martedì 15 gennaio 2013

Il ciclo dei mesi di Schifanoia - Il numero monografico di Engramma


Il ciclo dei Mesi di Schifanoia a Ferrara è uno dei cicli più interessanti ed enigmatici del rinascimento italiano, tanto studiato ed analizzato da Aby Warburg che proprio cento anni fa in occasione del X Congresso internazionale di Storia dell'Arte di Roma, avanzava per la prima volta l'ipotesi interpretativa della fascia mediana con i tre decani, ed è l'argomento trattato dall'ultimo numero di Engramma. Engramma è una delle riviste più belle, interessanti e scientificamente valide riguardo alla storia dell'arte e all'iconologia che si possono trovare in rete e che vale la pena di seguire.

I tre decani del mese di Luglio
L'editoriale di Marco Bertozzi e Alessandra Pedersoli


Il numero 102 di Engramma, dedicato al "cielo di Schifanoia," raccoglie saggi e contributi riguardanti la decorazione del Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia a Ferrara e la complessa storia interpretativa dei soggetti raffigurati nei registri superiori dei comparti dei dodici mesi. Con questo numero celebriamo anche due anniversari: nel 1912 Aby Warburg, in occasione del X Congresso internazionale di Storia dell'Arte di Roma, avanzava per la prima volta l'ipotesi interpretativa della fascia mediana con i tre decani del segno per ciascun mese; nel 1992, nel Salone del Palazzo, Maurizio Bonora allestiva le sue tavole ricostruttive dei cinque registri mediani per i mesi del ciclo perduti. Come lo studioso amburghese in Tavola 27 dell'Atlante di Mnemosyne orienta i suoi studi sui registri superiori (il 'cielo' di Schifanoia), anche il cuore delle ricerche sul tema in engramma sono rivolte all'approfondimento del complesso meccanismo di tradizione dell'antico che ha condotto gli artisti di Borso a tradurre per immagini nel palazzo ferrarese.

Il saggio di Marco Bertozzi introduce al tema, ripercorrendo la storia interpretativa dei decani, mentre il Diario di lavoro di Maurizio Bonora ripercorre l'iter metodologico di studio e ricostruzione dei decani. Il complesso lavoro di ricerca e ricostruzione, messo in campo dall'artista ferrarese, si è basato sia sulle fonti letterarie antiche e coeve al ciclo astrologico, ma anche sulle fonti iconografiche coeve, presenti nello stesso Salone, sia sull'opera degli artisti ferraresi del tempo.

Viene quindi presentato 'Mese per Mese' l'intero ciclo iconografico nei suoi registri superiori – il "cielo di Schifanoia" a cui intitoliamo questo numero monografico – con le divinità in trionfo che sovrintendono al segno zodiacale e i decani, le personificazioni celesti che Warburg aveva ricondotto alla complessa cultura astrologica di Pellegrino Prisciani, ibridatisi nel passaggio dalla cultura egizia a quella romana, da quella araba e alla raffinata e criptica erudizione cortese europea.

Il tema dell'astrologia cortese, che Warburg approfondisce e riprende in alcune tavole dell'Atlante della memoria, ha rilevato la necessità di organizzare una Bibliografia ragionata dei contributi più significativi e aggiornati riguardanti i cicli astrologici di Padova (il Salone del Palazzo della Ragione), Rimini (la Cappella dei Pianeti nel Tempio Malatestiano di Rimini) e Ferrara (il salone dei Mesi di Schifanoia), per cui ci è sembrato opportuno inserire nel numero un regesto bibliografico aggiornabile, che possa essere di aiuto agli studiosi. Infine sono presentati i materiali aggiornati per Tavola 27 dell'Atlante Mnemosyne, dedicata da Warburg al Cosmo di Schifanoia.

Il numero 102 che Engramma dedica a Schifanoia intende anche richiamare l'attenzione sul difficile momento che l'intera città di Ferrara vive a seguito del sisma che la scorsa primavera ha compromesso gran parte degli edifici storici, compreso Palazzo Schifanoia, a tutt'oggi ancora chiuso al pubblico. I curatori e la redazione di Engramma invitano i propri lettori a contribuire alla campagna di raccolta fondi destinata al restauro e alla messa in sicurezza del Palazzo che ospita anche il Museo, in vista della riapertura nella primavera 2013.

Mediante un versamento mediante bonifico intestato al Comune di Ferrara, indicando nella causale "Palazzo Schifanoia – ricostruzione post sismica" (IBAN: IT 26 K 06155 13015 000003204201), è possibile contribuire per restituire alla città, e ai visitatori e agli studiosi di tutto il mondo, questo prezioso luogo di arte e di memoria.

Del Cossa, Aprile

venerdì 11 gennaio 2013

Immaginazione e fantasia


«La distinzione può essere riformulata come differenza tra immaginazione e fantasia. La vera arte fa appello all’immaginazione, mentre gli effetti sollecitano la fantasia. Le cose immaginarie vengono ponderate, le fantasie sono rappresentate. Sia la fantasia sia l’immaginazione riguardano cose irreali; ma mentre le cose irreali della fantasia penetrano e corrompono il nostro mondo, quelle dell’immaginazione esistono in un mondo loro, in cui noi vaghiamo liberamente e in una condizione di distacco pieno di comprensione. La società moderna abbonda di oggetti della fantasia, dal momento che l’immagine realistica, nella fotografia e sullo schermo cinematografico e televisivo, offre una realizzazione surrogata dei nostri desideri proibiti, rendendoli in tal modo permessi. Un desiderio della fantasia non cerca né una descrizione letteraria, né una rappresentazione raffinata del suo oggetto, bensì un simulacro – un’immagine da cui ogni velo di esitazione è stato squarciato. Esso rifugge dallo stile e dalla convenzione, dal momento che questi due fattori impediscono la costruzione del surrogato e lo rendono soggetto al giudizio. La fantasia ideale è realizzata alla perfezione ed è perfettamente irreale – un oggetto immaginario che non lascia nulla all’immaginazione. La pubblicità commercia in oggetti di questo tipo, ed essi fluttuano sullo sfondo della vita moderna, tentandoci costantemente a realizzare i nostri sogni anziché perseguire la realtà. Le scene immaginate, di contro, non sono realizzate, bensì rappresentate; esse giungono a noi impregnate di pensiero e non costituiscono affatto dei surrogati che si propongono come sostituti di ciò che non può essere ottenuto. Al contrario, esse sono poste deliberatamente in lontananza, in un mondo loro. La convenzione e lo stile sono più importanti della realizzazione; e quando i pittori conferiscono alle loro immagini il realismo del trompe-l’œil, spesso mettiamo in dubbio il risultato considerandolo privo di gusto oppure lo disprezziamo in quanto kitsch. È vero che l’arte può anche giocare con effetti illusionistici, come fece il Bernini scolpendo l’Estasi di Santa Teresa o come il Masaccio nel suo ritratto della Santa Trinità. In questi casi, però, l’illusione è un meccanismo drammatico, un modo per trasportare l’osservatore nelle regioni celesti in cui il pensiero e il sentimento sono depurati da ogni legame terreno. Bernini e Masaccio non ricorrono in alcun modo all’inganno, né tentano l’osservatore affinché appaghi le sue passioni consuete con modalità sostitutive»

ROGER SCRUTON, La bellezza. Ragione ed esperienza estetica, Vita e Pensiero, Milano 2011, p. 95

mercoledì 9 gennaio 2013

Il Museo dalle Muse all'ostentazione

Musei capitolini
Nella post-modernità il museo appare concepito come un'opera d'arte, nella sua pretesa di essere oggetto artistico che espone se stesso. Gli oggetti sembrano avere un ruolo di secondo piano rispetto all'architettura che viene esibita, glorificata e magnificata dall'archistar che sembra porsi come nuovo profeta del proprio tempo. Ce ne parla questo interessante articolo di Andrea dell'Asta

Il Museo è sempre stato un luogo destinato ad accogliere la memoria di un popolo, di una civiltà. La sua storia è lunga e complessa. Occorre infatti risalire ai tempi dell'antica Grecia, in cui il termine mouseion designava la casa delle Muse, figlie di Zeus, protettrici delle arti e delle scienze, e di Mnemosine, dea della memoria. Ilmouseion è dunque da un lato strettamente legato al divino, è olimpico, e dall'altro, in un processo di anamnesi, ha la funzione di ricollegarci a ciò che sta all'origine del tutto, riconducendoci alla verità delle cose. Dal punto di vista architettonico, il mouseion è il tempio dedicato alle Muse e sarà chiamato con questo nome l'edificio costruito ad Alessandria d'Egitto nel III secolo a.C., celebre per la sua biblioteca, splendido spazio che accoglie il sapere del tempo, in cui l'uomo cerca di compiere una sintesi di tutte le sue ricerche. 
Da lì a luogo di raccolta di oggetti di particolare valore o interesse il passo è breve. Se in epoca romana nel museo si esponevano i bottini di guerra e i trofei, come le statue trafugate dalla Grecia, nel Rinascimento, il museo diventa luogo di conservazione e di contemplazione, spazio delle Wunderkammer, delle gallerie e dei gabinetti dei prìncipi. Nasce così il primo museo, quello capitolino a Roma
nel 1471, da una donazione di papa Sisto IV alla città e ordinato nel 1733 sotto il pontificato di Clemente XII. 
Il museo rinascimentale anticipa il museo moderno. Pensiamo agli Uffizi di Firenze, progettati come uffici, poi destinati ad accogliere la collezione medicea. Il Signore della città può esprimere i segni del proprio prestigio, che diventa in seguito gloria della stessa città fiorentina. Da strumento di recupero della memoria storica o di classificazione enciclopedica del creato, il museo diventa lentamente uno straordinario strumento di ostentazione del prestigio politico, economico e culturale di un popolo. 
Con l'epoca napoleonica, si raccolgono le maggiori opere d'arte appartenenti ai paesi di volta in volta occupati dai francesi, per diventare luogo di ricerca scientifica, ma anche luogo di conservazione e di tutela dei beni culturali e di educazione. Pensiamo al Louvre di Parigi o al British Museum di Londra… Il museo si fa sintesi di un passato universale, accogliendo le esperienze culturali di tutto il mondo. Acquisisce una funzione pubblica e sociale. Diventa "popolare", aperto a tutti. 
Nella post-modernità, il suo significato cambia radicalmente. Appare concepito come opera d'arte, nella sua pretesa di essere oggetto artistico che espone se stesso. Tuttavia, non sembra più in grado di accogliere la memoria di un popolo, di una fede, di una tradizione. Gli oggetti sembrano avere un ruolo di secondo piano rispetto all'architettura che viene esibita, glorificata e magnificata dall'archistar che sembra porsi come nuovo profeta del proprio tempo. Di fatto, che cosa vanno a vedere le migliaia di persone in coda per entrare in questo antro misterioso dalle forme così ardite e inconsuete? 
Il Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry o il Maxxi di Zaha Hadid di Roma sono solo due esempi di architetture che fanno emergere questa contraddizione. Mostrano se stessi, nella pretesa di porsi come centro dell'attenzione, piuttosto che presentarsi come spazi destinati ad accogliere, a conservare, a valorizzare. Spazi autoreferenziali destinati a eventi auto-celebrativi. Pensiamo al Maxxi. All'interno, prevalgono interminabili corridoi, lunghe pareti curve senza alcuna giustificazione espositiva. L'importante non sono le collezioni ospitate, ma l'architettura che le accoglie. Il museo rappresenta se stesso. È come se fosse messa in atto una dislessia simbolica. Il museo rischia di diventare un contenitore vuoto, un idolo, espressione di una civiltà fatua, priva di consistenza, perché non ha più "memorie" da trasmettere, valori da comunicare. Si auto-espone, ponendosi come costruzione gigantesca, al pari di una nuova torre di Babele, che garantisca la gloria al nome della città che l'ha ospitata, nel desiderio di apparire nelle guide turistiche. Diventa il segno di un valore svuotato. 
Se andando in qualche piccolo museo della Toscana siamo rapiti dall'orgoglio e dalla passione di chi ci accompagna nel "loro" minuscolo museo, queste nuove architetture si fanno invece impersonali, algide, nella loro spregiudicata arditezza. Certo, inducono una grande quantità di turisti a varcare questo "nuovo tempio" della cultura, quasi si trattasse di una nuova forma di religione, ma sono pensate per eventi verticali. 
Quale è allora il ruolo del museo contemporaneo? Quella di significare un mondo che non ha più nulla da comunicare, se non la predizione della fine annunciata di una… civiltà senza valori?

Maxxi

domenica 6 gennaio 2013

Le chiese (chiuse) di Napoli

Se Roma è la città dei santi Napoli è la città degli uomini dove l'arte, impastata com'è nella vita quotidiana dei vicoli, è vissuta come un elemento quotidiano tanto da essere dimenticata quando non inconsapevolmente vilipesa. Le chiese dialogano così strettamente col tessuto urbano che sono parte integrante di quel vivere comune tanto antico da sembrare rivoluzionario. Ma nell'indubbia difficoltà di curare le tantissime meraviglie del centro storico molte chiese sono condannate alla devastazione, all'incuria, alla rovina. Questo articolo ci ricorda l'importanza di questo assoluto e dimenticato patrimonio.


Il mare non ba­gna Na­poli. Ma po­trebbe farlo.

S. Maria della Speranza
Dura la vita de­gli sto­rici dell’arte. So­prat­tutto se lo siete a Na­poli. Una ri­cerca che in un po­sto qual­siasi, in cui le cose fun­zio­nano di­ciamo bene, può es­sere svolta, per esem­pio, in un mese, a Na­poli si svol­gerà me­dia­mente in sei, sette mesi o forse di più. Il mal­fun­zio­na­mento, l’apatia, la len­tezza, la di­sor­ga­niz­za­zione delle isti­tu­zioni che spesso e vo­len­tieri si sca­ri­cano le re­spon­sa­bi­lità a vi­cenda in un val­zer in­ter­mi­na­bile di com­pe­tenze ri­man­date di uf­fi­cio in uf­fi­cio, e con­ti­nua­mente rias­se­gnate in base alle cir­co­stanze, pos­sono in­durre an­che i mi­gliori a desistere.

Un pro­blema che mi col­pi­sce par­ti­co­lar­mente è l’enorme dif­fi­coltà che si in­con­tra nel mo­mento in cui si ne­ces­sita, sem­pli­ce­mente, di en­trare in una chiesa. Na­poli è no­to­ria­mente una delle città con più chiese al mondo; ne pos­siede così tante che, di al­cune, a volte, per­fino gli stessi cit­ta­dini ne per­dono me­mo­ria, e vi può ca­pi­tare che men­tre cer­cate una chiesa, ne tro­ve­rete nelle pros­si­mità al­tre cento. Si per­dono nei mean­dri dei vi­coli ri­pidi e stretti, spesso die­tro can­celli ser­rati e scro­stati dal tempo, mute die­tro i loro por­toni, di­men­ti­cate e igno­rate. Già nel 2000 la So­prin­ten­denza dei Beni ar­chi­tet­to­nici e am­bien­tali ne con­tava ben 165 chiuse. Qui chiuse coin­cide spesso con ab­ban­do­nate, non tu­te­late, tra­fu­gate. In­somma con­dan­nate a mo­rire, len­ta­mente. Nel la­voro di ri­cerca, dun­que, uno sto­rico dell’arte si scon­tra con que­sto enorme pro­blema, con la giu­ri­sdi­zione della Cu­ria, ma an­che con quella co­mu­nale, con le in­fi­nite dif­fi­coltà bu­ro­cra­ti­che e lo­gi­sti­che. Oggi le chiese ne­gate al pub­blico non si con­tano: San Mar­cel­lino e Fe­sto, Sant’Agostino de­gli Scalzi, Santa Ma­ria Don­na­ro­mita, San Se­ve­rino e Sos­sio, la Chiesa di Gesù e Ma­ria, Santa Ma­ria di Co­stan­ti­no­poli, Santa Ma­ria di Por­to­salvo, Santa Ma­ria della Vit­to­ria all’Anticaglia, San Bia­gio all’Olmo e si po­trebbe con­ti­nuare per molto.
Vi­ste da fuori sem­brano ru­deri, fac­ciate in­glo­bate nel de­grado ur­bano; cal­ci­nacci ca­denti, mura sbrec­ciate, ver­nici an­ne­rite dal tempo. Ma den­tro lo sce­na­rio è forse an­cor peg­gio. Tele, scul­ture, marmi, al­tari la­sciati a pu­tre­fare e mar­cire, cap­pelle che di­ven­tano de­po­siti di de­ter­sivi e car­toni, spor­ci­zia, pol­vere e incuria.

Santa Ma­ria della Spe­ranza, chiesa del XVI se­colo ubi­cata nei fa­mosi Quar­tieri Spa­gnoli che con­serva uno splen­dido al­tare sei­cen­te­sco, ca­po­la­voro di Co­simo Fan­zago, una tela di Ce­sare Fra­can­zano e an­cora al­tri te­sori, da anni è inac­ces­si­bile. Per riu­scire ad en­trare bi­so­gna met­tersi in con­tatto con l’Ufficio dei Beni cul­tu­rali della Dio­cesi di Na­poli e ri­chie­dere un per­messo, in­di­cando i mo­tivi pre­cisi per cui si de­si­dera en­trarci. Solo dopo aver ap­pro­vato la ri­chie­sta, l’Ufficio for­ni­sce i con­tatti di chi al mo­mento si oc­cupa della ge­stione della chiesa in que­stione. Così, dopo una lunga tra­fila (in cui i mesi sa­ranno tra­scorsi) si rie­sce a “sfon­dare” le porte della tanto so­spi­rata chiesa.

At­tra­ver­sando piazza Ca­vour ci si im­batte nella splen­dida fac­ciata della Chiesa di Santa Ma­ria del Ro­sa­rio alle Pi­gne, ca­po­la­voro di Ar­can­gelo Gu­gliel­melli. La gra­di­nata, pro­prietà or­mai di qual­che as­so­nato clo­chard, è co­perta di im­mon­di­zia, car­toni, ve­tro in fran­tumi. La chiesa, ot­timo esem­pio di ar­chi­tet­tura ba­rocca (mae­stosa la sca­li­nata in­terna a dop­pia rampa, su mo­dello delle sca­li­nate del San­fe­lice) è or­mai sede di uf­fici co­mu­nali e tutto ciò che vi era all’interno, tra cui nu­me­rose tele di Luca Gior­dano, è stato ri­mosso, qua­lora non tra­fu­gato. Re­stano po­chi marmi e l’altare, evi­den­te­mente di dif­fi­cile smer­cio. La chiesa è chiusa dal ter­re­moto del 1980 e da circa trent’anni non apre i battenti.

Chiesa di Gesù e Ma­ria. Al­tro in­cre­di­bile ol­trag­gio al pa­tri­mo­nio e al senso di etica e ci­viltà. Quella che fu una chiesa del XVI se­colo, ri­ma­neg­giata da Do­me­nico Fon­tana, è oggi un can­tiere di non me­glio de­fi­niti ma­te­riali ac­can­to­nati sul pa­vi­mento ma­io­li­cato. Ma­ce­rie, marmi, ce­mento: c’è da cre­dere che la chiesa sia stata col­pita da un fu­ne­sto ter­re­moto. Ma non può es­sere il ter­re­moto dell’80! E in­vece sì. Da trent’anni le con­di­zioni del com­plesso ar­chi­tet­to­nico sono quelle, de­plo­re­voli, che si ve­dono an­cora oggi. All’interno si tro­vano opere im­por­tanti come le de­co­ra­zioni di Gio­vanni Ber­nar­dino Az­zo­lino, gli af­fre­schi di Be­li­sa­rio Co­ren­zio e l’altare mag­giore di Dio­niso Laz­zari, quasi del tutto de­pre­dato, come pure i marmi rossi delle balaustre.

Il 23 set­tem­bre del 2009 spro­fon­dava il pa­vi­mento della chiesa di San Carlo alle Mor­telle, au­ten­tico gio­iello ba­rocco nel cuore dei Quar­tieri Spa­gnoli. Oggi la strut­tura ap­pare an­cora così per man­canza di soldi, di­cunt: buia, muta e pol­ve­rosa con un’enorme vo­ra­gine, come un ven­tre sfon­dato, en­ne­sima crepa di que­sta Na­poli che crolla poco a poco.

In oc­ca­sione del “Mag­gio dei Mo­nu­menti” sono state spa­lan­cate le porte di molte chiese, ma spesso solo per ren­derne noto il de­grado, come nel caso di San Gio­vanni Mag­giore a Pi­gna­telli, di cui già Fran­ce­sco Ca­glioti, or­di­na­rio di Sto­ria dell’Arte all’Università Fe­de­rico IIdi Na­poli, di­ceva: «È il frutto di un’incuria plu­ri­de­cen­nale. Dopo anni di furti e ab­ban­dono, ora ab­biamo un re­stauro vo­len­te­roso, co­stato dieci, cento volte più di una nor­male ma­nu­ten­zione. Ri­sul­tato: San Gio­vanni Mag­giore è un gu­scio se­mi­vuoto, manca il 90% de­gli ar­redi, ru­bati di re­cente. Ne­gli ul­timi 30 anni, rac­conto ai miei stu­denti, Na­poli ha di­strutto più di quanto ab­bia fatto nei 5 se­coli precedenti».

E pro­prio al pro­blema, ur­gen­tis­simo, delle chiese in ro­vina, è de­di­cata la mo­stra L’anima del tempo. Chiese na­po­le­tane: ro­vine e re­cu­peri ospi­tata in que­sti giorni nel chio­stro grande del com­plesso dei Gi­ro­la­mini (da poco ria­perto al pub­blico, gra­zie al la­voro e alla vo­lontà del so­prin­ten­dente Fa­bri­zio Vona e del con­ser­va­tore del mo­nu­mento, Um­berto Bile): do­dici chiese na­po­le­tane im­mor­ta­late dall’occhio di Mas­simo Li­stri, tra cui Santa Ma­ria del po­polo agli In­cu­ra­bili, Sant’Aspreno ai Cro­ci­feri, San Giu­seppe delle Scalze,Santa Ma­ria della Scor­ziata.
Scatti che do­cu­men­tano quanto in que­sti anni Na­poli ab­bia ri­nun­ciato alla pro­pria bel­lezza. Na­vate di­strutte, cap­pelle som­merse da ma­ce­rie e spaz­za­tura, pa­vi­menti e marmi tra­fu­gate alla meno peg­gio. È sin­go­lare che in molte chiese le foto siano proi­bite, non per que­stioni le­gate a norme ed au­to­riz­za­zioni ec­cle­sia­sti­che, ma «per­ché sono sem­pre più fre­quenti i furti su com­mis­sione». È quanto mi sento ri­spon­dere da un ad­detto, al che penso: «Fino a che punto di in­ci­viltà pos­siamo spingerci?».

Si po­trebbe con­ti­nuare a par­larne per giorni, ma le cose non cam­bie­reb­bero, e non cam­bie­ranno fino a quando la So­prin­ten­denza non de­ci­derà di porre fine a que­sto stra­zio per gli oc­chi e per l’anima. In­nan­zi­tutto c’è ur­gente bi­so­gno di in­di­vi­duare tutte le chiese chiuse e in de­grado, farne una map­pa­tura, un cen­si­mento che per­metta di fo­ca­liz­zare gli obiet­tivi e le prio­rità, la­voro in cui po­treb­bero es­sere coin­volti molti gio­vani lau­reati in sto­ria dell’arte. In se­conda ana­lisi si rende ne­ces­sa­rio un ag­gior­na­mento de­gli orari on line di aper­tura delle chiese (che già esi­stono, ma spesso e vo­len­tieri non sono at­ten­di­bili) così da per­met­tere a chiun­que, sto­rici o sem­plici cit­ta­dini amanti del bello, di en­trare nelle chiese senza do­versi sot­to­porre a ore di appostamenti.

E non serve a nulla pro­porre l’esclusione del cen­tro sto­rico della città dall’Unesco, pro­po­sta avan­zata pro­prio in que­sti giorni da nu­me­rose as­so­cia­zioni par­te­no­pee che pro­cla­mano a gran voce che la città non me­rita tale ono­ri­fi­cenza, per­tanto «è me­glio che si fac­cia da parte», cri­te­rio sba­glia­tis­simo di guar­dare al pro­blema, non solo per­ché lo ag­gira senza af­fron­tarlo dav­vero, ma am­mette un fal­li­mento e in­fonde un mes­sag­gio sba­gliato di di­sin­can­tata e amara ras­se­gna­zione, quando ciò che si do­vrebbe fare, con ur­genza e di­spe­ra­ta­mente, è fare in modo che la città con uno dei più grandi e ric­chi pa­tri­moni ar­ti­stici al mondo lo di­venti, de­gna e me­ri­te­vole. Cam­biare mec­ca­ni­smi e men­ta­lità in­ne­state da anni e anni di abi­tu­dine, pi­gri­zia e a volte stan­chezza non è fa­cile e troppo spesso l’abuso ozioso della for­mula ri­trita del la­scia­pas­sare ha ge­ne­rato que­sto tipo di de­grado e ab­ban­dono, ma penso spesso alle pa­role di Pa­squale Vil­lari, uno dei grandi pa­dri della que­stione meridionale:




- Ma non ve­dete che ci vuole un secolo?

- Sì, lo vedo, ma vedo an­cora che se co­min­ce­remo do­mani, ci vorrà un se­colo ed un giorno.

(Pa­squale Vil­lari, Let­tere me­ri­dio­nali, 1875).

Alessandra de Luca (Fonte Storie dell'arte)



mercoledì 2 gennaio 2013

Caravaggio a Roma

Attraverso un viaggio onirico, storico, emozionale, il più grande pittore del ‘600 percorre i saloni della mostra rivisitando se stesso, la sua opera, i suoi ricordi, la sua vicenda di artista e di uomo.

Un documentario ad altissima definizione ci porta nelle fibre di ogni singolo dipinto del grande maestro, mentre ci porta in un viaggio unico e irripetibile dentro le fibre di un’anima sconosciuta a molti.

Nella prima parte della docufiction Ivan Franek interpreta Caravaggio.


La docu-fiction “Caravaggio a Roma” prende le mosse dalla mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale nel 2010 sulle opere diMichelangelo Merisi in arte "Caravaggio", pittore italiano nato a Milano il 29 settembre 1571 e morto a Porto Ercole il 18 luglio 1610. Il film è stato realizzato in occasione dei quattrocento anni dalla morte di Michelangelo Merisi.

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