lunedì 1 luglio 2013

Caravaggio - L'incredulità di San Tommaso


La tela fu dipinta da Caravaggio intorno al 1601 per il Marchese Vincenzo Giustiniani per la galleria di dipinti del suo Palazzo, secondo quanto si può desumere da Le vite de’pittori scultori et architetti moderni di Giovan Pietro Bellori pubblicato nel 1672 a Roma, e dai numerosi documenti d’inventario che la riguardano. Nell’inventario della collezione Giustiniani del 1638 si legge «Nella stanza grande de quadri antichi. Un quadro sopra porta di mezze figure con l’historia di S. Tommaso che tocca il costato di Christo col dito dipinto in tela alta palmi 5. Larga 6,5 incirca, di mano di Michelangelo da Caravaggio con cornice nera profilata e rabescata d’oro».

La tela, dunque, fa parte della collezione Giustiniani ed è unsopraporta, dipinto cioé in orizzontale a mezze figure di circa cm 150 di larghezza e cm 100 di altezza. La tela poi fu venduta varie volte nel corso dei secoli, ed infine, dopo ulteriori vicissitudini legate agli eventi della Seconda Guerra Mondiale, pervenne nell’attuale collezione della Bildergalerie von Sanssouci di Potsdam. Nel 2001 a Roma è stata proposta al pubblico italiano in una bellissima mostra dedicata alla ricostruzione dell’antica collezione Giustiniani.

Caravaggio costruisce il dipinto attraverso una struttura semplice che nell’essenzialità della scena punta diritto verso il cuore della narrazione evangelica. Cristo è attorniato da tre apostoli, tra i quali riconosciamo Pietro, dietro agli altri due in posizione più alta, e Tommaso, che sbigottito si vede prendere la mano dallo stesso Cristo e inserirla nella ferita del costato. Gesù è rappresentato con un incarnato più chiaro rispetto al gruppo degli apostoli, creando così una forte contrapposizione cromatica tale da determinare un doppio risultato narrativo; quello di portare il fedele ad un coinvolgimento diretto nell’azione, rendendolo presente e partecipe di quanto accade sotto i suoi occhi, e di evidenziare la corporeità del Risorto come il testo evangelico la descrive.

I tre apostoli hanno le fronti aggrottate, sono curvi in un inchino spontaneo di fronte al mistero della Risurrezione, i loro occhi sono attenti e le bocche aperte senza proferire parola, sono impietriti, ritratti nel momento che li vede colti da stupore; si differenzia l’atteggiamento psicologico di Tommaso che ha gli occhi sbarrati e si perde con lo sguardo attonito nell’abisso di ciò che gli si manifesta di fronte. Gesù, reclinando il capo, con la mano destra delicatamente scosta il mantello, mostrando la ferita sul costato ancora aperta e con la sinistra guida quella dell’apostolo, introducendo il dito tremante di Tommaso nella ferita del costato; il suo volto sembra accennare una impercettibile smorfia di dolore mentre accompagna con lo sguardo il gesto che compie con la mano di Tommaso. In questo dipinto non c’è altro, tutto è avvolto dalla penombra della stanza nel quale accade il fatto, davanti ai nostri occhi ci sono solo quattro figure colpite dalla luce che giunge dall’alto, tutto è reso attraverso un’abile descrizione psicologica degli apostoli, e poi null’altro.

Nel Vangelo di Giovanni leggiamo: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il Sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Detto questo, mostrò loro le mani e il costato e i discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20, 19-20) «Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dissero allora gli altri discepoli: Abbiamo visto il Signore! Ma egli disse loro: Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel costato, non crederò. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi! Poi disse a Tommaso: Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettile nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente! Rispose Tommaso: Mio Signore e mio Dio! Gesù gli disse: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!» (Gv 20, 24-29)

Giovanni descrive minuziosamente quanto accaduto e pone in evidenza l’atteggiamento umano di Tommaso, che si dichiara scettico su quanto gli viene raccontato dagli altri e pone delle condizioni alla Fede, come facciamo noi ogni giorno della nostra vita posti di fronte alle difficoltà del mondo. Caravaggio dipinge questo turbamento, che anche è il nostro, e in modo sapiente traspone l’incredulo per eccellenza non soltanto nella ovvia figura di Tommaso, ma anche in quella degli altri due apostoli presenti nel dipinto.

Infatti lo scopo del dipinto non è solo quello di narrare i fatti così come ci vengono descritti da Giovanni, quanto piuttosto di porci di fronte al mistero della Risurrezione nella sua evidente corporeità. Cristo è risorto, è vivo; il dipinto di Caravaggio ci pone di fronte alla domanda dell’angelo alle donne: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? » (Lc. 24,5). Il dito di Tommaso affonda nella carne di Gesù; quella mano rozza, con le unghie sporche del proprio lavoro quotidiano, è la mano di tutti coloro che sono chiamati nella Fede a credere in Cristo. Lo scetticismo si scioglie nello stupore; gli occhi si spalancano davanti a quelle ferite, e la bocca tremante si apre balbettando, con un filo di voce « Mio Signore e mio Dio!».

L’arte di Caravaggio, come quella di moltissimi altri nel corso dei secoli, ha teso a rappresentare, attraverso la tecnica e gli strumenti propri della pittura, la corporeità del mistero dell’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Cristo, il mistero di Gesù, che è totalmente uomo e totalmente Dio, per fugare quei dubbi che persino gli apostoli, secondo la narrazione di Luca, ebbero: «Stupiti e spaventati credevano di vedere un fantasma» ( Lc. 23,37). L’arte ci invita a vedere con gli occhi e a meditare nel cuore le parole di Cristo: «Perché siete turbati e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa come vedete che io ho» (Lc 23, 38-39).

Al riguardo sant’Agostino dice: «Cristo avrebbe potuto risanare le ferite della sua carne al punto da non fare apparire neppure le impronte delle cicatrici. Aveva il potere di non mantenere nelle sue membra il segno dei chiodi, di non mantenere la ferita del costato.(...) Lui, che lasciò fissi sul suo corpo i segni dei chiodi e della lancia, sapeva che in futuro ci sarebbero stati eretici tanto empi e distorti da affermare che il Signore Nostro Gesù Cristo simulò di avere carne e che avrebbe detto menzogne ai suoi discepoli e ai nostri Evangelisti quando disse: Tocca e vedi.(...) Supponiamo che ci sia qui un manicheo. Che cosa direbbe? Che Tommaso vide, toccò, palpò le impronte dei chiodi, ma che era una carne falsa.» Si comprende qual’è stato –è quale è tuttora- il compito dell’arte, e cioè affermare che Cristo è veramente risorto, vero uomo e vero Dio. Come scrive ancora sant’Agostino:« La Verità risuscitò carne vera. La Verità mostrò ai discepoli carne vera dopo la risurrezione. La Verità mostrò cicatrici di carne vera alle mani che le palpavano. Arrossisca dunque la falsità, poiché ha vinto la Verità».

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Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it  Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com  e.mail: rodolfo_papa@infinito.it  

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