In questo post sono inseriti altri quattro interventi, con rispettivi link. La prima parte, invece, si può trovare a questo link: Rodolfo Papa - Riflessioni sull'arte contemporanea - Parte I
Viviamo in un momento storico entusiasmante, perché siamo sul confine di un secolo appena passato e di uno nuovo in via di edificazione. Anche se porre confini cronologici non è mai proficuo in campo storiografico, come non lo è contrapporre un'epoca ad un’altra, tuttavia dobbiamo riconoscere che il bilancio del secolo passato e l’apertura del nuovo alimenta l’entusiasmo ed obbliga a ripensamenti e rinnovato impegno.
Il fatto stesso che molte delle esperienze artistiche del Novecento siano irrimediabilmente alle nostre spalle obbliga alla riflessione, al fine non solo di comprendere le dinamiche delle varie fasi di sviluppo, ma anche per verificare se quel che è stato promesso nel secolo scorso si sia effettivamente realizzato. È necessario studiare quali risultati estetici e quali effetti sociologici siano conseguiti da alcune esperienze artistiche che hanno dominato il panorama mediatico negli anni Sessanta e Settanta. È interessante, per esempio, verificare quale relazione intercorra tra il “consumismo di massa” ed alcune esperienze artistiche degli anni Sessanta, e quali rapporti queste abbiano intrapreso con il mondo della pubblicità. La riflessione sul Novecento apre insomma un capitolo importante per ridefinire il campo dell’arte in generale e di ciascuna delle arti, e in particolare stimola la riflessione sul rapporto tra le arti e il contesto nel quale nascono e di cui si nutrono, direttamente o indirettamente.
Tuttavia questa è solo una parte dell’interesse attuale per l’arte. La dimensione contemporanea non esaurisce il panorama dell’arte. Un aspetto importante di questo passaggio di secolo è costituto, infatti, dall’interesse crescente verso l’arte del passato, che è al centro di un vero fenomeno mediatico, di dimensioni crescenti: alcune mostre, quali quelle dedicate a Caravaggio, hanno ottenuto un successo sorprendente. Questo apre la questione teoretica di che cosa sia contemporaneo nell’arte, fa riflettere sulla storicizzazione dei grandi artisti del passato, ma soprattutto testimonia un amore, mai morto, per l’arte della pittura nel senso tradizionale e proprio del termine.
In questo contesto di passaggio e di riflessione sul passaggio stesso, risulta importante riflettere sull’idea di progresso. Da una parte occorrerebbe evitare di identificare ogni progresso con una tipologia evoluzionista, secondo la quale quello che viene dopo supera e migliora quello che è venuto prima. Dall’altra occorrerebbe anche evitare di porre ogni artista ed ogni opera sullo stesso piano, cadendo nell’acriticità e nell’avalutatività. Peraltro in quest’ultimo difetto cade paradossalmente Gombrich, proprio analizzando l’arte secondo l’idea di progresso, nel suo noto testo Arte e progresso del 1971.
Se si cerca, invece, di guardare l’arte con occhi ingenui, si può scoprire che il cammino dell’arte si muove dentro il campo di un possibile che è implicito fin dall’inizio, come se tutte gli sviluppi fossero in qualche modo compresi nelle forme già date. Potremmo dire che gli artisti quando “inventano”, attingendo alla propria creatività, rimangono sempre fedeli a quel che l’arte implicitamente mette loro a disposizione e cioè tutto il suo “possibile”. Accade come nel linguaggio, che ha tante forme e una lunga storia, ma sia le forme sia la storia sono linguistiche, perché stanno dentro le possibilità aperte dal linguaggio stesso. Volendo utilizzare un’immagine geometrica, potremmo dire che l’andamento dell’arte non è una linea retta, che implicherebbe un costante progresso, e neanche una sinusoide, che implicherebbe cicli obbligati di crisi e di sviluppo, ma piuttosto una linea mista irregolare, corrispondente ad un andamento vitale, fatto di innovazioni e continuità.
Ogni reale innovazione, infatti, poggia sulla tradizione: come scrisse papa Stefano I “nihil innovetur nisi quod traditum est”. Dovremmo guardare anche alla storia dell’arte, nella prospettiva dell’“ermeneutica del rinnovamento nella continuità” applicato da Benedetto XVI alle interpretazioni del Concilio.
La crescita dell’arte implica una appropriazione della tradizione passata e un rinnovamento, entrambi compiuti in prima persona. Tutti i grandi artisti hanno sempre consigliato di apprendere dai maestri del passato, prima di compiere le proprie innovazioni. Si comincia ad imparare copiando le grandi opere e poi, imparato il linguaggio, si comincia a parlare e a inventare nuove parole. Basti guardare al rapporto di continuità e superamento vissuto da Caravaggio nei confronti di Michelangelo, la cui pittura viene rivissuta e risemantizzata con rispetto e con audacia. Leonardo affermava “tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro”, collocando l’arte in un rapporto di continuità tra allievo e maestro, in modo che chi impara cerchi di fare meglio di chi insegna.
L’arte, dunque, come ogni ambito propriamente “umanistico”, cioè volto alla promozione dell’humanum, cresce in maniera non meccanica e non patisce l’ossessione di rincorrere l’accumulazione delle novità, quanto piuttosto è volto alla ricerca del fare meglio e del migliorare se stessi. Non è fuori luogo, dunque, concludere con una riflessione sulla educazione, proposta da Benedetto XVI nella Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione del 21 gennaio 2008: «A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell'ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell'uomo è sempre nuova e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente essere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale».
Rodolfo Papa, Sacra famiglia |
Che cosa significa “arte sacra”? La definizione del concetto di “arte” è molto complessa; difficile è anche la connotazione della nozione di “sacro”, cosicché ottenere una risposta alla domanda iniziale mediante la somma delle definizioni del sostantivo “arte” e dell’aggettivo “sacra”, risulta particolarmente arduo e, forse, infruttuoso. Fecondo, invece, è rintracciare l’identità dell’arte sacra nei documenti magisteriali, seguendone il percorso quasi topografico, in cui mediante progressive precisazioni si scopre quale sia la collocazione e la specifica finalità dell’arte sacra stessa.
Può essere utile partire da un documento del Concilio Vaticano II, la Costituzione Pastorale Gaudium et Spes in cui leggiamo: «L’uomo, inoltre, applicandosi allo studio delle varie discipline, quali la filosofia, la storia, la matematica, le scienze naturali, e occupandosi di arte, può contribuire moltissimo ad elevare l’umana famiglia a più alti concetti del vero, del bene e del bello e ad un giudizio di universale valore» (n. 57).
L’arte viene collocata tra le discipline che elevano l’uomo, dunque possiede una autentica connotazione umanistica, intendendo l’umanesimo come cultivatio animi. Questa elevazione della famiglia umana avviene mediante la conoscenza del vero, del bene e del bello. E’ chiaro il riferimento alle caratteristiche trascendentali dell’essere, cioè a quelle caratteristiche che sono possedute da tutto ciò che è in quanto è, ovvero la verità, la bontà e la bellezza, che sono perfezioni partecipate da Dio a tutto il creato. E’ anche chiaro come l’arte si definisca per un singolare rapporto con la bellezza.
Poiché la nozione di arte è molto vasta e plurale, è utile fare riferimento alla distinzione tra arti liberali (ovvero le arti teoriche, che non implicano un lavoro fisico come la poesia) e arti meccaniche (ovvero le arti che implicano il lavoro manuale, come la scultura e la pittura). Tuttavia si tratta di una distinzione che il Rinascimento ha già mostrato di superare; l’autentica arte implica la liberalità della conoscenza e la meccanicità (ovvero la praticità effettiva) della produzione. Dunque per certi versi supera tale separazione o meglio la integra organicamente.
Ciò chiarito, occorre anche affrontare la distinzione tra arti utili e arti belle. Le arti utili sono rivolte a mezzi pratici, mentre le arti belle sono finalizzate alla bellezza. L’arte, dunque, va precisandosi nella sua identità specifica, per un rapporto particolare con la bellezza. Ed è proprio nel contesto delle arti belle che dobbiamo cercare la collocazione dell’arte sacra. Infatti la bellezza dell’arte esprime la bellezza del creato e, dunque, del Creatore, è quindi costitutivamente aperta nei confronti di Dio.
Dentro l’arte bella si ritaglia l’arte religiosa, ovvero un’arte che esprime un sentimento religioso. Dentro, o meglio al vertice, dell’arte religiosa individuiamo finalmente l’arte sacra. Qui risulta illuminante citare la Costituzione sulla Sacra liturgia Sacrosanctum Concilium prodotta dal Concilio Vaticano II: «fra le più nobili attività dell’ingegno umano sono annoverate, a pieno diritto, le belle arti, soprattutto l’arte religiosa e il suo vertice l’arte sacra» (n. 122).
L’arte sacra è il vertice dell’arte religiosa, ovvero l’arte religiosa contiene l’arte sacra ma non viceversa. Potremmo dire che tra l’opera d’arte religiosa e l’opera d’arte sacra intercorre lo stesso rapporto che unisce e distanzia una poesia che parla di Dio ed una preghiera: anche la preghiera è bella, quanto la poesia, ma ha una diversa specifica identità. L’aggettivo “sacro” viene infatti attribuito innanzitutto al culto, ai riti, ai luoghi, appunto “sacri”, e parimenti all’arte “sacra” e alle sue opere. L’arte religiosa diviene cioè “sacra” quando è finalizzata al sacro culto, al sacro rito, al sacro luogo, affinché “serva con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti” (n. 123).
Dunque l’arte sacra è integralmente arte, ma trova la sua identità nella sacralità del rito cui è destinata e che la informa dall’interno, cosicché un’opera d’arte sacra deve essere autenticamente un’opera d’arte, ma non è sufficiente che lo sia; deve infatti essere intimamente e interamente finalizzata alla sacralità, deve farsi specchio delle verità di fede, deve farsi celebrazione e liturgia. Ciò impone una peculiare connotazione dell’opera d’arte stessa, tanto che nei documenti magisteriali, troviamo anche le indicazioni per distinguere ulteriormente l’arte sacra in “autentica” e “non autentica”. Questo cammino, che porta verso un’arte non solo bella, ma anche buona e vera, realistica senza esagerazioni, simbolica senza astrazioni, è talmente importante che impone una trattazione a parte.
Rodolfo Papa, Malachia e sacrificio di Isacco, Cattedrale di Bojano |
L’arte sacra ha il compito di servire con la bellezza la sacra liturgia. Nella Sacrosanctum Concilium è scritto: “La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico, ma, secondo l’indole e le condizioni dei popoli e le esigenze dei vari Riti, ha ammesso le forme artistiche di ogni epoca, creando così, nel corso dei secoli, un tesoro artistico da conservarsi con ogni cura” (n. 123).
La Chiesa, dunque, non sceglie uno stile; ciò vuol dire che non privilegia il barocco o il neoclassico o il gotico, ma tutti gli stili capaci di servire il rito. Questo non significa, evidentemente, che ogni forma d’arte possa o debba essere accettata acriticamente, infatti nel medesimo documento, viene affermato con chiarezza: « la Chiesa si è sempre ritenuta, a buon diritto, come arbitra, scegliendo tra le opere degli artisti quelle che rispondevano alla fede, alla pietà e alle norme religiosamente tramandate, e risultavano adatte all’uso sacro» (n. 122). Risulta utile, allora, domandarsi “quale” forma artistica possa meglio rispondere alle necessità di una arte sacra cattolica, ovvero “come” l’arte possa servire al meglio “con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti”.
I documenti conciliari non sprecano parole e tuttavia danno direttive precise: l’arte sacra autentica deve cercare “nobile bellezza” e non “mera sontuosità”, non deve contrariare la fede, i costumi, la pietà cristiana, o offendere il “genuino senso religioso”. Quest’ultimo punto viene esplicitato in due direzioni: le opere d’arte sacra possono offendere il senso religioso genuino o “perché depravate nelle forme”, dunque formalmente inopportune, o perché “mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(n. 124). Si richiede all’arte sacra la proprietà di una forma bella, “non depravata”, e la capacità di esprimere propriamente e sublimemente il messaggio. Una chiara esemplificazione è presente anche nella Mediator Dei dove Pio XII chiede un’arte che eviti «l’eccessivo realismo da una parte e l’esagerato simbolismo dall’altra» (n. 190).
Queste due espressioni si riferiscono a concrete espressioni storiche. Troviamo infatti “eccessivo realismo” nella complessa corrente culturale del Realismo, nato come reazione al sentimentalismo tardoromantico della pittura alla moda, e che possiamo rintracciare poi nella nuova funzione sociale assegnata al ruolo dell’artista, con peculiare riferimento a temi direttamente tratti dalla realtà contemporanea, e poi ancora la possiamo collegare alla concezione propriamente marxista dell’arte, che condurranno alle riflessioni estetiche della II Internazionale fino alle teorie esposte da G. Lukacs. Inoltre, c’è’ “eccessivo realismo” anche in talune posizioni propriamente interne alla questione dell’arte sacra, ovvero nella corrente estetica che tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento propose dipinti che trattano temi sacri senza affrontarne correttamente la questione, con eccessivo verismo, come per esempio una Crocifissione dipinta da Max Klinger che è stata definita una composizione «mista di elementi di un verismo brutale e di principi puramente idealisti» (C. Costantini, Il Crocifisso nell’arte, Firenze 1911, p. 164).
Troviamo invece “esagerato simbolismo” in un’altra corrente artistica che si contrappone a quella realista. Tra i precursori del pensiero simbolista si possono annoverare G. Moureau, Puvis de Chavannes, O. Redon, e più tardi aderiranno a questa corrente artisti come F. Rops, F. Khnopff, M. J. Whistler. In quegli stessi anni il critico C. Morice elaborò una vera e propria teoria simbolista, definendola sintesi tra spirito e sensi. Fin poi a giungere, dopo il 1890, ad una vera e propria dottrina portata avanti dal gruppo dei Nabís, con P. Sérusier, che ne fu il teorico, dal gruppo dei Rosa-Croce che univa tendenze mistiche e teosofiche e infine dal movimento del convento benedettino di Beuron.
La questione diviene più chiara, dunque, se inquadrata immediatamente nei giusti termini storico-artistici; nell’arte sacra occorre evitare gli eccessi dell’immanentismo da una parte e dell’esoterismo dall’altra. Occorre intraprendere la strada di un “realismo moderato” affiancato da un motivato simbolismo, capaci di cogliere lo slancio metafisico, e di realizzare, come afferma Giovanni Paolo II nella Lettera agli Artisti, un medio metaforico carico di senso. Non dunque un iperrealismo ossessionato da un sempre sfuggente particolare, ma un sano realismo che nel corpo delle cose e nel volto degli uomini sa leggere e alludere, e riconoscere la presenza di Dio.
Nel messaggio agli artisti è detto: “Voi [gli artisti] l’avete aiutata [la Chiesa] a tradurre il suo divino messaggio nel linguaggio delle forme e delle figure, a rendere avvertibile il mondo invisibile”. Mi sembra che in questo passaggio si tocchi il cuore dell’arte sacra. Se l’arte, ogni arte, informa la materia, esprime l’universale mediante il particolare, l’arte sacra, l’arte al servizio della Chiesa, compie anche la sublime mediazione tra l’invisibile e il visibile, tra il divino messaggio e il linguaggio artistico. All’artista è chiesto di dare forma a una materia ri–creando addirittura quel mondo invisibile ma reale che è la suprema speranza dell’uomo.
Tutto ciò mi sembra conduca verso una affermazione dell’arte figurativa —ovvero un’arte che si impegna a “figurare” la realtà— quale massimo strumento di servizio, quale migliore possibilità di un’arte sacra. L’arte realistica figurativa, infatti, riesce a servire adeguatamente il culto cattolico, perché si fonda sulla realtà creata e redenta, e, proprio confrontandosi con la realtà, riesce a evitare gli opposti scogli degli eccessi. Proprio per questo si può affermare che il più proprio dell’arte cristiana di tutti i tempi è un orizzonte di “realismo moderato” o se volgiamo di “realismo antropologico”, all’interno del quale si sono sviluppati, nel tempo, tutti gli stili propri dell’arte cristiana (data la complessità dell’argomento si rimanda ad altri articoli).
L’artista che voglia servire Dio nella Chiesa, non può che misurarsi con l’“immagine” la quale rende avvertibile il mondo invisibile. All’artista cristiano è, dunque, chiesto un particolare impegno: quello di rappresentare la realtà creata e attraverso essa e in essa quell’“oltre” che la spiega, la fonda, la redime. L’arte figurativa non deve neanche temere come inattuale la “narrazione”, l’arte è sempre narrativa, tanto più quando si pone al servizio di una storia avvenuta, in un tempo e in uno spazio. Per la particolarità del compito, all’artista è chiesto anche di sapere “cosa narrare”: conoscenza evangelica, competenza teologica, preparazione storico-artistica e ampia conoscenza di tutta la tradizione iconografica della Chiesa. D’altra parte, la teologia stessa tende a farsi sempre più narrativa.
L’opera d’arte sacra, dunque, costituisce uno strumento di catechesi, di meditazione, di preghiera, essendo destinata “al culto cattolico, all’edificazione, alla pietà e all’istruzione religiosa dei fedeli”; gli artisti, come ricorda il più volte citato messaggio della Chiesa agli artisti, hanno “edificato e decorato i suoi templi, celebrato i suoi dogmi, arricchito la sua liturgia” e devono continuare a farlo.
Così anche noi oggi siamo chiamati a realizzare nel nostro tempo opere e capolavori atti a edificare l’uomo e a rendere Gloria a Dio, come recita ancora la Sacrosanctum Concilium: «Anche l’arte del nostro tempo di tutti i popoli e paesi abbia nella Chiesa libertà di espressione, purché serva con la dovuta reverenza e il dovuto onore alle esigenze degli edifici sacri e dei sacri riti. In tal modo potrà aggiungere la propria voce al mirabile concerto di gloria che uomini eccelsi innalzarono nei secoli passati alla fede cattolica» (n. 123).
Rodolfo Papa, Addolorata |
Un lontano concilio, il Concilio di Nicea II nel 787, ha definito la correttezza dell’uso delle immagini in Chiesa, ponendo autorevolmente fine alle tentazioni iconoclaste. Eppure nella nostra contemporaneità, dominata dall’uso ossessivo di ciò che si vede, le chiese vengono sovente progettate e realizzate con un atteggiamento che se osservato più da vicino, appare nuovamente iconoclasta: le pareti sono nude, non ci sono immagini, tutt'al più elementi simbolici stilizzati, che applicano linguaggi mutuati da esperienze artistiche lontane dal cristianesimo, se non addirittura avverse ad esso.
Occorre allora ripercorrere l’antica strada della legittimazione delle immagini. Partiamo proprio dal Concilio di Nicea II, analizzandone le precise indicazioni: «noi definiamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie». Le immagini sacre vengono poste sullo stesso piano della raffigurazione della croce, e a somiglianza della croce devono essere esposte in ogni luogo: nel contesto della liturgia, nei luoghi sacri, ma anche nella vita quotidiana, nei luoghi privati quali le case, e nei luoghi pubblici quali le vie. L’universalità del messaggio cristiano indica la misura dei luoghi in cui esporre le immagini, ovvero tutti i luoghi. Le immagini sacre devono inoltre essere presenti negli arredi sacri ed anche sui paramenti. Non viene precisata la tecnica, infatti le immagini possono essere dipinte, a mosaico, o in qualsiasi altra tecnica opportuna, ma viene precisato il soggetto: «siano esse l’immagine del signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell’Immacolata Signora nostra, la Santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti». Dunque si tratta chiaramente di immagini che rappresentino prioritariamente Gesù Cristo, la cui incarnazione è il principio fondante dell’arte sacra figurativa, ed anche la Madre del Signore, gli angeli, i santi ed i giusti, ovvero tutta il corpo della Chiesa, il suo mistero e la sua storia.
Il Concilio precisa poi i motivi e le finalità delle immagini sacre: «Infatti, quanto più prudentemente queste immagini vengono contemplate, tanto più quelli che le contemplano sono portati al ricordo e al desiderio dei modelli originali e a tributare loro, baciandole, rispetto e venerazione». La contemplazione delle immagini induce al ricordo e al desiderio dei soggetti rappresentati; si tratta dunque di una dinamica conoscitiva e affettiva, che parte dall’immagine rappresentata ma termina nel soggetto reale; è analoga, potremmo dire, alla funzione che hanno le fotografie dei nostri cari, che ci ricordano le persone amate. Tenere vivo il ricordo e il desiderio costituisce un importante cura della propria fede, la coltivazione della propria vita spirituale.
Si tratta di un rapporto non idolatrico, perché il termine dell’adorazione non è appunto l’immagine, ma il soggetto rappresentato. Infatti, il Concilio ha cura di prevenire e di arginare gli eccessi che erano stati presenti nell’Oriente cristiano, e che avevano anche indotto, per contrasto, la reazione iconoclasta. «Non si tratta, certo, di una vera adorazione (latria), riservata dalla nostra fede solo alla natura divina, ma di un culto simile a quello che si rende alla immagine della croce preziosa e vivificante, ai santi evangeli e agli altri oggetti sacri, onorandoli con l’offerta di incenso e di lumi secondo il pio uso degli antichi. L’onore reso all’immagine, in realtà, appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l’immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto.» Si tratta dunque di un onore reso alla realtà e non alla rappresentazione, ma tramite il culto reso all’immagine si alimenta e si esprime l’adorazione verso Dio, l’unico degno di essere adorato. Notiamo che il corretto parametro del culto dell’immagine è costituito dal culto della croce, preziosa e vivificante, e posto in analogia al culto che si dà al Vangelo, che ovviamente non significa adorazione del libro ma della Parola di Dio.
Il Concilio sottolinea che il culto delle immagini fa parte della tradizione della Chiesa: «Così si rafforza l’insegnamento dei nostri santi padri, ossia la tradizione della chiesa universale, che ha ricevuto il Vangelo da un confine all’altro della terra. Così diventiamo seguaci di Paolo, che ha parlato in Cristo, del divino collegio apostolico, e dei santi dei padri, tenendo fede alle tradizioni che abbiamo ricevuto. Così possiamo cantare alla chiesa gli inni trionfali alla maniera del profeta: “Rallegrati, figlia di Sion, esulta figlia di Gerusalemme; godi e gioisci, con tutto il cuore; il Signore ha tolto di mezzo a te le iniquità dei tuoi avversari, sei stata liberata dalle mani dei tuoi nemici. Dio, il tuo re, è in mezzo a te; non sarai più oppressa dal male». Il culto delle immagini si legittima nell’insegnamento apostolico, nella tradizione della Chiesa universale. Non solo ma viene poi precisato che «ciò che è stato affidato alla chiesa» è «il vangelo, la raffigurazione della croce, immagini dipinte o le sante reliquie dei martiri»; dunque le immagini dipinte fanno parte del deposito della Fede, di ciò che è stato “affidato” alla Chiesa, sfuggendo dunque all’arbitrio degli uomini: nessuno può decidere che si può fare a meno del culto delle immagini.
La tradizione del culto delle immagini è ininterrotta nella Chiesa cattolica che anzi trova in questa pratica un segno di distinzione dalle tendenze iconoclaste proprie di molte correnti protestanti. Il Concilio Vaticano II si pone in continuità con la tradizione e nella Costituzione sulla Sacra Liturgia Sacrosanctum Concilium afferma: «Si mantenga l’uso di esporre nelle chiese alla venerazione dei fedeli le immagini sacre». Analogamente al Concilio di Nicea, precisa che la devozione deve essere corretta, e soprattutto che il sentimento da suscitare non è l’ammirazione verso l’immagine, ma la venerazione dei soggetti rappresentati: «si impongano in numero moderato e nell’ordine dovuto per non destare ammirazione nei fedeli e per non indulgere a una devozione non del tutto corretta».
Forse una delle riflessioni più chiare e profonde sull’uso delle immagini sacre, è fornita dalla introduzione al Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (20 marzo 2005): «Esse [le immagini] provengono dal ricchissimo patrimonio dell'iconografia cristiana. Dalla secolare tradizione conciliare apprendiamo che anche l'immagine è predicazione evangelica. Gli artisti di ogni tempo hanno offerto alla contemplazione e allo stupore dei fedeli i fatti salienti del mistero della salvezza, presentandoli nello splendore del colore e nella perfezione della bellezza. È un indizio questo, di come oggi più che mai, nella civiltà dell'immagine, l'immagine sacra possa esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico» ( n. 5, corsivi aggiunti).
L’immagine nei secoli è riuscita a trasmettere i fatti salienti del mistero della salvezza, e tanto più oggi, nella civiltà dell’immagine, deve saper recuperare la propria fondamentale importanza, in quanto l’immagine esprime più delle stesse parole, in un dinamismo di comunicazione e trasmissione della Buona Novella.
Rodolfo Papa, Virtù cardinale, cattedrale di Sulmona |
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