Autore: Marcantonio Raimondi (1480-1534)
Luogo di edizione: Venezia
Incisore : Marcantonio Raimondi (1480-1534)
Inventore : Giorgione ? (1478-1510)
Disegnatore: Marcantonio Raimondi (1480-1534)
Datazione: 1506-1508
Tecnica: Bulino
Misura foglio: 237x331
Iscrizioni: monogramma dell’autore (MAF) sotto il bordo della colonna sulla sinistra ; monogramma nell’angolo in basso a destra
Soggetto: Sogno di Didone ?
Con Marcantonio Raimondi, bolognese, si apre un nuovo capitolo nella storia dell’incisione avendo questi rivoluzionato la sintassi grafica con l’invenzione di un linguaggio autonomo e ricco di nuove soluzioni, in grado di recepire stimoli esterni e reinventarli sulla lastra.
Le sue più antiche testimonianze grafiche sono un gruppo di stampe eseguite a Bologna tra il 1504-06 nelle quali ancora è forte l’esperienza maturata nella bottega del Francia oltre alla grande influenza della grafica dureriana, caratterizzata da un linearismo lucido e certe raffinatezze alla Finiguerra, il tutto non lasciando mai un classicismo sostanziale inteso come norma ed equilibrio; questo si può vedere nelle due adorazioni dei pastori, dove, nella prima si osserva un nuovo respiro spaziale, delicati contrasti di luce e ombra e un sottile classicismo di fondo mentre nella seconda un influsso più diretto dello stile del Durer, dal quale farà numerose copie nel corso della sua vita.
Nel 1506, fino al 1510, è a Venezia; sono anni di grande sperimentazione e apertura verso quella complessa cultura che circolava nella città, oltre all’assimilazione della lezione di Giorgione, mediata attraverso le incisioni di Giulio Campagnola; in questo clima si colloca la stampa presa in considerazione; in seguito il Raimondi passerà da Firenze, dove sentirà forte l’influsso del Michelangelo ed infine si trasferirà a Roma, determinando lo sviluppo della “maniera italiana” grazie alla collaborazione di Raffaello.
La stampa, comunemente chiamata “Sogno di Raffaello” (per un errore di attribuzione) realizzata a bulino, è tra le più enigmatiche stampe del Raimondi e del ‘500; a livello tecnico è nello stile del Giorgione per il senso di profondità spaziale e per la ricchezza dei contrasti chiaroscurali che alternano luminosità intense e riflesse a profonde oscurità; lontani ancora dalla morbidezza raffaellesca gli incarnati sono asciutti e severi e contrastano col realismo dei mostri, di chiara influenza nordica; il paesaggio sullo sfondo, invece, si caratterizza per l’uso sapiente dei contrasti e della luce, le ferme e regolari linee del bulino sembrano trasfigurare le architetture rendendole quasi surreali.
Secondo il Bartsh la stampa, caratteristica della prima maniera del Raimondi e presa da un disegno perduto di Raffaello, rappresenterebbe due donne nude che dormono sul bordo dello Stige con a lato quattro animali mostruosi e sul fondo una città in fiamme; già il Wickhoff però pensava rispecchiasse un originale giorgionesco perduto, forse da riferire alla “Nocte” di cui parlano nel loro carteggio Isabella d’Este e Taddeo Albano nel 1510.
In effetti l’opera è una delle più enigmatiche composizioni del Raimondi e si isola all’interno della sua produzione per la complessità e particolarità del soggetto, molto elaborato e ricercato sia dal punto di vista grafico che tematico.
1) Calvesi, dopo Wickhoff, è tornato sul supposto legame di rapporto o derivazione con un perduto dipinto di Giorgione proponendo una relazione tra l’incisione e il dipinto di Giorgione ricordato come una “Nocte” nelle lettere scambiate nel 1510 tra Isabella d’Este e Taddeo Albano; Giorgione, secondo le lettere, avrebbe dipinto due “Notti” e Calvesi identifica il prototipo perduto nella “Nocte” per Taddeo Contarini descritta nelle cronache e dal Michiel come “la tela grande a oglio de linferno cun Eneae et Anchise” ed ecco così la prima ipotesi sul soggetto che potrebbe raffigurare gli incubi di Didone che dorme con la sorella Anna, nel momento in cui sente prossimo l’abbandono da parte di Enea, con una sorta di mescolanza di diversi momenti del poema virgiliano (si veda per esempio la figura sulle spalle di un’altra che ricorda chiaramente l’iconografia di Enea ed Anchise); contro questa ipotesi l’assenza dell’episodio nel poema (Didone compie un sacrificio che si rivela funesto presagio, corre nel tempio dove le sembra di udire la voce del marito e solo allora si inserisce il motivo del sogno a completare quel clima di terrori ed ansie; probabilmente ha il sogno nel tempio dedicato al marito Sicheo ma nulla nel testo lascia intendere che Didone trascorra la notte con la sorella Anna) e l’opera del Raimondi il quale più volte ha riprodotto fedelmente episodi virgiliani (vedi il Quos ego).
2)Una seconda ipotesi vede nell’incisione il sogno di Ecuba con alle spalle Troia in fiamme; il sogno di Ecuba è una prefigurazione delle disgrazie cui andrà in contro Troia in conseguenza della nascita di Paride ma l’episodio ha un’iconografia ben precisa, come descritto nella Historia destructionis Troiae di Guido delle Colonne e vede la regina incinta che sogna un’enorme fiaccola che le esce dal ventre andando ad incendiare la città (come tale sarà ripresa nel 1538 nel Palazzo Ducale a Mantova nella decorazione della sala di Troia da Giulio Romano), inoltre nulla indica che la sognatrice sia Ecuba e che la compagna sia una sorte di espansione del suo io, in una sorta di doppio sogno inconscio.
3)Una terza ipotesi, sempre formulata dal Calvesi e che si basa su un’interpretazione più profonda della scena e che comunque non esclude le altre ipotesi, vede la notte del sogno, in chiave alchemica, intesa come simbolo di una condizione psicologica di nigredo o melanosi, stato nel quale avviene l’unione dei due elementi contrari dell’acqua e del fuoco (il motivo dell’aqua ardens); la condizione di nigredo, infatti, è quella, tra le fasi alchemiche, che si lega al tema del demoniaco e della morte corporale, così manifesto nella composizione, ed è lo stato che precede una futura rigenerazione spirituale.
Considerati brevemente il possibile soggetto analizziamo adesso l’opera sul piano strettamente formale e filologico.
Il legame col Giorgione, in precedenza accennato, si può riscontrare nel nucleo tematico delle due donne nude dormienti; di queste la prima, quella di spalle, ha un evidente riferimento giorgionesco desumibile dal paragone con la ninfa dormiente che compare in un’incisione di Giulio Campagnola, il cui soggetto, ripreso dallo stesso anche in una miniatura, si basa, secondo le fonti, su un perduto originale del Giorgione e come si vede dal confronto c’è una forte analogia nella posa e nelle fattezze che rimanda ad un prototipo comune.
Tra l’altro la comunanza con l’opera di Giulio Campagnola è dettata anche dalla presenza sullo sfondo di quelle caratteristiche architetture “per aggregazione”, ovvero composte dall’unione di edifici differenti resi con quelle sottili linee a bulino che quasi li trasfigurano e li rendono surreali.
L’altra donna nuda di Marcantonio può essere riferita ad una incisione di Domenico Campagnola; anche in questo caso è evidente l’ambito giorgionesco; molto più simile invece come impostazione è il dipinto raffigurante una Ninfa dormiente in un paesaggio conservato alla Galleria Borghese, di anonimo di ambito sempre giorgionesco; alla ninfa che dorme dolcemente in primo piano si contrappone, al di là di una vallata e uno stagno, una città in fiamme caratterizzata dalle medesime architetture; del resto, anche se si colloca in una tipologia diversa, ovvero quella della ninfa dormiente, un confronto con un originale di Giorgione si potrebbe fare, pur con le opportune differenze (in particolare la postura delle mani), con la venere, del resto il clima che vede delle figure nude tranquille in un paesaggio di certo non positivo e angosciante si ritrova, pur con le opportune differenze, nella stessa Tempesta dell’Accademia di Venezia.
Per questi due soggetti non si sa se il prototipo gigionesco sia uno e se si riferiscono a due opere diverse andata perdute, se Raimondi abbia visto direttamente il quadro di Giorgione e le varie derivazioni da esso; l’unica cosa certa è considerare l’incisione successiva.
Il paesaggio di sicuro è l’elemento più suggestivo della composizione: la presenza degli animali irreali che escono dallo stagno, l’anomalo diffondersi della luce, resa quasi geometrica, sia dal muro sopra le donne che nella montagna sullo sfondo nascosta dalle nubi, gli edifici che si levano sull’acqua con gli usci illuminati, il cielo tempestoso e il fantastico complesso in fiamme sulla destra dalle architetture surreali con la torre dove, in una sorta di ruota delle torture, sono appesi due uomini, percorso da piccole figure ora in chiaro ora in controluce.
Per quando riguarda il paesaggio ed i mostri i confronti si possono fare con opere nordiche ed in particolare con l’opera di Bosch; non si sa se la perduta “Nocte” di Giorgione già unisse i due fattori tematici delle donne nude e dei mostri (un confronto approssimativo si può fare con Tramonto del Giorgione della National Gallery caratterizzato dal motivo dello stagno e dei mostri che ne escono, connessi al motivo delle Tentazioni di sant’Antonio, chiara tematica boschiana; il vecchio in primo piano che sfrega la gamba di un giovane, infatti, sarebbe un antonita che cura il fuoco di sant’Antonio con il vino santo, secondo una pratica dell’ordine, e i mostri sarebbero le allucinazioni da cui è colpito il sofferente, oltre a rimandare al tema delle Tentazioni del santo, altra interpretazione vede nella grotta sulla destra la figura di sant’Antonio abate che lotta contro le tentazioni cui si contrappone il san Giorgio come simbolo di difesa della castità).
La prima notizia sicura della presenza di opere di Bosch a Venezia è data dalla presenza di tre dipinti dell’artista in casa del cardinale Grimani nel 1512, da lui definiti “la tela delli sogni”, “la tela dell’inferno” e “la tela della Fortuna”; i primi due dipinto si possono riconoscere nelle Visioni dell’Aldilà conservate oggi a palazzo Ducale. Queste tavole, datate 1500-1504 e molto probabilmente a Venezia dal 1505, potevano apparire all’occhio estraneo di un italiano del cinquecento estraneo alla cultura del Bosch come sogni o visioni oniriche e del resto la tavola dell’Inferno può essere considerata il sogno dell’anima nuda che dorme e medita in primo piano mentre sta per essere ghermita da un demonio con nello sfondo un corso d’acqua e un paesaggio incendiato, molto vicina quindi al clima della nostra incisione dove compare addirittura nella laguna una sorta di barca di Caronte. Che a tale data in Italia fossero già note e utilizzate come modelli opere di Bosch e che l’inferno fosse simbolizzato come città incendiata è provato dal San Michele e il drago di Raffaello oggi al Louvre.
Infine si può ritrovare anche una componente michelangiolesca ponendo in relazione il dettaglio della figura sulla destra che si arrampica su un muro aiutata dal basso da un’altra con il dettaglio della prima figura sulla sinistra del cartone di Michelangelo per la Battaglia di Cascina; Raimondi entra in contatto con quest’opera durante il soggiorno fiorentino (prova di questa presa visione sono alcune incisioni completamente legate al tema del cartone come quella nota come i Rampicatori) nel 1508 ed è probabile allora che copie del disegno circolassero già allora a Venezia.
In conclusione l’opera, sfuggendoci oggi il senso completo, si può considerare un collage sia a livello formale che tematico; le derivazioni da Giorgione (per le donne distese, le architetture sullo sfondo ed il clima generale) in particolare dalla mediazione dell’incisione di Giulio Campagnola e dalla mediazione dell’altra incisione di Domenico Campagnola e del quadro alla Borghese, Bosch (per la città in fiamme-inferno, la laguna infernale, i mostri, l’incendio sull’acqua il tutto rivisto con l’ottica dell’umanesimo italiano) e piccoli spunti da Michelangelo (per alcune piccole figure) rendono un soggetto complesso che può essere tanto il sogno di Didone o Ecuba e può identificare la città sullo sfondo come troia o l’Inferno in senso boschiano; di certo il soggetto si colloca nel vivace clima culturale della Venezia del tempo, ricco di spunti ermetici.
Un confronto dovuto è con un altro celebre sogno inciso in quegli anni: il Sogno di Raffaello realizzato nel 1561 da Giorgio Ghisi. La stampa è nota anche come Allegoria della Vita o Melanconia di Michelangelo (per la somiglianza dell’artista con la figura al centro), titolo anch’esso adeguato, la cui lettura coincide con l’interpretazione neoplatonica del Testo virgiliano (eneide VI) che identifica la figura di destra con la sibilla che incita Enea a procedere più rapidamente verso il suo compito finale; l’interpretazione di questa incisione, offerta dal Landino, la vede come un’allegoria dell’anima, identificando nella figura della Sibilla, la “prisca theologia” e nei riferimenti ermetici quei motivi intorno ai quali il pensiero neoplatonico aveva creduto di trovare la chiave di una sapienza originaria ed antichissima.
Nel nostro caso però il mondo del sogno che Raimondi raffigura appare ben lontano dalle estatiche visioni del misticismo neoplatonico; qui non vi è nulla di rivelatorio o sacrale bensì vige quasi una realistica riflessione in senso psicologico; nell’ambiente dell’umanesimo veneto infatti in quegli anni circola un’interpretazione strettamente razionalistica e meccanicista del fenomeno del sogno, di derivazione araba, secondo la quale questi non ha connessione con le diverse attività dell’anima e del corpo, come nella comune interpretazione aristotelica, ma è da intendere come uno stato vitale ed essenziale grazie al quale si viene alleggeriti dalla stanchezza precedente e preparati per le azioni future. Vi sono inoltre diversi altri trattati, il più importante è quello del Nifo i quali, lontani dalla mistica neoplatonica, spingono verso un’interpretazione più psicologica del mondo onirico e della condizione del sogno.
Il Raimondi insiste più sul fatto di un’antitesi profonda tra due poli, tra positivo e negativo, tra donne distese e città in fiamme, tra quiete e fattore demoniaco (come nei presunti prototipi di Giorgione), dove il concetto del sonno si adegua ai dettami di una filosofia della natura; il sonno allora diventa quasi una visualizzazione della Notte e come tale sarà ripresa dal Dosso Dossi nella celebre tela di Dresda (qui la figura della Notte, distesa, riposa in una caverna vegliata dagli animali e dalle divinità del suo seguito: il gallo, il gufo, la luna e il Sonno con in mano un ramoscello intriso nelle acque del Lete, la città in fiamme sullo sfondo è chiaramente ripresa dal sogno).
Ed ecco infine altre visioni della modernità:
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