sabato 17 ottobre 2009

AAA. cercasi gemelli per Hirst

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Ritornando al post di prima riporto l’annuncio presente sul sito della Tate. In tempo di crisi ogni lavoro può essere interessante ed essere parte di un opera di Damien Hirst alla Tate per la mostra Pop Life è di sicuro un’esperienza da provare. Il museo cerca, per tutta la mostra, coppie di gemelli disporsi a sedersi di dietro due opere dell'artista.
Chiedono gemelli identici disposti a partecipare per un certo numero di turni di quattro ore ciascuno durante l'arco della mostra: 1 ottobre 2009 al 17 gennaio 2010.
Riguardo i requisiti i gemelli devono essere identici, possibilmente della stessa altezza e con taglio di capelli e vestiti uguali; il ruolo da svolgere è spiegato dallo stesso artista nel video precedente. Occorre aver compiuto18 anni e impegnarsi per per un minimo di quattro turni di quattro ore per tutta la durata della mostra. I turni sono 10,00-14,00 e 14,00-18,00 al giorno, più 18,00-22,00 Venerdì e Sabato sera. Ai partecipanti verrà pagata una somma di £ 7,60 all'ora (£ 30,40 per ogni turno di quattro ore) e verrà dato un ricordo fotografico della partecipazione. Le spese di viaggio non saranno coperte dalla Tate.

http://www.tate.org.uk/modern/exhibitions/poplife/twins.shtm

P.s. Cerco ufficialmente un mio sosia per partecipare all’evento.

Hirst 48 tra Pop Life e Pittura ritrovata

Non credo molto alle classifiche ma qualcosa vorrà pur dire se Damien Hirst, nell’ultimo anno, non solo ha perso il primo posto ma si colloca addirittura alla posizione 48 della celebre classifica delle personalità più influenti nel campo artistico contemporaneo, The Power 100, stilata dall’importante rivista ArtReview che invece assegna la palma del vincitore a Hans Ulrich Obrist. Da un artista, quindi, si è passati ad un curatore e critico d’arte il che lascio a voi stimare se sia un bene o un male.

In effetti questa classifica arriva in un momento un po' particolare per l’uomo che "ha preso tutti i soldi del mondo dell'arte", ovvero Hirst, il quale proprio il 14 ottobre ha inaugurato alla Wallace Collection una personale dal titolo No Love Lost, Blue Paintings (titolo tratto da un verso di una canzone del gruppo post-punk Joy Division). Scordatevi carcasse di animali o medicine, questa mostra segna infatti il ritorno dell’artista alla pittura (con le proprie mani), una sorta di crisi delle mezza età.

Sin dall'inizio della carriera Hirst ha messo in discussione tutto ciò che significa essere un artista. 'No Love Lost' testimonia invece il ritorno ad un una sensibilità diversa con una serie di dipinti che, nelle parole dell'artista sono "profondamente legati al passato”. L’esposizione alla Wallace nasce dall’idea di presentare queste opere in un ambiente classico, nel contesto di quadri di antichi maestri della grande tradizione europea, in una sorta di costante dialogo. Le opere, spesso in trittici, geometrizzate da gabbie e linee come i quadri di Bacon, hanno come filo conduttore il Blu di Prussia, colore intenso e spirituale accostato a tematiche di morte e di vanitas. Opere più che dignitose ma che di certo, se fossero di un altro artista, difficilmente, grazie alle sole loro intrinseche qualità, entrerebbero in una galleria così importante.

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Se tutti i commentatori concordano che Hirst ha mantenuto la continuità tematica con il periodo precedente, continuando a proporre soggetti che hanno al centro la decadenza del corpo e la morte, le opinioni sul valore delle tele sono assai diverse. E così sul Times Rachel Campbell-Johnston definisce la mostra “orribile e oscena”, attaccando la scelta dei responsabili della Wallace Collection di ospitarla (“un sacrilegio”, aggiunge), Sarah Crompton sul Daily Telegraph si dice “interdetta” anche confessa di provare ammirazione per il talento di Hirst, mentre sul Guardian Mark Brown esprime un giudizio positivo e loda il coraggio mostrato da Hirst “nell’iniziare un nuovo cammino”.

Hirst dal canto suo ha affermato “la crisi economica che ha sconvolto la vita di milioni di persone mi ha fatto capire che la sobrietà deve diventare un valore di primaria importanza e, per quello che mi riguarda, l’importanza della tradizione pittorica va riscoperta”.

(Lungo articolo dal The Independent con Video).

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Intanto, proprio in questi giorni, sempre a Londra presso la Tate Modern si è aperta un’altra importante esposizione dal titolo Pop Life: Art in a Material World, una mostra che di certo lascerà il segno e che espone anche diverse opere più “tradizionali” dell’artista. Tra gli altri illustri nomi Richard Prince, Keith Haring, Cattelan, Jeff Koons, artisti della Ybas ;di fatto i curatori, puntando molto sul periodo tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi del ‘90, hanno voluto mostrare il lato più pop della Pop art con opere di sicuro effetto.

(Le immagini della mostra – un articolo)

(la mostra sul sito della Tate…e che dire della splendida Pop Life Boutique?)

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giovedì 15 ottobre 2009

Aurelio Amendola – Ritratti d’artista

Fa sempre un certo effetto guardare le foto degli artisti che hanno segnato il XXI secolo; se queste immagini, poi, sono state scattate da Aurelio Amendola, uno dei più grandi fotografi italiani, allora assumono significati ulteriori. Fotografo di grandi personalità creative, questi è riuscito a mettere in luce le loro più intime passioni con occhio indiscreto. Gli scatti che mostrano, per esempio, Burri in azione sono più significativi di un manuale di storia dell’arte nel cogliere il fermento creativo e nello spiegare l’essenza delle sue opere fatte di materia, fuoco e rinnovata bellezza. E che dire di Emilio Vedova sporco di colore assorto davanti un suo lavoro, quasi in una posa estatica? Forse sarebbe bene, prima di studiare molti di questi artisti, osservare gli intimi scatti di un fotografo che silenziosamente ha saputo scrutarli dentro. La creazione-creatività, prima di passare sulla tela, è sempre presente nei volti e nei gesti degli artisti. Guardare uno scatto equivale a leggere una loro opera.

Burri

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Emilio Vedova

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De Chirico

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Warhol

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Hans Hartung

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Roy Lichtenstein

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For the Love of God

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“Che cos’è la grande arte? La grande arte è quella che ti fa fermare quando giri l’angolo e dire, “cazzo, cos’è?” È quando ti trovi davanti ad un oggetto col quale hai un rapporto personale fondamentale, stretto e capisci qualcosa sull’essere vivi che non avevi mai capito prima”. Sono parole di Damien Hirst tratte dal suo Manuale per giovani artisti.

For the Love of God è forse la sua opera più famosa e controversa; presentata per la prima volta alla "White Cube Gallery" di Londra consiste in un teschio reale formato da diamanti e denti umani. Come avrà a dire lo stesso artista: “Ho voluto celebrare la vita infernale con la morte. Cosa c’è di meglio nell’esprimere ciò prendendo l’ultimo simbolo della morte e coprirlo con il simbolo della lussuria, del desiderio e della decadenza?”. L’opera è carica di ulteriori spunti filosofici ed estetici: dal chiaro attacco frontale alla caducità della vita (e dell’arte), in riferimento al vanitas vanitatum, e monito per chi confida in effimere ricchezze alla domanda se l’opera valga così tanto (circa 20 milioni di dollari per la realizzazione e un valore stimato di 100 milioni di dollari) in quanto oggettivamente preziosa o in quanto prodotto artistico. Al di là del legame con la morte, infatti, penso che proprio questo cortocircuito tra valore reale e valore dipeso dal fatto di essere opera è tra gli aspetti più interessanti.

Per chi voglia approfondire l’argomento e sentire opinioni a favore o contro il “teschio” non c’è sito migliore di quello realizzato dal Rijksmuseum di Amsterdam. Facilmente navigabile e suggestivo, permette di personalizzare la ricerca e scegliere le osservazioni che si vuol sentire. Una sorta di sistema solare di idee e opinioni gravitante intorno all’opera.

for the love

http://www.fortheloveofgod.nl/

mercoledì 14 ottobre 2009

Il Beato Angelico e il Dripping

Guardate queste tre immagini

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prese così, decontestualizzate dalla loro opera, appaiono moderni lavori, usciti magari dalla mano di un Pollock o di un Kandinsky (un acquerello forse)

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la stesura è sapiente; i colori si accordano meravigliosamente tra di loro e l’effetto atmosferico e vago da un tocco in più di piacevolezza. In realtà queste tre immagini sono particolari estrapolati da due Annunciazioni del Beato Angelico, rispettivamente del Prado e di San Giovanni Valdarno. Volendo per una volta mostrare nel blog immagini “belle”, nel senso più semplicistico del termine, ovvero opere di fronte alle quali non si può che provare empatia, rimanendo estasiati dalla perfezione cromatica e dalla bellezza intrinseca delle figure, ho scelto queste due pale dell’Angelico che mi hanno sempre emozionato, al di là della perfezione formale, per il divino accordo cromatico che il pittore riesce ad ottenere. Forse solo la Madonna del Pisanello si avvicina nel sapiente equilibrio dei timbri di colore. Nella tavola del Prado il passaggio dal giallo oro al blu oltremare accordato col verde della vegetazione o la veste della vergine quale perfetto equilibrio di blu, verde ed oro con quella sorta di stupendo rosa salmone che riprende il vestito dell’angelo sono, sinceramente, tra i particolari più belli della storia dell’arte.

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E che dire dell’effetto marmo e dell’incredibile cangiantismo delle superfici nell’Annunciazione di San Giovanni Valdarno? Parliamo della prima metà del ‘400 e non mi risulta che altri, in seguito, abbiamo trattato in modo così rivoluzionario un pavimento di marmo. Qui è solo colore, una nuvola di colore, e accordi cromatici. Colori trascendenti e spirituali che Rothko, cinque secoli dopo, riporterà sulle tele quali unici elementi significanti.

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Ebbene, pensando a questo post, il collegamento con Pollock è venuto quasi naturale non per i già citati cangiantismi bensì pensando agli affreschi dell’Angelico al Convento di San Marco a Firenze, o meglio ai finti marmi raffigurati sotto le scene maggiori. Queste immagini secondarie della produzione dell’Angelico, lette con una prospettiva anacronistica, sono state analizzate da Didi-Huberman nel libro Beato Angelico. Figure del dissimile. La "Madonna delle ombre", uno degli affreschi del ciclo, poggia infatti su quattro pannelli stranamente dipinti a vaste chiazze multicolore con una pioggia di pigmenti spruzzati sulla parete e in apparenza privi di soggetto, informali, come in un dripping di Jackson Pollock.

Huberman, parlando di annullamento della linearità del tempo storico, avrà a dire “Davanti a un’immagine – per quanto antica – il presente non smette mai di riconfigurarsi”. In realtà questo cortocircuito è ingiustificato (le macchie di colori probabilmente hanno simbologie mistiche, rimandando alle gocce del latte della Vergine sulle pareti della grotta della Natività o si legano col gesto dell’unzione o intendono il marmo picchiettato come materialis manuductio della visio Dei secondo Giovanni Scoto) ma noi ci troviamo di fronte ai riquadri come di fronte ad oggetti di tempi complessi, di tempi impuri, “uno straordinario montaggio di tempi eterogenei che formano anacronismi”. Naturalmente il discorso nel testo si fa più complesso ma in assenza di immagini, data la difficoltà di rinvenire foto precise su internet (sintomo di come i finti marmi siano stati completamente cancellati dall’immagine nel suo complesso), non voglio spingermi oltre nell’analisi rinviando al libro e lasciando il titolo come suggestione.

Questa è l’unica immagine accettabile che ho ritrovato, ma naturalmente non rende affatto l’idea.

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Le due Annunciazioni in alta qualità (per godere appieno i colori):

Prado

San Giovanni Valdarno

Who Killed Cattelan?

who killed cattelan

La risposta a questo link

martedì 13 ottobre 2009

Caravaggio XXI – Il pathos del reale

Forse è un’operazione troppo facile trarre tableaux vivants dalle opere di Michelangelo Merisi da Caravaggio ma ciò dipende non certo dalla banalità dei registi o attori quanto dall’intrinseca natura delle opere del Merisi, soggetti così miracolosamente reali e significanti di per se stessi, senza il ricorso a un primo approccio a lettura iconografiche, da prestarsi a questo genere di riutilizzazione. Arte sublime e ricorso a specifiche formule di pathos (pathosformel appunto) capaci da sole di trasmettere emozioni. E’ quello che ha cercato di fare compagnia Malatheatre con la regia di Ludovica Rambelli con lo spettacolo Caravaggio XXI che verrà trasmesso, in prima assoluta, alle ore 21.00, presso il Cinema Azzurro Scipioni di Roma. Dalle immagini che ho trovato trovo assolutamente valida, dal punto di vista estetico, la loro operazione tanto da aver scambiato l’immagine con la Maddalena, ad un primo sguardo, per un dipinto reale. L’azione scenica non fa che aumentarne la resa.

CARAVAGGIO XXI

CARAVAGGIO XXIa

CARAVAGGIO XXIb CARAVAGGIO XXIc

ecco i quadri originali, per un veloce raffronto.

caravaggio-matteo, part. maddalena_caravaggio1_N

caravaggio-lazzaro, part. caravaggio, part. francesco

Un breve video del lavoro si può visionare dal blog Caravaggio400, sempre aggiornato sugli ultimi avvenimenti intorno all’artista.

Da questo link, invece, un video desunto dal Caravaggio di Darek Jarman, assoluto capolavoro di regia e di contestualizzazione dell’opera del Merisi nel contemporaneo.

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giuditta oloferne

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Contemporanea al Castello

Dal 3 al 7 ottobre presso il Palazzo Baronale di Macchia d’Isernia si è svolta la XXVIII edizione della Mostra d’arte contemporanea, significativo momento, per il paese e per la zona, di riflessione sull’arte odierna e di scambio tra gli artisti.

Sentendo alcune riflessioni tra gli artisti che, al seguito delle loro opere, hanno presenziato l’inaugurazione di questa importante rassegna d’arte contemporanea per il territorio d’Isernia, ho captato alcune impressioni che a buon diritto possono connaturare positivamente l’esposizione. “Può essere bella o brutta, l’importante è che l’artista risolva nell’opera le proprie intenzioni”: in questa frase si cela tutto l’amore che anima il fare creativo, che sia accolto o meno, e tutta la passione che si cela dietro l’atto stesso del creare. Sviluppare le proprie sollecitazioni, raggiungere personali obiettivi poetici, risolvere, nell’opera e attraverso l’opera, istanze interiori penso infatti sia il massimo raggiungimento per un artista, aldilà dell’approvazione o meno del pubblico. Se a ciò uniamo la verace passione che anima questo labor, il confronto, e a volte lo scontro, con gli altri maestri, la presa di coscienza della validità della propria realizzazione, si comprende allora come tali rassegne non sono solo utili per il pubblico, che ha occasione di avvicinarsi a forme d’arte spesso non convenzionali, ma sono quasi indispensabili per gli stessi artisti quali significativi momenti di raffronto e verifica. Raffronto con gli altri e verifica con se stessi.

L’esposizione, svoltasi in un ampio e caratteristico ambiente del castello, si è caratterizzata per il taglio sobrio dato alla musealizzazione delle opere, appese non direttamente ai muri ma su rozze ed abbozzate strutture lignee; lo spazio risulta così simbolicamente connaturato da un piacevole sapore di vita e di lavoro che di certo concorre a non creare troppo distacco tra i manufatti e lo spettatore. Gli artisti, definiti dal direttore artistico Antonio Tramontano “itineranti” per la loro caratteristica di girare, attraverso le loro opere e attraverso diverse estemporanee, tra i borghi della provincia portando percettibili segni di novità nei locali ambienti culturali, sono tutti artisti noti e consolidati. Questi, onorevoli interpreti della tradizione e delle istanze del nostro tempo, hanno come fine principale quello della comunicazione, che poi è il fine fondamentale di tutta l’arte, o meglio della comunicabilità dei propri lavori i quali, prima di essere semplici o complessi oggetti estetici, sono innanzitutto “partecipazione”.

Ecco così, dopo brevi premesse, una rapida disanima degli artisti intervenuti e delle loro opere. Pilò riflette sulle forme della tradizione (la cornice, il vetro, la forma ovale) ma tratta la superficie come uno spazio significante, in virtù della giustapposizione di colori, e fortemente storicizzato, ovvero come un palinsesto dove forme tradizionali ed espressive convivono in magico equilibrio. Il pennello incollato in alto, sul bordo, sembra così rimandare al fare pittorico in quanto tecne prima di tutto. Antonella Peluso rielabora il nudo classico, quasi accademico, inserendolo entro uno sfondo sinteticamente trattato; il distacco tra carne e piano, così, reso ottimamente dalla diversità delle pennellate, appare felice intuizione. L’opera di Antonio Pallotta non può che rimandare alla concezione della superficie pittorica come “pianale”, ossia spazio reale dove si sommano gli oggetti della quotidianità, quasi spontaneamente, vivificando lo spazio e rendendolo significante. Le schede di computer, le reti metalliche, i fiori, le aste ripartiscono il piano incorniciando una concreta “natura morta”. La vividezza dei colori concorre a portare gli oggetti su un piano diverso da quello della normale realtà. Arturo Beltrante, attraverso pura astrazione di forme e di tinte, scansiona la tela, assembla e giustappone masse e spazi, crea impressioni e suggestioni fatte di pura materia pittorica. Le due tele di Cristina Valerio, quasi un pendant, propongono atmosfere magiche e rarefatte; forme plastiche, quasi lunari, sembrano muoversi in un’atmosfera trasognata ed emotivamente coinvolgente. Il colore, brillante e primario, evoca silenziosi notturni. Angelo Cianchetta attraverso la dissoluzione della forma ottenuta col violento e suggestivo uso del colore crea ipotesi morfologiche, brutali e significanti, che vibrano di per se stesse in virtù di forze remote. La tela di Elena Maglione, l’unico esempio pittorico di recupero della figuratività, evoca attraverso il ricorso ad un taglio cinematografico, volutamente significante, stati d’animo ed emozioni. La città sfuma sullo sfondo mentre il primo piano con le figure, nitido e cromaticamente freddo, non è che metafora di incomunicabilità e alienazione. Nino Barone propone un altro palinsesto artistico, in questo caso palinsesto di memorie. Sovrappone alla tradizione, figurata da icone medievali, tutta l’espressiva valenza del segno che sembra configurarsi in un accenno di fisionomia. Ecco allora come l’icona diventa elemento contemporaneo ed il segno assurge invece ad intensa icona. Nazzareno Serricchio lavora sulla materia dividendo il supporto in diverse sezioni per sperimentare forme e materiali. A sinistra una sorta di cretto astratto, multicolore e multispessore, cattura per la purezza delle cromie. A destra la plastica simula la materia pittorica, l’impasto denso dei tubetti, il vigore del gesto. Il tutto regolarizzato da una sapiente spartizione dello spazio. L’opera di Antonio Tramontano più che suggerire, racconta. La rielaborazione delle forme, derivata da una evidente padronanza della figurazione, porta a proporre anatomie fantastiche che si muovono libere nello spazio pittorico proponendo storie possibili. La pennellata mette in risalto la volumetria, il chiaroscuro scolpisce le masse, le figure, frutto di un personale bestiario immaginario, colpiscono per la vividezza. Walter Giancola con la sua testa scolpita recupera le fisionomie archetipiche della tradizione. Eleganti lineamenti arcaici caratterizzano le fattezze di una maschera silenziosa e nobile che, con la sua ieratica espressione, osserva la mostra quasi come un costante e muto commento all’arte che la circonda. Valentino Robbio propone, con la sua installazione, un ironico sguardo sull’attualità. Semplice e genuinamente provocatorio lavora sul senso degli oggetti (le matite ingigantite) e sul linguaggio. Il testo diventa allora più significante della pratica pittorica proprio in virtù della sua contestualizzazione in uno spazio espositivo. Benvenuto Succi gioca sul senso degli oggetti e la sua azione ha molto di dadaista in quanto ironica riflessione sulla percezione delle cose. Solo decontestualizzando inutili beni materiali questi possono aspirare allo status di opera, anche con una sottesa dose di provocazione. Michele Peri, infine, nello zona antistante la sala, dialoga con lo spazio, la fisica e gli elementi. L’aria che muove le corde; l’acqua dove si rispecchiano le gocce appese; la terra dove, fisicamente, queste sono attratte; il fuoco che metaforicamente viene sprigionato da questa costante tensione tra gli oggetti, attuali “pendoli di Foucault”.

Per concludere Contemporanea al Castello è risultata una riuscita esposizione d’arte sia nel confronto-scontro tra l’ambiente antico del palazzo e la positiva modernità delle opere, elementi significanti in quanto personali e sentite rielaborazioni delle istanze artistiche della nostra epoca, sia per la ventata di novità e di innovazione portata nel paese. Una mostra, per quanto piccola, è sempre un evento per gli spettatori, posti davanti alle rielaborazioni espressive più diverse, e per i maestri, messi in relazione ma non classificati in virtù di una maggiore o minore attitudine artistica. Contemporanea al Castello è voluta essere anche questo.

A cura di: Antonio Picariello

Direzione artistica: Antonio Tramontano

Recensione e critica: Tommaso Evangelista

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sabato 3 ottobre 2009

Censured – L’ambiguità della bellezza (parte II)

Dopo aver parlato di ambiguità della bellezza vi lascio a riflettere, senza insistere su personali commenti, sulla bellezza nell’arte contemporanea, o post-moderna o di frontiera o come la si vuol chiamare. Partendo dal link inserito si potranno scorrere, in rapida carrellata, opere di diversi artisti caratterizzate da una certa dose si ambiguità, straniamento, “immoralità”, brutalità o “cattivo gusto” o, più semplicemente, diversa bellezza. Possono piacere o meno ma sono frutto della nostra contemporaneità. Forse non tutte, ma con molte di loro saremo ricordati ai posteri.

Link: Censured, fonte: acidolatte (arrivati in fondo alla pagina potete continuare cliccando older posts; avverto solamente che alcune immagini, essendo molto forti, potrebbero turbare lo spettatore)

Di seguito alcuni assaggi di opere.

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