Luogo: Officina Solare Gallery Via Marconi, 2 Termoli
Data: 26 giugno / 8 luglio 2010
Orario di apertura: 19.30 /21.30 tutti i giorni compreso festivi
Organizzazione: Nino Barone
A cura di: Tommaso Evangelista
Inaugurazione: sabato 26 giugno 2010, ore 19.00
Info: 329.4217383
Lo spazio, nell’assenza di una narrazione, può diventare segno sulla tela; questa, percorsa da epopee materiche e minimali, evoca sensazioni che si frantumano sulla soglia della comprensione. Si può pensare di cogliere un orizzonte, il greto arso di un fiume, una successione di colline, le porte d’acciaio d’una fortezza inespugnabile ma non si sta che contemplando la materia in tutte le sue epifanie. Con le opere di Sara Pellegrini siamo sul confine della Storia, nella purezza del dettato astratto e informale, e, parafrasando un testo di Giovanni Pozzi, sull’orlo di un’invisibile parlare poiché l’artista comunica attraverso un silenzioso gioco di tracce. Questi lavori, lontani dalla tragicità e dall’inquietudine di Burri, non accolgono tensioni e contrasti di forze ne tantomeno riordinano impulsi psichici che vengono dal profondo, bensì pervasi da una pacata monumentalità si giovano di un lento accumulo di segni, come se ogni impronta, ogni tacca, ogni brano di terra o di colore fosse il risultato di una diversa era geologica. Il tempo stempera le tensioni e questo senso di serenità dato dal segno puro e dalla materia inerme priva le tele di qualsivoglia drammaticità e ci restituisce una superficie estremamente poetica, da contemplare e non da percepire come forza contraria. In questo caso il critico, o il semplice osservatore, diventa un paleografo alla scoperta di segni di una lontanissima rottura o di orme che rivelino una scrittura dimenticata ancora da tradurre. Dalla materia che avvolge tutta la superficie della tela emergono tracce naturali (le crettature delle terre) o tracce realizzate dall’uomo (incisioni, solchi, tessiture di mosaici immaginari), segni archetipici legati ad una sacralità dispersa. Affiorano parimenti elementi cruciformi tra le vene delle terre, rivelazioni o dimenticanze, impronte liturgiche che il fare artistico propone come tracce sedimentate. La tela diventa un palinsesto materico sul quale noi percepiamo solo lontanamente lo stridio di dissonanze e tensioni; ogni traccia di violenza del gesto, infatti, è annullata da una liricità tutta personale che fa si che emerga un mondo pacificato, forse in lenta decadenza. Dove in Burri si assiste alla degradazione della pittura in materia, a oscura e confusa testimonianza organica, Pellegrini cerca la strada dell’incanto, trasfigurando la materia in poesia. E il tempo? Nell’opera che potrebbe rimandare ai celebri tagli di Fontana, infatti, si rinviene una concezione diversa. Fontana con i suoi tagli ci voleva trasmettere l’idea di una dimensione altra dietro la tela, rompendo l’illusione del supporto; in questo caso, invece, i due tagli sono solchi profondi incisi nella materia che, semmai, rimandano ad un tempo immobile e immutabile. Spostandoci sulle foto, invece, Giuseppe Zupa, abile nella resa dei particolari, ci aiuta a penetrare nelle opere mostrandoci i segni, i grumi, il trattamento della materia e del colore. Accostandoci ai lavori ci nasconde i confini fisici della cornice; questa visione ravvicinata ci aiuta a riflettere sul mezzo e sulla tecnica oppure a vagheggiare su improbabili e fantastici paesaggi, immagini di un mondo dismesso (poiché la mente cerca sempre la forma nell’informe). Le foto aiutano a focalizzarci sui particolari e al tempo stesso ci mostrano una realtà diversa; duplicando una parte dell’opera ne ruba un pizzico di autenticità. Assistiamo in questo modo ad un intelligente gioco di rimandi: abbiamo le opere dal vero e dettagli fotografati, nelle foto osserviamo ciò che potremmo vedere da vicino mentre sulle opere siamo alla ricerca del particolare fotografato. Dov’è allora il reale? Nelle foto che ci svelano il particolare o nelle tele che ci mostrano l’universale? E l’immagine fa parte della stessa opera o è qualcosa di diverso? Tornando al suggestivo e impegnativo titolo della mostra, la poetica è quella dell’artista che lavora col segno e con la materia, a volte con la gestualità della pennellata, altre con un rigoroso ordine estetico; lo sguardo, analitico e indagatore, è quello del fotografo che ragiona sull’immagine e riflette sul dettaglio. Riuscito connubio di due anime alla ricerca.
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