Veramente suggestive, oltre che tecnicamente perfette, la foto di Elena Kalis dalle serie underwater photography. Magiche e sfuggenti, velatamente surreali, e con un tocco pittorico (accordi di luci e colori) che non cade nel didascalico o nella citazione. A voi il giudizio.
lunedì 23 aprile 2012
Le meraviglie della Roma cristiana
Buona visione!
venerdì 20 aprile 2012
Sculture monumentali
The African Renaissance Monument è tra le più grandi sculture mai realizzate al mondo. Inaugurato nel 2010, alto quasi 50 metri svetta sulla città di Dakar con la sua enorme e pesante mole in bilico tra plasticismo e concretezza, non privo di stereotipi espressivi di certo lontani dall'originale arte africana.
Contemporaneamente negli U.S.A. il Crazy Horse Memorial, la monumentale opera voluta dal popolo Sioux per celebrare il leggendario capo Lakota, Cavallo Pazzo, e come tributo a tutti i nativi nordamericani, è il più imponente work-in progress sul territori degli States, anzi, dell’intero pianeta. La colossale scultura tridimensionale che rappresenterà il capo indiano a cavallo, e una volta completata misurerà 169 metri d’altezza per 192 di lunghezza, sta lentamente prendendo forma tra le alture delle Black Hills in South Dakota.
Andando indietro di qualche decennio The Motherland Calls a Volgograd, in Russia, commemora la Battaglia di Stalingrado. Fu disegnata dallo scultore Yevgeny Vuchetich e progettata dall'ingegnere Nikolai Nikitin. Alta 85 metri fu completata nel 1967 ed è sicuramente tra le meglio riuscite.
L'elenco sarebbe lungo e rimando a questa pagina di wikipedia (Le statue più alte del mondo). Emerge il dato che sopratutto negli ultimi anni si sono costruite statue colossali quasi come se si volesse, con la grandezza, compensare l'insignificanza del modello. Naturalmente c'è molta retorica dietro, le sculture spesse volte sono goffe e pesanti e prive di messaggi. Modello imprescindibile è la Statua della Libertà di New York anche se tra le sculture monumentali più belle colloco di certo il Colosso di San Carlo Borromeo (detto il Sancarlone ) ad Arona che è alta "solo" 30 metri ma di una eleganza e magnificenza uniche a dimostrazione che non conta solo l'altezza del manufatto ma tutto il progetto dietro. Il disegno fu di Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano e la statua fu realizzata con lastre di rame battute a martello e riunite utilizzando chiodi e tiranti in ferro. Gli scultori che la realizzarono furono Siro Zanella di Pavia e Bernardo Falconi di Bissone. L'opera fu conclusa nel 1698 ed è quindi tra le più antiche.
Ma quanto è più grandioso un "Prigione" di Michelangelo di appena un metro rispetto a tanti mostri?
martedì 17 aprile 2012
Il caso della biblioteca dei Girolamini - Libri scomparsi e professionalità assenti
Segreti e bugie di Marino Massimo De Caro, neo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini.
Come mettere Nerone a capo dei vigili del fuoco: la gestione Mibac è sempre più farsesca.
La figura chiave di questa storia è il nuovo direttore della biblioteca napoletana dei Girolamini: il ‘professore’ Marino Massimo De Caro, che incontro assorto nel maneggio dei volumi più pregiati della collezione, tra pile di libri preziosi incongruamente poggiate sul pavimento, lattine vuote di Coca cola che troneggiano sugli antichi banconi, un’avvenente ragazza ucraina a condividerne l’alloggio conventuale.
La biblioteca (pubblica fin dal Seicento e ora statale: 150.000 volumi, in massima parte antichi) è una delle più importanti d’Italia. Ma oggi è chiusa. Perché dev’essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco . Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca.
Comunque stiano le cose, è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del Sottobosco esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro uscito proprio ieri. Lì De Caro è il mediatore nell’affare del petrolio venezuelano, «uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani». E se i contatti con Massimo D’Alema sono stati preparati dalla sua carriera di portaborse parlamentare in area postcomunista, all’intima amicizia con Marcello Dell’Utri De Caro arriva grazie alla sua passione vera, quella per i libri antichi. Non che si tratti di un interesse culturale, intendiamoci: la cultura, notoriamente, fattura.
De Caro è titolare di una libreria antiquaria a Verona, ma soprattutto è assai attivo nel commercio internazionale: meglio se di alto livello e di memoria corta. In una delle sue conversazioni telefoniche con Aldo Miccichè (ex democristiano, condannato per bancarotta fraudolenta e latitante in Venezuela) intercettate dalla procura di Reggio Calabria, e pubblicate da Sansa e Gatti, De Caro si lamenta perché i carabinieri del Nucleo di tutela per il patrimonio artistico gli stanno addosso per la ricettazione di un prezioso esemplare dell’Hypnerotomachia Poliphili (un incunabolo del 1499) sottratto ad una biblioteca milanese e venduto nel marzo del 2005 alla Mostra del libro antico sponsorizzata da Dell’Utri. L’indagine finirà nel nulla, ma solo perché la Procura di Milano è costretta a chiedere il non luogo a procedere visto che «l’incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche».
Forte di questo curriculum immacolato, De Caro approda al Ministero dell’Agricoltura, come consigliere per le bioenergie di Giancarlo Galan. Ma la svolta surreale avviene quando questi, passando ai Beni culturali, se lo porta dietro e infine lo lascia in eredità al suo remissivo successore Lorenzo Ornaghi, che lo nomina prontamente suo consigliere diretto per l’editoria (e il suo mercato, immaginiamo). Così il ministro del patrimonio del governo supertecnico dei competentissimi professori si fa consigliare da una specie di Lavitola del libro.
Ma quando fai notare a padre Marsano che affidare la preziosissima biblioteca della sua Congregazione a uno come De Caro sarebbe più o meno come mettere un piromane a capo della Forestale, il religioso risponde – non so se candido o diabolico –, che ben altre sono state le insidie patite dai Girolamini, visto che tra il 1960 e il 2007 sarebbero spariti ben 6000 volumi. Sparizioni che nessuno ha curiosamente mai denunciato: e la cui evocazione suona come una colossale assoluzione preventiva. Insomma: cosa succede davvero nella biblioteca dove andava a studiare Giovan Battista Vico? È tutto sotto controllo, o siamo in un film dell’orrore? Girolamini o Girolimoni? La risposta è forse negli ossi di Vico: metafora perfetta di una verità che si sdoppia, tra Pirandello e Sciascia. Vico è il nome del pastore tedesco che gira per le sale monumentali della biblioteca con un immenso osso di prosciutto nelle fauci: quasi Almodóvar. Ma le ossa di Vico sono anche quelle del grandissimo filosofo, che si dice siano state riesumate qualche mese fa nella chiesa dei Girolamini, e che ora sarebbero affidate ai Ris di Parma: per capire se se ne può fare un culto, o un business.
A sciogliere dubbi e metafore varrà solo un’agguerrita ispezione del Ministero dei Beni culturali, o meglio un’indagine dei vecchi amici del direttore, i carabinieri del Nucleo di tutela. Ma se Ornaghi continuerà a farsi consigliare da De Caro e a far finta di non vedere, tra poco sarà davvero impossibile distinguere tra gli ossi di Vico (il cane) e le ossa di Vico (il filosofo). E Napoli morirà ancora un po’.
a cui è seguito un articolo sul Corriere del Mezzogiorno (Girolamini, una biblioteca da cani) e questa lettera aperta al ministro Ornaghi
Al ministro per i Beni e le attività culturali, prof. Lorenzo Ornaghi
Signor Ministro,
Le scriviamo a proposito dello stranissimo e increscioso affare che riguarda l’attuale direzione della Biblioteca Nazionale dei Girolamini a Napoli, una delle biblioteche storiche più gloriose d’Italia, nata dalla passione culturale della congregazione di San Filippo Neri. Per volontà di Giovan Battista Vico, in essa confluirono i libri di Giuseppe Valletta: pegno vivo di una stagione in cui Napoli era un crocevia del pensiero filosofico europeo e vera capitale della Respublica literariauniversale.
Dopo le enormi perdite e trasformazioni di altri fondi librari avutesi nell’Ottocento, Napoli possiede ormai quest’unico esempio particolare di biblioteca pubblica di origine preunitaria, magnificamente coerente nell’architettura e nelle raccolte in essa ospitate: un organismo che un tempo si affiancava perfettamente alle biblioteche universitarie e alla Nazionale, così come avveniva e avviene in altre antiche capitali italiane, dove però le analoghe biblioteche di origine conventuale, principesca o erudita sono state meno decimate, e svolgono tuttora una funzione preziosissima (si pensi all’Angelica, alla Casanatense, alla Corsiniana e alla Vallicelliana di Roma, o alla Laurenziana, alla Marucelliana e alla Moreniana di Firenze).
Purtroppo le conseguenze drammatiche, mai piante a sufficienza, del terremoto del 1980, hanno contribuito massicciamente a far uscire i Girolamini dall’orizzonte culturale, e prim’ancora dal vissuto quotidiano, della cittadinanza napoletana, con i suoi numerosissimi intellettuali, studiosi e studenti. E ciò spiega perché, nella distrazione ormai consolidatasi, sia cominciata una vicenda come quella che è adesso in corso, e che siamo qui a denunciarLe.
Le chiediamo come sia possibile che la direzione dei Girolamini sia stata affidata dai padri filippini, con l’avallo del Ministero che ne è ultimo responsabile, a un uomo (Marino Massimo De Caro) che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo. E perché questa scelta sia stata fatta in un Paese e in un’epoca affollati fino all’inverosimile di espertissimi paleografi, codicologi, filologi, storici del libro, storici dell’editoria, bibliotecari, archivisti, usciti dalle migliori scuole universitarie e ministeriali, e finiti sulle strade della disoccupazione o della sotto-occupazione (call centers, pizzerie, servizi di custodia).
Le chiediamo inoltre di spiegarci come mai Marino Massimo De Caro, sebbene del tutto estraneo al mondo della biblioteconomia e della funzione pubblica, abbia avuto e abbia comunque curiose implicazioni con i libri, che lo portano tuttavia nel mondo del commercio, facendo emergere fin qui – sempre e soltanto – episodi degni di essere vagliati non da una commissione di concorso, ma dalle autorità giudiziarie (sia pure con l’auspicio dell’innocenza).
Le chiediamo inoltre come mai una figura dai trascorsi così poco chiari e poco chiariti sia stata messa a capo di un istituto che oggi come non mai ha bisogno, tutt’al contrario, non solo di una guida ferrea e irreprensibile, ma di un rappresentante – ben facile da trovare – che respinga ad anni-luce da sé i sospetti di ogni collegamento con quelle gravissime perdite più o meno recenti del loro patrimonio librario che i padri filippini per primi denunciano in questi mesi.
Le chiediamo infine, nel riconsiderare con molta attenzione la scelta di Marino Massimo De Caro come direttore dei Gerolamini (nonché come Suo consigliere personale), di voler creare una commissione pubblica d’inchiesta sull’amministrazione passata e recente di questa biblioteca, prima che la memoria storica dei Gerolamini rimanga affidata soltanto a una maestosa architettura ferita e umiliata, tragicamente solitaria nel cuore di una rete mondiale di traffici rapaci.
Foto di Mimmo Jodice |
ed è proseguito con una petizione (promossa dal prof. Francesco Caglioti) che in pochi giorni ha visto l'adesione di insigni studiosi italiani http://www.petizionepubblica.it/?pi=Gerolami per un ennesimo caso che coinvolge i beni culturali e che ha dell'incredibile (su patrimonio sos la lista completa dei firmatari). Storia emblematica dell'odierna situazione del nostro patrimonio, a tinte fosche e con inquietanti risvolti. Che fine hanno fatto migliaia di preziosi e rari libri scomparsi?
I libri spariti della biblioteca di Vico.
Affidereste una delle biblioteche più ricche d'Italia cioè del mondo, piena di tesori inestimabili, a un sedicente principe dottore che non è principe e non è laureato? È successo: il «nobiluomo» ha in mano, col benestare ministeriale, la biblioteca napoletana dei Girolamini. Quella di Giovan Battista Vico. E il giorno stesso in cui usciva sui giornali l'allarme di centinaia di studiosi si è precipitato a denunciare il furto di un sacco di libri.
Tutto è cominciato un paio di settimane fa quando Tomaso Montanari, fiorentino, docente di Storia dell'arte moderna alla «Federico II» di Napoli, autore del saggio «A che serve Michelangelo?» (zeppo di pesantissimi dubbi sul crocifisso attribuito al Buonarroti e acquistato dal governo Berlusconi per più di tre milioni di euro) ha denunciato su «Il Fatto» di avere visitato la Biblioteca dei Girolamini, che contiene oltre 150 mila manoscritti e volumi antichi, e di averla trovata in condizioni penose: disordine, polvere, pile di libri preziosi accatastate per terra, lattine vuote di Coca-cola abbandonate sugli antichi banconi... «La biblioteca oggi è chiusa - scriveva Montanari - perché dev'essere riordinata, dice padre Sandro Marsano, il giovane sacerdote oratoriano, che ti accoglie, gentilissimo ed entusiasta, nel meraviglioso complesso secentesco. Perché accadono cose strane, dice invece la gente che abita intorno al convento: che ti parla di auto che escono cariche, nottetempo, dai cortili della biblioteca».
Una denuncia clamorosa. Anche perché elencava una serie di perplessità sul nuovo direttore, il «professore» Marino Massimo De Caro: «Comunque stiano le cose è incredibile che a dirigere uno dei santuari della cultura italiana sia uno degli esemplari più pregiati della fauna del "sottobosco" esplorato da Ferruccio Sansa e Claudio Gatti nel libro (appena) uscito. Lì De Caro è il mediatore nell'affare del petrolio venezuelano, "uno dei casi più clamorosi di alleanza tra berlusconiani e dalemiani"».
Console onorario del Congo, già assistente del senatore Carlo Corbinelli, già Responsabile pubbliche relazioni dell'Inpdap nel Nord-Est, già vicepresidente esecutivo dal 2007 al 2010 di Avelar energia (parchi eolici e solari) del gruppo Renova appartenente all'oligarca russo Victor Vekselberg, già titolare di una libreria antiquaria a Verona, già socio nella libreria antiquaria Buenos Aires (la «Imago Mundi») di Daniel Guido Pastore, coinvolto in Spagna in una inchiesta su una serie di furti alla Biblioteca Nazionale di Madrid e alla Biblioteca di Saragozza, è finito nel «giro» ministeriale con Giancarlo Galan.
Lo si legge in una nota del ministero stesso: «Il Dott. Marino Massimo De Caro è stato chiamato a collaborare con il Ministero dal Ministro Giancarlo Galan in data 15 aprile 2011 in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura, dell'editoria nonché delle tematiche connesse all'attuazione della normativa concernente l'autorizzazione alla costruzione e all'esercizio di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili e al loro corretto inserimento nel paesaggio. Il Ministro Lorenzo Ornaghi in data 15 dicembre 2011 ha confermato l'incarico al Dott. Marino Massimo De Caro, come ha fatto con altri consiglieri del Ministro Galan, in qualità di consulente esperto per l'approfondimento delle tematiche relative alle relazioni con il sistema impresa nei settori della cultura e dell'editoria».
Riprendiamo un passaggio del libro «Il sottobosco» di Gatti e Sansa a proposito di una intercettazione: «Il 27 dicembre 2007 De Caro si lamenta di un capitano dei carabinieri del Nucleo del patrimonio artistico di Monza che lo sta "scocciando" per un libro acquistato in un'asta pubblica in Svizzera. È indagato per ricettazione, spiega, e la cosa ha bloccato la sua nomina a console onorario del Congo perché il ministero degli Esteri non sta concedendo il nullaosta. (...) Il 17 luglio 2009 De Caro potrà finalmente rilassarsi perché il sostituto procuratore di Milano Maria Letizia Mannella, "rilevato che l'incunabolo non è stato rinvenuto fisicamente, malgrado le numerose ricerche", chiede il non luogo a procedere. In altre parole, visto che l'oggetto della presunta ricettazione è scomparso e che le tre persone coinvolte si accusano a vicenda, la pm finisce con l'archiviare il tutto». Ripetiamo: tutto archiviato. Ma tra tante possibili scelte non c'erano altri dal profilo assolutamente cristallino cui affidare una biblioteca di libri preziosi già molto saccheggiata nei decenni?
Offeso dai sospetti, il giorno dopo la denuncia il direttore spiega al Corriere del Mezzogiorno di avere tutte le carte in regola: «Mi sono laureato a Siena, ho insegnato Storia e tecnica dell'editoria nei master di specializzazione dell'Università di Verona». Di più: «Sono stato consulente del cardinale Mejia, bibliotecario del Vaticano, ho pubblicato un libro su Galilei, sono stato direttore della Biblioteca del Duomo di Orvieto...» Di più ancora, spiega al Mattino : «Il padrino di battesimo di mio nonno è stato Benedetto Croce. La mia famiglia, che tramandava il titolo di Principi di Lampedusa, si è unita con quella del famoso Tomasi ed è in quel momento che è diventato di Lampedusa, anche di questo andiamo fieri».
«Perdindirindina!», esclamerebbe Totò che si vantava di essere Sua Altezza Imperiale Antonio Porfirogenito della stirpe Costantiniana dei Focas Angelo Flavio Ducas Commeno di Bisanzio, principe di Cilicia, di Macedonia, di Dardania, di Tessaglia, del Ponto, di Moldava, di Illiria, del Peloponneso, Duca di Cipro e di Epiro, Conte e Duca di Drivasto e di Durazzo. «Falso», gli risponde il giorno dopo, sempre sul quotidiano partenopeo, il vero principe Gioacchino Lanza Tomasi: «Le affermazioni del bibliotecario sulla discendenza dai principi di Lampedusa sono un'impostura. Il titolo di principe di Lampedusa è stato concesso da Carlo II di Spagna a Ferdinando Tomasi nel 1667. I Caro quindi con il titolo di principe di Lampedusa non hanno nulla a che vedere. ... Il nostro eminente bibliotecario queste cose dovrebbe averle sulla punta delle dita. E consiglierei al priore dei Girolamini di vigilare su un archivista che invece di appoggiarsi alla documentazione si avvale di casi di omonimia».
Vabbé, sempre «professore» resta. Lo dice un comunicato stampa dell'Associazione nazionale «Il Buongoverno», costituita a Milano e «presieduta dal Sen. Riccardo Villari, con Marcello Dell'Utri presidente nazionale onorario. Il segretario è il senatore Salvatore Piscitelli. (...) Segretario organizzativo nazionale è il professor Marino Massimo De Caro». Perdindirindina bis!
Peccato che, a dispetto delle dichiarazioni e dei comunicati ufficiali del ministero che lo chiama ripetutamente «dottore», il nostro De Caro all'Università di Siena, dove si iscrisse a Giurisprudenza nel 1992/1993 restando iscritto fino al 2002, non si sia mai laureato. E che lo stesso cervellone centrale dell'Università di Verona non conservi traccia, manco di striscio, del passaggio da quelle parti dell'illustre «docente».
Il dettaglio più divertente, tuttavia, è l'ultimo. Prima ancora che uscissero tutti questi ritocchi all'auto-agiografia, centinaia e centinaia di intellettuali avevano iniziato a firmare un appello per chiedere che il ministro Lorenzo Ornaghi come fosse possibile che una biblioteca importante come quella dei Girolamini fosse stata affidata a «un uomo che non ha i benché minimi titoli scientifici e la benché minima competenza professionale per onorare quel ruolo». Parole durissime, sottoscritte fino a ieri sera da poco meno di duemila personalità, tra le quali Marcello De Cecco, Ennio Di Nolfo, Dario Fo e Franca Rame, Carlo Ginzburg, Salvatore Settis, Tullio Gregory, Gustavo Zagrebelsky, Gioacchino Lanza Tomasi, Adriano La Regina, Gian Giacomo Migone, Alessandra Mottola Molfino (presidente di Italia Nostra), Lamberto Maffei (presidente dell'Accademia dei Lincei), Dacia Maraini, Stefano Parise (presidente dell'Associazione Italiana Biblioteche), Stefano Rodotà, Rosario Villari...
Bene: la mattina stessa in cui esce la notizia dei dubbi di quegli intellettuali, il «Dottor», «Principe», «Professor» Marino Massimo De Caro si presenta alla Procura della Repubblica. Vuol fare una denuncia: si è accorto che nella sua biblioteca sono spariti millecinquecento libri...
Aggiornamenti e rassegna stampa.
Sequestro preventivo per la biblioteca dei Girolamini. Su Il Giornale dell'Arte
Biblioteca Girolamini, il direttore denuncia alla magistratura la sparizione di 1.500 volumi. Su Il Giornale dell'Arte
con la speranza che altre biblioteche storiche non facciano questa fine
giovedì 12 aprile 2012
Arte a soqquadro
Quante volte nel guardare dei quadri abbiamo notato quel disordine, quelle accozzaglie di cose sparpagliate per la stanza, tutti quegli oggetti a volte messi alla rinfusa, a volte in un ordine preciso per dare il senso prospettico e della profondità… pensiamo ai fiamminghi e alle loro opere costellate di oggetti più o meno voluminosi, che spesso venivano inseriti carichi di valenza simbolica, specchi, scarpe, animali, secchi, vasi, libri a non finire e disordine, disordine, disordine. Questo ha pensato l’eccentrico e fantasioso artista e cabarettista svizzero Ursus Wehrli guardando i quadri di Van Gogh o di Bruegel, e ha deciso di riordinare quel caos creando delle opere di grafica che hanno un solo obiettivo, fare ordine nelle opere d’arte. Nel libro “Arte a soqquadro“ ha rivisitato simpaticamente i grandi capolavori“disordinati” o affollati di cose e persone con una perizia e una pazienza certosina, grazie al ritocco fotografico. Alcuni esempi molto particolari: le donne di Seurat, realizzate con la tecnica del pointillisme (nota in Italia come divisionismo), sono state private dei puntini, i quali appaiono raccolti e imbustati nell’opera di Wehrli come un sacchetto di coriandoli; e l’affollato villaggio di Bruegel, caotico, pieno di gente, così soffocante che diventa un villaggio desertico e tutti i personaggi vengono “accatastati ” come rifiuti in un altra opera; e l’opera astratta di Haring composta da tanti pezzi, quasi una sorta di mosaico contemporaneo, è stata scomposta e ogni pezzo è stato catalogato per colore. Questa è solo una parte, il lavoro dello svizzero è da vedere perchè strapperà un sorriso agli appassionati di arte che vedranno le opere dei loro pittori rivisitate e completamente sconvolte.
Di seguito alcuni esempi:
domenica 8 aprile 2012
Resurrezione
Un augurio di una santa Pasqua dal blog con questa stupenda e poco conosciuta Resurrezione di Rutilio Manetti, del 1631, presso la chiesa di San Niccolò in Sasso, Siena, e con questa antichissima sequenza, il Victimae Paschali laudes che tradizionalmente viene cantata nella solennità di Pasqua.
venerdì 6 aprile 2012
I colori della Passione (The Mill and Cross) - Un film su Pieter Bruegel
Tra le sorprese cinematografiche di quest'ultimo periodo, per rimanere anche in tema col Venerdì Santo, segnalo questo film che dal trailer e dalle foto si dimostra assolutamente incredibile e visionario. Lo svedese Lech Majewski si è misurato in un’opera ambiziosa, I colori della Passione, con l’intento di entrare nel mondo complesso e misterioso dell’arte di Pieter Bruegel. The Mill and Cross (questo il titolo originale) è “ambientato” all’interno del quadro La Salita al Calvario di Bruegel il Vecchio, ed è un film che assottiglia in modo sorprendente la distanza tra realtà e sfera artistica. Tra le diverse recensioni voglio inserire questa uscita su Cineblog inserendo delle immagini, tratte dal film, veramente suggestive.
Prendete un dipinto, uno dei più famosi di sempre. Poi prendete un'idea, quella di dargli vita. Il risultato è quanto vediamo ne I colori della Passione di Majewski. Chi conosce il regista polacco sa in qualche modo a cosa va incontro dandosi ad un suo film. Majewski tratta il cinema con la stessa riverenza con la quale si approccia all’Arte, perché lui, è bene dirlo, è anche un pittore. Lui che fa parte di quell’arte moderna e contemporanea che mal digerisce, pur rientrando nella categoria. Un personaggio che vive di Arte, respira Arte e si interroga sull’Arte. Non si spiegherebbe diversamente questo suo ritorno alla metà del XVI secolo, quando il pittore fiammingo Pieter Bruegel completa una delle sue più importanti opere: Salita al Calvario. A riguardo eccovi due interessanti retroscena a bruciapelo. Il primo riguarda il rapporto tra Majewski ed il dipinto in questione. Quando era piccolo, il futuro regista era solito passare le vacanze estive a Venezia. Muovendosi in treno, gli capitava sistematicamente di fermarsi a Vienna, dove il Kunsthistorisches Museum rappresentava una tappa fissa di questo suo breve soggiorno. Si dà il caso che il quadro di Bruegel sia esposto in un’ala interna a quel museo. Ebbene, il diretto interessato racconta che già all’epoca si instaurò un particolare rapporto tra lui e quel dipinto che rivisita il Calvario di Nostro Signore. Osservandolo, creava storie inerenti a tutti quei protagonisti inconsapevoli. In nuce, I colori della passione era già lì.
Per la seconda curiosità, ci tocca fare un salto temporale di parecchi anni, al 2005. Quell’anno lo scrittore e critico d’arte Michael Francis Gibson ebbe modo di vedere Angelus. Colpito dalla sensibilità pittorica manifestata in sede di regia da Majewski, decise di consegnare a quest’ultimo una copia del suo libro The Mill and The Cross (Il mulino e la croce). Fu allora che lo stesso regista, a sua volta affascinato dalle formulazioni presenti in quell’opera, ebbe a coltivare un’ambizione: raccontare la Salita al Calvario di Bruegel mediante il mezzo cinematografico. Il contesto storico è importante, seppur non essenziale, per comprendere il messaggio. Il pittore di Breda, evidentemente sensibile a quanto stava avvenendo a suo tempo in terra fiamminga, vedeva nei tumulti dell’epoca qualcosa di molto vicino alla persecuzione. In ottica protestante è agevole comprendere a cosa alludesse Bruegel: così come i primi cristiani furono perseguitati dal Sinedrio negli anni in cui Cristo ancora predicava, al medesimo modo nel ‘500 era la Chiesa Cattolica a perseguitare i seguaci di Lutero. Con non poco estro e fantasia, quindi, decise di portare a termine una tela che descrivesse tutto ciò. Tale aspetto si scorge durante la visione del film, con un Bruegel (Rutger Hauer) in costante apprensione riguardo all’esito di questa sua missione per certi aspetti autoimposta. In una pellicola in cui a farla da padrone sono e devono essere le immagini, c’è davvero poco spazio per la parola. Basti pensare che per il primo dialogo dobbiamo attendere il trascorrere della prima mezz’ora. E’ bene evidenziare quanto appena rilevato, perché in relazione a quanto attiene agli intenti di Majewski, I colori della passione riesce pienamente. L’utilizzo della computer grafica non ha rappresentato un semplice vezzo artistico, bensì una condizione indispensabile per farci letteralmente entrare nel dipinto. Chissà quanti artisti nei secoli passati avranno almeno una volta fantasticato sulla possibilità di dar vita alle proprie opere. Senza ricorrere ad arzigogolate teorie sugli albori del cinema, in fondo lo stesso nacque alla luce di questa pressante esigenza, quasi un’ossessione, circa il movimento.
Ripreso in Nuova Zelanda, non si riusciva a farlo combaciare con quanto stava sotto. I più tecnici avranno un’idea di quanto appena riportato, ma quale che sia il grado di comprensione, sappiate che si è trattato di un lavoro immane. Certo, qualche rischio bisogna pur correrlo quando si punta così in alto. Ed infatti I colori della passione è come un carro trainato da cavalli in piena corsa: non è lui a fermarsi per lasciarvi salire, ma dovete essere voi abbastanza “abili” da saltare a bordo. Con questo, non pensate che il limite del film sia da ricercare nel frenetico svolgersi degli eventi, anzi! Come già accennato, passano più o meno trenta minuti per udire il suono di una frase di senso compiuto, ed in generale il film scorre con una certa lentezza. E’ il dazio che la pellicola di Majewski deve necessariamente pagare per arrivare a raggiungere il suo scopo. Anziché prediligere l’articolazione e la foga di una qualunque manifesto scritto, I colori della passione opta, giustamente, per i lunghi e martellanti silenzi di immagini che si susseguono in maniera nient’affatto casuale. Non a caso è difficile uscire dalla sala con un’idea ben precisa. Questo perché si tratta di una di quelle opere che pretendono di essere metabolizzate, e che non cedono a compromessi pur di chinarsi verso lo spettatore. Non un cinema artisticamente autoreferenziale, ma uno di quelli che tratta lo spettatore con un rispetto tale da esigere un piccolo sforzo per essere pienamente apprezzato. Fugaci ma intense le interpretazioni di Rutger Hauer, Michael York e Charlotte Rampling, ben integrati in un contesto da cui molto si desume e poco si può inequivocabilmente connotare. E’ questo il bello dell’Arte, quando lascia spazio alla libertà di chi ne partecipa in maniera tutt’altro che passiva. Quando si instaura quel gioco che ci spinge a ricercarne il senso, che non è mai banale e che brama di essere colto.
E se qualche perplessità permane è per la palese ammirazione manifestata nel film nei confronti di Bruegel. Così come il pittore fiammingo non volle protagonisti nel proprio quadro - nemmeno Gesù stesso - così Majewski non ha voluto che le storie da lui immaginate quando era un pargoletto ledessero a questa ferma volontà del pittore. Sì perché le storie di cui ci parla il regista, davvero brevi e tutt’altro che approfondite, non hanno in sé nulla di eccezionale. Potremmo semmai dire che sono eccezionalmente ordinarie. Ma ricordiamoci che il film non verte su una persona, un periodo storico o chi per loro. I colori della passione racconta di una tela, un dipinto che è il solo, vero e unico protagonista. Tutto ciò che troviamo al suo interno deve la sua esistenza alla presenza stessa del quadro entro cui si muove. Fuori da esso esiste, è vero, ma solo in funzione della “parte” che deve inconsapevolmente recitare in quell’eterno ed irripetibile istante.
Probabilmente non è poi così lontano il giorno in cui sarà possibile letteralmente vedere ciò che vedono gli altri quando si aggrappano alla propria immaginazione. Bene o male che sia, quindi, restiamo in sospeso all’idea di come sarebbe stato assistere a questo film così come Majewski lo ha esattamente immaginato. Ma poiché quel giorno ancora non è oggi, prendiamo atto di un lavoro encomiabile seppur tutt’altro che perfetto. Ed è proprio per questo che molti lo apprezzeranno visceralmente, mentre altri rimarranno tiepidi, ai limiti dell’indifferenza. Nonostante ciò, l’impatto visivo trascende qualsivoglia presa di posizione: tecnologia a servizio dell’Arte e non viceversa. Ci pare un ottimo punto d’approdo da cui immediatamente ripartire.
Inserisco i link ad altri articoli:
e suggerisco questa bellissima pagina da wikipedia che elenca tutti i film realizzati sugli artisti e sul mondo dell'arte. Per tutti gli appassionati di storia dell'arte e cinema una vera chicca.
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Pieter Bruegel
I paesaggi di Michelangelo e la "Roccia di Adamo"
Generalmente Michelangelo non viene ritenuto un grande paesaggista; i suoi sfondi sono spogli e brulli e c'è poco interesse per il dato naturale e la veduta. L'idea di fondo, come per il Caravaggio, è la difficoltà di cogliere attraverso la pittura, intesa come scienza, la natura umana; da qui l'impossibilità, a livello di speculazione, di indagare e cogliere la natura intera. Se è tanto difficile poter studiare un'anatomia o i moti dell'animo, figuriamoci poter comprendere le dinamiche del mondo intero. Ciononostante recenti ricerche hanno individuato i probabili luoghi descritti dal Buonarroti. I paesaggi del monte Penna sono gli stessi della Creazione di Adamo, del Tondo Doni, della Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo. Nella Creazione di Adamo si riconoscono perfettamente il profilo del Santuario de La Verna e le rocce su cui poggia semidisteso Adamo. Esse hanno una precisione quasi fotografica con quelle reali, tanto che il contorno del corpo coincide esattamente con i massi presenti ancor oggi sul luogo. Non è un caso che in luogo è conosciuto come Roccia di Adamo. Il paesaggio della Creazione di Adamo, si trova vicino alla podesteria di Chiusi della Verna, proprio dove soggiornava il padre dell’artista durante il suo mandato. La scoperta degli scenari michelangioleschi è stata fatta nel 2004 da Simmaco Percario, uno studioso di Michelangelo, e Alessandro De Vivo, un artista del luogo.
Monte della Verna |
Il paesaggio che fa da sfondo alla Creazione di Adamo, si può ammirare nei pressi della Podesteria di Chiusi della Verna, proprio dove soggiornava il padre dell’Artista durante il suo mandato. La somiglianza tra il paesaggio reale e quello riprodotto da Michelangelo nella Cappella Sistina è talmente forte da lasciar pensare che l’Artista abbia realizzato l’affresco tenendo conto di un disegno o di uno schizzo preparatorio preso direttamente sul posto. Infatti nell’opera non solo si riconosce il profilo del Santuario de La Verna, ma anche le rocce su cui poggia semidisteso Adamo hanno una precisione fotografica con quelle reali, tanto che il contorno del corpo coincide esattamente con i massi presenti ancor oggi sul luogo.
Roccia di Adamo |
lunedì 2 aprile 2012
Warhol rifiutato e ritrovato
Negli anni '50, le opere di Warhol venivano rifiutate dal Moma. Nel 1956, quando ancora era illustratore, Andy aveva fatto una collettiva al Moma e provò a entrare nella collezione lasciando alcune opere della serie sulle scarpe, oggi tra le più richieste sul mercato perchè tutte originali e uniche e non serigrafie. Certo, i tempi e il gusto erano differenti ma osservare questo documento col senno di poi non può che incuriosire e spiazzare.
E' invece di oggi, 3 aprile, la notizia di un disegno inedito del 1930 di Andy Warhol acquistato per cinque dollari a Las Vegas in un mercatino dell'usato. Il disegno, secondo gli esperti, vale circa due milioni di dollari. Infatti si è rivelata autentico (nonostante alcuni studiosi abbiano manifestato qualche dubbio). Il fortunato acquirente è un uomo d'affari inglese che ha detto di aver comprato il disegno da un tossicodipendente (!) la cui zia si era presa cura dell'artista quando era piccolo. Gli esperti ritengono che Warhol abbia disegnato l'illustrazione quando aveva 10 o 11 anni. Il disegno raffigura l'attore e cantante Rudy Vallèe, famoso negli anni Trenta, e porta la firma «Andy Warhol» be visibile in fondo sulla destra (nella foto, il disegno). Sempre secondo gli esperti, il disegno d'infanzia di Warhol può addirittura essere considerato come uno dei primi esempi di Pop Art americana, il movimento per cui l'artista stesso divenne famoso qualche decennio dopo. L'uomo d'affari inglese ha detto che non ha alcuna intenzione di vendere il prezioso disegno, bensì di volerlo mettere in mostra quanto prima. Nel frattempo, il nove maggio, sarà in vendita da Sotheby's a Londra, insieme con altre opere, un celebre capolavoro di Warhol: Double Elvis, ovvero una serigrafia-tributo a Elvis Presley, icona del rock'n'roll. Valore stimato, tra i trenta e i cinquanta milioni di dollari. Il record fissato da un'opera di Warhol ammonta comunque a settanta milioni di dollari: a questa cifra fu venduto Green Car Crash, della serie Death and Disaster, nel 2007, all'apice della crescita del mercato dell'arte contemporanea.
Al di la del dato storico, comunque, chi pagherebbe 2 milioni per un disegno così?
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