Questi brevi articoli di Christian Caliandro, usciti su Artribune, sono riflessioni circa il concetto di Apocalisse nella nostra era post-moderna e prendono spunto da eventi naturali, quando la natura sembra eccedere la patinata finzione cinematografica, o da riflessioni filmiche e letterarie. Emerge un'impressione di progressiva disgregazione, di accettazione dell'eccesso ma anche di anestetizzazione sensoriale per cui l'apocalisse, sempre più contaminata dalla politica, non sarebbe nient'altro che una diverso stato, o modalità, del nostro mondo.
In questi giorni il Giappone – e, in modi certo più blandi, il resto del mondo – è percorso dalla “Grande Paura”. Attraversato dall’idea dell’apocalisse. A noi il compito di parlarne. E magari di discuterne. E così si (ri)apre la rubrica “inpratica”, diretta da Christian Caliandro.
Fa specie scoprire, per esempio, che a fronte delle enormi difficoltà e privazioni materiali, alcuni giapponesi, più o meno giovani, scoprano il desiderio fortissimo di immaginazione e di narrazione: “Più dei manga, ora vorrei un romanzo, un racconto di fantasia perché la realtà è troppo dolorosa. Sono forse egoista?” (tweet di shohei0308, 13 marzo 2011).
Hiroki Azuma è autore di Generazione Otaku, un’indagine a tutto campo, di carattere anche sociologico e antropologico, della più vasta, profonda e articolata “sottocultura di massa” del pianeta. Otaku designa letteralmente la cultura dello “stare in casa”, nutrita di iper-alfabetizzazione tecnologica e comunicazione costante: “L’assenza di comunicazione è diventata un pensiero fisso. Una sensazione mai provata per quelli come me abituati a essere eternamente connessi. Ero in luogo aperto, insieme a molte altre persone, ma mi sentivo improvvisamente solo. Come se il black-out nelle comunicazioni fosse già un principio di morte” (La Repubblica, 14 marzo 2011).
Non è un caso che questa produzione culturale si nutra fin dalle sue origini – oltre che naturalmente della grande tradizione artistica e grafica nazionale: Hokusai docet – di un immaginario apocalittico, per così dire, “di prima mano”. A partire da Godzilla, infatti, fino a Mazinga, Kyashan e Ken il Guerriero, tutti i mostri, i robot e gli eroi popolari della cultura manga si inseriscono in un orizzonte di distruzione termonucleare. Un orizzonte al tempo stesso di memoria (Hiroshima e Nagasaki) e di possibilità. Uno scenario.
Il capolavoro di questo genere, Akira (Otomo 1988), basato sul fumetto omonimo, è ambientato in una Tokyo sconvolta dalla terza guerra mondiale (Neo-Tokyo), infestata da bande di teppisti in motocicletta e tormentata da una gravissima crisi politico-economica e da un conflitto sociale senza precedenti.
Non sappiamo ancora che ne sarà di Fukushima (già trasformata peraltro in luogo semi-mitico, ritratta in quelle fotografie che sembrano già immagini di un futuro disumano, vibranti di uno sfarfallio malevolo e intrise di una minaccia tanto spettrale quanto incombente) e di questo splendido, civilissimo popolo (un po’ troppo ossessionato, per la verità, dai concetti di vergogna e di colpa – al punto da fornire per giorni informazioni incomplete, se non palesemente false, su un incidente che rischia di trasformarsi in catastrofe globale).
Sappiamo però che, accanto alla ricostruzione fisica, materiale, procederà spedita quella immateriale. Gli artisti e gli autori giapponesi ci hanno allevato negli scorsi decenni dal punto di vista intellettuale e immaginario; ci hanno addestrato a visualizzare la fine. Insieme, ovviamente, alle versioni occidentali della post-apocalisse: dall’inferno dantesco di Zombi (Romero, 1978) alle strade di morte di Mad Max 1 e 2(Miller, 1979 e 1981), dai devastati dedali urbani di 1997: fuga da New York (Carpenter, 1981) all’Armageddon effettivo di The Day After (Meyer, 1983). E poi le declinazioni più recenti, dal remake Dawn of the Dead (Snyder, 2004) al modesto I am legend(Lawrence, 2007), fino alle serie tv Jericho (CBS 2006-08) e The Walking Dead (AMC 2010-), basata sulla graphic novel di Robert Kirkman.
I nuovi artisti sapranno dare forma ai loro e ai nostri terrori collettivi, creando un mondo pauroso e fantastico, oscuro e terminale. Che rifletta secondo modalità meravigliosamente crude le nostre civiltà in perenne declino e in continuo disfacimento. Immaginare visivamente e narrativamente la fine, nel 2011. Ma prima: sopravvivere.
Si dice ‘zombie’ e si pensa ai morti viventi eternati da George Romero. Horror e basta, come in certi romanzi di Stephen King? Assolutamente no. Perché lo zombie, quello apocalittico, è il rimosso della società spettacolare. E torna, eccome se torna…
Esiste però qualcosa che la narrazione apocalittica non può permettersi.
Non può mostrare alcun collegamento con la condizione storica
e collettiva che la incrementa o la ingenera,
con quella depressione di cui gli economisti temono di fare il nome.
Helena Janeczek, Depressione
(Nazione Indiana, 24 novembre 2011)
Potrà nascere in avvenire una letteratura totalitaria,
ma sarà completamente diversa da qualsiasi cosa
noi si possa oggi immaginare. La letteratura, come noi la conosciamo,
è un fatto individuale, che esige onestà mentale e un minimo di critica.
George Orwell, Nel ventre della balena (1940)
Gli zombie sono il cambiamento. Fu così nel 1968, quando Night of the Living Dead diGeorge A. Romero trasportò il cinema – non solo horror – in una dimensione ulteriore, fondendo rappresentazione documentaria e allegoria culturale, tra mutazione sociale e presenza/assenza della guerra in Vietnam. E lo fu, ancora di più se possibile, dieci anni dopo, quando il sequel Dawn of the Dead fornì l’archetipo per il ritratto della fine occidentale: l’implosione del dispositivo spettacolare, il rispecchiamento definitivo tra i morti viventi e i vivi morenti, la disintegrazione dell’ordine collettivo a partire dalle relazioni sociali ed economiche. Il mall come sistema concentrazionario contemporaneo.
Questa è stata la base per lo sviluppo degli zombie al tempo della crisi. Ad opera, certo, dello stesso Romero (autore di una vera e propria Commedia postmoderna, che segue l’involuzione storica dell’Occidente in tutte le sue fasi: dal cupissimo Day, 1986, al marxista Land, 2005, dall’ipertecnologico Diary, 2007, allo “shakespeariano”Survival, 2010); ma anche di autori giovani e nuovi, che hanno declinato il tema nel contesto attuale. Non solo registi, come lo Zack Snyder del remake adrenalinico – e tutto sommato decorativo – di Dawn of the Dead (2004) o il Ruben Fleischer della commedia grottesca Zombieland (2009).
Ma anche e soprattutto scrittori, che connettono la tradizione “zombesca” ai suoi risvolti più attuali. Lo Stephen King di Cell (2006), ad esempio, attualizza L’ombra dello scorpione (1978) raccordando la fine del mondo alla società delle comunicazioni.Robert Kirkman, nella graphic novel The Walking Dead, divenuta poi serie televisiva di culto per il canale AMC, sviscera l’apocalisse nei suoi aspetti più intimistici e psicologici: la fine è prima di tutto fine dell’uomo, delle emozioni, dei rapporti affettivi tra gli individui.
Le paure comuni, al tempo della crisi, si situano esattamente negli interstizi tra solitudine crepuscolare e globalizzazione selvaggia, tra cultura digitale e ritorni a schemi primitivi di dominazione. Gli zombie sono così, ancora oggi e chissà per quanto, una delle metafore più potenti a disposizione dell’immaginario collettivo. Da una parte, secondo la logica del rispecchiamento, sono i cittadini-consumatori, svuotati ed estenuati prigionieri di una sorta di distopia sociale installata negli stessi cervelli. Morti. Ma, al tempo stesso, sono un’allegoria del presente in senso diverso, e opposto: rappresentano il cambiamento, la trasformazione. La rivoluzione. Lo zombie è l’elemento incontrollabile, imprevisto e basico che mette in scacco un intero ordine che si credeva indiscutibile e insostituibile. Lo zombie è una funzione – misteriosa – della novità. È lo Sconosciuto che bussa alla porta della Storia, spinto dal bisogno elementare.
Lo zombie è, addirittura, la critica stessa: nel momento stesso in cui è la figura fondamentale dell’Altro, del rimosso. Uno “scarto” totale che si ostina a sopravvivere, e a minacciare i cosiddetti vivi: uno scarto che pensa in modo diverso e laterale, uno scarto radicale e resistente. La zombie apocalypse – genere narrativo e immagine sintetica al tempo stesso – sta per la ribellione.
Così, lo zombie è l’annuncio di una nuova era, di una nuova specie, di un nuovo ordine – materiale, mentale, culturale – che sovverte e soppianta quello precedente. E che funziona secondo regole e convenzioni completamente differenti. È per questo, forse, che anche gli zombie sono apparsi a un tratto a Wall Street: la protesta dei morti viventi (vale a dire: tutti noi ) contro un mondo morente che pretende di controllare l’esistenza collettiva.
Terza puntata del saggio di Christian Caliandro sul concetto di apocalisse. La fine del mondo può essere raccontata o è per sua natura indescrivibile? E che rapporto c’è tra apocalisse, tensione e nostalgia? Riflessioni sulle macerie del presente e quelle del futuro.
“Al futuro. Che riposi in pace.”
Jericho, serie tv (2006)
L’ossessione nostalgica del passato (anche di quello non vissuto direttamente) assume anche un’ulteriore declinazione, proiettata in avanti. Nel futuro. In particolare, in un futuro-senza-futuro costruito con gli scarti e le rovine di un’epoca morta, adatto perciò a tempi di crisi, di trasformazione e di profonda incertezza come quelli attuali – e come altri precedenti – rispetto a versioni più utopiche e ottimiste.
Il sentimento apocalittico è una tensione, dato che la Fine del Mondo vera e propria, al di là dei riferimenti generici e sbrigativi, sembra in fin dei conti ben poco consona ad un’epoca come la nostra in cui, come scriveva Marco Belpoliti, viviamo costantemente una fine “che non finisce di finire” (Crolli, Einaudi 2005, p. 130). Allora, molto più indicato appare lo spirito della post-apocalisse: ciò che succede, in particolare agli esseri umani e alle loro vite, dopo il disastro. Il fascino di questa proiezione era stato individuato – già ai suoi albori nell’epoca contemporanea, in piena era atomica – daPhilip K. Dick: “Invece di scrivere storie sulla catastrofe imminente, forse dovremmo dare la catastrofe per avvenuta e partire da lì…” (Pessimismo e fantascienza, 1955, inMutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli 1997, p. 89).
La post-apocalisse, dunque, come proiezione in avanti. Ma di che cosa? Dei nostri incubi, certo, ma non solo. L’apocalisse vera e propria non può essere raccontata, in definitiva, perché verrebbe meno lo sguardo che possa testimoniare: il postulato di fondo dell’apocalisse è che il genere umano sia estinto, e che il mondo, ammessa e non concessa la sua sopravvivenza, continui senza di noi su scale temporali incommensurabili. L’apocalisse è, per definizione, indescrivibile. Per questo, sono rarissimi i testi – eccezion fatta, e non a caso, per quelli sacri e millenaristici, in cui il punto di vista è contemporaneamente interno ed esterno agli eventi – che ne parlano direttamente; ed ecco anche perché quasi tutti i prodotti culturali contemporanei comunemente e un po’ sbrigativamente indicati come ‘apocalittici’ sono, più precisamente, post-apocalittici. Una letteratura o un cinema compiutamente apocalittici, infatti, non sono esistiti se non in rarissimi casi (almeno fino a questo momento), per il semplice fatto che in essi non esisterebbe più nessuno a portare avanti concretamente il racconto.
Allora, è proprio la nostalgia ad essere declinata al futuro nel sottogenere post-apocalittico: la post-apocalisse è la nostalgia del presente. Questo processo ricorda da vicino la contemplazione malinconica e romantica delle rovine descritta, per esempio, da Christopher Woodward. Egli individua uno dei prototipi di questo genere in un’incisione di Gustave Doré del 1873, che ritrae un neozelandese davanti alle rovine della cattedrale di St. Paul e della stazione di Cannon Street, un vero esempio di proto-fantascienza post-apocalittica: “L’uomo sta disegnando le rovine della cattedrale di St. Paul, esattamente come i vittoriani disegnavano i ruderi dell’antica Roma. L’edificio diroccato simile a una cattedrale vicino al magazzino merci è la stazione di Cannon Street, nuova di zecca nel 1873 ma qui immaginata con i pilastri in ghisa del ponte corrosi dalla ruggine, nella fanghiglia creata dalle maree. Quando contempliamo delle rovine, osserviamo il nostro stesso futuro” (In Ruins, 2001; trad. it. Tra le rovine, Guanda 2008, p. 10).
Così, in quasi tutti i romanzi, i film, i dischi e i video musicali post-apocalittici, uno spazio importante, centrale è dedicato alla considerazione assorta e malinconica degli oggetti, residui e rovine di un mondo perduto per sempre. Un paio di esempi presi a caso: “Scommetto che questa il topo non saprebbe suonarla nemmeno fra mille anni, si disse. Dico, questa è praticamente musica sacra, musica del passato, del nostro sacro passato, che né animali di genio, né gente strampalata può apprezzare. Il passato appartiene soltanto a noi, esseri umani autentici. Come vorrei poter fare come Hoppy… vorrei poter andare in trance, ma non per vedere il futuro, io vorrei tornare nel passato. Quel pensiero lo fece sussultare” (Philip K. Dick, Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb, 1965; trad. it. Cronache del dopobomba, Einaudi 1997, p. 126).
Oppure: “Quando penso a un mondo senza neppure un essere umano, immagino – e chi non lo fa? – enormi templi e cattedrali, palazzi e castelli che sopravvivono ai secoli deserti, la British Library, aperta poco prima di Omega, con libri e manoscritti conservati con cura che nessuno leggerà mai più. Ma in fondo al cuore mi commuove soltanto il pensiero di Woolcombe, l’odore delle sue stanze umide e vuote, i pannelli che marciranno nella biblioteca, l’edera che si arrampicherà sui muri sgretolati, l’erba che nasconderà la ghiaia, il campo da tennis, il giardino abbandonato; mi commuove il pensiero di quella piccola camera da letto sul retro, che rimarrà immutata e disabitata fino a quando il copriletto finirà per squarciarsi, i libri per sbriciolarsi e anche l’ultimo quadro per staccarsi dalla parete” (P. D. James, The Children of Men, 1992; trad. it. I figli degli uomini, Mondadori 1993, pp. 35-36).
Cosa c’è “dopo” l’apocalisse? Quando tutto è irrimediabilmente perduto e niente potrà mai tornare come prima? Forse solo confusione e anarchia. E le visioni che oggi la raccontano sono forse solo proiezioni del presente.
“Aprendo la loro sacca, i bambini gridano in coro: ‘Oh, Uomo delle Nevi, cosa abbiamo trovato?’ tirano fuori gli oggetti, li tengono sollevati come se li mettessero in vendita: un coprimozzo, un tasto di pianoforte, un coccio di bottiglia da bibita verde pallido levigato dall’oceano. Un flacone in plastica di BlyssPlus, vuoto; un Cestino di Pepite di pollo ChickieNobs, idem. Un mouse, o quanto ne rimane, dalla lunga coda flessibile. Uomo delle Nevi ha voglia di piangere. Cosa può dire loro? Non c’è modo di spiegare cosa siano, o cosa fossero, quegli oggetti curiosi. Ma hanno senz’altro indovinato cosa dirà, perché si tratta sempre della stessa solfa. ‘Queste sono cose del passato’. Mantiene una cadenza gentile ma assente. Una via di mezzo tra il maestro, l’indovino e lo zio bonario: quello dovrebbe essere il suo tono” (Margaret Atwood, Oryx and Crane, 2003).
Gli oggetti descritti sono i nostri oggetti, il mondo in rovina è il nostro mondo. Si tratta di un esercizio nostalgico, di una forma di straniamento che pratica in forma narrativa quella “archeologia del presente” di cui parla, per esempio, Fredric Jameson. La post-apocalisse costituisce l’occasione per costruire una storia che è di fatto un modulo, sempre uguale a se stesso ma con possibilità infinite di variazione: quella di un gruppo di sopravvissuti in un mondo improvvisamente ostile, in cui le regole e l’ordine precedenti sono stati irrimediabilmente stravolti.
La post-apocalisse è infatti molto più di un dopo-catastrofe. Una catastrofe, un disastro, sono limitati nello spazio e nell’entità distruttiva: altrove, la vita prosegue infatti come sempre. La catastrofe è un evento, all’interno di un quadro complessivo che rimane sostanzialmente inalterato dal suo accadere. La post-apocalisse invece sconvolge e riordina parametri, paradigmi e punti di riferimento. La post-apocalisse mette cioè in questione l’intero mondo, perché in questo caso la catastrofe è globale e non esiste più alcun ‘altrove’ verso cui rifugiarsi o da cui aspettare aiuti e soccorsi. Nessuna civiltà con cui ricongiungersi. Ognuno è costretto a cavarsela da solo, e il mondo non saràmai più come prima: questi sono gli assunti basilari della condizione post-apocalittica, e probabilmente i motivi principali del grande fascino che esercita su lettori e spettatori, soprattutto in momenti di grave crisi economica e sociale. Di fatto, è come se la letteratura, il cinema e la musica che appartengono a questo sotto-genere fissassero da una parte le paure e le proiezioni collettive, e dall’altra fornissero una sorta di manuale, di potenziale “libretto delle istruzioni”. Come afferma lo scrittore di fantascienza John Varley, “segretamente, siamo convinti che noi sopravviveremo: saranno gli altri a morire”.
Ugualmente, il filone post-apocalittico è profondamente diverso da quella distopico (sebbene possa avere con esso dei punti di contatto significativi): la distopia racchiude comunque una forma di ordine, per quanto perversa, ingiusta, distorta. Generalmente, essa si basa sul rigido controllo sociale – l’ingegneria sociale di 1984 e dei suoi mille epigoni -, ma la tenuta del sistema è nel suo complesso garantita da una forma grottesca di organizzazione istituzionale. Nella post-apocalisse, al contrario, regna la più completa anarchia: dopo un disastro globale che l’ha quasi annichilita, l’umanità tende a riorganizzarsi in forme spontanee, spesso crudeli. La società regredisce al suo stadio più primitivo, quello della mera sopravvivenza.
Del resto, ogni epoca di grande trasformazione è catturata dalla fascinazione per il tema della post-apocalisse: è avvenuto dopo la Rivoluzione Francese, alla fine del XIX secolo e negli anni immediatamente precedenti alla Prima Guerra Mondiale, negli anni Trenta, negli anni Cinquanta e a cavallo tra anni Settanta e Ottanta del XX secolo. Sta accadendo anche ora, dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, due guerre iniziate ma non ancora finite e una crisi globale della quale, per ora, non si intravede la fine.
Dunque, si può ipotizzare che dietro la creazione di versioni alternative della fine del mondo da parte di periodi significativi ci sia un intento preciso di descrizione, di testimonianza, di realismo. Ogni post-apocalisse prefigurata è la rappresentazione di quella che sta avvenendo nella realtà del proprio tempo. Perciò, la post-apocalisse non serve solo a esorcizzare un timore per ciò che può accadere, ma a proiettare ciò che sta già accadendo.
Nuova puntata del nostro saggio sul tema dell’apocalisse. Christian Caliandro ci riporta indietro nel tempo, per capire come la nostra idea della “fine del mondo” si sia formata e sia cambiata nei secoli. Da Mary Shelley a James Ballard.
Il punto di partenza obbligato di ogni percorso che si avventuri nel racconto dei vari modi in cui la nostra cultura ha raccontato la fine del mondo è L’ultimo uomo (The Last Man, 1826) di Mary Shelley, che rappresenta il momento fondativo dell’apocalisse moderna, seguito a distanza di settant’anni dalla conclusione de La macchina del tempo (1895) di H. G. Wells, e soprattutto da Il morbo scarlatto (1912) di Jack London, esempi di una civiltà che presagisce la sua fine imminente e violenta. In Italia, l’ultima pagina de La coscienza di Zeno (1923) di Italo Svevo fonda una “tradizione favolistico-catastrofica” (Zinato) che proseguirà nella letteratura italiana, con alterne fortune, lungo tutto il Novecento: “Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
Bisogna attendere però il secondo dopoguerra e gli anni Cinquanta, il “decennio atomico”, perché la post-apocalisse assuma i tratti e le caratteristiche formali che ci sono tuttora familiari: la paura della Guerra Nucleare informa così romanzi diversissimi tra loro come Il giorno dei trifidi (The Day of the Triffids, 1951) e The Chrysalids (I trasfigurati, 1955) di John Wyndham, Paria dei cieli (1957) di Isaac Asimov e L’ultima spiaggia (On the Beach, 1957) di Nevil Shute, oltre ovviamente ai film di fantascienza, da Quando i mondi si scontrano (When Worlds Collide, Rudolph Maté 1951) aUltimatum alla Terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise 1951), fino a La guerra dei mondi (The War of the Worlds, Byron Askin 1953) e soprattutto alla trasposizione cinematografica de L’ultima spiaggia (Stanley Kramer 1959). Il concetto stesso della fine di tutto arriva a identificarsi potentemente con la Bomba, assumendo un altissimo valore simbolico all’interno della cultura popolare, destinato a durare decenni e ad evolversi.
Io sono leggenda (I Am Legend, 1954) di Richard Matheson costituisce invece un caso a sé, dal momento che aggiorna il mito dell’ultimo uomo sulla terra producendo, da solo, una sequenza intera di altri oggetti narrativi: L’ultimo uomo sulla terra (1964) diUbaldo Ragona, 1975: Occhi bianchi sul pianeta Terra (The Ωmega Man, 1971) di Boris Sagal, Io sono leggenda (I Am Legend, 2007) di Francis Lawrence. Ma, soprattutto, influenzando enormemente George A. Romero nella costruzione de La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968).
È però con la new wave fantascientifica degli Anni Sessanta e Settanta che il tema post-apocalittico acquista tutte le sue implicazioni sociali e culturali, sganciandosi progressivamente dalla connessione più o meno esplicita con la Guerra Fredda e analizzando l’impatto di un evento catastrofico globale nell’inner space dell’essere umano . Il punto di partenza in questo caso è la quadrilogia composta da James G. Ballard, in cui i quattro elementi disegnano differenti scenari catastrofici: Vento dal nulla (The Wind from Nowhere, 1961), Il mondo sommerso (The Drowned World, 1962),Terra bruciata (The Burning World, 1964) e Foresta di cristallo (The Crystal World, 1966).
È forse Thomas M. Disch che in Gomorra e dintorni (The Genocides, 1965) riesce ad ottenere, a questa altezza, il più splendido esempio di apocalisse ‘godardiana’. La narrazione si serve infatti di pochi, essenziali elementi (le Piante gigantesche, i paesaggi sempre più desolati, l’atmosfera da racconto biblico) per descrivere la posizione sempre più disperata degli esseri umani, in un contesto che non li prevede più, fino alla scena finale, congelata attraverso l’associazione a un dipinto quattrocentesco: “I superstiti, tra il verde uniforme della pianura, facevano pensare alle tavole in prospettiva dei pittori rinascimentali. Le tre figure più vicine, che si trovavano a metà del quadro, formavano una specie di Sacra Famiglia, ma osservandole attentamente si scopriva che i tre avevano un atteggiamento ben diverso dalla serena felicità di una Sacra Famiglia. La donna, seduta a terra, piangeva disperatamente, e l’uomo, inginocchiato accanto a lei, riusciva a stento a trattenere le lacrime. La loro attenzione era concentrata sul piccolo bambino stretto tra le braccia della madre e che succhiava inutilmente un petto inaridito.
Un po’ più lontano, un’altra figura, che ricordava Niobe, stringeva tra le braccia lo scheletro del figlio, un bambino di una decina d’anni. I capelli rossi della donna formavano uno strano contrasto col mantello verde che copriva la terra intera.
La terra intorno era tutta verde e si stendeva a perdita d’occhio. Su ogni metro quadrato di terreno prosperavano centinaia di Piantine che erano tutte esattamente identiche l’una all’altra.
La natura è prodiga. Su cento semi, uno o due soltanto hanno la probabilità di sopravvivere, e, su centinaia di specie, una o due soltanto si salvano.
Comunque, non l’uomo.
Infine, neppure la luna risplenderà, né le stelle saranno al Suo cospetto.
E cosa dunque ne sarà dell’uomo, che è un verme?
E del figlio dell’uomo, che è un piccolo verme?”.
Christian Caliandro
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