domenica 24 novembre 2013

Come nasce un'icona - Il ritratto del Che di Korda


Il 5 marzo del 1960, a L’Avana, si svolgono i funerali per le ottantuno vittime dell’esplosione della nave francese La Coubre nel porto della capitale cubana. Il carico della nave era composto da un arsenale di munizioni provenienti dal Belgio: l’arrivo di tale carico aveva ricevuto una forte opposizione da parte degli Stati Uniti, e per tale ragione Fidel Castro aveva accusato la CIA di responsabilità nell’attentato. Un giovane fotografo di 32 anni si muove sotto la struttura allestita per l’evento e continua a fotografare chi interviene sul palco: si chiama Alberto Díaz Gutiérrez, meglio noto come Alberto Korda.

Quella mattina Korda lavora per conto del quotidiano Revolución e ha al collo una Leica M2 con un obiettivo da 90 mm. Dopo una marcia funebre percorsa sul lungomare, le maggiori rappresentanze si radunano sul palco per commemorare i caduti. Sono presenti, tra gli altri, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir e Fidel Castro. Korda fotografa tutti. Sono le 11.20 e mentre il Comandante interviene con un discorso infuocato, Che Guevara, sofferente per un attacco di asma, arriva in ritardo, con il volto rabbuiato.
Due scatti veloci immortalano quel volto e quello sguardo.



Ho sempre ritenuto El Guerrillero Heroico uno scatto casuale e fortunato, una foto che non ritrae realmente Che Guevara ma un personaggio astratto, immaginario, vissuto nella dimensione del mito per opera delle generazioni che l’hanno amato ed esaltato, un idolo creato dalla fantasia, cui Guevara ha soltanto prestato i lineamenti del viso. L’immagine più vera del Che è sicuramente l’intenso ritratto che René Burri realizzò nel 1963, immagine che ci restituisce il personaggio in tutta la sua autentica e contraddittoria dimensione di uomo, fuori dal mito e dalla leggenda.



lunedì 18 novembre 2013

Arte come terapia - L'arte può salvarci dall'angoscia



Un catechismo di religione laica


“Corriere della Sera“, 9 novembre 2013

I musei devono essere le nuove chiese in cui curare lo spirito Il mondo moderno tiene l’arte in grande considerazione. Lo si vede dal fatto che si continuano ad aprire nuovi musei, si destinano notevoli risorse pubbliche alla produzione e all’esposizione di opere d’arte, si cerca di avvicinare ad essa un pubblico sempre più ampio (coinvolgendo anche bambini e gruppi minoritari), lo si nota dal prestigio goduto dagli studiosi e dalle alte valutazioni del mercato dell’arte. L’arte è ritenuta qualcosa di vicino al senso stesso della vita. 
Nonostante tutto questo, i nostri incontri con l’arte non sempre sono soddisfacenti come vorremmo. Spesso usciamo da un museo importante con un senso di delusione, di disorientamento o di inadeguatezza, chiedendoci perché la profonda esperienza che ci attendevamo non si è verificata. E di solito diamo la colpa a noi stessi, alla nostra ignoranza o mancanza di sensibilità. 
Secondo me, il problema non è nell’individuo, ma nel modo in cui l’arte viene insegnata, venduta e presentata dalle istituzioni artistiche. Dall’inizio del XX secolo il nostro rapporto con l’arte è stato condizionato dalla profonda riluttanza istituzionale ad affrontare la questione della funzione dell’arte. È una questione che, ingiustamente, viene considerata importuna, illegittima e un po’ impudente. 
L’espressione «l’arte per l’arte» respinge l’idea che l’arte debba avere uno scopo preciso, lasciandola così in un empireo misterioso — e quindi vulnerabile. L’importanza dell’arte è di solito data per scontata, piuttosto che venir spiegata. Che abbia un valore è considerata una cosa ovvia. Questo è però sbagliato, sia per chi la contempla che per chi la custodisce. Sono convinto che l’arte abbia uno scopo che può essere definito e discusso in termini chiari. Credo che l’arte sia uno strumento e che si debba cercare di capire con maggiore precisione quale sia la sua natura e cosa possa fare di buono per noi.
Tanto per cominciare, abbiamo bisogno di uno strumento che corregga o compensi una serie di nostre fragilità psicologiche. Riassumiamo alcune di queste debolezze: 
1. Dimentichiamo ciò che conta, non riusciamo a valorizzare esperienze importanti, ma poco comprensibili. 
2. Tendiamo a scoraggiarci: siamo ipersensibili ai lati negativi dell’esistenza. Perdiamo legittime occasioni di successo perché non riusciamo a vedere la ragione per continuare a fare certe cose. 
3. Siamo inclini a sentirci isolati e perseguitati, perché non vediamo in modo realistico i normali livelli di difficoltà. Cadiamo troppo facilmente in preda al panico, perché non diamo il giusto significato ai nostri problemi. Siamo soli — non perché non abbiamo qualcuno con cui parlare, ma perché chi ci sta intorno non è in grado di capire i nostri problemi con sufficiente profondità, onestà e pazienza. Questo anche perché la rappresentazione dei nostri dolori — relazioni sbagliate, invidie, ambizioni non realizzate — può essere spiacevole e offensiva. Soffriamo, e ci sembra che la nostra sofferenza sia poco dignitosa. 
4. Siamo poco equilibrati e perdiamo di vista i nostri lati migliori. Noi non siamo un’unica persona. Siamo fatti di molteplici «io», e sappiamo che alcuni di questi sono migliori di altri. Tendiamo a manifestare i nostri «io» migliori un po’ a caso e quando è troppo tardi; perseguiamo le ambizioni più alte con poca determinazione. Pur sapendo come dovremmo comportarci, non riusciamo ad agire secondo le nostre migliori intuizioni, che non ci si offrono in una forma sufficientemente convincente. 
5. Farci conoscere è difficile: costituendo già un mistero per noi stessi, non riusciamo a spiegare agli altri chi siamo, o non siamo in grado di farci apprezzare per i giusti motivi. 
6. Respingiamo molte esperienze, popoli, luoghi, epoche che hanno cose importanti da offrirci, perché ci si presentano nella forma sbagliata e non ci danno modo di avvicinarle. Siamo inclini a giudizi superficiali e a preconcetti. Vediamo quel che è «straniero» con troppa diffidenza. 
7. La consuetudine ci rende meno sensibili — e viviamo in un mondo dominato dal commercio e dalla moda. Siamo quindi spesso insoddisfatti di una vita che ci sembra troppo monotona e pensiamo che «la vera vita» sia altrove. 

L’arte trova il suo scopo e il suo valore in relazione a questi sette problemi cognitivi, per ciascuno dei quali ci offre benefici: 

1. Corregge la cattiva memoria: l’arte rende i frutti dell’esperienza memorabili e rinnovabili. È un meccanismo che mantiene le cose preziose, le nostre migliori intuizioni, in buone condizioni e le rende accessibili a tutti. L’arte tesaurizza le nostre vittorie collettive. 
2. Apporta speranza: l’arte ci mostra le cose piacevoli e confortanti. Sa che ci disperiamo con troppa facilità. 
3. Rende dignitoso il dolore: l’arte ci ricorda qual è il giusto posto del dolore in una vita piena, permettendoci così di essere meno travolti dalle difficoltà, che possono essere viste come componenti legittime di un’esistenza nobile. 
4. È un fattore di equilibrio: l’arte rappresenta con insolita chiarezza l’essenza delle nostre buone qualità e ce le mette davanti agli occhi utilizzando vari mezzi di comunicazione, per aiutarci a riequilibrare la nostra natura e indirizzarci verso le nostre migliori possibilità. 
5. È una guida alla conoscenza di sé: l’arte ci aiuta a identificare quel che è importante per noi, ma che è difficile esprimere con le parole. Molto di quel che è umano non è reperibile nella sfera linguistica. Può capitare di prendere un oggetto artistico e di dire, confusamente ma significativamente, «questo sono io». 
6. È una guida all’espansione dell’esperienza: l’arte è una summa , immensamente sofisticata, delle esperienze di altri, presentate in una forma ben costruita e organizzata. Ci fornisce alcuni degli esempi più eloquenti dell’espressione delle altre culture — quindi la fruizione di opere d’arte espande la nostra idea di noi e del nostro mondo. In un primo momento l’arte ci sembra in gran parte «altro», ma scopriamo che essa può contenere al suo interno idee e atteggiamenti che possiamo fare nostri arricchendoci. Non tutto quello che serve a migliorarci è già attorno a noi. 
7. È uno strumento di risensibilizzazione: l’arte rimuove la nostra scorza e ci salva dall’abituale indifferenza verso quel che ci circonda. Ci permette di recuperare la sensibilità, di guardare il vecchio in modo nuovo. Ci evita di pensare che le novità e la moda siano le uniche soluzioni. 


Si sente spesso dire che «i musei sono le nostre nuove chiese»: in altre parole, in un mondo che si sta secolarizzando, l’arte ha sostituito la religione come veicolo di riverenza e devozione. È un’idea interessante, che fa parte della più ampia nozione per cui la cultura dovrebbe sostituire la Scrittura. In pratica, però, i musei presentano le collezioni loro affidate in forme che spesso li allontanano dalla possibilità di svolgere la funzione di chiese (luoghi di consolazione, meditazione, redenzione). Ci mostrano oggetti genuinamente importanti, ma sembra non siano in grado di organizzarli in modo da collegarli con forza ai nostri bisogni profondi. 

giovedì 7 novembre 2013

Book of Miracles e le sue illustrazioni

Il Book of Miracles, ritrovato alcuni anni fa e di recente acquisito da un collezionista privato americano, è una delle scoperte più spettacolari nel campo dell’arte rinascimentale avvenute nella Germania meridionale. Il manoscritto esistente è quasi completo: creato ad Amburgo, libera città imperiale di Svevia, intorno al 1550, si compone di 167 pagine con illustrazioni di grande formato a guazzo e acquerello che rappresentano fenomeni celesti meravigliosi e a tratti inquietanti, costellazioni, conflagrazioni, inondazioni e altre catastrofi e manifestazioni di varia natura.

Le illustrazioni dall’aspetto sorprendentemente moderno, talvolta fantastico, e le descrizioni presenti nel Book of Miracles ci offrono una visione unica e sorprendente delle preoccupazioni e dei timori del XVI secolo, del pensiero apocalittico e delle attese escatologiche. Al contempo, la sua aspirazione enciclopedica rivela una curiosità tipica del Rinascimento tedesco, dai tratti spiccatamente scientifici, e attraverso l’assimilazione di diverse fonti testuali e visive ci consegna una vera e propria cronaca degli orrori.

Questo facsimile riproduce per la prima volta il Book of Miracles nella sua interezza, rendendo finalmente accessibile a tutti gli studiosi e gli appassionati d’arte una delle opere più importanti del Rinascimento tedesco. Accanto al facsimile, un commento introduttivo al manoscritto cerca di delinearne il contesto storico e culturale, ripercorrendone le fonti nel dettaglio. Un’ampia descrizione del manoscritto e delle sue miniature e la trascrizione completa del testo costituiscono infine un’utile appendice.

Pubblicato da Taschen








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