martedì 5 ottobre 2010

Ebbrezze - XXIX edizione della mostra d'arte contemporanea - Macchia d'Isernia


In occasione della XXXVII della mostra mercato vino pentro, con il patrocinio del Comune di Macchia d’Isernia, Associazione Macchi Domani, Pro-Loco Macchia d’Isernia, Melfi Solare, dal 9 al 10 ottobre 2010 la palestra comunale ospiterà la mostra EBBREZZE, curata da Tommaso Evangelista (l'evento su facebook). Esporranno gli artisti:

>> Enza Acciaro
>> Valeria Acciaro
>> Alessandra Antinucci
>> Michelino Altieri
>> Nino Barone
>> Arturo Beltrante
>> Michele Carafa
>> Cleofino Casolino
>> Lino Cianchetta
>> Salvatore Costa
>> Luciano Cristicini
>> Marcello Di Donato
>> Lucia Di Miceli
>> Fabrizio Di Salvio
>> Ferdinando Fedele
>> Walter Giancola
>> Dante Gentile Lorusso
>> Nicola Macolino
>> Antonio Marcovicchio
>> Elena Maglione
>> Antonio Pallotta
>> Sara Pellegrini
>> Antonella Peluso
>> Alessandra Peri
>> Michele Peri
>> Luca Pop Pontarelli
>> Adolfo Pretorino
>> Nazzareno Serricchio
>> Danilo Susi
>> Antonio Tramontano
>> Cristina Valerio
>> Lucio Valletta

Ebbrezze d’arte 


L’arte e il vino da sempre hanno costituito un binomio fecondo nella storia della cultura. Le civiltà del Mediterraneo, quella greca prima e romana poi, si possono giustamente definire civiltà del vino in quanto culle della tecnica della viticoltura; la bevanda, inoltre, è stata sempre carica di implicazioni religiose e culturali che, sin dalle epoche più remote, hanno portarono a una vastissima serie di raffigurazioni che raccontano di divinità, riti e feste. La mitologia ascrive a Dioniso (Libero o Bacco per i romani) la scoperta del vino mentre il suo culto, proveniente forse dalla Tracia, si afferma nell’Attica tra il VI e IV secolo a.C.; cambierà, col tempo, anche l’aspetto della stessa divinità, prima efebica e glabra, successivamente virile e barbuta in quanto connessa al culto rustico del dio, la cui presenza era evocata durante i baccanali. Nella vita quotidiana, invece, il vino è stato protagonista nei precisi rituali che scandivano le diverse fasi del banchetto –dal syndeipnon al sympoton al symposion- in quanto nel bere, rituale ma equilibrato, l’uomo di spirito esercitava la volontà alla moderazione. Se dall’ambiente classico passiamo alle Sacre Scritture notiamo come la vite abbia avuto, fra tutte le piante, un posto privilegiato mentre il vino è stato l’espressione tangibile della Divina Provvidenza; dall’Antico Testamento desumiamo inoltre come sia da ascrivere a Noè l’invenzione della viticoltura. Il patriarca, cessato il Diluvio universale, aveva piantato una vigna e, scopertone il prodotto, ne aveva bevuto tanto da ubriacarsi e giacere a terra nudo; per questo motivo era stato deriso dal figlio Cam ma coperto dagli altri figli Sem e Iafet; risvegliatosi Noè aveva maledetto Cam e la sua stirpe. Gli episodi veterotestamentali che riguardo il vino sono molteplici, dall’incontro fra Abramo e Melchisedec all’incesto delle figlie di Lot, ma è nel Nuovo Testamento che questo prodotto assume connotati completamente diversi, caricandosi di simbolismo mistico quando, durante l’Ultima Cena, il calice benedetto diventa vero sangue di Cristo, versato in remissione dei peccati, bevanda di salvezza e immagine della nuova alleanza. La storia dell’arte è piena di opere riguardanti il vino e le storie ad esso connesse, basti pensare alle molteplici raffigurazioni dell’Ultima Cena, alle raffigurazione dei miti legati a Bacco (es. Gli andrii di Tiziano) per arrivare sino alle rappresentazioni allegoriche. Nelle raffigurazioni medioevali l’uva e gli strumenti vinicoli appartengono all’Autunno, nelle nature morte dal ‘600 in poi il bicchiere di vino può rimandare all’Eucarestia, nelle scene di genere rinviare al senso del gusto, alle pericolosità del vizio e della lussuria o all’Ars amatoria (in quanto Orazio sosteneva che il vino fosse un prezioso aiuto per risolvere le situazioni nelle quali i sentimenti non fossero ancora dichiarati); il vino entra di buon diritto anche nella rappresentazione della Temperanza (diluire il vino con acqua equivale a stemperare le passioni) e della Fede (col calice liturgico). 

Conseguenza del vino, naturalmente, è l’ebbrezza, la perdita di lucidità che porta ad “uscire da se stessi”; questo stato mistico, corredato da danze sfrenate ed estatiche, fu inteso dai Greci come la possessione del dio, Dioniso. Dopo i baccanali romani, feste orgiastiche propiziatorie, sarà il codice etico del Medioevo a considerare l’ebbrezza all’origine di non pochi fra i vizi capitali, dalla lussuria all’ira alla gola, anche se già Sant’Ambrogio, nella sua opera esegetica De Noe, argomentava sulla differenza tra la cattiva e la buona ebbrezza. Se l’ubriachezza appanna la coscienza, l’ebbrezza (la sobria ebrietas) dello spirito fa aprire gli occhi alla contemplazione del Vero. Il Rinascimento riscopre la vitalità delle divinità pagane (compreso Dioniso), con i loro risvolti allegorici e morali, e anche storie bibliche assumono sfumature diverse: ecco come l’esegeta Sante Pagani, nel ‘500, vede nel denudarsi di Noè nell’ebbrezza la liberazione dell’anima dal corpo per giungere all’unione col divino. I tempi moderni hanno scoperto nuove vie, sempre più “sintetiche”, per l’ebbrezza; per quello che interessa a noi, invece, rimane la lezione di Nietzsche che ne La volontà di potenza afferma come l’arte sia il “grande stimolante della vita” e come il principio cardine di ogni fare e contemplare estetico sia l’ebbrezza, che diventa lo stato estetico fondamentale: “Perché vi sia arte, perché vi sia un qualche contemplare o agire estetico, a tal fine è indispensabile un presupposto fisiologico: l’ebbrezza. L’ebbrezza deve anzitutto aver potenziato l’eccitabilità dell’intera macchina: prima di ciò non si giunge a nessun arte”. Il passaggio dalla fisiologia dell’arte alla volontà di potenza, però, sarà breve, come il passaggio dall”altro da sé” all”oltre da sé”, con tutte le nefaste conseguenze connesse; ci è piaciuto però concludere questa breve e densa digressione rinvenendo nell’ebbrezza una condizione propizia per l’arte e nel vino un ricco e variegato elemento ispiratore. 

Prima della conclusione, però, volevo soffermarmi un attimo sull’allestimento. L’idea di esporre al posto delle opere dei grandi manifesti è nata dalla constatazione della grandezza dello spazio della palestra, grandezza che avrebbe portato ad una dispersione e svilimento dei lavori (in particolare i più piccoli). L’aver riprodotto le opere (sculture, tele, fotografie, performance) su grandi supporti ha consentito, invece, di conferire importanza, per una volta, all’immagine, relegando in secondo piano l’aspetto materiale. Se da una parte questa operazione comporta la perdita dell’aspetto tecnico dei manufatti, non più valutabile e verificabile pienamente, dall’altro privilegia l’imago, ovvero l’idea dell’artista. Il fruitore, spesse volte attratto più dalla consistenza (preziosità, maestria, pregevolezza) che dal messaggio dell’opera, in questo caso si troverà di fronte unicamente a forme e colori sovradimensionati. Questa operazione, di certo criticabile e rea di molte limitazioni, è voluta essere una sorta di sperimentazione sul concetto classico di mostra, una grande installazione a sua volta artistica. Non ce ne voglia il pubblico.

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