In un passo delle Vite dei più eccellenti pittori, scultori e architettori Giorgio Vasari parla della tecnica esperimentata da Leonardo da Vinci quando era ancora nella bottega fiorentina del Verrocchio suo maestro. Leonardo era solito «fare modelli di figure in terra e addosso a quelle metteva cenci molli interrati e poi con pazienza si metteva a ritrargli sopra a certe tele mollissime, e li lavorava di nero e bianco con la punta del pennello ch'era cosa meravigliosa». Il Verrocchio dovette impartire al geniale discepolo i primi rudimenti della pittura ma anche della scultura. Benché Leonardo ritenesse la pittura superiore alla scultura, racconta di essersi «adoperato» tanto nell'una che nell'altra arte «in un medesimo grado», cioè con pari diligenza e risultato. Poco dopo il 1480, in procinto di partire per Milano dove avrebbe prestato servizio alla corte del Moro, l'idea di realizzare il monumento equestre di Francesco Sforza cominciava a prendere consistenza e forma. Poi Leonardo giunse sino al penultimo stadio, portando a termine il modello in argilla o stucco, ma non concluse il lavoro che avrebbe dovuto prevedere la fusione in bronzo. Il colosso equino doveva essere di oltre sette metri di altezza e il peso della terra di fusione avvicinarsi alle cinquanta tonnellate. Di questa superba impresa rimangono alcuni disegni, sparsi in vari codici leonardeschi, dai quali si desume che il primo pensiero prevedeva un cavallo impennato; in seguito Leonardo aveva ripiegato, forse dietro suggerimento del Moro, su un cavallone al passo, solenne, tornito, e monumentale per vocazione. La scultura, celebrata in antico da molti eruditi, secondo Sabba da Castiglione impegnò l'autore per «sedeci anni continui», ma il modello di stucco già nel 1499 era stato fatto bersaglio dei balestrieri guasconi entrati a Milano con le truppe di Luigi XII, quando ancora il grandioso quadrupede si stagliava in un cortile del castello di Porta Giovia. Tuttavia nel 1501 il duca di Ferrara Ercole I d'Este lo aveva richiesto al cardinale di Rohan per farlo copiare. Più tardi andò distrutto. Di tutte le opere di scultura leonardesche, più o meno dettagliatamente citate dalle fonti antiche, non se n'è identificata una, ma visto che la pratica espletata da Leonardo nello scolpire e plasmare la terracotta, che doveva risultargli più congeniale del marmo per i suoi effetti pittorici, fu assidua, è impensabile che nemmeno un esempio di mano del grande maestro non sia sopravvissuto alle soppressioni.
La caccia a una scultura di Leonardo dura da tempo e ha visto impegnati studiosi di inossidabile serietà e pervicacia: tra gli scomparsi Sir John Pope-Hennessy, illuminato pioniere delle ricerche sul rinascimento italiano, nonché direttore del Victoria and Albert Museum di Londra, Kenneth Clark, W.R. Valentiner.
Le fonti antiche su Leonardo scultore ricordano «teste di femmine che ridono», «teste di putti», un Bambino Gesù in creta che fu di proprietà del cardinale Federigo Borromeo, probabile modelletto della testa di Gesù del quadro con Sant'Anna e forse da identificarsi con «la testicciola di terra di un Cristo mentre che era fanciullo» la quale, nel Cinquecento, era presso il pittore e trattatista milanese Giovan Paolo Lomazzo; «teste di vecchi» e cavallini in bronzo, come è quello del Museo di Budapest, che molti ritengono autografo e possibile prototipo del monumento a Gian Giacomo Trivulzio, che però non fu mai compiuto. Anche l'insieme delle sculture che oggi gli esperti attribuiscono a Leonardo è ben assortito, ma non ne esiste una sulla quale i massimi calibri dell'esegesi leonardesca siano concordi; ciò però non deve suscitare né meraviglia, né tantomeno scandalo, perché in materia d'arte, i dispareri fan parte integrante del mestiere. In un momento arroventato come l'attuale da altisonanti attribuzioni respinte, avanzarne una nuova a Leonardo scultore è un atto a dir poco di coraggio. Patrocinatore della proposta è un bravo studioso italiano, Edoardo Villata, che martedì prossimo, nel corso dell'importante convegno sulla terracotta del Quattrocento diretto da Maria Grazia Albertini Ottolenghi dell'Università Cattolica di Milano, farà il nome di Leonardo da Vinci per attribuire una paternità a un bellissimo e un po' negletto San Girolamo in meditazione, conservato nei depositi del Victoria and Albert Museum. La statua a tutto tondo misura circa cinquanta centimetri di altezza, ma il suo impianto grandioso la direbbe maggiore, elemento che di per sé depone a favore di una eccellente fattura, peraltro conclamata da ogni particolare. La storia di questa terracotta segue quella di molte opere d'arte che appartenevano alla sterminata raccolta di Giovan Petro Campana marchese di Calvelli, direttore, verso la metà dell'Ottocento, del Monte di Pietà di Roma, archeologo e collezionista tanto sfrenato negli acquisti e nel tenore di vita personale, da finire in miseria e in carcere con l'accusa di peculato e abuso d'ufficio. Nel 1854 la sua collezione era stimata quasi un milione di scudi. Per pagare i debiti fu dispersa in vari tronconi, perché non si era trovato nessuno disposto a rilevarla in blocco. Una parte fu acquistata dallo zar, un'altra da Napoleone III, che, per uno strano caso della sorte, alcuni anni prima era riuscito a fuggire di prigione con l'aiuto di tale signora Crowford, futura suocera del Campana. Il lotto dove si conservava anche il San Girolamo venne comperato dal South Kensigton Museum di Londra, odierno Victoria and Albert. Ma prima di passare al Campana, la magnifica terracotta era appartenuta a Ottavio Gigli, pedagogo, patriota e collezionista fiorentino fondatore di asili e del periodico cattolico «L'Artigianello». Il San Girolamo, attribuito per lungo tempo al Verrocchio, nel 1964 fu declassato da Sir John Pope-Hennessy a opera di un seguace del Verrocchio degli inizi del Cinquecento e poi ritenuta di uno scultore fiorentino, Giovan Francesco Rustici, che molto aveva attinto da Leonardo. Rustici è l'autore dello spettacolare gruppo bronzeo con la Predica del Battista, all'esterno del Battistero di San Giovanni a Firenze. Attribuendo la terracotta a Leonardo in persona, Villata si scontra con l'autorità di Pope-Hennessy e di alcuni insigni studiosi, quale Olga Raggio, per non dire dei viventi. Ma quali sono le ragioni che legittimano l'ipotesi attributiva di Edoardo Villata? Innanzitutto la qualità del San Girolamo, che è elevatissima, come vediamo nell'energia di sintesi plastica racchiusa nella «organicità della posa» del vecchio dottore della Chiesa che nella destra regge il libro e con la sinistra si accarezza la barba. Si coglie sul volto del santo filosofo un sorriso appena accennato che denota il compiaciuto raggiungimento della conoscenza delle verità eterne e che affiora nell'intensità della concentrazione e dell'espressione. Ma per vibrare il nome di Leonardo quel che più conta sono i molteplici riferimenti al suo stile. Forse il più sorprendente è la mano destra di San Girolamo, affusolata e un po' irrigidita, che richiama subito quella della Dama dell'ermellino, la cui mano, secondo una recente ipotesi, non venne ritratta dal vivo bensì da un modello plastico. Poi entrano in gioco, more solito, i panneggi leonardeschi, molto vicini a quelli del mantello indossato da San Girolamo. Da ultimo Villata rimarca giustamente che nella terracotta di Londra non vi è il benché minimo cenno di influenze michelangiolesche, che in un qualunque scultore attivo a Firenze dopo il 1.500 sarebbero immancabili.
Questa attribuzione, audace ma non peregrina, scatenerà discussioni e dissensi ma anche consensi, e il fatto che venga pubblicata in grande evidenza sul prossimo numero della «Raccolta Vinciana» (XXXIV fascicolo, 2011, in corso di stampa), prestigioso periodico biennale dedicato ai più approfonditi studi leonardeschi, è un fatto di indubbio conforto.
Tra le altre terrecotte attribuite vorrei mettere in evidenza questa bellissima testa dolente, forse di un san Girolamo, considerata all'inizio del Verrocchio...
e il Christo Fanciullo dalla collezione Eredi Gallandt
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