressionata, senza alcuna concatenazione logica, il film fece scandalo, secondo le intenzioni dell’autore. Man Ray infatti “filmò i movimenti di una spirale di carta ... e cosparse la pellicola vergine di spilli e di vari oggetti d’uso comune come bottoni c fiammiferi, i quali impressionarono la pellicola in modo tale che alla proiezione sembrava di assistere a una curiosa caduta di neve metallica. Un corpo di donna nuda e delle luci da fiera sono i soli elementi concreti di questo film.” (Ado Kyrou)

Man Ray che aveva lavorato intensamente nei campi della fotografia, della progettazione di oggetti, in un clima di ricerche prettamente dadaista si accosta al cinema intorno agli anni Venti. Il primo film di Ray "Retour à la raison", presentato nel 1923 durante la famosa serata dadaista "Coeur à barbe", fu realizzato praticamente in una sola notte con diversi materiali cinematografici, in parte già pronti.

Si può considerare come, almeno nella tradizione che prima ancora di tramandarci la copia ce ne ha tramandato la mitologia, un film confezionato "all'improvviso", una sorta di collage nato in laboratorio di montaggio. Esso dura pochi minuti ed è costruito al di fuori di ogni struttura formale e contenutistica, pochè vuole essere assolutamente provocatorio, come anche il titolo dimostra: infatti era tutto fuorchè razionale o razionalmente determinato.

Gli strappi reali della pellicola che si sono verificati nel corso della tumultuosa proiezione (anche questo fa parte della mitologia oramai inseparabile dal testo visivo) sono omologhi degli strappi metaforici del tessuto discorsivo e narrativo che il film realizzava. Le porzioni di pellicola impressionata senza ricorrere alla cinepresa, ma per semplice "contatto" di oggetti comuni (spilli, puntine da disegno, pepe e sale) sono altrettanti "strappi" alla scena illusoria in profondità prospettica della "storia" inscenata dal cinema narrativo (che eredita la scena prospettica della pittura e del teatro): un calcolato effetto di shock ci riporta alla superficie dello schermo, della pellicola, dell'emulsione.

Da questo punto di vista, il piccolo film di Man Ray realizza con la pellicola qualcosa di simile all'assemblaggio di ready made della "pittura" dada. D'altra parte, l'intrecciarsi degli elementi più sfrenatamente casuali con altri di raffinatezza fotografica molto ricercata (i sottili arabeschi dell'ombra di una tenda sul corpo nudo della modella, nella parte finale) ci portano dentro il procedimento tipico dell'arte di Man Ray, basato su un dosaggio di "caso" e "necessità", improvvisazione e rigore formale. (Man Ray e il cinema)




martedì 27 novembre 2012

Apocalittici e integrati

Interessante articolo (con relativo dibattito nei commenti) del blogger Luca Rossi (Whitehouse) circa atteggiamenti e modi operativi degli artisti di ultima generazione racchiusi, pare, in un vuoto citazionismo di maniera e incapaci di formulare il nuovo. Da artribune. Insieme all'articolo voglio sottolineare anche l'ottimo blog di Michele Dantini, saggista e critico, professore di storia dell'arte contemporanea in Piemonte, autore di puntuali articoli circa l'odierno e marcio sistema dell'arte e della cultura.

Luca Rossi - Giovani Indiana Jones

"Ultimamente moltissimi giovani artisti fanno sistematico riferimento alla storia e al passato. Assistiamo a un vero feticismo della citazione: peschiamo da Wikipedia e formalizziamo come vuole la moda, sfogliando le fanzine giovanilistiche Mousse eKaleidoscope. La tecnica è quella di lavorare su immaginari accattivanti, esattamente come fa il cinema o la letteratura. Ma mentre il cinema e i libri hanno la possibilità di calibrare una certa complessità espressiva e narrativa, l’arte sembra limitarsi a proporre gadget-feticci di quel determinato immaginario. L’opera, come dato finito e oggettuale, sembra paradossalmente tradire la complessità dell’immaginario o dell’evento storico che abbiamo deciso di citare.
È come se il giovane artista dovesse riempire ostinatamente un vuoto, o volesse fare a tutti i costi l’artista. La citazione del passato fornisce un contenuto sicuro, spesso non criticabile e che può essere formalizzato in mille modi accattivanti: i calchi dell’aula bunker Anni Settanta (Rossella Biscotti, Il Processo, 2010-11.), le sculture e le facce diavolesche dei babilonesi, il rame e il piombo della centrale nucleare dismessa, le dimensioni della cella di Aldo Moro (Francesco Arena, 3,24 mq, 2004), riferimenti all’occultismo e alle donne barbute, alla psicologia incrociati con immaginari di inizio secolo, recupero delle lettere degli anarchici, recupero del giornale di quel dato giorno del 1961 ecc. Giovani Indiana Jones scatenati che, come fossero nel fast food della storia, imbarcano citazioni e riferimenti con la stessa facilità e leggerezza con cui postano su Facebook.


Francesco Arena – 18.900 metri su ardesia (La strada di Pinelli) – 2012

Se il presente e il futuro sono incerti, meglio rifugiarsi in un passato percepito come mitico. È come se non ci fosse la volontà e la capacità di risolvere il presente, ma fosse sempre necessario aggrapparsi e fare riferimento a una memoria rassicurante. Non è la memoria nozionistica del passato e della storia che può migliorare il presente e il futuro, ma la capacità di adottare modalità e atteggiamenti migliori a fronte di errori passati. Fare i calchi dell’aula bunker degli Anni Settanta, piuttosto che ricreare la cella di Aldo Moro, significa proporre modalità e procedure che così presentate risultano fini a se stesse: la modalità del calco in cemento e la modalità del falegname-arredatore. Vedere i calchi dell’aula bunker o entrare nella cella di Aldo Moro ci forniscono un momento fugace di godimento voyeurista, ma poi le opere permangono come feticci più o meno originali.
Non è la nozione storica che risulta essere interessante, ma è la capacità di aggiustare e modificare procedure e modalità in funzione della memoria storica. Questi giovani sono ripetitori della nozione-citazione, ma non suggeriscono alcuna modalità-procedura-atteggiamento per risolvere il presente. La cosa più spiacevole è che sembra mancare consapevolezza dell’opera come progetto: ossia sembra che i risultati che questi giovani Indiana Jones si prefiggono non corrispondano ai risultati reali. Inoltre, costoro possono fare affidamento su una folta schiera di curatori nazionali e internazionali che contribuiscono a diffondere l’uso di queste pratiche citazioniste: questo perché oggi le grandi mostre internazionali tendono ad assomigliare a luna park per adulti dove a ogni “giostra-installazione” è necessario proporre un diverso immaginario accattivante.


Jerry Saltz

Una certa retorica del passato fornisce la possibilità di essere accettati in un Paese per vecchi, in un Occidente per vecchi. Ne risulta un fatto significativo: sembra che i giovani vengano pagati per il loro silenzio e la loro arrendevolezza dalla stessa Nonni Genitori Foundation che agisce verso di loro come ammortizzatore sociale. Una “generazione nulla”, come la definisce Jerry Saltz [1], che si lamenta sistematicamente di “un mondo che fa schifo” ma che poi non riesce a fare nulla. E che procede nel più banale individualismo opportunista.
Dall’Italia molti scappano come eterni Peter Pan, sospesi tra una residenza d’artista e un’altra, sempre impegnati a riempire ostinatamente quel vuoto con qualcosa che possa risolvere il loro disagio. Costoro non scappano solo dall’Italia schiacciati da esterofilia e complessi d’inferiorità, ma scappano anche da un presente e da un futuro che non sanno e che non vogliono risolvere. Tutto andrà bene per loro, nel ristretto sistema dell’arte, fino a quando potranno lavorare bene alle pubbliche relazioni. E fino a quando la Nonni Genitori Foundation continuerà a pagare.

Luca Rossi

[1] Generazione Nulla, “Flash Art Italia”, n. 295, luglio-agosto-settembre 2011, p. 64.

Michele Dantini - Geopolitiche dell'arte


“…La storia postbellica dell’arte italiana è segnata dagli equilibri geopolitici e culturali della guerra fredda, e da quello che potremmo chiamare il marketing delle identità locali. Come confrontarsi con una tradizione illustre, la propria, se si appartiene a una nazione che si scopre bruscamente periferica? E come ripristinare dialoghi cosmopoliti dopo decenni di isolamento?
La «mutazione» si compie tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento: se un artista come Fontana rimane fedele a un mondo la cui capitale è Parigi, e il cui faro indiscusso è Picasso, Manzoni apre a geografie artistiche atlantiche. Intende la citazione non come mera ripetizione o gioco culturale, ma come pratica distorsiva, satirica e fantastica. «Plagio» e «furto» iconografico, ai suoi occhi, sono modi attraverso cui la Periferia può tornare a parlare di sé e modificare i rapporti che la legano al Centro.

Critici e curatori qualificati partecipano a pieno titolo al negoziato tra culture artistiche e comunità economiche e politiche. Si tratta pur sempre di destare un’idea di Paese, ritrovarla in questo o quell’artista e rilanciare sul piano sovranazionale. Mostre e interpretazioni modellano fantasie comunitarie e progetti di identità cui gli artisti corrispondono (o cercano di sottrarsi) nei modi più diversi, con repliche figurate e tecniche congeniali…” (Link)

sabato 17 novembre 2012

L'utopia dell'isola di Hashima

Con questo post voglio inaugurare una nuova tag, le città invisibili, che trattano di quelle che chiamo città dello spirito dove lo spazio a misura o meno d'uomo ispira il sublime. La buona architettura è quella che sa invecchiare. Probabilmente è l'utopia della costruzione ad aver formato quest'isola che pesca la sua forma nei nostri sogni ma che, resa scheletrica dall'abbandono, ci mostra un'immagine sorprendentemente affascinante. E' in fondo il fascino della rovina, di una nuova acropoli moderna e industriale, ma anche l'angoscia dell'horror vacui, la struttura labirintica, il gioco di prospettive, come si ci trovassimo di fronte ad una costruzione della mente che sa tanto delle carceri piranesiane quanto di rovine antiche. E' forse questa è la sua contraddizione.



L'isola di Hashima sperduta tra le 505 isole disabitate della prefettura di Nagasaki, in Giappone, è un luogo spettrale e affascinante, meta di un insolito turismo. L'isola è chiamata ancheGunkanjima, che significa "nave da guerra", per via dell'aspetto che assume il suo profilo sul letto dell'Oceano: un'isola grigia e decadente, circondata da un grande muro di cemento e i cui edifici prossimi al collasso vanno a delineare la forma di una specie di grande nave da guerra. Questa misteriosa isola fu costruita sopra un'importante miniera di carbone che, nel periodo compreso tra il 1887 ed il 1974, contribuiva notevolmente a rifornire di energia la città di Nagasaki, che si trovava ad un'ora di navigazione. Era un polo minerario talmente importante che decisero di costruire centinaia di appartamenti per i minatori, con scuole, ospedali, palestre, cinema, bar, ristoranti e negozi per le rispettive famiglie. Furono costruiti anche i primi edifici in cemento armato della storia del Giappone, per difendersi dai frequenti tifoni che si abbattono su quelle zone. Nel 1959 l'isola di Hashima arrivò ad avere la più alta densità di popolazione mai registrata in tutto il mondo: ben 3.450 abitanti per km². Gli appartamenti erano come delle celle per monaci, piccoli e soffocanti, e gli abitanti erano suddivisi in "caste": minatori non sposati, minatori sposati e con famiglia, e dirigenti della Mitsubishi e insegnati, che potevano persino godere del lusso di avere una cucina e un bagno privato. La sopravvivenza di Hashima dipendeva interamente dai rifornimenti via terra e se un tifone si abbatteva sull'isola, i suoi abitanti dovevano cercare di sopravvivere per giorni in attesa della prossima nave cargo.

Nel periodo di massima attività l'isola produceva 410.000 tonnellate di carbone all'anno. L'isola di Hashima fu abbandonata dopo che il petrolio iniziò a sostituire il carbone come fonte di energia. Dal 1974 Gunkanjima è una città fantasma. Nonostante sia stato un luogo di sofferenza, di stenti e di morte, Hashima rappresenta un importante pezzo di storia per il Giappone e il suo sviluppo industriale post-bellico. Oggi l'isola è un cimitero di edifici decadenti e destinati al crollo ma, proprio per il suo fascino spettrale, è meta di appassionati di esplorazione urbana e di cineasti. Nel 2005 fu concesso ad alcuni giornalisti di accedere all'isola e da allora tutto il mondo è venuto a conoscenza dell'esistenza di questo luogo incredibile. Fino al 2009 si rischiava il carcere se si provava a mettere piede nella città fantasma ma, nell'aprile di quell'anno, una parte dell'isola è stata riaperta per le visite, anche se, a causa delle condizioni del mare, è possibile accedervi solo per 160 giorni l'anno.








lunedì 12 novembre 2012

La madre dei Caravaggio è sempre incinta

Sensazionalismo, il male dell'arte
Da Michelangelo a Caravaggio: la filologia è ridotta a burla 

E le ossa di Monna Lisa? Dove saranno, le ossa di Monna Lisa? Quando salteranno fuori, in un tripudio di titoloni, le ossa di Monna Lisa? Sono queste le domande provocatorie poste dal libro che lo storico dell'arte Tomaso Montanari ha dedicato alle «scoperte sensazionali» che periodicamente irrompono sulle prime pagine guadagnandosi uno spazio enorme. E relegando nella pressoché totale disattenzione le opere che stanno andando a ramengo, dal crocifisso di Vasari nella chiesa napoletana di San Giovanni a Carbonara agli affreschi quattrocenteschi della novarese Santa Maria Nova di Sillavengo fino all'agonia della reggia di Carditello.

Tomaso Montanari, «La madre dei Caravaggio è sempre incinta» (Skira, pp. 75, € 9) Il pamphlet ha un titolo sbarazzino, La madre dei Caravaggio è sempre incinta  ma è un'invettiva micidiale contro il modo in cui è trattato il tema delle ricorrenti «scoperte» di un nuovo capolavoro ritrovato negli scantinati, tra le macerie di una chiesa, nella soffitta di una vecchia zia defunta o, caso più probabile, nel magazzino di un mercante d'arte che un bel giorno scova dietro una crosta un «pezzo meraviglioso» da milioni di euro.

L'idea di confermare se Montanari abbia o meno ragione, nello svergognare l'attribuzione a Michelangelo del Cristo ligneo comprato a caro prezzo dal governo italiano ai tempi di Sandro Bondi o a Caravaggio dei «cento disegni mai visti» dal valore folle di «circa 700 milioni di euro» scovati là dove erano sempre stati da «due perfetti ignoti agli studi caravaggeschi», non ci passa per la testa. Cadremmo nello stesso tranello: è bene che della valutazione dei Caravaggio si occupino quelli che per una vita hanno studiato Caravaggio.

Ma è difficile non essere d'accordo con Montanari quando scrive: «Se vogliamo un brivido anticonformista e un potente antidoto contro la superficialità e la cialtronaggine abbiamo bisogno di coltivare i dubbi». Altrimenti, il rischio è di cadere nel pasticcio misterioso della seconda Medusa attribuita (lo storico non è d'accordo: «Basta guardarla per capire che è una copia...») a Caravaggio e lanciata dalla società «Once - Extraordinay Events»: «In una puntata di Chi vuol esser milionario, Gerry Scotti ha chiesto quale soggetto fosse stato dipinto da Caravaggio una sola volta: la concorrente ha indicato la Medusa degli Uffizi. E aveva perfettamente ragione: ma il pubblico da casa è insorto, perché la campagna promozionale era stata tanto pervasiva che tutti sapevano che esisteva un'altra Medusa. Il finale comico è stato che, nella puntata successiva, Scotti si è dovuto scusare».

Così come è difficile dar torto a Montanari quando se la prende con un eccesso di sensazionalismo e una caccia all'«evento» che rimuove il degrado del patrimonio artistico italiano (nessuno fa manutenzione sul mosaico del «cave canem» di Pompei in attesa chissà della sua «riscoperta») e assorbe tutto nell'ottica del marketing, fino a produrre una corsa allo scambio di opere d'arte (di per sé, ovvio, legittima e spesso giusta) così ossessiva da far pensare a certi annunci peccaminosi dei club di «scambisti»: «Tiziano giovane, amante natura, cerca Giotto maturo per caldo scambio volumi-colore»; «Leonardo sacro, ma ambiguo, cerca Mantegna litico per scambio morbido-duro; valuta anche Caravaggio, max 1605...».

C'è chi contesterà lo studioso fiorentino accusandolo di essere lui pure pieno di certezze che manifesta con ironia tranchant, come quando liquida un secondo Cristo ligneo «di Michelangelo» trovato secondo monsignor Rino Fisichella nel Patriarcato melchita del Libano: «Qui non si tratta di opinioni scientifiche, ma di un problema di minima alfabetizzazione: se attribuire a Michelangelo il Cristo comprato da Bondi è come confondere un leone con un gatto, attribuirgli il Cristo di San Marino è come scambiare un leone e un merluzzo».

Ma è difficile dissentire quando, sorridendo del sindaco dell'Argentario che vuole costruire un mausoleo per ospitare le presunte ossa di Caravaggio oggi custodite in banca (sic...) perché «inaugurare la tomba "di Caravaggio" è più semplice che tenere pulite le meravigliose spiagge», contesta che «mentre l'esercizio abusivo della professione medica è un reato, chiunque può provare a proporsi come storico dell'arte». Assurdo: «La capacità di riconoscere gli autori delle opere d'arte non è una dote innata, una rabdomanzia, un fiuto. È invece il frutto di un lungo e faticoso esercizio, una tecnica che si impara e che si insegna...». Certo, spiega, «le attribuzioni sbagliate sono sempre esistite» ma «le bufale sono un'altra cosa: non sono errori scientifici (legittimi, e inevitabili), ma creature extrascientifiche nate al di fuori di ogni serio protocollo di ricerca, a uso e consumo dei media».

Cosa fare? Vale la pena di dare vita, per Montanari, a un Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulla storia dell'arte che «potrebbe facilmente verificare i singoli casi, contattare i migliori esperti dei singoli campi e fornire in tempi rapidi una risposta» prima che «il Caravaggio di turno fosse sbattuto in prima pagina». Il tutto nella scia del Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, presieduto da Piero Angela e composto da Rita Levi Montalcini, Carlo Rubbia, Silvio Garattini, Margherita Hack, Tullio Regge, Giuliano Toraldo di Francia, Aldo Visalberghi e Umberto Eco. Il quale arrivò a inventarsi, contro i ciarlatani, il premio «Bufala d'oro».


Compare invece nella discussa mostra Caravaggio e sues seguidores, realizzata in Brasile, a Belo Horizonte (Casa Fiat de Cultura, 22 maggio/15 luglio 2012) e San Paolo (Pinacoteca, 25 luglio/ 30 settembre 2012), e poi in Argentina, a Buenos Aires (Museo Nacional, 22 ottobre/15 dicembre 2012), nell'ambito dell'evento 'Caravaggio e i suoi seguaci: conferme e problemi' curato dalla soprintendente per il Polo museale della città di Roma Rossella Vodret, l'ennesimo Battista attribuito al Maestro, un San Giovanni Battista che nutre l'agnello di collezione privata . La mostra, tra l'altro, presenta come autografo anche l'improbabile San Gennaro decollato.


Il catalogo completo della mostra è scaricabile da questo link: http://www.casafiatdecultura.com.br/admin/catalogos/carava.pdf

domenica 11 novembre 2012

Digitalife 2012

La Fondazione Romaeuropa presenta la terza edizione di Digital Life con un percorso modulare che si articola in tre sedi espositive dal forte valore simbolico. Il MACRO Testaccio indagherà il rapporto tra arte visiva, arte digitale, performing arts e fotografia, centrando il suo sguardo nella quarta dimensione della creazione, in uno spazio in cui i confini fra i diversi linguaggi si dissolvono. L’EX GIL declinerà i linguaggi della creatività digitale e delle sue fertili connessioni con le tecnologie più avanzate e sperimentali. Un progetto aperto e visionario che offrirà uno sguardo spettacolare sulla classe creativa del Lazio. Focus dei talks che animeranno l’OPIFICIO TELECOM ITALIA sarà invece una visione trasversale della creatività e dei suoi fautori, in collaborazione con le realtà che fanno dell’innovazione la loro prospettiva. Installazioni multimediali, ambienti sonori, videoarte, opere interattive, talk ed eventi scandiranno il tempo che ci guida da oggi al futuro.



Digital Life 2012 - Human Connections a Roma linguaggi della creatività digitale e sperimentazione tecnologica multimediale in mostra al MACRO, Opificio Telecom, Ex Gil 15 novembre / 15 dicembre 2012. Marina Abramović, Vito Acconci, Jan Fabre, Masbedo, Paola Gandolfi alcuni dei nomi degli ospiti in programma alla mostra. Installazioni multimediali, ambienti sonori, videoarte, opere interattive, talk ed eventi faranno immaginare futuri possibili.


giovedì 8 novembre 2012

Una croce a Santa Croce?


Premetto che l'installazione di Palladino a Piazza Santa Croce a Firenze non mi convince per nulla. Una montagna di marmo senza senso che vista a livello stradale appare inconciliabile con l'ambiente urbanistico fiorentino mentre vista in pianta non è che un'insensata e inutile rivisitazione e trasfigurazione del segno più sacro alla cristianità. E poichè oggi da una parte, da una certa tipologia di artisti, si abusa troppo del simbolo e dall'altra, dal punto di vista dei fruitori, non si è più capaci di leggerlo e di comprenderlo trovo ancor più pericoloso trattare la croce con la superficialità della visione contemporanea che, come dimostrato in molte situazioni, è univoca ovvero non apre orizzonti di senso ma è pervasa da un nichilismo di fondo che sostanzialmente illude e confonde lo spettatore. La perdita, in questa "croce", della dimensione escatologica e staurologica non può inoltre che allontanare l'installazione dalla pur paventata idea di arte sacra attuale.

Così leggiamo sul sito della Fondazione Florens


"Una gigantesca croce di 80×50 metri realizzata disponendo davanti alla basilica francescana più di 50 blocchi di marmo estratti dalle cave di Carrara, diversi per dimensioni (dai 2 ai 4 metri di altezza), peso (alcuni fino a 38 tonnellate), forma e colore. Su ogni blocco Paladino inciderà e tratteggerà segni arcaici, volti, arti, cifre e lettere: tutti elementi che contraddistinguono il suo linguaggio figurativo e attraverso cui Paladino affronta ed esplora i simboli e le iconografie cristiane da cui trarre ispirazione. La monumentale croce entrerà in dialogo con la facciata ottocentesca di Santa Croce e sarà percepibile nella sua interezza dal sagrato e dalle finestre dei palazzi, mentre l’invaso della piazza sarà coperto con un tappeto di ciottoli bianchi dell’estensione di circa 4.000 metri quadrati: un candido manto di marmo che rifletterà la luce del sole e quella artificiale notturna trasformando piazza Santa Croce in uno specchio di spiritualità e arte, un immenso foglio bianco su cui Paladino ha immaginato di disporre i blocchi in forma di croce.

Il progetto, a cura di Pino Brugellis e Sergio Risaliti, associa l’universalità del simbolo cristiano alla contemporaneità del patrimonio artistico, che in questa occasione viene re-interpretato offrendo una nuova esperienza della piazza e restituendola ad una sua originaria identità, quella di spazio pubblico, e, insieme, di spazio sacro: le pietre impressioneranno con la loro mole lo sguardo dei cittadini, attratti all’interno della croce come in un labirinto o in un sacro recinto dei primordi" (link)

Così invece risponde Tomaso Montanari dalle pagine del Corriere

"Non parliamo poi di Mimmo Paladino: centomila euro (di questi tempi!) spesi per una sorta di trasloco di marmi, con la brillantissima idea della croce in Santa Croce. Come si può pensare che un’opera calata dall’alto per qualche giorno, un’installazione che non ha nulla a che fare col vivo tessuto degli artisti attivi a Firenze possa ‘redimere’ la socialità malata di quel quartiere? Davvero qualcuno pensa che qualcosa cambierà? E cosa dire del consumismo che esibisce tonnellate di marmo, incurante delle polemiche sull’insostenibilità del crescente fabbisogno di quella pietra? O della coazione ad occuparsi sempre e solo delle quattro o cinque piazze consacrate dal turismo di massa? E sì che l’artista ha parlato proprio di arte e spazio pubblico in una delle ‘lectio’ (sì, nel programma si usa ‘lectio’ anche al plurale: il latino non è una macchina da soldi, dunque si può benissimo usarlo senza conoscerlo)"


Per tacere poi su tutta la simbologia alchemica e sapienziale insita nell'opera e che va esattamente nella direzione opposta della spiritualità cristiana

http://fidesetforma.blogspot.com/2012/11/la-croce-di-paladino-in-santa-croce-fra.html

sabato 3 novembre 2012

I 500 anni della volta Sistina nelle parole di Benedetto XVI



CELEBRAZIONE DEI VESPRI IN OCCASIONE DEL 500° ANNIVERSARIO DELL’INAUGURAZIONE DELLA CAPPELLA SISTINA, 31.10.2012

Alle ore 18 di questo pomeriggio, nella Cappella Sistina, il Santo Padre Benedetto XVI presiede la Celebrazione dei primi Vespri della solennità di tutti i Santi, in occasione del 500° anniversario dell’Inaugurazione della Cappella.
Pubblichiamo di seguito l’omelia che il Papa pronuncia nel corso della Celebrazione:

OMELIA DEL SANTO PADRE 

Venerati Fratelli, 
cari fratelli e sorelle! 

In questa liturgia dei Primi Vespri della solennità di tutti i Santi, noi commemoriamo l’atto con cui, 500 anni or sono, il Papa Giulio II inaugurò l’affresco della volta di questa Cappella Sistina. Ringrazio il Cardinale Bertello per le parole che mi ha rivolto e saluto cordialmente tutti i presenti. 
Perché ricordare tale evento storico-artistico in una celebrazione liturgica? Anzitutto perché la Sistina è, per sua natura, un’aula liturgica, è la Cappella magna del Palazzo Apostolico Vaticano.
Inoltre, perché le opere artistiche che la decorano, in particolare i cicli di affreschi, trovano nella liturgia, per così dire, il loro ambiente vitale, il contesto in cui esprimono al meglio tutta la loro bellezza, tutta la ricchezza e la pregnanza del loro significato. E’ come se, durante l’azione liturgica, tutta questa sinfonia di figure prendesse vita, in senso certamente spirituale, ma inseparabilmente anche estetico, perché la percezione della forma artistica è un atto tipicamente umano e, come tale, coinvolge i sensi e lo spirito. 
In poche parole: la Cappella Sistina, contemplata in preghiera, è ancora più bella, più autentica; si rivela in tutta la sua ricchezza. Qui tutto vive, tutto risuona a contatto con la Parola di Dio. 
Abbiamo ascoltato il passo della Lettera agli Ebrei: «Voi vi siete accostati al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa…» (12,22-23). L’Autore si rivolge ai cristiani e spiega che per loro si sono realizzate le promesse dell’Antica Alleanza: una festa di comunione che ha per centro Dio, e Gesù, l’Agnello immolato e risorto (cfr vv. 23-24). Tutta questa dinamica di promessa e compimento noi l’abbiamo qui rappresentata negli affreschi delle pareti lunghe, opera dei grandi pittori umbri e toscani della seconda metà del Quattrocento. 
E quando il testo biblico prosegue dicendo che noi ci siamo accostati «all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione» (v. 23), il nostro sguardo si leva al Giudizio finale michelangiolesco, dove lo sfondo azzurro del cielo, richiamato nel manto della Vergine Maria, dona luce di speranza all’intera visione, assai drammatica. «Christe, redemptor omnium, / conserva tuos famulos, / beatæ semper Virginis / placatus sanctis precibus» - canta la prima strofa dell’Inno latino di questi Vespri. Ed è proprio ciò che noi vediamo: Cristo redentore al centro, coronato dai suoi Santi, e accanto a Lui Maria, in atto di supplice intercessione, quasi a voler mitigare il tremendo giudizio. 
Ma stasera la nostra attenzione va principalmente al grande affresco della volta, che Michelangelo, per incarico di Giulio II, realizzò in circa quattro anni, dal 1508 al 1512. Il grande artista, già celebre per capolavori di scultura, affrontò l’impresa di dipingere più di mille metri quadrati di intonaco, e possiamo immaginare che l’effetto prodotto su chi per la prima volta la vide compiuta dovette essere davvero impressionante. Da questo immenso affresco è precipitato sulla storia dell’arte italiana ed europea – dirà il Wölfflin nel 1899 con una bella e ormai celebre metafora – qualcosa di paragonabile a un «violento torrente montano portatore di felicità e al tempo stesso di devastazione»: nulla rimase più come prima. Giorgio Vasari, in un famoso passaggio delle Vite, scrive in modo molto efficace: «Questa opera è stata ed è veramente la lucerna dell’arte nostra, che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo». 
Lucerna, lume, illuminare: tre parole del Vasari che non saranno state lontane dal cuore di chi era presente alla Celebrazione dei Vespri di quel 31 ottobre 1512. Ma non si tratta solo di luce che viene dal sapiente uso del colore ricco di contrasti, o dal movimento che anima il capolavoro michelangiolesco, ma dall’idea che percorre la grande volta: è la luce di Dio quella che illumina questi affreschi e l’intera Cappella Papale. Quella luce che con la sua potenza vince il caos e l’oscurità per donare vita: nella creazione e nella redenzione. E la Cappella Sistina narra questa storia di luce, di liberazione, di salvezza, parla del rapporto di Dio con l’umanità. Con la geniale volta di Michelangelo, lo sguardo viene spinto a ripercorrere il messaggio dei Profeti, a cui si aggiungono le Sibille pagane in attesa di Cristo, fino al principio di tutto: «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gen 1,1). Con un’intensità espressiva unica, il grande artista disegna il Dio Creatore, la sua azione, la sua potenza, per dire con evidenza che il mondo non è prodotto dell’oscurità, del caso, dell’assurdo, ma deriva da un’Intelligenza, da una Libertà, da un supremo atto di Amore. In quell’incontro tra il dito di Dio e quello dell’uomo, noi percepiamo il contatto tra il cielo e la terra; in Adamo Dio entra in una relazione nuova con la sua creazione, l’uomo è in diretto rapporto con Lui, è chiamato da Lui, è a immagine e somiglianza di Dio. 
Vent’anni dopo, nel Giudizio Universale, Michelangelo concluderà la grande parabola del cammino dell’umanità, spingendo lo sguardo al compimento di questa realtà del mondo e dell’uomo, all’incontro definitivo con il Cristo Giudice dei vivi e dei morti. 
Pregare stasera in questa Cappella Sistina, avvolti dalla storia del cammino di Dio con l’uomo, mirabilmente rappresentata negli affreschi che ci sovrastano e ci circondano, è un invito alla lode, un invito ad elevare al Dio creatore, redentore e giudice dei vivi e dei morti, con tutti i Santi del Cielo, le parole del cantico dell’Apocalisse: «Amen, alleluia. […] Lodate il nostro Dio, voi tutti suoi servi, voi che lo temete, piccoli e grandi! […] Alleluia. […] Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria» (19,4a.5.7a). Amen. 

© Copyright 2012 - Libreria Editrice Vaticana (Fonte)


Inseriamo anche l'articolo di Antonio Paolucci, uscito sull'Osservatore Romano e il link dal sito vaticano per visitare virtualmente la Cappella Sistina

Il 31 ottobre 1512 Giulio si inaugurava la volta della Cappella Sistina completata da Michelangelo

di Antonio Paolucci

Ogni giorno almeno diecimila persone con punte di ventimila nei periodi di massima affluenza turistica, entrano in Cappella Sistina. È gente di ogni provenienza, lingua e cultura. Di ogni religione o di nessuna religione. La Cappella Sistina è l'attrazione fatale, l'oggetto del desiderio, l'obiettivo irrinunciabile per l'internazionale popolo dei musei, per i migranti del cosiddetto turismo culturale.
Tuttavia la Cappella Sistina, pur facendo parte del percorso dei Musei Vaticani, non è un museo. È uno spazio religioso, è una cappella consacrata. Di più, essa è il vero e proprio luogo identitario della Chiesa romano-cattolica. Perché qui si celebrano le grandi liturgie, qui i cardinali riuniti in conclave eleggono il pontefice. La Sistina è allo stesso tempo la sintesi in figura della teologia cattolica.
La storia del mondo (dalla Creazione all'Ultimo Giudizio) vi è qui rappresentata insieme al destino dell'uomo redento da Cristo. La Sistina è la storia della salvezza per tutti e per ognuno, è l'affermazione del primato del Papa di Roma, è il tempo sub gratia della Chiesa che assorbe, trasfigura e fa proprio il tempo sub lege dell'Antico Testamento. È l'arca della nuova e definitiva alleanza che Dio ha stabilito col popolo cristiano. Non a caso l'architetto Baccio Pontelli che operò fra il 1477 e il 1481 modificando e innalzando le preesistenti strutture volle dare alla Cappella Magna del Papa di Roma, le misure del perduto Tempio di Gerusalemme così come ci sono indicate dalla Bibbia.
Chi entra nella Cappella Sistina entra di fatto in una immane sciarada teologico-scritturale che è arduo comprendere al primo sguardo. Ci sono immagini (la Creazione dell'uomo, il Peccato originale) che nella memoria di chi guarda (sempre che chi guarda provenga da Paesi di cultura cattolica) riaffiorano in disarticolati frammenti dal catechismo dell'infanzia. Ce ne sono altre (i Profeti, le Sibille, certi episodi dell'Antico Testamento) che il visitatore comune non conosce affatto. Chi, anche fra i visitatori credenti e praticanti, sa qualcosa della Punizione di Aman o dell'Innalzamento del serpente di bronzo o saprebbe spiegare, con un minimo di correttezza, chi erano la Sibilla Cumana o il profeta Giona?
E poi c'è Michelangelo il quale, come una luce troppo forte che acceca tutto ciò che sta intorno, assorbe con la sua notorietà clamorosa l'attenzione di ognuno rendendo difficile l'ordinata comprensione del sistema simbolico all'interno del quale Michelangelo è inserito.
Ci sono vari modi per entrare nel sistema Sistina, tutti necessari. C'è prima di tutto quello della comprensione iconografica, della decodificazione simbolica. Occorre guardare e riguardare a lungo e poi tornare a guardare le scene affrescate cercando di collocarle nel tempo, nella storia, nella dottrina che ha dato loro immagine e significato.
C'è poi la comprensione del messaggio stilistico, operazione ardua per chi non è provvisto di una attrezzatura storico critica adeguata.
Quel 31 Ottobre del 1512 quando Giulio ii inaugurava con la liturgia dei vespri la volta da Michelangelo conclusa dopo una immane fatica durata quattro anni (1508-1512), il Papa non poteva immaginare che da quei più di mille metri affrescati sarebbe precipitato sulla storia dell'arte un violento torrente montano portatore di felicità ma anche di devastazione, come scrisse il Woelfflin nel 1899 con una bella metafora.
Di fatto, dopo la volta, la storia dell'arte in Italia e in Europa cambia radicalmente. Niente sarà più come prima. Con la volta ha inizio quella stagione delle arti che i manuali chiamano “del manierismo”. La volta -- scrive Giorgio Vasari -- diventerà la lucerna destinata a illuminare la storia degli stili per molte prossime generazioni di artisti.
Per capire la radicalità della rivoluzione operata da Michelangelo, bisogna confrontare la volta con gli affreschi che trent'anni prima lo zio di Giulio ii, Papa Sisto iv della Rovere aveva fatto affrescare dai massimi pittori dell'epoca: da Ghirlandaio, da Perugino, da Botticelli, da Luca Signorelli. Il visitatore che guarda prima gli affreschi della volta poi quelli delle pareti, avrà l'impressione che fra gli uni e gli altri ci siano non trenta ma trecento anni di distanza. Basterà questo confronto a far intendere anche al visitatore della prima volta e di una sola ora la profondità e le dimensioni di una mutazione, quella messa in opera dal Buonarroti, che è filosofica, spirituale, religiosa prima di essere stilistica.
C'è poi (al sapere dell'iconografo e alle competenze dello storico dell'arte si sovrappone e si mescola la sensibilità del conservatore) un tipo di approccio alla Sistina che riguarda l'uso che ai nostri giorni pesa su questo documento supremo della umana civilizzazione. È l'approccio che conosco bene perché tocca direttamente le mie responsabilità di direttore dei Musei Vaticani.
Cinque milioni di visitatori all'anno all'interno della Cappella Sistina, ventimila al giorno nei periodi di punta, fanno un ben arduo problema. La pressione antropica con le polveri indotte, con l'umidità che i corpi portano con sé, con l'anidride carbonica prodotta dalla traspirazione, comporta disagio per i visitatori e, nel lungo periodo, possibili danni per le pitture.
Potremmo contingentare l'accesso, introdurre il numero chiuso. Lo faremo se la pressione turistica dovesse aumentare oltre i limiti di una ragionevole tollerabilità e se non riuscissimo a contrastare con adeguata efficacia il problema. Io ritengo però che nel breve medio periodo l'adozione del numero chiuso non sarà necessaria. Intanto (è l'obiettivo che sta impegnando in questi mesi le nostre energie) è necessario mettere in opera tutte le più avanzate provvidenze tecnologiche in grado di garantire l'abbattimento delle polveri e degli inquinanti, il veloce ed efficace ricambio dell'aria, il controllo della temperatura e dell'umidità. Se ne sta occupando, con un progetto di altissima tecnologia, radicalmente innovativa, la multinazionale Carrier, azienda leader nel mondo nel settore della climatizzazione. Io confido che, entro un anno, il nuovo impianto potrà entrare in funzione.
Diceva Giovanni Urbani, grande maestro dei nostri studi, che alla nostra epoca non è dato avere un nuovo Michelangelo. A noi è dato però il dominio della tecnica la quale ci permetterà, se correttamente applicata, di conservare il Michelangelo che la storia ci ha consegnato nelle condizioni migliori, per il tempo più lungo possibile.

(©L'Osservatore Romano 31 ottobre 2012)



giovedì 1 novembre 2012

Addio all'architetto Gae Aulenti

L'architetto Gae Aulenti è morta nella sua casa di Milano, nel quartiere Brera. Aveva 85 anni. Fra le sue opere più famose il progetto della Gare d'Orsey e del Museo, a Parigi, realizzato negli anni '80Aulenti, malata da tempo, aveva fatto l'ultima uscita pubblica lo scorso 16 ottobre, quando aveva ritirato il premio alla carriera conferitole dalla Triennale. Nata in provincia di Udine, da una famiglia di origini pugliesi, è considerata una dei maestri del nostro tempo in campo architettonico. Aulenti si è formata nella Milano degli anni Cinquanta, dove l'architettura italiana è impegnata nel recupero dei valori del passato e dell'ambiente costruito esistente. In quegli anni nasce la nuova corrente del Neoliberty. La Aulenti fa parte di questo percorso, che si pone come reazione al razionalismo. Proprio a questo percorso si può ricondurre il tema floreale del Museo di Orsay o la lampada a 'Pipistrello' che asi ispira all'Art Nouveau. Negli anni '80 la Aulenti partecipa anche all'allestimento del Museo Nazionale d'Arte Moderna del Centre Georges Pompidou di Parigi e alla ristrutturazione di Palazzo Grassi, a Venezia. Dal 1955 al 1965 fa parte della redazione di "Casabella-Continuità" sotto la direzione di Ernesto Nathan Rogers. Dal 1974 al 1979 è membro del Comitato direttivo della rivista "Lotus International" e dal 1976 al 1978 collabora con Luca Ronconi a Prato al Laboratorio di Progettazione Teatrale.

Di sicuro Aulenti è ricordata per la riprogettazione della Gare d'Orsay (ma anche le scuderie del Quirinale sono un intervento notevole) che trasforma nel museo degli impressionisti con soluzioni museografiche all'avanguardia, oltre che di grande effetto scenografico. "Bisogna progettare per un senso collettivo, non per blasfemia individuale". dirà lucidamente in quest'intervista esclusiva a Immobiliare.

In basso la stazione d'Orasy prima e dopo l'intervento







Il san Giovanni Battista di Tiziano al Prado

Lunedì prossimo sarà presentato al Prado il San Giovanni Battista attribuito a Tiziano e appena restaurato. Da sempre ritenuta copia in realtà si è rivelato un inedito in cattivo stato conservativo ed ora, ripulito, è esposto al pubblico. Così qualche mese fa:


"Tre mesi dopo la scoperta della "gemella" della Gioconda, il museo del Prado ha portato alla luce un nuovo Tiziano, una versione simile al 'San Giovanni Battista' conservato nelle Gallerie dell'Accademia di Venezia, datato intorno al 1542, e che era stata fino a oggi considerata una copia. Ne danno notizia fonti della pinacoteca madrileña citate oggi da El Pais.

L'opera, in cattivo stato di conservazione, e' in corso di restauro da parte della sezione scientifica del Prado, costituita da una quindicina di conservatori e una ventina di restauratori che, grazie a radiografie, riflessografie a infrarossi e analisi dei pigmenti, sono riusciti a far luce sul metodo di lavoro di Tiziano e le varie tappe della sua creazione artistica. Una terza vesione del San Giovanni Battista realizzata dal genio italiano della pittura si conserva nelle sale capitolari del Monastero di San Lorenzo dell'Escorial, al quale fu donata da Felipe II nel 1577. La tela attribuita al pittore veneziano - custodita in una chiesa dell'Almeria, al sud della Spagna e, inventariata nel Bollettino del museo madrileno - rientra nel patrimonio del cosiddetto Prado disperso, un insieme di 3.100 opere cedute in prestito a enti e istituzioni in varie parti della Spagna nel 1872, quando la collezione della pinacoteca aumento' sensibilmente con l'annessione dei fondi del Museo de la Trinidad.

L'artefice della scoperta e' stato Miguel Falomir, capo del dipartimento di pittura italiana e francese del Prado, che sta realizzando un catalogo ragionato su Tiziano che si prevede sia pubblicato per la fine dell'anno. Falomir è stato fra l'altro il curatore di un'esposizione dedicata dal Prado a Tiziano nel 2002. ''Nessuno sapeva della sua esistenza'', ha riconosciuto il direttore delle Gallerie dell'Accademia di Venezia, Matteo Ceriana, in dichiarazioni al quotidiano. Ceriana, che ha potuto vedere la versione - di cui non sono state diffuse immagini, perchè in fase di restauro - non ha dubbi che si tratti di un originale. "Non è esattamente come la nostra e nemmeno come quella dell'Escorial, di modo che le tre versioni sono interconnesse", ha spiegato. ''San Giovanni Battista non è un tema molto complesso e un artista come Tiziano, tanto grande e vissuto tanto tempo, dovette affrontare varie volte gli stessi temi. Tentava di non ripetersi e di reinventarsi", ha aggiunto. I dettagli del ritrovamento saranno diffusi dal Prado in autunno quando sarà presentato il restauro con gli studi sull'attribuzione in un'esposizione, accompagnata da un catalogo ragionato sul genio italiano della pittura". (Fonte Ansa)

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