sabato 21 dicembre 2013

Raffaello e le Vie Lauretane - Un autoritratto inedito del pittore

Sono grato ad un bellissimo e pressoché ignorato affresco che vidi per la prima volta nel lontano 1984 in una antica chiesa di proprietà privata, non più officiata da secoli, lungo un percorso lauretano nelle Crete senesi. Un’opera fino ad allora considerata minore nel complesso panorama della pittura senese fra fine ‘400 ed inizi ‘500. Il dipinto, dovuto alla mano di almeno quattro artisti della scuola umbra, mi apparve subito di grande qualità, come hanno confermato poi gli studi che ho fatto, che mi hanno portato a collocarne l’esecuzione nell’anno del Grande Giubileo di Mezzo Millennio, il 1500. Il fatto poi che vi fossero raffigurati, ai lati della Madonna col Bambino, i santi Pietro e Paolo, mi fece pensare ad una committenza partita da Roma, da dove si gestiva il decoro delle Vie Lauretane, da inserire nel quadro delle varie iniziative di abbellimento e arricchimento dei luoghi sacri intraprese per il Giubileo. Inoltre notai che nella figura che rappresentava uno degli altri sei santi dell’affresco si celava l’autoritratto, inconfondibile, del pittore stesso che l’aveva eseguito, che mi fece pensare subito ad un giovanissimo Raffaello. L’impressione venne poi confermata, ad una visione ravvicinata della superficie pittorica, dalla firma “RAPH.V.” che si legge, anche se ormai lievissima, sul colletto del giovane santo guerriero.
Naturalmente anche questo poteva non bastare a fugare i dubbi che si trattasse davvero di opera dello straordinario magister, allora diciassettenne. Le conferme, abbondanti, dovevano arrivare dallo studio che intrapresi su argomenti di cui allora sapevo poco o niente, come le Vie Lauretane, le relazioni dei pellegrinaggi, l’iconografia della Madonna di Loreto e da una attenta e inedita rilettura in chiave “lauretana” della produzione artistica del grande pittore urbinate. In anni di lavoro su questi temi, che sono a questo punto ben lieto di aver dovuto fare, ho potuto andare anche oltre a quanto potesse servire a confermare la mia attribuzione, arrivando a scoprire un Raffaello intimamente devoto della Madonna di Loreto, come ci dicono vari intimi e nascosti accenni iconografici visibili in numerosi suoi dipinti, come il boschetto di allori con la chiesetta in cima e il Monte Conero sullo sfondo, le ricorrenti immagini della Sacra Famiglia, interi tratti di percorsi lauretani e varie toccanti raffigurazioni della Fuga in Egitto, tutti segni di cui la rivista Il Messaggio della Santa Casa-Loreto gentilmente più volte ha dato notizia. Rimane da dire della firma, infine, l’unica che il pittore abbia apposto sui suoi autoritratti. Vedo allora, dalle relazioni di pellegrinaggio del tempo, che fra i vari impegni del buon pellegrino lauretano c’era quello di dedicarsi, alla vigilia della partenza per un gioioso ma anche faticoso e pericoloso percorso penitenziale, a Dio. Cosa c’era di meglio, allora, per un grande giovane artista, la cui forte, pressante personalità creativa stava per esplodere, che debuttare ufficialmente in un percorso lauretano sotto la protezione della Madonna, esprimendo oltre che interiormente anche visivamente questa sua dedica con tanto di immagine e firma, una volta per sempre, quale entusiasta artefice e devoto pellegrino, nell’anno del fastoso Giubileo di Mezzo Millennio? La conoscenza inattesa di un “patrono” artistico così grande può contribuire a dare slancio alla riscoperta delle Vie Lauretane in Toscana e non solo, a lungo localmente dimenticate e sulle quali si registra ora una ricca, crescente fioritura di studi.

venerdì 20 dicembre 2013

Ritorno alla forma - La linea figurativa e realistica nell’arte molisana del Novecento

Amedeo Trivisonno, Natività 

Ritorno alla forma
La linea figurativa e realistica nell’arte molisana del Novecento

A cura di
Francesca Della Ventura
Tommaso Evangelista

Col patrocinio di
PROVINCIA DI CAMPOBASSO

21 dicembre 2013 / 12 febbraio 2014

Inaugurazione sabato 21 dicembre ore 18.00

Galleria Artes Contemporanea
Viale Elena, 60, Campobasso

Artisti:
Antonio D’Attellis
Antonio Di Toro
Walter Genua
Giovanni Manocchio
Giulio Oriente
Leo Paglione
Gilda Pansiotti D’Amico
Rodolfo Papa
Antonio Pettinicchi
Marcello Scarano
Amedeo Trivisonno
Vincenzo Ucciferri

Una delle peculiarità dell’arte molisana contemporanea è stata quella di non aver mai smarrito una spiccata linea figurativa. Fuori dalle correnti più significative, lambita solo superficialmente dalle tensioni del Futurismo, lontananel dopoguerra dai dibattiti sull’astrattismo, la regione ha mantenuto intatta un modo di saper dipingere e scolpire che affonda molte radici nella tradizione più nobile dell’arte italiana. Il merito principale del perdurare di tale tendenza è da ascrivere soprattutto a Amedeo Trivisonno e Marcello Scarano. Mentre il primo, Trivisonno, ha creato una vera e propria “scuola” formando diversi validi artisti in relazione, in particolare, all’arte sacra autentica, Scarano ha ispirato una ricerca sempre sulla forma ma letta in chiave maggiormente espressiva e intimista. I dibattiti sorti agli inizi degli anni Sessanta, di rottura e tensione, e liberazione di un’arte non più legata alla forma ma al concetto, andavano contro gli epigoni e gli esponenti meno innovativi della pittura, i cosiddetti “pittori della domenica”, ma mai contro i grandi maestri. Una collettiva sulla linea figurativa e realistica nell’arte molisana è un atto dovuto alla storia della regione per fissare alcuni punti certi, per riscoprire maestri dimenticati e soprattutto per mostrare un’arte sempre attuale e mai anacronistica, fatta di sapere tecnico e progettuale ma anche di spiccate doti creative; è anche un’occasione di studio e di approfondimento su artisti significativi del Novecento. Oltre alle opere di artisti storici si sono voluti esporre anche i lavori di pittori che, pur nel perdurare delle correnti e degli “ismi”, non hanno mai abbandonato il pennello e la forma. La collettiva ha diversi pregi. Ha la pretesa di concentrare su poche pareti un secolo di arte molisana seguendo la linea della forma; vuol presentare una rassegna quanto più completa ed esplicativa degli artisti figurativi molisani, ovvero di quei pittori che maggiormente hanno indagato la raffigurazione, mostrando legami, derivazioni e ispirazioni; cerca di rivalutare contesti poco indagati dalla critica, mostrando un ambiente estremamente vitale e di forte spessore tecnico e qualitativo. Parlare della forma significa indagare l’intima natura dell’arte, capace di schiudere, nel gesto personale del rappresentare, la visione concreta e spirituale dell’artista chiamato a farsi carico del reale per comunicarlo all’esterno. Se l’astratto è tensione emotiva e riconfigurazione in chiave sintetica dell’idea, la costruzione sulla e intorno alla figura comporta un perenne agire sulla struttura interna del dipinto per veicolare, nello scontro tra immagine e percezione, una personale osservazione sull’unicità del mondo.



domenica 24 novembre 2013

Come nasce un'icona - Il ritratto del Che di Korda


Il 5 marzo del 1960, a L’Avana, si svolgono i funerali per le ottantuno vittime dell’esplosione della nave francese La Coubre nel porto della capitale cubana. Il carico della nave era composto da un arsenale di munizioni provenienti dal Belgio: l’arrivo di tale carico aveva ricevuto una forte opposizione da parte degli Stati Uniti, e per tale ragione Fidel Castro aveva accusato la CIA di responsabilità nell’attentato. Un giovane fotografo di 32 anni si muove sotto la struttura allestita per l’evento e continua a fotografare chi interviene sul palco: si chiama Alberto Díaz Gutiérrez, meglio noto come Alberto Korda.

Quella mattina Korda lavora per conto del quotidiano Revolución e ha al collo una Leica M2 con un obiettivo da 90 mm. Dopo una marcia funebre percorsa sul lungomare, le maggiori rappresentanze si radunano sul palco per commemorare i caduti. Sono presenti, tra gli altri, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Fidel Castro. Korda fotografa tutti. Sono le 11.20 e mentre il Comandante interviene con un discorso infuocato, Che Guevara, sofferente per un attacco di asma, arriva in ritardo, con il volto rabbuiato.
Due scatti veloci immortalano quel volto e quello sguardo.



Ho sempre ritenuto El Guerrillero Heroico uno scatto casuale e fortunato, una foto che non ritrae realmente Che Guevara ma un personaggio astratto, immaginario, vissuto nella dimensione del mito per opera delle generazioni che l’hanno amato ed esaltato, un idolo creato dalla fantasia, cui Guevara ha soltanto prestato i lineamenti del viso. L’immagine più vera del Che è sicuramente l’intenso ritratto che René Burri realizzò nel 1963, immagine che ci restituisce il personaggio in tutta la sua autentica e contraddittoria dimensione di uomo, fuori dal mito e dalla leggenda.



lunedì 18 novembre 2013

Arte come terapia - L'arte può salvarci dall'angoscia



Un catechismo di religione laica


“Corriere della Sera“, 9 novembre 2013

I musei devono essere le nuove chiese in cui curare lo spirito Il mondo moderno tiene l’arte in grande considerazione. Lo si vede dal fatto che si continuano ad aprire nuovi musei, si destinano notevoli risorse pubbliche alla produzione e all’esposizione di opere d’arte, si cerca di avvicinare ad essa un pubblico sempre più ampio (coinvolgendo anche bambini e gruppi minoritari), lo si nota dal prestigio goduto dagli studiosi e dalle alte valutazioni del mercato dell’arte. L’arte è ritenuta qualcosa di vicino al senso stesso della vita. 
Nonostante tutto questo, i nostri incontri con l’arte non sempre sono soddisfacenti come vorremmo. Spesso usciamo da un museo importante con un senso di delusione, di disorientamento o di inadeguatezza, chiedendoci perché la profonda esperienza che ci attendevamo non si è verificata. E di solito diamo la colpa a noi stessi, alla nostra ignoranza o mancanza di sensibilità. 
Secondo me, il problema non è nell’individuo, ma nel modo in cui l’arte viene insegnata, venduta e presentata dalle istituzioni artistiche. Dall’inizio del XX secolo il nostro rapporto con l’arte è stato condizionato dalla profonda riluttanza istituzionale ad affrontare la questione della funzione dell’arte. È una questione che, ingiustamente, viene considerata importuna, illegittima e un po’ impudente. 
L’espressione «l’arte per l’arte» respinge l’idea che l’arte debba avere uno scopo preciso, lasciandola così in un empireo misterioso — e quindi vulnerabile. L’importanza dell’arte è di solito data per scontata, piuttosto che venir spiegata. Che abbia un valore è considerata una cosa ovvia. Questo è però sbagliato, sia per chi la contempla che per chi la custodisce. Sono convinto che l’arte abbia uno scopo che può essere definito e discusso in termini chiari. Credo che l’arte sia uno strumento e che si debba cercare di capire con maggiore precisione quale sia la sua natura e cosa possa fare di buono per noi.
Tanto per cominciare, abbiamo bisogno di uno strumento che corregga o compensi una serie di nostre fragilità psicologiche. Riassumiamo alcune di queste debolezze: 
1. Dimentichiamo ciò che conta, non riusciamo a valorizzare esperienze importanti, ma poco comprensibili. 
2. Tendiamo a scoraggiarci: siamo ipersensibili ai lati negativi dell’esistenza. Perdiamo legittime occasioni di successo perché non riusciamo a vedere la ragione per continuare a fare certe cose. 
3. Siamo inclini a sentirci isolati e perseguitati, perché non vediamo in modo realistico i normali livelli di difficoltà. Cadiamo troppo facilmente in preda al panico, perché non diamo il giusto significato ai nostri problemi. Siamo soli — non perché non abbiamo qualcuno con cui parlare, ma perché chi ci sta intorno non è in grado di capire i nostri problemi con sufficiente profondità, onestà e pazienza. Questo anche perché la rappresentazione dei nostri dolori — relazioni sbagliate, invidie, ambizioni non realizzate — può essere spiacevole e offensiva. Soffriamo, e ci sembra che la nostra sofferenza sia poco dignitosa. 
4. Siamo poco equilibrati e perdiamo di vista i nostri lati migliori. Noi non siamo un’unica persona. Siamo fatti di molteplici «io», e sappiamo che alcuni di questi sono migliori di altri. Tendiamo a manifestare i nostri «io» migliori un po’ a caso e quando è troppo tardi; perseguiamo le ambizioni più alte con poca determinazione. Pur sapendo come dovremmo comportarci, non riusciamo ad agire secondo le nostre migliori intuizioni, che non ci si offrono in una forma sufficientemente convincente. 
5. Farci conoscere è difficile: costituendo già un mistero per noi stessi, non riusciamo a spiegare agli altri chi siamo, o non siamo in grado di farci apprezzare per i giusti motivi. 
6. Respingiamo molte esperienze, popoli, luoghi, epoche che hanno cose importanti da offrirci, perché ci si presentano nella forma sbagliata e non ci danno modo di avvicinarle. Siamo inclini a giudizi superficiali e a preconcetti. Vediamo quel che è «straniero» con troppa diffidenza. 
7. La consuetudine ci rende meno sensibili — e viviamo in un mondo dominato dal commercio e dalla moda. Siamo quindi spesso insoddisfatti di una vita che ci sembra troppo monotona e pensiamo che «la vera vita» sia altrove. 

L’arte trova il suo scopo e il suo valore in relazione a questi sette problemi cognitivi, per ciascuno dei quali ci offre benefici: 

1. Corregge la cattiva memoria: l’arte rende i frutti dell’esperienza memorabili e rinnovabili. È un meccanismo che mantiene le cose preziose, le nostre migliori intuizioni, in buone condizioni e le rende accessibili a tutti. L’arte tesaurizza le nostre vittorie collettive. 
2. Apporta speranza: l’arte ci mostra le cose piacevoli e confortanti. Sa che ci disperiamo con troppa facilità. 
3. Rende dignitoso il dolore: l’arte ci ricorda qual è il giusto posto del dolore in una vita piena, permettendoci così di essere meno travolti dalle difficoltà, che possono essere viste come componenti legittime di un’esistenza nobile. 
4. È un fattore di equilibrio: l’arte rappresenta con insolita chiarezza l’essenza delle nostre buone qualità e ce le mette davanti agli occhi utilizzando vari mezzi di comunicazione, per aiutarci a riequilibrare la nostra natura e indirizzarci verso le nostre migliori possibilità. 
5. È una guida alla conoscenza di sé: l’arte ci aiuta a identificare quel che è importante per noi, ma che è difficile esprimere con le parole. Molto di quel che è umano non è reperibile nella sfera linguistica. Può capitare di prendere un oggetto artistico e di dire, confusamente ma significativamente, «questo sono io». 
6. È una guida all’espansione dell’esperienza: l’arte è una summa , immensamente sofisticata, delle esperienze di altri, presentate in una forma ben costruita e organizzata. Ci fornisce alcuni degli esempi più eloquenti dell’espressione delle altre culture — quindi la fruizione di opere d’arte espande la nostra idea di noi e del nostro mondo. In un primo momento l’arte ci sembra in gran parte «altro», ma scopriamo che essa può contenere al suo interno idee e atteggiamenti che possiamo fare nostri arricchendoci. Non tutto quello che serve a migliorarci è già attorno a noi. 
7. È uno strumento di risensibilizzazione: l’arte rimuove la nostra scorza e ci salva dall’abituale indifferenza verso quel che ci circonda. Ci permette di recuperare la sensibilità, di guardare il vecchio in modo nuovo. Ci evita di pensare che le novità e la moda siano le uniche soluzioni. 


Si sente spesso dire che «i musei sono le nostre nuove chiese»: in altre parole, in un mondo che si sta secolarizzando, l’arte ha sostituito la religione come veicolo di riverenza e devozione. È un’idea interessante, che fa parte della più ampia nozione per cui la cultura dovrebbe sostituire la Scrittura. In pratica, però, i musei presentano le collezioni loro affidate in forme che spesso li allontanano dalla possibilità di svolgere la funzione di chiese (luoghi di consolazione, meditazione, redenzione). Ci mostrano oggetti genuinamente importanti, ma sembra non siano in grado di organizzarli in modo da collegarli con forza ai nostri bisogni profondi. 

giovedì 7 novembre 2013

Book of Miracles e le sue illustrazioni

Il Book of Miracles, ritrovato alcuni anni fa e di recente acquisito da un collezionista privato americano, è una delle scoperte più spettacolari nel campo dell’arte rinascimentale avvenute nella Germania meridionale. Il manoscritto esistente è quasi completo: creato ad Amburgo, libera città imperiale di Svevia, intorno al 1550, si compone di 167 pagine con illustrazioni di grande formato a guazzo e acquerello che rappresentano fenomeni celesti meravigliosi e a tratti inquietanti, costellazioni, conflagrazioni, inondazioni e altre catastrofi e manifestazioni di varia natura.

Le illustrazioni dall’aspetto sorprendentemente moderno, talvolta fantastico, e le descrizioni presenti nel Book of Miracles ci offrono una visione unica e sorprendente delle preoccupazioni e dei timori del XVI secolo, del pensiero apocalittico e delle attese escatologiche. Al contempo, la sua aspirazione enciclopedica rivela una curiosità tipica del Rinascimento tedesco, dai tratti spiccatamente scientifici, e attraverso l’assimilazione di diverse fonti testuali e visive ci consegna una vera e propria cronaca degli orrori.

Questo facsimile riproduce per la prima volta il Book of Miracles nella sua interezza, rendendo finalmente accessibile a tutti gli studiosi e gli appassionati d’arte una delle opere più importanti del Rinascimento tedesco. Accanto al facsimile, un commento introduttivo al manoscritto cerca di delinearne il contesto storico e culturale, ripercorrendone le fonti nel dettaglio. Un’ampia descrizione del manoscritto e delle sue miniature e la trascrizione completa del testo costituiscono infine un’utile appendice.

Pubblicato da Taschen








giovedì 3 ottobre 2013

"San Francesco in estasi" di Rodolfo Papa

"San Francesco in estasi" di Rodolfo PapaAnalisi e riflessioni sull'opera, che verrà benedetta domani dal cardinal Cañizares (su Zenit)

La chiesa Parrocchiale di San Giulio a Roma dopo aver accolto, lo scorso 13 aprile, la tela raffigurante San Giulio I in preghiera[1] continua l’opera di riqualificazione degli spazi liturgici presentando un nuovo dipinto realizzato dall’artista Rodolfo Papa. La volontà espressa dai committenti è quella di conferire nuova dignità alla chiesa del quartiere Gianicolense che, costruita negli anni Sessanta, era rimasta incompiuta in quanto ferma alla sola cripta e pertanto sostanzialmente spoglia di ornamenti. Il decoro che deriva dalle opere d’arte sacra autentiche, ovvero universali, belle, narrative e figurative[2], è un segno di elevazione morale e spirituale, una difesa contro le spinte nichiliste della società contemporanea, un rifugio dalla bruttezza che sempre più spesso viene esaltata dai media e dalle arti, e infine un momento prezioso di didattica della fede se recuperiamo l’antico concetto delle immagini come Biblia pauperum. La tela che raffigura San Francesco in estasi verrà inaugurata solennemente il prossimo 4 ottobre durante la cerimonia presieduta dal cardinale Antonio Canizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti.

L’opera sarà collocata di fianco al tabernacolo, già incastonato all’interno di una vetrata policroma e affiancato da due pannelli raffiguranti le specie eucaristiche del pane e del vino, e formerà con la precedente tela una sorta di pendant. Le due figure così disposte, San Giulio I, titolare della chiesa, e San Francesco, in omaggio all’attuale pontefice Francesco, guardano entrambe verso la custodia eucaristica guidando così lo sguardo del fedele in direzione del centro fisico e spirituale dello spazio. Nell’opera di arricchimento del patrimonio iconografico della chiesa è stato pensato inoltre di inserire, in futuro, sopra al tabernacolo, una sorta di “macchina” pittorica, ovvero un polittico comprendente diversi pannelli con la figura di Cristo risorto circondato dalla Madonna e San Giovanni Battista, dalle figure dell’Angelo e di Maria dell’Annunciazione, e sormontato dalle altre Persone della Trinità, il Padre e lo Spirito Santo. Due figure di angeli sporgerebbero poi dai due sportelli laterali mentre tutta la costruzione lignea sarebbe decorata con foglia d’oro costituendo così una vera e propria “Gloria” o macchina scenica come si usava nel Rinascimento.

La tela raffigura San Francesco in estasi, col volto rapito dalla luce divina e pertanto intento a fissare in alto, mentre poggia su alcune rocce sullo sfondo di un paesaggio naturale e di un cielo dai colori del crepuscolo. Il paesaggio, se letto come una raffigurazione compendiaria del monte della Verna, ci riporta anche al momento della stigmatizzazione. Secondo le agiografie, il 14 settembre 1224, mentre si trovava a pregare in questo luogo il santo, caduto in estasi, avrebbe visto un Serafino crocifisso e al termine della visione gli sarebbero comparse nel corpo le piaghe di Cristo sulla croce («Nel crudo sasso intra Tevere ed Arno / da Cristo prese l’ultimo sigillo / che le sue membra due anni portarno» Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, canto XI). Per questa caratteristica, per la condivisione fisica delle pene di Cristo, San Francesco viene definito «alter Christus» e lo si intuisce bene nella tela di Papa in quanto la figura, nel momento della visione, con le braccia allargate viene ad assumere la posa di Gesù crocifisso. La pietra sulla quale poggia inoltre, a differenza delle rocce naturali che lo circondano e che sono mutuate dalle rocce leonardesche, è una pietra perfettamente regolare e deriva dalla pietra tombale, il lapis untionis, della Deposizione di Caravaggio. La citazione è molto evidente e anche in questo caso possiamo leggere il legame con la Passione di Cristo il quale dal momento della massima disperazione, ormai calato morto della croce e condotto al sepolcro, abbandonato dai discepoli e dimenticato dagli amici, risorto diventerà la pietra d’angolo delle successive generazioni e della Chiesa che su lui si fonda: «La pietra scartata dal costruttore è diventata testata d’angolo» (Sal. 118). Anche San Francesco per il suo tempo, con i suoi insegnamenti e la sua predicazione, è diventato una colonna della Chiesa: come riportato nella Legenda maior Innocenzo III sognò l’umile frate che reggeva la Basilica del Laterano, a simboleggiare l’intera comunità cristiana, salvandola così dalla distruzione. Il santo è circondato dall’intera creazione, piante e animali sono il canto della natura ma anche un riferimento al suo Cantico delle creature, il testo poetico più antico della letteratura italiana composto, secondo la tradizione, proprio durante la permanenza sulla Verna. L’usignolo sulla destra, simbolo di re Davide compositore dei Salmi e quindi cantore della maestà e bellezza divina, diventa anche simbolo di Francesco che canta e scrive lodi a Dio mentre la lucertola e la rana, come nelle opere di Carpaccio, sono un’allusione alla morte. La lucertola inoltre, per la sua immobilità al sole, è anche simbolo di contemplazione della luce divina. Tra le piante mediche raffigurate in basso, tutte allusive di nuovo alla Risurrezione di Cristo dalla morte, compare vicino al piede anche il Tasso Barbasso (Verbasco) che, secondo la tradizione, aveva la capacità di conservare, di preservare dalla putrefazione e di trattenere in vita, assumendo quindi un significato salvifico.

A livello compositivo l’opera si può dividere in due parti: la zona inferiore caratterizzata dalle rocce e dagli alberi sullo sfondo allude alla morte e all’aspetto terreno della predicazione di Francesco, ma anche alla creazione divina e alla varietà della natura, la zona superiore, invece, contraddistinta esclusivamente da un cielo privo di nuvole, allude all’aspetto spirituale e mistico, alla preghiera e all’adorazione verso Dio. Il volto di Francesco, lasciato volutamente generico fuori da questioni filologiche sulla ricostruzione fisiognomica, nell’unione di grazia, dolcezza e misticismo è il vero centro del dipinto e il punto focale della scena. Con grande efficacia retorica, inoltre, Papa ha caratterizzato il cielo alle spalle in modo tale che un’aureola di luce circondasse la figura del santo patrono d’Italia e d’Europa. L’artista non è nuovo a tali ricerche sulla luce in quanto sovente adopera gli aspetti “atmosferici” del cielo come manifestazioni del divino: le sue sono delle vere e proprie teofanie, manifestazioni di Dio in forma sensibili, in questo caso nei colori del cielo. L’opera rispettando l’iconografia, anzi arricchendola con diversi spunti, e ponendosi nel solco della tradizione, ovvero della storia dell’arte sacra cristiana, dimostra ancora una volta come sia possibile proporre un’arte figurativa e allo stesso tempo non anacronistica, ovvero non fatta esclusivamente di citazioni e riferimenti al passato ma capace di offrire spunti nuovi. Recentemente Papa, nel corso del convegno Riflessioni sull’arte sacra tenuto presso il Santuario dell’Addolorata di Castelpetroso per l’inaugurazione della mostra Immagine del Vespro, chiarendo i vari aspetti dell’opera d’arte e del rapporto dell’arte con il magistero della Chiesa, considerando l’espressione artistica come una delle più importanti dichiarazioni di fede che l’uomo può produrre, ha affermato come non rispettando l’armonia e la bellezza, distorcendo la forma, allontanandosi dal volto di Cristo, eliminando il sacro, l’artista rischia di cadere nel peccato della falsa testimonianza. Le opere di Papa, e la tela con San Francesco ne è uno splendido esempio, vanno esattamente nella direzione opposta, ovvero nel recupero pieno della tradizione e nella consapevole ricerca di una bellezza non negoziabile con le logiche contemporanee della presenza[3].

Tommaso Evangelista è storico e critico d’arte

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NOTE

[1] Sull’analisi del precedente dipinto T. Evangelista, “Giulio I in preghiera” di Rodolfo Papa. Analisi e riflessioni sull’opera, http://www.zenit.org/it/articles/giulio-i-in-preghiera-di-rodolfo-papa-analisi-e-riflessioni-sull-opera

[2] A riguardo R. Papa, Discorsi sull’arte sacra, Siena 2012.

[3] R. Papa, La bellezza come valore non negoziabile, http://www.zenit.org/it/articles/la-bellezza-come-valore-non-negoziabile

mercoledì 2 ottobre 2013

Banksy a New York

Bansky è arrivato a New York, l'annuncio è pubblicato dallo stesso artista sul suo sito internet. Come una grande galleria tutta a sua disposizione, la Grande mela ospiterà quindi la prossima 'mostra' del geniale quanto misterioso street artist britannico che, per un mese, soggiornerà a Manhattan e dintorni per realizzare i suoi capolavori sui muri della città. Bansky ha già tracciato il primo graffito della serie "Better out than in" ("Meglio fuori che dentro") al 18 di Allen Street, tra il Lower East Side e Chinatown. Accanto a ogni opera anche un numero di telefono da chiamare per ascoltare una voce registrata che spiega, proprio come l'audioguida in un museo, il suo significato e il metodo con cui è stata disegnata.


martedì 24 settembre 2013

Tramonto a Montmajour - Un inedito di Van Gogh


Sarà visibile da domani al Van Gogh Museum di Amsterdam il dipinto Tramonto a Montmajour, solo di recente attribuito a Vincent Van Gogh grazie a nuovi metodi di analisi. Era dal 1928 che non veniva alla luce un'opera del pittore olandese, anche se la proposta di autenticare il Tramonto era già stata avanzata al Van Gogh Museum nel 1991, ma negata in quanto gli elementi non furono ritenuti sufficienti e la tela non presentava la firma dell'autore. Il dipinto risale all'ultimo periodo trascorso da Van Gogh ad Arles, precisamente al 1888, due anni prima della morte, sebbene il tratto pittorico, definito il 'segno di un momento di transizione' (così Meedendorp, uno degli studiosi che lo ha analizzato), abbia per lungo tempo portato a non riconoscere la mano dell'artista. A vent'anni di distanza, la possibilità di confrontare il Tramonto con i cenni contenuti nei resoconti epistolari dell'autore e di ricorrere a più sofisticate analisi chimiche dei pigmenti, ha permesso di identificare la tela con l'opera catalogata. Il rinvenimento sulla tela del numero 180, inoltre, ha permesso un raffronto con il catalogo ufficiale del 1891, dove, allo stesso numero, è appunto registrato l'olio Sole al tramonto ad Arles.Il paesaggio raffigurato è collocato in un'area campagnola della Provenza dominata dall'abbazia benedettina di Montmajour (in alto a sinistra), citata in diverse lettere dell'artista; allo stesso contesto geografico risale il dipinto Arles, le rocce, che ha in comune con il Tramonto anche il tipo di tela e l'anno di produzione e che, per questo, è stato un elemento di confronto importante.

lunedì 23 settembre 2013

Tableaux Vivants da Caravaggio


21 Tableaux Vivants dall'opera di Michelangelo Merisi. 7 attori mettono in scena i capolavori del grande Maestro. Un lavoro di estrema semplicità e insieme di grande impatto emotivo: sotto gli occhi degli spettatori si comporranno 21 tele di Caravaggio realizzate con i corpi degli attori e l'ausilio di oggetti di uso comune e stoffe drappeggiate. Un solo taglio di luce illuminerà la scena che sarà come riquadrata in una immaginaria cornice. La performance sarà scandita ritmicamente dalle musiche di Mozart, Vivaldi, Bach e Sibelius. In scena senza interruzioni al Museo Diocesano di Napoli dalle 9,30 alle 13,30 di domenica 29 settembre, 20 ottobre, 24 novembre, 22 dicembre - Biglietto cumulativo per l’ingresso al percorso museale e la visione dello spettacolo: € 8.00. Gratis fino ai 6 anni. Dai 7 ai 18 anni: € 4.00 (Fonte: Caravaggio400)

Le Carceri di Piranesi come non le avete mai viste

venerdì 20 settembre 2013

Immagine del Vespro - Arte sacra al Santuario dell'Addolorata

La mostra Immagine del Vespro, organizzata da Don Massimo Muccillo, Vicario Espiscopale per il Santuario, e curata dallo storico dell’arte Tommaso Evangelista, prende il titolo dalle cosiddette Vesperbild, le piccole sculture in legno, nate in area tedesca nel 1300, che rappresentano la Pietà e il cui nome si riferisce all’uso, all’ora dei Vespri del Venerdì Santo, di meditare sulle cinque piaghe di Cristo morto che giace sulle ginocchia della Madre. Il legame, naturalmente, è con l’immagine dell’Addolorata come si è mostrata tante volte durante le apparizioni promuovendo anche un’iconografia del tutto nuova nell’emblematico gesto “sacerdotale” di offerta. Tale rappresentazione fu fissata sulla tela, per la prima volta, nel 1889 dal pittore romano Giovanni Battista Gagliardi e questa immagine, oggi in mostra, è diventata la riproduzione canonica degli eventi di Castelpetroso. Nell’esposizione si è voluto affrontare, allora, proprio il problema legato all’origine della prima immagine presentando tutte le opere presenti in Santuario che potessero ricostruire il percorso dell’icona. Parimenti si è voluto dare all’evento un taglio storico allestendo, per la prima volta, un percorso documentario sull’arte nel Santuario. Le opere di Amedeo Trivisonno (verrà presentata anche una pala d’altare, la Deposizione, tolta da una cappella per essere fruita in maniera più ravvicinata), di Marcello Scarano, di Alessandro Caetani (bozzetti della via Matris), della Famiglia Marinelli (calchi delle formelle del portale di sinistra), spesso bozzetti o studi preparatori o lavori fruiti per la prima volta lontano dal contesto liturgico, ci aiutano a ricostruire l’intera vicenda artistica del complesso monumentale che è stato l’ultima costruzione in stile neo-gotico ad essere completata in Italia. Anche i bozzetti della famiglia Chiocchio, di Oratino, che si occupò della lavorazione di tutte le decorazioni in pietra della chiesa, ci aiutano a focalizzare l’attenzione sull’importanza e la difficoltà dell’impresa, aprendo una parentesi su un settore, quello artigianale, spesse volte ignorato dalla critica. Unitamente alle opere legate al Santuario si è voluta arricchire l’esposizione presentando altri lavori dei maggiori artisti che vi hanno lavorato. Di Scarano, autore della Via Crucis del Santuario (in esposizione anch’essa), è stato esposto un inedito polittico con le storie di Cristo e altri soggetti sacri, tra i quali una splendida Deposizione; di Trivisonno, autore delle otto pale d’altare, è presentato invece un pregevole quadro sulla Sacra Famiglia e un’inedita opera giovanile, proveniente dalla chiesa di San Rocco di Carpinone, del 1927, probabilmente tra i primi lavori a tema sacro su tela e recentemente attribuita al pittore da Evangelista. Le opere di Rodolfo Papa, infine, oltre a testimoniare la continuità, in territorio molisano, della linea figurativa a soggetto sacro portata avanti prima da Trivisonno e poi dal suo allievo Leo Paglione, anch’egli in mostra, segnano un’apertura al futuro sia nell’iconografia (si veda la tela con l’Addolorata) sia nel patrimonio artistico della chiesa dato che lo splendido bozzetto per la decorazione della cupola va proprio nella direzione di un arricchimento, di bellezza e di teologia, del complesso. Infine, poiché deve rimanere sempre forte il legame tra la storia e il presente, si è dedicata una sezione alla collettiva d’arte. Una selezione dei migliori artisti molisani, pittori, scultori, ebanisti, che si sono confrontati con tematiche religiose o con la stessa immagine dell’Addolorata, ci aiuta a comprendere come il legame con le forme e la rappresentazione non deve essere mai smarrito se si vuol comunicare i messaggi dell’arte sacra autentica. Proprio la presenza di opere di grandi maestri locali, favorendo un interessante confronto di carattere storico e formale, conferisce autorevolezza e senso alle opere presenti in collettiva. I lavori selezionati, degni per l’indagine di un senso intimo che coinvolge la stessa idea del ruolo dell’artista nella società, ci raccontano del tentativo, con tutte le difficoltà legate al collasso del sistema artistico, di riappropriazione della struttura e del senso e, in linea generale, del “corpo” della pittura e dell’arte. L’esposizione di fotografie delle Officine Cromatiche, inoltre, dimostra come l’immagine del Santuario non perda mai il suo fascino e continui sempre, con la sua forma significante e le sue bellezze artistiche, a ispirare chi, per propria inclinazione, è alla perenne ricerca dell’aspetto, della luce e del colore. Lo studio nato in preparazione della mostra ha tentato di legare gli eventi delle apparizioni all’idea stessa di forma, analizzando l’iconografia (con i suoi modelli) e la fortuna critica dell’immagine dell’Addolorata; parimenti è stata fatta una ricerca mirata di fonti e documenti per ricostruire la storia artistica del Santuario, le tante testimonianze presenti nella chiesa e i diversi artisti che vi hanno operato, per dare una visione quanto più possibile organica dell’arte sacra in Molise come sintetizzata in questo luogo di fede. A conclusione l’idea di fondo dell’intera mostra, e degli studi, è stata quella di aver voluto creare, visivamente e concettualmente, una linea di continuità tra tutte le esperienze artistiche legate al Santuario per restituire una volta per tutte, alla critica e al fruitore, un fondamentale e purtroppo poco conosciuto frammento di storia artistica molisana.






lunedì 29 luglio 2013

Il 'rosso' pompeiano era giallo


Secondo una ricerca realizzata con il Suor Orsola Benincasa le ville di Pompei ed Ercolano erano all'origine color ocra modificato dai gas ad alta temperatura emessi dal vulcano

IIl famoso 'rosso pompeiano'? In realtà era un giallo, modificato dai gas dell'eruzione vesuviana. Gran parte del colore che caratterizza le pareti delle ville di Ercolano e di Pompei in origine era un giallo ocra. A dirlo è una ricerca condotta da Sergio Omarini dell'Istituto nazionale di Ottica del Consiglio nazionale delle ricerche (Ino-Cnr) di Firenze.

"Grazie ad alcune indagini abbiamo potuto accertare che il colore simbolo dei siti archeologici campani, in realtà, è frutto dell'azione del gas ad alta temperatura la cui fuoriuscita precedette l'eruzione del Vesuvio avvenuta nel 79 dopo Cristo" spiega Omarini. "Il fenomeno di questa mutazione cromatica era già noto agli esperti, ma lo studio realizzato dall'Ino-Cnr e promosso dalla Soprintendenza speciale per i beni archeologici di Napoli e Pompei ha finalmente permesso di quantificarne la portata, almeno ad Ercolano".

L'immaginario delle due antiche città, almeno dal punto di vista cromatico, va insomma ribaltato. "Le pareti attualmente percepite come rosse sono 246 e le gialle 57, ma stando ai risultati in origine dovevano essere rispettivamente 165 e 138, per un'area di sicura trasformazione di oltre 150 metri quadrati di parete" prosegue il ricercatore. "Questa scoperta permette di reimpostare gli aspetti originari della città in modo completamente diverso da quello conosciuto, dove prevale il rosso chiamato appunto 'pompeiano'".
Il risultato verrà presentato in occasione della VII Conferenza nazionale del colore che si tiene oggi e domani a Roma nell'Università 'La Sapienza' (Facoltà di ingegneria).

"Il rosso anticamente si otteneva con il cinabro, composto di mercurio, e dal minio, composto di piombo, pigmenti più rari e costosi, utilizzati soprattutto nei dipinti, oppure scaldando l'ocra gialla, una terra di facile reperibilità", conclude il ricercatore. "Quest'ultimo effetto, descritto anticamente da Plinio e Vitruvio, si può percepire anche ad occhio nudo nelle fenditure che solcano le pareti rosse di Ercolano e Pompei".
Le indagini, sono state condotte con strumenti non invasivi: lo spettrofotocolorimetro per misurare il colore e la fluorescenza X che ha consentito di rivelare la presenza di elementi chimici per escludere il minio e cinabro.


sabato 13 luglio 2013

Marina Abramovic - Perchè sono felice


"Sono felice. Una felicità interiore profonda che non ho mai provato in vita mia. Lo scriva, ci tengo tanto che si sappia", dice la performance artist Marina Abramovic' arrivata all'angolo di casa, al termine di una lunga chiacchierata sulla carriera che nell'arco di quarant'anni l'ha portata da Belgrado, dove è nata, fino a New York, dove abita e lavora da una quindicina d'anni. 
Di ragioni concrete per essere felice, questa artista fra le più controverse al mondo, celebre per mettersi in scena in maratone al limite della tortura fisica ed emotiva oggi ne avrebbe parecchie: il suo progetto di un "Marina Abramovic' Institute" sta prendendo forma nella cittadina di Hudson a nord di New York, la pièce teatrale Life and Death of Marina Abramovic', che ha scritto con Bob Wilson, debutterà a dicembre all'Armory di Manhattan, e ha appena messo in cantiere un film sull'attore James Franco... Ma no, non è niente di tutto questo, chiarisce: "La mia felicità non viene dai riconoscimenti o dal fatto che l'istituto sta per diventare realtà. È una felicità che non dipende dalle persone intorno a me. Viene da una profonda trasformazione interiore, cominciata un paio d'anni fa dopo la performance al MoMA".

Si riferisce a The Artist is Present, una piece che nel 2010 portò per cento giorni al Museum of Modern Art e dalla quale uscì trasformata. Settecentotrentasei ore e trenta minuti seduta immobile e in silenzio su una sedia, avvolta in un lungo abito rosso. Davanti a lei un tavolino spoglio al di là del quale c'era un'altra sedia. A turno, circa millequattrocento persone si sono sedute davanti a lei, fissando silenziosamente lo sguardo su quel volto slavo mantenuto senza espressione, da cui scaturiva una corrente d'energia mentale. Ha provato anche Lady Gaga, e la cosa ha fatto notizia. Molti partecipanti hanno reagito all'esperienza emotiva con un attacco di sommesso pianto, e sul web il blog con i filmati Marina Abramovic ' made me cry ha fatto altrettanta sensazione. "È come un'opera silenziosa nella quale Abramovic ' è la primadonna", ha scritto esaltando la performance il critico Holland Cotter sulle pagine del New York Times, pur facendo a pezzi nello stesso articolo la retrospettiva dei lavori dell'artista allestita in contemporanea al sesto piano del museo: "Lì mancano due elementi che definiscono l'arte della performance come mezzo di comunicazione: l'imprevedibilità e la natura effimera dell'evento. In mancanza di questi, tutto suona falso".
Quelle 700 ore al MoMA per Abramovic ' sono state una pietra miliare. L'hanno fatta conoscere a un pubblico più vasto, soprattutto giovanissimi che fino a quel momento sapevano poco dell'artista che già negli anni '70 si feriva in scena usando coltelli infilati ritmicamente fre le dita delle mani (Rythm), ballava per ore al ritmo ossessivo di un tamburo africano con la testa avvolta in una sciarpa fino a cadere esausta (Freing the body) o si autoflagellava nuda per poi incidersi una stella sul ventre con un rasoio (Lips of Thomas). "È un'artista internazionale fra le più inquietanti", scrisse nel 2003 Maureen Turim sulla rivista Camera Obscura, sottolineando nei lavori della Abramovic ' "forti implicazioni sia per le teorie della psicanalisi che per quelle sul femminismo". Un'affermazione che dieci anni dopo Marina ancora respinge: "Quello che faccio io non ha niente a che vedere col femminismo. Non credo che una donna debba sentire il bisogno di proclamarsi femminista quando è comunque più forte dell'uomo".
Sono affermazioni che hanno creato col pubblico delle donne un rapporto di odio-amore. Odio per le sue continue provocazioni, come quando con il tedesco Ulay, suo compagno di vita e d'arte per un decennio, arrivò a teorizzare la totale simbiosi; amore per la sua capacità di sentirsi libera e rompere ogni regola, come quando forzò il pubblico a passare per uno spazio stretto fra il suo corpo nudo e quello di Ulay, scegliendo quale sfiorare col proprio (Imponderabilia).
A 66 anni, col suo corpo Abramovic ' ha un rapporto complesso. "Durante le mie performance non me ne importa nulla di come appaio, perché in quel momento il corpo non è altro che uno strumento per diffondere un messaggio. Ma nella vita di tutti giorni ne sono estremanente conscia, se mi sento troppo grassa o se se mi vedo invecchiata. È una totale contraddizione, ma una cosa che ho imparato è che le contraddizioni non vanno nascoste". Anche ad accettare i contrasti, dice Marina, è arrivata nelle ore di "immobile energia creativa" al MoMA: "Mi hanno fatto prendere coscienza che siamo presenze temporanee su questo pianeta. È qualcosa a cui penso ogni giorno e che mi dà molta concentrazione". Pensieri cupi perfettamente in linea con l'animo slavo che si è porta dentro dalla nascita nella Belgrado degli anni '40, figlia di due partigiani comunisti che combatterono con Tito durante la Seconda Guerra mondiale. 
Marina è cresciuta con tutti i comfort della borghesia rossa yugoslava, ma a 18 anni ha risentito molto della separazione dei genitori. La madre tentò di imporle una disciplina quasi militare, lei si ribellò sposandosi e dopo pochi anni, con una laurea ottenuta all'Accademia delle Belle Arti di Belgrado, trasferendosi da sola ad Amsterdam. "All'inizio fu orribile, perché non ero abituata a essere creativa quando tutto intorno a me era facile. Come artista avevo bisogno di sofferenza, di situazioni difficili. È quel senso del dramma che noi slavi ci portiamo dentro e che ci influenza in musica, letteratura, poesia". Ne sa qualcosa il suo pubblico italiano che nel 1997, alla Biennale di Venezia, osservò sgomento Abramovic ' su una grande pila di ossa insanguinate, che lavava con uno spazzolone nel vano tentativo di ripulire simbolicamente gli orrori della guerra in Bosnia. Per la performance, Balkan Baroque, vinse il Leone d'Oro. 
Difficile pensare che Marina Abramovic ' possa avere anche un lato leggero. Invece è proprio questo a sorprendere chi la incontra: ride spesso e di gusto ("adoro le barzellette sporche"), fa battute scanzonate con un forte accento slavo, in un inglese ai confini della grammatica. Più che a parole, comunica con l'energia coltivata in anni di interazione spirituale con aborigeni australiani, monaci tibetani, gli sciamani in Brasile. "Le culture indigene mi hanno insegnato un rapporto diverso tra corpo ed energia mentale". 

È la nuova tappa del suo percorso: "Il mio lavoro non è più creare performance artistiche. Ora desidero creare cultura fondendo arte, scienza, spiritualità e nuove tecnologie". Le ridono gli occhi quando mostra sull'Ipad il prototipo del "Marina Abramovic ' Institute" a Hudson, che se tutto andrà come previsto inaugurerà nel 2014. "Ma devo prima trovare 20 milioni di dollari, in qualche modo me la caverò", scherza annunciando che è già partito il fund-raising. Tutto nasce dall'acquisto di un edificio nel centro di Hudson: un teatro poi diventato cinema, poi campo da tennis comunale coperto. "Il progetto è pronto e presto inizieranno i lavori per trasformarlo in un centro aperto non solo ad artisti, ma a tutto il pubblico, che lì potrà vivere l'esperienza dell'arte immateriale". I visitatori dovranno impegnarsi a trascorrere nell'Istituto almeno sei ore, durante le quali non avranno accesso a nessun oggetto personale, neppure il cellulare o l'orologio. Perderanno la nozione del tempo mentre si sposteranno di sala in sala con indosso camici bianchi, "un abbigliamento per sottolineare che saranno ore di esercizi mentali e spirituali, di sperimentazione delle capacità sensoriali, proprio come stare in un laboratorio", spiega la Abramovic '. Quanto a lei, che in passato ha fatto un laboratorio planetario della sua frequentazione di vulcani attivi, di settimane di marcia lungo la Grande Muraglia e full immersione per mesi nella foresta brasiliana, in ottobre starà un mese nel deserto del Qatar. "Poi tornerò in America dove vivo da quindici anni. Ma non vengo qui per creare. Vengo per consegnare le mie idee, senza mai scendere a compromessi col mercato dell'arte, perché la mia anima non è in vendita. Amo fare solo le cose che mi interessano. Quello che ora mi interessa è elevare lo spirito umano".

sabato 6 luglio 2013

Lo spazio vuoto del Rinascimento

Il digital artist ungherese Bence Hajdu ha rielaborato alcuni capolavori dell'arte - tra cui celebri dipinti del Rinascimento italiano - privandoli dei personaggi che li popolano. Il risultato sono nude architetture immerse in un silenzio quasi metafisico. L'assenza delle figure trasfigura letteralmente lo spazio mostrandolo nella perfezione delle forme e nel trionfo dell'architettura.




venerdì 5 luglio 2013

Restituzioni 2013 Tesori d'arte restaurati


Marsilio Editori mette online, e scaricabile, questo interessante testo d'arte che riguarda i restauri eseguiti nel 2013. Ci sono le relazioni di restauro e le schede di diverse opere d'arte sparse sul territorio italiano, fra cui anche il polittico in alabastro di XV secolo realizzato dalla Bottega di Nottingham e conservato presso il Museo Nazionale di Capodimonte, (gemello al polittico in alabastro di Venafro), il cui restauro è terminato un paio di mesi fa; c'è il crocifisso ligneo di San Clemente a Casauria. Da reperti archeologici a cose Sette e Ottocentesche.

lunedì 1 luglio 2013

Caravaggio - L'incredulità di San Tommaso


La tela fu dipinta da Caravaggio intorno al 1601 per il Marchese Vincenzo Giustiniani per la galleria di dipinti del suo Palazzo, secondo quanto si può desumere da Le vite de’pittori scultori et architetti moderni di Giovan Pietro Bellori pubblicato nel 1672 a Roma, e dai numerosi documenti d’inventario che la riguardano. Nell’inventario della collezione Giustiniani del 1638 si legge «Nella stanza grande de quadri antichi. Un quadro sopra porta di mezze figure con l’historia di S. Tommaso che tocca il costato di Christo col dito dipinto in tela alta palmi 5. Larga 6,5 incirca, di mano di Michelangelo da Caravaggio con cornice nera profilata e rabescata d’oro».

La tela, dunque, fa parte della collezione Giustiniani ed è unsopraporta, dipinto cioé in orizzontale a mezze figure di circa cm 150 di larghezza e cm 100 di altezza. La tela poi fu venduta varie volte nel corso dei secoli, ed infine, dopo ulteriori vicissitudini legate agli eventi della Seconda Guerra Mondiale, pervenne nell’attuale collezione della Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam. Nel 2001 a Roma è stata proposta al pubblico italiano in una bellissima mostra dedicata alla ricostruzione dell’antica collezione Giustiniani.

Caravaggio costruisce il dipinto attraverso una struttura semplice che nell’essenzialità della scena punta diritto verso il cuore della narrazione evangelica. Cristo è attorniato da tre apostoli, tra i quali riconosciamo Pietro, dietro agli altri due in posizione più alta, e Tommaso, che sbigottito si vede prendere la mano dallo stesso Cristo e inserirla nella ferita del costato. Gesù è rappresentato con un incarnato più chiaro rispetto al gruppo degli apostoli, creando così una forte contrapposizione cromatica tale da determinare un doppio risultato narrativo; quello di portare il fedele ad un coinvolgimento diretto nell’azione, rendendolo presente e partecipe di quanto accade sotto i suoi occhi, e di evidenziare la corporeità del Risorto come il testo evangelico la descrive.

I tre apostoli hanno le fronti aggrottate, sono curvi in un inchino spontaneo di fronte al mistero della Risurrezione, i loro occhi sono attenti e le bocche aperte senza proferire parola, sono impietriti, ritratti nel momento che li vede colti da stupore; si differenzia l’atteggiamento psicologico di Tommaso che ha gli occhi sbarrati e si perde con lo sguardo attonito nell’abisso di ciò che gli si manifesta di fronte. Gesù, reclinando il capo, con la mano destra delicatamente scosta il mantello, mostrando la ferita sul costato ancora aperta e con la sinistra guida quella dell’apostolo, introducendo il dito tremante di Tommaso nella ferita del costato; il suo volto sembra accennare una impercettibile smorfia di dolore mentre accompagna con lo sguardo il gesto che compie con la mano di Tommaso. In questo dipinto non c’è altro, tutto è avvolto dalla penombra della stanza nel quale accade il fatto, davanti ai nostri occhi ci sono solo quattro figure colpite dalla luce che giunge dall’alto, tutto è reso attraverso un’abile descrizione psicologica degli apostoli, e poi null’altro.

Nel Vangelo di Giovanni leggiamo: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il Sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il costato e i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20, 19-20) «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: Abbiamo visto il Signore! Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel costato, non crederò. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettile nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 24-29)

Giovanni descrive minuziosamente quanto accaduto e pone in evidenza l’atteggiamento umano di Tommaso, che si dichiara scettico su quanto gli viene raccontato dagli altri e pone delle condizioni alla Fede, come facciamo noi ogni giorno della nostra vita posti di fronte alle difficoltà del mondo. Caravaggio dipinge questo turbamento, che anche è il nostro, e in modo sapiente traspone l’incredulo per eccellenza non soltanto nella ovvia figura di Tommaso, ma anche in quella degli altri due apostoli presenti nel dipinto.

Infatti lo scopo del dipinto non è solo quello di narrare i fatti così come ci vengono descritti da Giovanni, quanto piuttosto di porci di fronte al mistero della Risurrezione nella sua evidente corporeità. Cristo è risorto, è vivo; il dipinto di Caravaggio ci pone di fronte alla domanda dell’angelo alle donne: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? » (Lc. 24,5). Il dito di Tommaso affonda nella carne di Gesù; quella mano rozza, con le unghie sporche del proprio lavoro quotidiano, è la mano di tutti coloro che sono chiamati nella Fede a credere in Cristo. Lo scetticismo si scioglie nello stupore; gli occhi si spalancano davanti a quelle ferite, e la bocca tremante si apre balbettando, con un filo di voce « Mio Signore e mio Dio!».

L’arte di Caravaggio, come quella di moltissimi altri nel corso dei secoli, ha teso a rappresentare, attraverso la tecnica e gli strumenti propri della pittura, la corporeità del mistero dell’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Cristo, il mistero di Gesù, che è totalmente uomo e totalmente Dio, per fugare quei dubbi che persino gli apostoli, secondo la narrazione di Luca, ebbero: «Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma» ( Lc. 23,37). L’arte ci invita a vedere con gli occhi e a meditare nel cuore le parole di Cristo: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 23, 38-39).

Al riguardo sant’Agostino dice: «Cristo avrebbe potuto risanare le ferite della sua carne al punto da non fare apparire neppure le impronte delle cicatrici. Aveva il potere di non mantenere nelle sue membra il segno dei chiodi, di non mantenere la ferita del costato.(...) Lui, che lasciò fissi sul suo corpo i segni dei chiodi e della lancia, sapeva che in futuro ci sarebbero stati eretici tanto empi e distorti da affermare che il Signore Nostro Gesù Cristo simulò di avere carne e che avrebbe detto menzogne ai suoi discepoli e ai nostri Evangelisti quando disse: Tocca e vedi.(...) Supponiamo che ci sia qui un manicheo. Che cosa direbbe? Che Tommaso vide, toccò, palpò le impronte dei chiodi, ma che era una carne falsa.» Si comprende qual’è stato –è quale è tuttora- il compito dell’arte, e cioè affermare che Cristo è veramente risorto, vero uomo e vero Dio. Come scrive ancora sant’Agostino:« La Verità risuscitò carne vera. La Verità mostrò ai discepoli carne vera dopo la risurrezione. La Verità mostrò cicatrici di carne vera alle mani che le palpavano. Arrossisca dunque la falsità, poiché ha vinto la Verità».

*
Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it  Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com  e.mail: rodolfo_papa@infinito.it  

"Il Mistero Svelato", le ultime interpretazioni de "L'Annunciata" di Antonello da Messina


Una nuova ed inedita interpretazione dell’Annunciata di Antonello da Messina è stata presentata nel mese di giugno presso l’Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles.
Per anni quest’opera è stata oggetto d’indagine e di approfondimento di varia natura. Forse proprio perché considerata “misteriosa” l’interesse verso questo capolavoro assoluto del Rinascimento, uno dei dipinti più enigmatici e rappresentativi della storia dell’arte, è sempre stato molto forte.
Oltre all’inedita interpretazione del quadro proposta da Giovanni Taormina, esperto e restauratore di dipinti, ha introdotto la conferenza lo storico dell'arte Mauro Lucco, successivamente sono stati illustrati dal prof Franco Fazzio, dalla dott.ssa Maria Francesca Alberghina, dal dott. Salvatore Schiavone i risultati delle ricerche condotte negli anni, a partire dal 2006. Le indagini diagnostiche sono state realizzate, oltre che dai ricercatori presenti, dall’arch. Ermanno Cacciatore, dalla dott.ssa Fernanda Prestileo e dal dott. Giovanni Bruno, già Laboratorio di Fisica e Ambientalistica degli Interni del Centro Regionale per la Progettazione e il Restauro della Regione Siciliana (CRPR) – Assessorato dei Beni Culturali e dell’Identità siciliana, sotto l’allora direttore arch. Guido Meli, da Giuseppe Salerno, radiologo, e dalla dott.ssa Lidia Perrone, chirurgo estetico.Inoltre, per l’approfondimento teologico, sono stati consultati gli studi del Ministro di Culto Cristiana Perrone.
Gli studi condotti hanno fornito numerose risposte agli interrogativi che da secoli sono stati legati a questo dipinto risalente al 1475/76 e oggi conservato nella Galleria Regionale di Palazzo Abatellis di Palermo.
Da qui il titolo dello studio presentato all’IIC di Bruxelles “Il mistero svelato”.
L’autorevole storico dell’arte Mauro Lucco, già curatore di numerose mostre tra cui proprio quella su Antonello da Messina alle Scuderie del Quirinale, che ha introdotto la presentazione di questi studi ieri a Bruxelles, per il valore che egli stesso ha pubblicamente attributo a “il mistero svelato” di Giovanni Taormina, ha proposto di continuare insieme allo stesso Taormina e ai suoi colleghi queste ricerche.

Ecco i principali nodi sciolti da questo studio interpretativo dell’opera:
Maria ha dinanzi un Magnificat
Per anni si è cercato di capire cosa rappresentassero i segni posti dall’artista messinese sul libro dinanzi alla Madonna. Analizzando i punti in rosso cinabro sono emersi significativi risultati. In particolare il simbolo più evidente rappresenta un carattere onciale e cioè un tipo di scrittura adoperata in codici vergati per i titoli, le rubriche, gli incipit o gli explicit impiegati solitamente nei manoscritti dell’epoca come capolettera di un capitolo o di un paragrafo. Si è riusciti ad individuare in quel segno una “M”, in particolare una M di Magnificat.
Le scritte in nero sul foglio, inoltre, evidenziano residui di alcune lettere che dovevano comporre alcune frasi iniziali del Magnificat “anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo”.
Una nuova rappresentazione dello Spirito Santo sotto forma di vento
E’ la prima volta che si parla della presenza dello Spirito Santo nell’opera dell’Annunciata. Un argomento che non era mai stato trattato e che per primo Giovanni Taormina ha portato alla luce. Lo stesso Prof Mauro Lucco ha voluto valorizzare questa scoperta pubblicamente, complimentandosi con l’autore nel corso della serata evento organizzata all’IIC di Bruxelles. In sostanza nell’Annunciata di Palermo si puo’ notare che le pagine del libro dinanzi alla vergine sono come sollevate da un soffio di vento. Secondo Giovanni Taormina e il gruppo interdisciplinare che ha compiuto questi studi, quel vento rappresenta il soffio generante e ispiratrice dello Spirito Santo. Tra le varie spiegazioni c’è quella etimologica. La parola spirito in ebraico si traduce ruach, che nel suo senso primario significa soffio, aria, vento, respiro. 
Dal greco traduce pneuma (da pneo) e cioè soffiare, respirare, ricevere vita. (Theopneostos tradotto letteralmente soffiato da Dio, emessa dal respiro di Dio).
Chi è l’Annunciata di Palermo? Smentita la raffigurazione di Smeralda Calafato
Secondo alcune ipotesi la giovane ritratta da Antonello sia Santa Eustochia Calafato (al secolo Smeralda), nata a Messina nella stessa epoca di Antonello. Il gruppo interdisciplinare di studi coordinato da Giovanni Taormina ha, quindi, provveduto a identificare i resti mummificati, che si attestano essere di Smerala. Si è valutata quindi la possibilità di ricostruirne il volto e tentare il confronto, attraverso una serie di indagini comparate tra la mummia ed il dipinto dell’Annunciata. Per la mancanza di alcune autorizzazioni, pero’, tali approfondimenti non sono stati ancora eseguiti.
Grazie ad alcune analisi svolte da uno specialista in chirurgia estetica, comunque, è stato possibile asserire che l’ipotesi che vuole Smeralda Calafato come colei che avrebbe posato per la realizzazione dell’Annunciata, non trovi conferma il confronto tra l’Annunciata di Palermo e l’Annunciata di Monaco: la prima ha già Gesù in grembo
Le due opere sono state confrontate con l’obiettivo di far emergere nuovi indizi a supporto di una migliore comprensione del significato dell’Annunciata di Palermo. Da questo confronto è emerso che l’Annunciata di Monaco è stata rappresentata da Antonello in un momento in cui non si è ancora svolta l’azione di concepimento da parte dello Spirito di Dio, mentre in quella di Palermo è già avvenuta. A questa interpretazione è stato possibile risalire attraverso lo studio di piccoli particolari come il volto delle due Madonne: in quella di Palermo il viso di Maria evidenzia una leggera piega dell’angolo labiale che rappresenta un sereno sorriso mentre nella Maria di Monaco la bocca è aperta, come se la vergine fosse colta da stupore improvviso mentre l’angelo le annuncia che lei è la prescelta. Anche la posizione delle mani delle due vergini confermano questa ipotesi. “In un dipinto di Antonello, nulla è stato dipinto a caso, ogni pennellata è importante ed ha una sua spiegazione logica” si puo’ leggere nello studio presentato all’IIC di Bruxelles a pag 10.
“Ho fortemente voluto ospitare nel nostro Istituto Italiano di Cultura la presentazione di questo studio inedito su L’Annunciata di Antonello da Messina – ha dichiarato la prof.ssa Federiga Bindi, direttore dell’IIC di Bruxelles – non soltanto perché Antonello è uno degli artisti più significativi del Rinascimento italiano e mondiale, ma anche perché questa interessante analisi rappresenta un’eccellenza della ricerca italiana che va valorizzata e promossa anche all’estero”.

(Dott.ssa Federiga Bindi, Direttore I.I.C.B.)


martedì 25 giugno 2013

Disegni inediti di Picasso in mostra a cannes

Un'intera collezione di disegni di Pablo Picasso, quasi del tutto inediti, arrivano a dare una nuova scossa al sistema dell'arte francese. La nipote dell'artitsa, Marina, ha infatti deciso di mettere in mostra la propria collezione al Centre d'Art La Mailmaison di Cannes. "C'è qualche opera - spiega la discendente del maestro spagnolo - che è stata già esposta, ma complessivamente mai. Qui c'è davvero una collezione completa".Per il museo della celebre località mediterranea si tratta di una grande occasione, e il direttore Frédéric Ballester mostra tutto il proprio entusiasmo. "Per la prima volta - racconta - abbiamo avuto il prestito di 90 opere maggiori che coprono praticamente tutto il percorso creativo di Picasso, dai primi lavori di Barcellona fino a poco prima della sua morte".Al centro di molti disegni il tema del corpo, soprattutto quello femminile, che ritorna in modi diversi in tutta la carriera di Picasso. "C'è l'erotismo, certo - conferma Marina - tipico di quel periodo vitalistico e divertente della vita di mio nonno, che non è molto conosciuto dal pubblico".Ora i turisti in Costa Azzurra hanno l'opportunità di affacciarsi su questa collezione intima di Picasso, tanto per il legame familiare, quanto per l'intensità dei temi trattati dal pennello incontenibile, e ogni riferimento psicanalitico è chiaramente voluto, del grande artista venuto dall'Andalusia.




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