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sabato 13 luglio 2013

Marina Abramovic - Perchè sono felice


"Sono felice. Una felicità interiore profonda che non ho mai provato in vita mia. Lo scriva, ci tengo tanto che si sappia", dice la performance artist Marina Abramovic' arrivata all'angolo di casa, al termine di una lunga chiacchierata sulla carriera che nell'arco di quarant'anni l'ha portata da Belgrado, dove è nata, fino a New York, dove abita e lavora da una quindicina d'anni. 
Di ragioni concrete per essere felice, questa artista fra le più controverse al mondo, celebre per mettersi in scena in maratone al limite della tortura fisica ed emotiva oggi ne avrebbe parecchie: il suo progetto di un "Marina Abramovic' Institute" sta prendendo forma nella cittadina di Hudson a nord di New York, la pièce teatrale Life and Death of Marina Abramovic', che ha scritto con Bob Wilson, debutterà a dicembre all'Armory di Manhattan, e ha appena messo in cantiere un film sull'attore James Franco... Ma no, non è niente di tutto questo, chiarisce: "La mia felicità non viene dai riconoscimenti o dal fatto che l'istituto sta per diventare realtà. È una felicità che non dipende dalle persone intorno a me. Viene da una profonda trasformazione interiore, cominciata un paio d'anni fa dopo la performance al MoMA".

Si riferisce a The Artist is Present, una piece che nel 2010 portò per cento giorni al Museum of Modern Art e dalla quale uscì trasformata. Settecentotrentasei ore e trenta minuti seduta immobile e in silenzio su una sedia, avvolta in un lungo abito rosso. Davanti a lei un tavolino spoglio al di là del quale c'era un'altra sedia. A turno, circa millequattrocento persone si sono sedute davanti a lei, fissando silenziosamente lo sguardo su quel volto slavo mantenuto senza espressione, da cui scaturiva una corrente d'energia mentale. Ha provato anche Lady Gaga, e la cosa ha fatto notizia. Molti partecipanti hanno reagito all'esperienza emotiva con un attacco di sommesso pianto, e sul web il blog con i filmati Marina Abramovic ' made me cry ha fatto altrettanta sensazione. "È come un'opera silenziosa nella quale Abramovic ' è la primadonna", ha scritto esaltando la performance il critico Holland Cotter sulle pagine del New York Times, pur facendo a pezzi nello stesso articolo la retrospettiva dei lavori dell'artista allestita in contemporanea al sesto piano del museo: "Lì mancano due elementi che definiscono l'arte della performance come mezzo di comunicazione: l'imprevedibilità e la natura effimera dell'evento. In mancanza di questi, tutto suona falso".
Quelle 700 ore al MoMA per Abramovic ' sono state una pietra miliare. L'hanno fatta conoscere a un pubblico più vasto, soprattutto giovanissimi che fino a quel momento sapevano poco dell'artista che già negli anni '70 si feriva in scena usando coltelli infilati ritmicamente fre le dita delle mani (Rythm), ballava per ore al ritmo ossessivo di un tamburo africano con la testa avvolta in una sciarpa fino a cadere esausta (Freing the body) o si autoflagellava nuda per poi incidersi una stella sul ventre con un rasoio (Lips of Thomas). "È un'artista internazionale fra le più inquietanti", scrisse nel 2003 Maureen Turim sulla rivista Camera Obscura, sottolineando nei lavori della Abramovic ' "forti implicazioni sia per le teorie della psicanalisi che per quelle sul femminismo". Un'affermazione che dieci anni dopo Marina ancora respinge: "Quello che faccio io non ha niente a che vedere col femminismo. Non credo che una donna debba sentire il bisogno di proclamarsi femminista quando è comunque più forte dell'uomo".
Sono affermazioni che hanno creato col pubblico delle donne un rapporto di odio-amore. Odio per le sue continue provocazioni, come quando con il tedesco Ulay, suo compagno di vita e d'arte per un decennio, arrivò a teorizzare la totale simbiosi; amore per la sua capacità di sentirsi libera e rompere ogni regola, come quando forzò il pubblico a passare per uno spazio stretto fra il suo corpo nudo e quello di Ulay, scegliendo quale sfiorare col proprio (Imponderabilia).
A 66 anni, col suo corpo Abramovic ' ha un rapporto complesso. "Durante le mie performance non me ne importa nulla di come appaio, perché in quel momento il corpo non è altro che uno strumento per diffondere un messaggio. Ma nella vita di tutti giorni ne sono estremanente conscia, se mi sento troppo grassa o se se mi vedo invecchiata. È una totale contraddizione, ma una cosa che ho imparato è che le contraddizioni non vanno nascoste". Anche ad accettare i contrasti, dice Marina, è arrivata nelle ore di "immobile energia creativa" al MoMA: "Mi hanno fatto prendere coscienza che siamo presenze temporanee su questo pianeta. È qualcosa a cui penso ogni giorno e che mi dà molta concentrazione". Pensieri cupi perfettamente in linea con l'animo slavo che si è porta dentro dalla nascita nella Belgrado degli anni '40, figlia di due partigiani comunisti che combatterono con Tito durante la Seconda Guerra mondiale. 
Marina è cresciuta con tutti i comfort della borghesia rossa yugoslava, ma a 18 anni ha risentito molto della separazione dei genitori. La madre tentò di imporle una disciplina quasi militare, lei si ribellò sposandosi e dopo pochi anni, con una laurea ottenuta all'Accademia delle Belle Arti di Belgrado, trasferendosi da sola ad Amsterdam. "All'inizio fu orribile, perché non ero abituata a essere creativa quando tutto intorno a me era facile. Come artista avevo bisogno di sofferenza, di situazioni difficili. È quel senso del dramma che noi slavi ci portiamo dentro e che ci influenza in musica, letteratura, poesia". Ne sa qualcosa il suo pubblico italiano che nel 1997, alla Biennale di Venezia, osservò sgomento Abramovic ' su una grande pila di ossa insanguinate, che lavava con uno spazzolone nel vano tentativo di ripulire simbolicamente gli orrori della guerra in Bosnia. Per la performance, Balkan Baroque, vinse il Leone d'Oro. 
Difficile pensare che Marina Abramovic ' possa avere anche un lato leggero. Invece è proprio questo a sorprendere chi la incontra: ride spesso e di gusto ("adoro le barzellette sporche"), fa battute scanzonate con un forte accento slavo, in un inglese ai confini della grammatica. Più che a parole, comunica con l'energia coltivata in anni di interazione spirituale con aborigeni australiani, monaci tibetani, gli sciamani in Brasile. "Le culture indigene mi hanno insegnato un rapporto diverso tra corpo ed energia mentale". 

È la nuova tappa del suo percorso: "Il mio lavoro non è più creare performance artistiche. Ora desidero creare cultura fondendo arte, scienza, spiritualità e nuove tecnologie". Le ridono gli occhi quando mostra sull'Ipad il prototipo del "Marina Abramovic ' Institute" a Hudson, che se tutto andrà come previsto inaugurerà nel 2014. "Ma devo prima trovare 20 milioni di dollari, in qualche modo me la caverò", scherza annunciando che è già partito il fund-raising. Tutto nasce dall'acquisto di un edificio nel centro di Hudson: un teatro poi diventato cinema, poi campo da tennis comunale coperto. "Il progetto è pronto e presto inizieranno i lavori per trasformarlo in un centro aperto non solo ad artisti, ma a tutto il pubblico, che lì potrà vivere l'esperienza dell'arte immateriale". I visitatori dovranno impegnarsi a trascorrere nell'Istituto almeno sei ore, durante le quali non avranno accesso a nessun oggetto personale, neppure il cellulare o l'orologio. Perderanno la nozione del tempo mentre si sposteranno di sala in sala con indosso camici bianchi, "un abbigliamento per sottolineare che saranno ore di esercizi mentali e spirituali, di sperimentazione delle capacità sensoriali, proprio come stare in un laboratorio", spiega la Abramovic '. Quanto a lei, che in passato ha fatto un laboratorio planetario della sua frequentazione di vulcani attivi, di settimane di marcia lungo la Grande Muraglia e full immersione per mesi nella foresta brasiliana, in ottobre starà un mese nel deserto del Qatar. "Poi tornerò in America dove vivo da quindici anni. Ma non vengo qui per creare. Vengo per consegnare le mie idee, senza mai scendere a compromessi col mercato dell'arte, perché la mia anima non è in vendita. Amo fare solo le cose che mi interessano. Quello che ora mi interessa è elevare lo spirito umano".

lunedì 27 maggio 2013

Anche la performance ha un cuore - Marina Abramovic incontra Ulay

Marina Abramovic e l'artista tedesco Ulay. Per cinque anni hanno vissuto insieme in un furgone realizzando moltissime performance artistiche. Quando hanno sentito che il loro rapporto era entrato in crisi, decisero di percorrere la Grande Muraglia Cinese in senso opposto fino ad incontrarsi nel mezzo. Dopo un lungo camminare, si incontrarono, si diedero un ultimo grande abbraccio, per non vedersi mai più. Ventitre anni più tardi, nel 2010, quando Marina Abramovic era già un artista nota e di successo, il MoMa di New York dedicò una retrospettiva al suo lavoro. In questa retrospettiva Marina, seduta ad un tavolo, condivideva un minuto di silenzio con ogni sconosciuto che si sedeva di fronte a lei. Ulay arrivò senza che lei ne fosse a conoscenza.


venerdì 11 giugno 2010

Performance O-Dio



Interessante riflessione su cosa sia l'odio; naturalmente non ci sono risposte ma solo la trasfigurazione del sentire delle singole persone in arte. Ognuno può inserire ciò che odia di più nella vita e partecipare a questa performance collettiva poichè l'opera prenderà forma attraverso un'investigazione che gli artisti condurranno intorno a ciò che la parola odio evoca in un individuo. Il tema è proposta dalla "Noc z performance" e partecipano, su invito, artisti provenienti da tutta Europa.Tra gli artisti italiani invitati, il duo Nicola Macolino - Azzurra De Gregorio.

PROGETTO/PERFORMANCE:
O - DIO

Odiare è semplice. Nel nascosto del proprio inconscio, il sentimento vive, come un batterio indisturbato, si nutre divorando pezzo a pezzo, in silenzio e nel buio. Per questo odiare è semplice, ma molto più difficile è capire cosa si odia sul serio. Si odia quella persona o la nostra inadeguatezza nei suoi confronti? Si odia quel determinato sentimento o la nostra paura di viverlo?
Sta di fatto che se si riesce a comprendere per un solo attimo ciò che si odia veramente, se si riesce ad esplicitarlo, in quel preciso istante l'odio cambia.
La parola il pensiero uscito dalla stanza buia del nostro inconscio acquisisce un anelito di luce e già cambia natura intraprendendo il suo dissolvimento.
Il progetto/performance che gli artisti propongono, segue questo percorso psicologico, ma anche antropologico, che idealmente la mostra stessa incomincia, l'odio quando è esplicitato è già sulla strada della propria illuminazione, e quindi della propria fine.
L'opera infatti, prenderà forma attraverso un'investigazione che gli artisti condurranno intorno a ciò che la parola odio evoca in un individuo. Verranno interrogate quindi (attraverso vari mezzi: social networks, posta elettronica, interviste dirette, fogli di carta etc.) diverse persone, un numero non definito. A tutti verrà rivolta una domanda semplice, e a bruciapelo, "Cosa Odi?" L'importante è che rimanga una traccia tangibile delle opinioni di ciascun "partecipante".
La stessa cosa proseguirà nei giorni di permanenza in Polonia fino alla fase finale del progetto, nella Galleria d'Arte.
Qui tutti i concetti raccolti rivivranno esteticamente (attraverso l'uso di luci e proiezioni) negli spazi della Galleria incrociandosi e intrecciandosi tra di loro, creando nuove frasi, nuovi significati.
L'attore li raccoglierà, si farà carico sciamanicamente del messaggio e lo condurrà in alto. Col fuoco, con l'aria. (Tutto il materiale raccolto e storicizzato artisticamente in Galleria, volerà con un enorme pallone nel cielo)
L'odio viene accompagnato dal basso all'alto. Dal terrigno all'etereo, dal buio all'atmosfera. E questo rito psicomagico interpreterà l'essenza stessa dell'odio: un sentimento che vive nell'essere recondito, che nella sua pesantezza si lega alla terra (e spesso alle cose terrene) ma che ha la potenza di poter bruciare, infiammarsi, quindi volare, quindi creare. Come diceva Karl Kraus : "L'odio deve rendere produttivi. Altrimenti è più intelligente amare."Il tutto con la consapevolezza della esistenza di una complementarietà degli opposti, della compresenza di due principi che mai possono essere considerati definitivi, ma sono sempre in continua trasformazione. Il progetto è una sorta di work in progress che ricaverà la sua forza dalla relazione diretta ed immediata con il pubblico che parteciperà all'evento, sarà inoltre un atto performativo creato grazie all'energia degli artisti e a quella dei fruitori della loro opera. (Fonte).

Si può scrivere ciò che più si odia su questo link: http://www.nicolamacolino.org/messaggi/index.asp

giovedì 29 aprile 2010

Tanti volti per Marina



C'è chi piange e chi ride, chi resiste pochi minuti e chi diverse ore e poi c'è lei, Marina Abramivic, che ogni giorno resta seduta al Moma per 420 minuti, nella performance più lunga che sia mai stata realizzata: The artist is present (dal 14 marzo al 31 maggio). La pagina Flickr del Moma mostra ogni giorno i ritratti delle persone che si sono seduti davanti l'artista, indicando il giorno, l'ordine e i minuti che hanno resistito. Una carrellata di volti, espressioni e emozioni.


martedì 16 marzo 2010

Marina Abramovic - The Artist Is Present

Il MoMA di New York sta ospitando fino al 31 marzo la significativa personale di Marina Abramović. La mostra è la prima dell’artista a includere sia opere di documentazione che performance. Organizzata da Klaus Biesenbach – direttore del P.S.1 e chief curator del dipartimento media e performance art del MoMA – presenta oltre cinquanta opere create dalla Abramović nell’arco di quattro decadi. Tra le più importanti artiste contemporanee la Abramovic ha sempre interagito col corpo, il suo, e con temi crudi che vanno dalla morte all’olocausto alle tradizioni della sua terra natia, i balcani, rivisitate con occhio lucido e grottesco. Le sue “macabre” performance giocano sulla valenza estetica del corpo, feticcio o involucro da usare come tela grezza, e sulla catarsi che l’atto artistico comporta. La sessualità, sempre esplicita, non cade mai nell’osceno bensì, celata dalla forza rivelatrice della carne, diventa una sorta di preghiera.
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L’evento del Moma è, inoltre, senza precedenti poiché rappresenta la sua più grande fatica, diventando la più lunga performance della sua carriera; tale intervento artistico infatti la vede impegnata 7 ore al giorno per ben 3 mesi, per circa 600 ore totali di performance. “Le performance richiedono un'energia sterminata e, invecchiando, il corpo è in difficoltà” spiega Abramovic, “eppure le mie azioni diventano sempre più lunghe e difficili con il passare degli anni. Perché con la forza della mente si può fare qualunque cosa: non serve un allenamento olimpionico, ma volontà e disciplina”. Abramovic sarà presente, durante gli orari di apertura al pubblico, seduta in assoluto silenzio ad un tavolo nell’atrio del museo. Gli spettatori avranno la possibilità di sedersi di fonte a lei per tutto il tempo che riterranno necessario, diventando così parte integrante e necessaria della performance, nonostante l’artista rimarrà in silenzio. Fondamentale anche in questo caso la presenza del pubblico che mai come nella performance riesce ad entrare esso stesso nell’opera d’arte, a stretto contatto con l’artista (fonte).
La performance è fruibile in Live-Streaming dal sito del Moma, basta cliccare l’immagine qui in basso.
marina moma

E dal sito GlobArtMag le ironiche ma interessanti impressioni del critico Jerry Saltz sulla mostra: “Ho avuto un contatto genitale alla mostra di Marina Abramovic”

mercoledì 27 gennaio 2010

The Kiss

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Carrie Schneider – The Kiss (2007)

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Matisse – Gli amanti II


Denise Callender, Neil Hunt, Kye Wilson

domenica 15 novembre 2009

Alterazioni Video – Sinfonia n.1

Che cos’e’ Alterazioni Video?
Alterazioni Video e’ un organismo, un network, una società per Azioni, un’attivita’ commerciale, un bilocale di 25 metri quadrati, un nome sbagliato che viene voglia di cambiare, una scusa per non mettersi a lavorare per l’ennesima stagione, un progetto di comunicazione fastidiosa, un contenitore di progetti improponibili o bocciati e soprattutto un’idea per iniziare.

Leggo questa definizione da un bell’articolo su exibart (fonte) e mi soffermo sul loro ultimo lavoro Sinfonia n.1, una performance multimediale basata sulla comunicazione della gioia. L’opera dalla struttura di una sinfonia è un insieme di azioni caotiche e diverse ripetute in loop attraverso la sincronia digitale, il materiale che si trova sulla scena e la teatralità che conferisce all’azione una durata. Simpaticamente colpito dalla loro performance posto il video e rimando al loro sito per ulteriori informazioni.

http://www.alterazionivideo.com/index.php


venerdì 17 aprile 2009

Genitalpanik

Nel 1969 l’austriaca Valie Export realizza la sua “azione” Genitalpanik; indossando pantaloni col cavallo rimosso offriva agli spettatori un contatto crudo e immediato con la sua sessualità. Il corpo così può diventare inquietante proprio perché rifiutando filtri e finzioni mette davanti agli occhi l’oggetto del desiderio il quale, appunto poichè non veicolato da stereotipi o concezioni maschiliste, appare come un elemento perturbante, che crea panico proprio in quanto sfida la sicurezza dell’uomo nel suo possesso. L’inquietante rapporto con il mitra, poi, non fa che creare un cortocircuito mettendo sullo stesso piano di funzione-azione la vagina e l’arma da fuoco.
L’artista serba Marina Abramović ha recentemente riproposto quest’idea in una performance del 2005, forse in maniera anche più cruda nel mostrarsi al centro della sala nel “sacro” silenzio del museo, con intorno attenti spettatori.


Del resto questo gesto, come molti altri, fa parte della nostra memoria collettiva e inconscia; nell’antichità infatti il significato delle figure femminili che ostentano i genitali era legato all’idea della fertilità e alla capacità rigeneratrice della natura; mostrare la vagina nell’antichità era considerata infatti un’azione salutare, la cui vista produceva serenità e riso. Nel medioevo la trattatistica teologica affida ai genitali femminili un significato e una funzione morali, in quanto sede della fecondazione e simboli del desiderio di generazione; oltre al valore apotropaico di allontanamento dalla cattiva sorte.

Un esempio è questa metopa dal duomo di Modena o questo bassorilievo del XIII sec. definito la Putta di porta Tosa:

Maestro_delle_metope-ermafrodito (la potta di modena)

Putta di porta Tosa valie-export

Come simbolo di seduzione e con una forte accezione di realismo, tipico della sua poetica, il tema sarà ripreso nell’800 da Courbet che creerà una sorta di paesaggio sessualizzato:

Courbet-Origine 1866

Su questo rapporto fra terra femminile e riguardante s’imposta invece un’opera capitale del percorso artistico del Novecento, che può ben considerarsi una delle prime installazioni che si ricordino. È il celebre assemblaggio di Marcel Duchamp intitolato Dati: 1. La cascata d’acqua. 2. Il gas illuminante: al di là di una porta chiusa, da una fessura (che pare di fortuna) si può sbirciare una figura femminile nuda che tiene in mano una lampada a gas.

EtantDonnes

La donna – un manichino ricoperto di pelle di maiale trattata dall’aspetto estremamente convincente – ha una posa assai esplicita che ricorda quella del quadro di Courbet: sdraiata su un prato di sterpi, rappresenta la Terra. Di lei non è possibile, come nel caso della donna di Courbet, scorgere il volto; è la femminilità della natura, sempre pronta a procreare eppure eternamente vergine. A fecondarla, con lo sguardo, quell’uomo, o meglio “l’uomo” che la sbircia dalla fessura della porta senza, però, poterla mai raggiungere. La presenza dell’acqua della cascata sullo sfondo, del fuoco della lampada che tiene in mano, della terra su cui è distesa e dell’aria tersa che riempie il cielo, simboli dei quattro elementi primordiali, originari della vita (terra, acqua, aria e fuoco), fa di questo scorcio uno spicchio di paesaggio sessualizzato. Tanto l’uomo che guarda, quanto l’artista che ha creato l’opera, ma che poi, una volta creatala, si è trovato nella stessa posizione del primo, finiscono per sentirsi immersi in un universo pervaso dalla vita fervente. Qui le colline si ammantano di verde o di giallo autunnale al ritmo del respiro delle stagioni e, come un’immensa madre, la terra morbida dalle chiome di bosco e di foresta, dalle vene pulsanti di acque torrentizie, dai denti bianchi di roccia scintillante, accoglie gli uomini che sanno amarla.
Duchamp impiegò più di vent’anni per realizzare quest’opera che ha un po’ il sapore della summa di una lunga tradizione iconografica, simbolica e, se si vuole, religiosa”
(M. Bussagli).

E per mostrare come tale gesto-raffigurazione non sia solo una velleità artistica ricordo come questo comportamento fosse ben noto ad Ernesto De Martino, che si rifaceva ad un esempio rumeno in Morte e pianto rituale. Questa azione, il ricorso all'esibizione della vulva nei momenti di intensa crisi cosmica o sociale, connessa ad antichissime costumanze documentate nella tradizione mediterranea ed in altre tradizioni, quella giapponese e quella egizia, interveniva quando il gruppo parentale era immerso nel delirio di morte e di abbandono, quanto tutto l'universo sembrava farsi vano per l'emergenza improvvisa del dissolversi nel rituale del lutto.

marina abramovic- Balkan Erotic Epiccfr. M. Bussagli, Il nudo nell'arte; B. Pasquinelli, Il gesto e l'espressione.

mercoledì 11 marzo 2009

Umano Non Umano (Olivier de Sagazan)



Rituale silenzioso, metamorfosi dell’uomo moderno in un’informe epidermide di materia, la violenza sul corpo e sull’anima genera mostri ed esorcizza; il fango è una reliquia, i gesti una pratica magica di plasmazione dell’individualità (aberrante?); alla fine le azioni che restano sono quelle che distinguono i sensi (darsi degli occhi, aprirsi la bocca, darsi una simmetria). Come i ritratti di cera del ‘400, i boti fiorentini, reliquie ed effigi di antenati; come gli ex-voto, tracce del sacro e della privazione, offerta e finzione; anche qui, dalla fisicità più immediata e violenta, dal sacrificio del corpo, forse una purificazione…

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