lunedì 4 luglio 2011

La svalutazione del critico d'arte

Riporto dei passi dall'articolo della critica ed estetologa Anita Tania Giuga (Italia, il paradiso perduto dell'arte) che, amaramente, raccontano la difficoltà di un mestiere che non trova riscontro nella realtà concreta e che può lasciar molti sospesi nell'incertezza di un futuro, nel tentativo di una sicurezza, tra l'amore per la materia e lo sconforto di un sistema chiuso ed autoreferenziale. La svalutazione dell'arte e la sua crisi passano anche attraverso questi meccanismi.

La svalutazione dello storico dell'arte

Ora, è anomalo, di un'anomalia tutta italiana, che si debba essere ricchi e di nobil casato per sviluppare una professione che, in teoria, possiederebbe tutti i requisiti per presentarsi fra le più ovvie da scegliere. Allorché, si manca di proposte e volontà politica, in un paese che celebra e ostenta un'eredità secolare di Beni architettonici e artistici, pari al 50% dell’intero patrimonio nazionale. Tuttavia, mentre lo storico dell'arte è una qualifica che può essere accertata e inserita, a livello concorsuale, nelle sovrintendenze, dopo la laurea canonica “tre più due” e un triennio di specializzazione in Storia dell’arte; il critico, al contrario, non esiste. Proprio così! Abbiamo studiato per un ruolo sociale inesistente, che obbliga chi può contare sulla sola professionalità, a scendere a compromesso sempre e comunque, svendendo competenze in cambio di visibilità. Questo vuole dire, in parole povere, redigere un intero catalogo per un celebre museo ed essere retribuiti poco più di quattrocento euro; rispondere alle richieste sempre più esigenti di una notissima responsabile di un’altrettanto conosciuta associazione culturale, per non raccogliere né compensi né ringraziamenti né opportunità di carriera e nemmeno copia del libro in cui è stato pubblicato il lungo intervento redatto dal professionista “anonimo”.
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Chi scrive, raggiunto questo punto di confidenza è bene dichiararlo, è una ricercatrice indipendente che si è lasciata attrarre dall'arte come fosse il canto delle sirene. Fino da bambina, fino da quando ha memoria di avere compiuto un atto determinato e consapevole.
Mi dicono che l'arte, la cultura, la possibilità di declinare il tempo secondo piacere e passione, è assimilabile sempre più al fashion, quindi al potere d’acquisto che la ricchezza conferisce. Io ci sono riuscita. Almeno per dieci lunghi anni. Grazie alla famiglia, riluttante ma complice, e agli amici più cari, che sempre hanno creduto nelle mie doti intellettuali.
Certo è che l'avventura, il periplo attorno al promontorio dell’arte contemporanea si è dipanato in maniera romanzesca, per almeno tre motivi condivisi da molti: sono siciliana, provengo da un ambiente piccolo borghese, le mie risorse finanziarie sono tutt'altro che illimitate. Ogni giorno quelli come me hanno l'obbligo di domandarsi se producono contenuti accessibili a tutti. Ogni giorno quelli come me sono costretti a chiedersi se il decennale e poco documentabile investimento in cultura non sia stato una frode. Inutile, nonché dannoso, citare l'assenza di meritocrazia e di presente, badate bene, non di futuro. Io, però, avendo contravvenuto al comandamento dell’ubbidienza nei confronti del mio tutor, che mi voleva complice e artefice di cene piuttosto che brava teorica, dal 23 dicembre 2009 mi sono trovata costretta a portare avanti una personale battaglia, venata da una forma privatissima di resistenza passiva.

Meriti a parte
Tutto ciò, per mantenere aperto un iter universitario, che mi ha sorretto sino a dicembre 2010, permettendomi, grazie a una borsa di studio vinta per il summenzionato Dottorato di ricerca in Estetica e Pratica delle Arti (Università di Catania, XXIV ciclo, già soppresso), di continuare a dedicarmi alla punta più sperimentale del contemporaneo. Solo questa negletta vittoria ministeriale mi aveva consentito, infatti, di raddoppiare gli sforzi, oltre che incoraggiare una minima mobilità, benché dopo lunga malattia mi sia trovata privata del sussidio e sotto procedimento di esclusione dallo stesso Dottorato (procedimento che si è concluso il 13 maggio 2011 con un decreto di esclusione definitiva).
Riassumere i punti del disagio culturale che la mia generazione sta vivendo, come si può constatare, non è cosa semplice, né univoca. E soprattutto rischia di diventare un memoriale privo di interesse, se i numeri di quelli che si dedicano ancora alle discipline umanistiche non fosse pericolosamente elevato.
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Giacché, non sarà il corporativismo la soluzione, se mai in Italia fosse venuto meno. Ciò nondimeno, servirebbe l’abolizione di una forma compulsiva di ricorso alla parola e alla pratica dello stage e alla riconoscibilità coatta, non mi stanco di ripeterlo, come corvée: un servizio di fatica che i graduati dell’esercito della cultura assegnano ai soldati semplici. Gioverebbe un riordino e il recupero di un’idea di professionalità da inserire nella Pubblica amministrazione e nei poli museali, innovativa e veramente flessibile. Così, invece che fare scappare all’estero le nuove leve, ci si potrebbe risolvere ad ammettere che la cultura paga se solo fosse internazionale come il pistacchio di Bronte e la mozzarella di bufala! [...]

Il rischio hobby
Abbiamo lasciato che altri trasformassero il nostro futuro, dice sempre la mia amica, e non è possibile darle torto. Insomma, per potere dimostrare di essere critici d'arte non vi è un titolo, né un qualsivoglia tesserino che ne dimostri l’esercizio e l’autorità. Inoltre, il "sistema Italia” non investe né punto né poco in chi si propone di formarsi nei mestieri trasversali dell’arte, magari con un'apertura di credito restituibile al primo lavoro vero, come avviene nei paesi anglosassoni. Così, per resistere in questo mondo esplosodell'arte contemporanea è poi necessario scrivere e lavorare senza cachet e sine die, con l'unica speranza (esasperata ed esasperante) che la visibilità (questa parolaccia) torni in ingaggi e ruoli significativi, retribuiti a sufficienza per pagarsi da vivere. C’è del dolo e dell’incuria in tutto ciò… Dato che se non sussiste retribuzione non può nemmeno esserci lavoro, che per essere chiamato tale abbisogna di riferirsi a un indice retributivo, altrimenti la categoria di riferimento diviene più prossima al puro svago, all’hobby, all’aberrazione nel senso del tempo non certificabile e della sua ipoteca perenne in una qualche attività non proprio identificabile.
Vi sono due ulteriori punti focali. Ovvero, l'interesse che il mondo contemporaneo, sempre più autonomo nello scegliere, può avere nei confronti di un "personaggio" che si arroga il diritto di sapere operare una distinzione tra il grano e il loglio.
L’altro, non meno importante, è il tema della verità nell'arte; antico qualche migliaio d’anni, che la critica sfiora di continuo fino a farne una metafisica.
Più semplicemente, oggigiorno, il senso del nostro ruolo sta tutto nel Sistema dell’arte, e nella legittimazione di cui il sistema economico si serve per vendere meglio l’artista.

E il “Sistema” è chiuso nell’esercizio assiomatico e quasi massonico di lobbyes di potere, che premiano i
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commensali e non le eccedenze esogamiche. Come avviene per gli ex MBA (Master in Business Administration) i quali hanno l’obbligo di assunzione verso altri MBA ex students. A dirla tutta, chi partecipa al banchetto possiede anche il tavolo: con diritto di prelazione sui fornitori.
Altro problema, lasciatemelo sostenere, ben più radicale, concerne la predetta formazione. La terribile impostura in termini professionali e didattici che questa stessa vituperata formazione alla critica d’arte comporta.
Il curatore ha, è vero, al contrario, un ruolo concreto e di ordine sostanziale: mette in piedi l'allestimento delle mostre seguendo un concetto. Il "giovane curatore" ha anche imparato le caratteristiche dei materiali, la forza del progetto, l'ambivalenza tra significante e significato e la utilizza, per rendere l’esposizione un organismo vivente (nel migliore dei casi). Non temo divagazioni insomma, e mi auguro di non risultare ridondante, quando cerco legittimazione, pur ammettendo le asperità di un linguaggio critico disancorato dalla realtà, e distante dal forse superato ruolo di saldatura fra intellettuali e gente comune, tanto da apparire ostico e autolesionista. Ma il problema esiste, che si voglia regolarizzare, o meno, una figura dalle troppe ombre, resta un dato: l'università, il D.A.M.S. capofila, ci forma come esperti, esattamente come si va dal dentista per farsi curare un dente e non da un rappresentante politico, e ci butta nel mare indistinto dell'invenzione di un mestiere, senza regole né albi.

Le qualità artistiche
Personalmente ho anche sperimentato con un discreto successo di virare alla volta del giornalismo culturale, tuttavia l'annoso dato della mancanza di "rispetto" economico per i lavori della penna resta. Così, quelli come me si dibattono imprigionati nella favola che chi si occupa d'arte, come diceva Croce, dovesse aver le terre...
Capire quel che si guarda è poi una mera questione di esercizio. Se l’artista imbroglia o c’è “del buono che dura”; se l'esaminato porta con sé qualcosa di più essenziale del giochino linguistico, che molti avventizi cavalcano, e di cui, scrivendo, sviluppo la storia e la poetica, le ragioni e la prassi, i processi e i cedimenti a un surplus estetico... Insomma, non so se sono utile né, meno che mai, necessaria; eppure, pur essendo sovra visibile, non esisto.

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